Nel contesto globale attuale, dove le sorti dell’Ucraina continuano a essere al centro di tensioni internazionali, emergono nuovi dettagli sulla strategia degli Stati Uniti e sulle mosse di Mosca che rivelano fragilità, ambizioni e giochi di potere che vanno ben oltre le dichiarazioni ufficiali. Mentre Donald Trump prepara il vertice con Vladimir Putin, circolano indiscrezioni sulle condizioni che la Russia intende porre per uno scenario di pace, con il Donetsk come punto centrale delle trattative. Secondo alcuni analisti, Putin avrebbe rilassato le sue pretese territoriali rispetto ai mesi precedenti, passando dalla richiesta di quattro regioni ucraine alla concentrazione su una sola area, segnalando possibili spiragli di dialogo ma anche l’assenza di vere concessioni.
L’assenza di Volodymyr Zelensky al summit di Alaska si profila come uno degli elementi più controversi. Pur non essendo ufficialmente escluso, la Casa Bianca ha precisato che il vertice nasce come bilaterale tra Stati Uniti e Russia, lasciando la decisione sull’eventuale coinvolgimento ucraino a una fase successiva. Zelensky, tuttavia, ha dichiarato che qualsiasi accordo siglato senza la presenza dell’Ucraina sarebbe «privo di significato» e che il suo governo non accetterà in nessun caso cessioni territoriali imposte dall’esterno. Nel frattempo, europarlamentari e ministri europei hanno ribadito che “la strada verso la pace non può passare sopra la testa dell’Ucraina”, evidenziando il rischio che le trattative possano favorire le ambizioni di Mosca invece di una pace equa.
La posizione degli Stati Uniti appare sempre più ambivalente. Da un lato, Trump insiste sulla necessità di «recuperare territorio per l’Ucraina» e promette di condividere eventuali proposte “fair” di Putin con i leader europei e con lo stesso Zelensky. Dall’altro, la recente decisione di Washington di opporsi a una risoluzione ONU che condanna l’aggressione russa, scegliendo piuttosto di promuovere un testo più neutro, ha generato un solco profondo con le posizioni europee. Esperti di geopolitica sottolineano come questa svolta sia “senza precedenti” e indichi un riposizionamento strategico statunitense che, sebbene motivato dal desiderio di chiudere rapidamente il conflitto, potrebbe minare la coesione del blocco euro-atlantico.
Ad aumentare la pressione sulla diplomazia internazionale intervengono anche questioni di sicurezza energetica e militare: la Russia, grazie ai propri successi sul campo e alla resistenza ucraina messa a dura prova dalle offensive missilistiche e droni, punta a consolidare un “buffer zone” in alcune aree chiave e a mantenere la propria influenza impedendo all’Ucraina di entrare stabilmente nella NATO. Putin sa che il tempo gioca a suo favore: la stanchezza europea, le divisioni interne e il timore di una escalation nucleare rendono difficile individuare misure efficaci che non siano solo sanzioni economiche o sostegno militare indiretto.
Cresce anche il timore, in Europa, che Trump possa essere tentato da un “grande accordo” con Putin, capace di chiudere le ostilità ma sacrificando la sovranità ucraina e la sicurezza europea. Le capitali del vecchio continente hanno intensificato i contatti tra loro e con la Casa Bianca per influenzare la posizione americana prima del summit: solo la Polonia, paese notoriamente vicino a Kiev, ha ottenuto rassicurazioni sulla consultazione con gli alleati europei. Ma la voce ufficiale dell’UE (ad eccezione dell’Ungheria) resta netta: «le frontiere internazionali non devono essere cambiate dalla forza».
Un altro elemento cruciale riguarda l’efficacia della strategia americana degli ultimi anni. Diversi analisti ritengono che, pur evitando un conflitto diretto con Mosca, gli Stati Uniti non siano riusciti a impedire il consolidamento delle posizioni russe né a offrire adeguate garanzie di sicurezza a Kiev. Il rischio di una pace “compromessa”, che possa essere imposta anziché negoziata, pesa come una minaccia sulle future relazioni tra Occidente e Russia.
Sul fronte ucraino, la società civile e la classe dirigente guardano con realismo e molta cautela agli sviluppi. La memoria storica di accordi come quello di Monaco del 1938, che portò a sacrificare i territori di una piccola democrazia europea per la pace con una grande potenza autoritaria, accompagna le paure di oggi. Non manca il sospetto che la diplomazia russa possa “ingannare” Trump, sfruttando le divisioni occidentali e la pressione per una soluzione rapida per ottenere il massimo vantaggio strategico in Crimea e Donbass.
Di fronte a queste manovre, gli osservatori sottolineano la necessità di un coinvolgimento costante di tutte le parti interessate, in primis Ucraina e Unione Europea, per evitare accordi imposti e per ristabilire la centralità del diritto internazionale. Le istituzioni europee ribadiscono la volontà di sostenere Kiev politicamente, militarmente e finanziariamente, anche paventando nuove aperture sul percorso di adesione all’UE per l’Ucraina. Ma, al tempo stesso, cresce la consapevolezza che senza una vera unità e senza pressioni efficaci su Mosca, la pace rischia di restare un obiettivo lontano.
Il summit tra Trump e Putin in Alaska segna quindi una fase cruciale: rappresenta una mossa diplomatica che può ridisegnare gli equilibri globali, ma porta con sé l’ombra di concessioni che potrebbero minare le fondamenta dell’ordine europeo e le speranze di autonomia dell’Ucraina. La posta in gioco è altissima: il futuro dei confini, delle alleanze e della stessa idea di una Europa unita nella difesa dei propri valori e della legalità.