Negli ultimi anni la Groenlandia è progressivamente emersa come un territorio al centro della diplomazia globale, della corsa alle risorse e delle tensioni tra le potenze mondiali. A porla davvero sotto i riflettori è stato Donald Trump: presidente degli Stati Uniti per la seconda volta e, ancora una volta, deciso sostenitore dell’idea che il controllo dell’isola sia una questione di sicurezza nazionale, oltre che una straordinaria opportunità economica.
È proprio la combinazione di fattori come la ricchezza mineraria, il cambiamento climatico e candidati politici ambiziosi a rendere la Groenlandia l’epicentro di una partita complessa e cruciale per il futuro energetico globale e la ridefinizione dei rapporti internazionali.
Trump ha fatto del sogno di acquisire la Groenlandia un vero tema di politica estera statunitense. Dapprima con proposte economiche, poi ventilando anche ritorsioni tariffarie nei confronti della Danimarca, di cui l’isola è territorio autonomo, e addirittura alludendo alla possibilità di usare la forza militare come extrema ratio. Il suo interesse è radicato in una convinzione strategica: la supremazia sulle cosiddette “rare earths”, i metalli rari indispensabili per microchip, batterie di auto elettriche, turbine eoliche e apparati militari, ad oggi dominio quasi esclusivo della Cina. Gli Stati Uniti, insoddisfatti della dipendenza dalle forniture cinesi, vedono nella Groenlandia una possibile alternativa, così come il Vecchio Continente. Tuttavia, la risposta da Nuuk è stata chiara: l’isola è aperta a investimenti internazionali, ma non è in vendita e difenderà la propria sovranità e i suoi interessi ambientali e sociali.
Questa posizione si inserisce in un contesto in cui anche la politica groenlandese è cambiata: il nuovo primo ministro Jens-Frederik Nielsen ha dichiarato che l’isola è “aperta agli affari”, pur con la chiara volontà di evitare manovre predatorie e preservare i delicati equilibri ambientali dell’Artico. Il governo locale, infatti, mira a emanciparsi economicamente dalla Danimarca puntando su turismo e risorse minerarie, ma sceglie con attenzione i partner internazionali, escludendo al momento un coinvolgimento eccessivo della Cina, da sempre temuta per la sua aggressiva politica di acquisizione di materie prime.
Il cuore della questione è però la difficoltà concreta di trasformare le potenzialità della Groenlandia in vantaggi immediati. L’isola vanta una delle concentrazioni più elevate al mondo di minerali strategici, con molti dei metalli considerati “critici” dalla UE. Tra i giacimenti più contestati figura quello di Tanbreez, così chiamato perché contiene tantalio, niobio, terre rare e zirconio. Tuttavia, solo poche miniere sono attualmente operative, White Mountain, a nord di Nuuk, produce anortosite per l’industria europea e asiatica, e decine di progetti internazionali sono ancora a livello di studio o prima fase. Molte concessioni sono state recentemente rilasciate anche a consorzi franco-danesi o finanziati dall’Unione Europea.
I problemi non sono soltanto politici, ma soprattutto fisici. La Groenlandia è avvolta dal ghiaccio per gran parte dell’anno, con temperature medie invernali di -5°C e punte estive che difficilmente superano i 10°C nella parte meridionale. Alcuni siti minerari, come quello di Tanbreez vicino a Qaqortoq, sono raggiungibili solo via nave durante la stagione estiva, attraverso fiordi profondi che ospitano spesso giganteschi iceberg. L’infrastruttura è scarsissima: le strade interne sono praticamente inesistenti, la popolazione, meno di 60mila abitanti su una superficie immensa, non offre il capitale umano per sostenere un boom industriale immediato, e anche la formazione specifica per il settore minerario è carente.
Il clima estremo e il fragile ecosistema artico pongono costi elevatissimi e rischi ambientali notevoli. Lo scioglimento dei ghiacciai, accelerato dai cambiamenti climatici, da un lato apre nuove opportunità di accesso alle risorse, ma dall’altro amplifica il rischio di inquinamento, incidenti ambientali e perdita di habitat preziosi. Va ricordato che, nel 2021, qualsiasi esplorazione petrolifera era stata formalmente vietata dal governo groenlandese, che teme catastrofi ambientali e catene di conseguenze irreparabili per la fauna e la popolazione locale.
La questione geopolitica si intreccia così all’emergenza ambientale e alla ricerca di un nuovo equilibrio economico per la Groenlandia. Trump, con la sua insistenza, ha certamente alzato la posta coinvolgendo non solo gli Stati Uniti, ma anche Russia, Unione Europea e, indirettamente, la Cina. La partita delle risorse diventa, in questo contesto, la chiave di volta per rivaleggiare sull’asse atlantico con Pechino, considerata la vera “padrona” delle terre rare mondiali. La Danimarca e l’Europa, lungi dal cedere ai piani americani, hanno ribadito in tutte le sedi di voler difendere ad ogni costo la propria influenza e la sovranità dei territori, rifiutando con fermezza ogni ipotesi di acquisto o annessione forzata.
Sul piano strategico, la posizione della Groenlandia è in effetti fondamentale: l’isola si trova tra gli oceani Artico e Atlantico, punto nevralgico per importanti rotte navali e transiti di sottomarini, molti dei quali a propulsione nucleare. Non a caso, l’interesse americano si spingeva già oltre le sole terre rare, puntando a installare nuovi assetti militari e rafforzare la presenza nella zona calda dell’Artico, scenario futuro di competizione tra grandi potenze non solo per le risorse ma anche per il controllo degli snodi più sensibili del pianeta.
Non si può dimenticare poi il recente accordo da molti miliardi di dollari firmato dalla Groenlandia per lo sfruttamento delle sue miniere: una mossa che ha aumentato il malumore a Washington, poiché le concessioni sono andate per lo più a società europee o consorzi canadesi, e solo marginalmente alle compagnie americane. Questo successo europeo rappresenta un duro colpo per l’amministrazione Trump, che nel frattempo deve rincorrere nuove strategie per garantire all’industria USA una quota della catena internazionale delle batterie, dei magneti e delle nuove tecnologie ecologiche.
La Groenlandia stessa appare consapevole dei propri punti di forza e delle proprie debolezze. La sua leadership, pur disposta ad attrarre capitali e know-how per raggiungere una maggiore indipendenza dalla Danimarca, resta estremamente prudente nella concessione delle licenze, temendo una “colonizzazione mineraria” che possa alterare in modo irreversibile paesaggio, tradizioni e futuro delle giovani generazioni groenlandesi. L’obiettivo sembra essere quello di trovare un equilibrio virtuoso: ottenere posti di lavoro e sviluppo, ma senza svendere le proprie risorse o accettare compromessi distruttivi dal punto di vista ambientale.
Nel futuro immediato, il ruolo della Groenlandia resta il medesimo: un banco di prova della nuova geopolitica delle risorse, specchio delle sfide climatiche e modello per il difficile bilanciamento tra tutela dell’ambiente e sviluppo economico. Gli occhi di Stati Uniti, Europa, Cina e Russia resteranno puntati sull’isola ancora a lungo. Ma la vera domanda è capire se questa ricchezza mineraria rappresenterà un’opportunità per tutta la popolazione, o finirà invece per esasperare divisioni, sfruttamento e tensioni internazionali. Il futuro dell’Artico, e con esso quello di buona parte degli equilibri globali, si gioca oggi tra i ghiacci della Groenlandia, dove politica, ambiente e affari s’intrecciano nella partita più complessa del nostro tempo.