La città sudanese di Al-Fashir, capoluogo del Nord Darfur, è diventata nelle ultime settimane un simbolo vivido dello sfacelo umanitario e della brutalità della guerra civile che dilania il Sudan dal 2023. Le notizie arrivate a fatica da questa città, isolata da un blackout delle comunicazioni e assediata da mesi, hanno provocato un’ondata globale di indignazione e rabbia dopo la conquista da parte delle Rapid Support Forces (RSF), milizia paramilitare protagonista delle peggiori atrocità del conflitto. Secondo molteplici testimonianze, tra il 26 e il 28 ottobre 2025 le RSF hanno compiuto una vera e propria carneficina, con almeno 2.000 civili uccisi, compresi donne, bambini e anziani, molti dei quali falciati mentre cercavano una via di fuga, altri trucidati direttamente in ospedale.
Le immagini satellitari analizzate da istituzioni indipendenti hanno mostrato ammassamenti di cadaveri e vaste aree della città tinte di rosso dal sangue, rendendo drammaticamente visibile una violenza difficilmente documentabile sul campo. Le prove raccolte sul terreno e dallo spazio attestano un’ondata di uccisioni extragiudiziali, con fucilazioni collettive, esecuzioni porta a porta e terrificanti casi di violenza di genere ai danni delle donne e delle ragazze; dettagli che rendono insostenibile qualsiasi narrazione delle RSF secondo cui si sarebbe trattato di semplici operazioni di rastrellamento.
Il tragico capitolo di Al-Fashir si inserisce nella più ampia crisi che attraversa il Sudan da oltre due anni. Il conflitto tra le forze armate regolari (SAF) e le milizie paramilitari delle RSF ha provocato oltre 12 milioni di sfollati, decine di migliaia di vittime e una delle più gravi crisi umanitarie mondiali, con milioni di persone in stato di bisogno immediato secondo le Nazioni Unite. Nei 18 mesi di assedio alla città, RSF e alleati hanno reso impossibile alla popolazione l’accesso a cibo, acqua potabile e medicinali e, nelle ultime settimane che hanno preceduto la caduta, la mancanza assoluta di rifornimenti ha indotto parte degli abitanti a nutrirsi con foraggi destinati agli animali.
Il 27 ottobre 2025 le truppe regolari, ormai stremate, sono state costrette a lasciare la città e il controllo totale è passato alle RSF. Subito dopo la conquista, si sono verificati assalti e rastrellamenti casa per casa, uccisioni arbitrarie di interi nuclei familiari, con particolare brutalità contro i membri delle minoranze etniche che da tempo subiscono discriminazioni e violenze nel Darfur.
Gli sforzi dei volontari della Mezzaluna Rossa e delle ONG umanitarie sono stati vanificati da atti di terrore mirato: operatori sono rimasti uccisi durante i soccorsi, mentre a El-Fashir l’ospedale saudita è stato teatro di esecuzioni di pazienti e personale sanitario.
Organizzazioni internazionali come Human Rights Watch, Amnesty International, la World Health Organization e il Segretario Generale dell’ONU hanno parlato di crimini di guerra e crimini contro l’umanità, esortando la comunità internazionale a intervenire per fermare il massacro.
L’ONU ha espresso “orrore per le raccapriccianti uccisioni di massa a El-Fashir”, chiedendo accesso umanitario immediato e l’apertura di corridoi sicuri per i sopravvissuti, soprattutto donne e bambini.
Dal punto di vista locale, le autorità sudanesi e le amministrazioni regionali del Darfur hanno denunciato che, durante la presa della città, le milizie hanno lanciato una vera e propria campagna di intimidazione etnica, con azioni riconducibili a una pulizia sistematica delle comunità africane non arabe. Le RSF sono accusate anche di rapimenti a scopo di estorsione, saccheggi estesi alle infrastrutture civili e vessazioni sessuali, tutte azioni che violano apertamente il diritto internazionale umanitario.
Le responsabilità dell’attuale tragedia rimandano anche a dinamiche storiche: le RSF, create come evoluzione delle famigerate milizie Janjaweed, già protagoniste del genocidio del Darfur degli anni 2000, sono considerate oggi tra gli attori più potenti e incontrollati della regione, grazie anche al sostegno di attori esterni e all’afflusso di armi da oltre confine. Diverse analisi sottolineano come il controllo della regione di Darfur da parte delle RSF rischi di portare a una definitiva spartizione del Sudan, già segnato dalla secessione del Sud Sudan nel 2011.
Nonostante i tentativi delle RSF di presentare l’offensiva come un’azione legittima contro combattenti nascosti tra la popolazione civile, le prove raccolte da diverse fonti indipendenti mostrano la deliberata esecuzione di civili, compresi ragazzi e pazienti ospedalieri, in una spietata logica della paura. Alcuni sopravvissuti hanno dichiarato che famiglie intere sono state eliminate subito dopo essere state separate per sesso agli improvvisati check-point interni: gli uomini giustiziati e le donne e i bambini lasciati vagare o sottoposti a violenze e sequestri.
Le RSF, pur negando in parte la portata delle atrocità, tramite il loro comandante Mohamed Hamdan Dagalo hanno dovuto ammettere “violazioni” e annunciato la creazione di commissioni interne di inchiesta. Una mossa ritenuta priva di credibilità dagli osservatori internazionali, che sottolineano come tali iniziative tendano solo a stemperare la pressione internazionale senza portare a veri processi di giustizia.
L’impatto umanitario della catastrofe è devastante: oltre 260 mila civili erano rimasti bloccati in città prima della caduta, ridotti allo stremo dalla fame e dalla sete, costretti in molti casi a nascondersi tra le rovine per evitare i rastrellamenti delle milizie. Oltre 36 mila persone hanno tentato di fuggire a piedi verso i centri periferici, mentre il destino di decine di migliaia resta ignoto. Le reti ospedaliere sono state decimate: l’ospedale principale è stato teatro di esecuzioni di almeno 460 tra pazienti e operatori, secondo testimonianze dirette e rapporti incrociati.
Le scene di corpi abbandonati per le strade, le fosse comuni individuate dal satellite e la testimonianza unanime di reporter, Ong e autorità delle Nazioni Unite lasciano pochi dubbi su ciò che è accaduto a El-Fashir. Diplomazie come Egitto, Qatar, Arabia Saudita e Turchia hanno lanciato appelli durissimi, accusando la RSF di genocidio e chiedendo l’immediata cessazione delle ostilità e la protezione dei superstiti.
A livello geopolitico, la comunità internazionale è chiamata ora non solo a fornire soccorso immediato, ma anche a riflettere sulla responsabilità dell’inerzia e sulle conseguenze a lungo termine del collasso sudanese. Il paese rischia di diventare un nuovo epicentro globale della crisi dei rifugiati, una fonte di instabilità per tutto il Sahel e l’Africa centrale e un banco di prova sulla tenuta delle norme internazionali contro la violenza di massa.
Quello che è successo a El-Fashir non è solo un tragico episodio locale ma si impone come parabola di un fallimento globale, in cui la mancanza di risposte efficaci rischia di aprire la strada a nuovi cicli di vendetta, disgregazione e impunità. La memoria di questa tragedia, resa tangibile dalle immagini satellitari e dalle grida dei sopravvissuti, segna una svolta cruda e dolorosa nella storia contemporanea africana.

 
 
