Punti chiave
L’uscita di scena di Bashar al Assad e la progressiva normalizzazione diplomatica avevano fatto immaginare una Siria diversa. Il ritorno di un dossier fotografico sulle torture riapre però interrogativi profondi su quanto del vecchio apparato continui a operare nell’ombra.
La Siria “trasformata” che il mondo voleva vedere
La nuova Siria che molti governi arabi ed europei avevano iniziato a riconoscere non somigliava più alla nazione da cui milioni di persone erano fuggite dopo il 2011. La fuga di Bashar al Assad in Russia, avvenuta dopo anni di isolamento e crollo interno del potere reale, aveva alimentato la narrativa di un Paese finalmente pronto a voltare pagina.
Negli ultimi mesi erano state riaperte ambasciate, riallacciati contatti di sicurezza, promessi investimenti per la ricostruzione. La parola “normalizzazione” era tornata stabilmente nei comunicati ufficiali.
Proprio per questo l’emergere di un nuovo dossier fatto di centinaia di fotografie, testimonianze e analisi forensi ha prodotto un effetto dirompente. Quelle immagini non raccontano il passato remoto della guerra. Non appartengono agli archivi ampiamente documentati degli anni più bui del regime. Riportano segni, ambienti e procedure che appaiono molto più recenti e sollevano una domanda pesante: la macchina della detenzione siriana è davvero cambiata dopo Assad oppure le sue strutture sono sopravvissute alla transizione politica?A differenza dei materiali circolati negli anni Dieci, questo dossier è stato rilasciato in un momento di apertura diplomatica, mentre vari Stati stavano legittimando il nuovo governo siriano come partner regionale. La sua pubblicazione non è solo un fatto di cronaca ma un atto geopolitico che incide sulla credibilità della Siria post Assad.
Le immagini che contraddicono la narrativa ufficiale
Gli esperti forensi consultati nella verifica preliminare delle immagini sottolineano alcuni elementi che ricorrono in modo sistematico. Corpi con bruciature puntiformi tipiche di scosse elettriche, fratture compatibili con percosse ripetute, abrasioni e lesioni da immobilizzazione prolungata.Molti cadaveri presentano rigidità in posizioni innaturali che suggeriscono costrizioni fisiche estreme. Alcune foto mostrano stanze spoglie con drenaggi al centro del pavimento, muri scrostati, ferramenta rudimentale.
Luoghi coerenti con le aree di detenzione sotterranee individuate in passato nelle strutture del vecchio apparato di sicurezza.Una parte delle fotografie include anche documenti, numeri identificativi e fogli di registrazione. Non esiste ancora una conferma ufficiale sulla loro autenticità, ma il metodo di catalogazione somiglia a quello descritto negli anni dai sopravvissuti. Tutto questo, spiegano gli esperti, indica almeno una possibilità concreta: una continuità operativa di alcune branche del vecchio apparato di sicurezza, nonostante il cambio politico al vertice.

È importante sottolinearlo con precisione giornalistica. Non abbiamo la prova definitiva dell’origine esatta di ogni immagine e non esistono accessi internazionali alle strutture implicate. Quindi ci sono si foto scattate da ex militare funzionario ma non ci sono dati che permettano un confronto diretto sul terreno. Ciò che emerge però è una forte coerenza tra i segni visibili nelle foto, le testimonianze dei detenuti scarcerati nel 2024-2025 e la struttura organizzativa dei servizi siriani negli anni precedenti.
Cosa significa “continuità degli apparati”
Dopo la fuga di Assad, il nuovo governo siriano ha promesso riforme, amnistie parziali e apertura agli osservatori regionali. Ma lo Stato siriano non è mai stato costruito come una piramide che crolla senza il vertice. Piuttosto come una rete di centri di potere autonomi, spesso militarizzati, che negli anni hanno gestito ampie zone d’ombra.
Secondo ricercatori e analisti siriani in esilio, la transizione politica non ha mai incluso lo smantellamento delle strutture di sicurezza. Le catene di comando sono rimaste opache, le milizie pro governative, integrate negli anni in modo informale nell’apparato statale, hanno continuato a controllare checkpoint e settori economici.
È in questo contesto che il nuovo dossier assume un significato più profondo. Non parla solo di ciò che accadeva “prima”, sotto Assad, ma suggerisce che la macchina repressiva siriana non si è mai fermata davvero e potrebbe funzionare oggi in modo decentralizzato, meno visibile ma ancora efficace.
Le immagini mostrano corpi che presentano segni recenti, secondo i medici legali consultati. Alcune testimonianze raccolte in Turchia e Libano parlano di arresti avvenuti negli ultimi due anni, spesso in zone controllate da unità di sicurezza che formalmente rispondono allo Stato ma agiscono come strutture autonome.
Il contesto geopolitico rende il dossier ancora più esplosivo
La pubblicazione del dossier arriva proprio nel momento in cui Stati arabi ed europei discutevano una nuova fase di cooperazione con Damasco, soprattutto in ambito migratorio ed energetico. La Siria veniva descritta come un partner stabile, un Paese ormai lontano dagli orrori della guerra civile, pronto a reintegrarsi nell’ordine regionale.
Le nuove fotografie obbligano a ripensare questa narrazione, a chiedersi se le strutture di detenzione continuano a funzionare senza controllo esterno, se si ovviamente la Siria non può essere definita “Paese sicuro”. Se esistono prove credibili di sparizioni e morti recenti, i governi europei non potranno sostenere politiche di rimpatrio forzato, né considerare Damasco un interlocutore affidabile.
L’intera architettura diplomatica costruita negli ultimi mesi potrebbe incrinarsi.
Gli Stati arabi che avevano riaperto le ambasciate lo avevano fatto nella speranza di recuperare influenza sulla Siria post Assad. Ora si trovano davanti a un problema: sostenere la normalizzazione significa ignorare un dossier che documenta forme di violenza incompatibili con il diritto internazionale.

La risposta del governo siriano: silenzio, negazione, ambiguità
La reazione iniziale del nuovo governo è identica a quella del regime precedente.Le autorità negano tutto. Parlano di manipolazioni, campagne ostili, complotti contro la stabilizzazione del Paese. Non offrono prove a sostegno delle loro tesi, non propongono commissioni indipendenti, non consentono accesso agli osservatori.Il linguaggio cambia, i nomi cambiano, ma la strategia comunicativa resta immutata.
Questo rafforza uno dei temi centrali dell’inchiesta: non esiste rottura visibile con il passato, esiste piuttosto una continuità gestionale degli apparati coercitivi, una sopravvivenza delle stesse logiche che hanno governato la repressione durante gli anni di Assad.
Perché il dossier è credibile anche senza prove definitive
L’inchiesta non dichiara certezze assolute ma anzi riconosce i limiti seppur mostrando reali foto e testimonianze, questo a causa della mancanza di metadati completi. Riconosce l’impossibilità di verifiche sul campo. La forza del dossier sta nella convergenza di elementi, immagini coerenti con pratiche note, ambienti identificabili, estimonianze recenti che confermano metodi già noti. Documenti che ricordano in modo preciso la struttura burocratica delle carceri siriane.
Tempistiche che coincidono con arresti segnalati da ONG e reti di avvocati siriani. Nessun altro Paese della regione ha un apparato di sicurezza con una storia e una firma operativa così riconoscibile. L’insieme dei dati non offre la certezza assoluta ma fornisce un indizio sistemico molto difficile da ignorare.
La Siria non ha un meccanismo di supervisione e la normalizzazione scricchiola
Nel Paese non esistono accessi internazionali ai centri di detenzione. Non esiste un’autorità indipendente, le ONG operano solo ai margini, con informazioni parziali. La comunità internazionale chiede da anni un corridoio di monitoraggio, sempre negato.

Questo vuoto investigativo è parte del problema e spiega perché il dossier abbia un peso politico tanto grande. In un Paese senza trasparenza reale, la prova fotografica resta l’unico linguaggio possibile della verità, anche quando non è completa.
La tempistica non è casuale. Il dossier arriva mentre alcuni governi europei valutano la Siria come potenziale partner nella gestione dei flussi migratori. Arriva mentre vari Stati arabi progettano investimenti infrastrutturali e accordi di sicurezza. Arriva mentre le istituzioni internazionali discutevano come reinserire Damasco nei circuiti multilaterali. Ora tutto appare un po’ più difficile o perlomeno la tempistica si allunga. La Siria post Assad non può essere presentata come un Paese riformato se rimangono attivi gli stessi meccanismi che hanno caratterizzato la repressione del passato.
Rimane un interrogativo che nessuno può ignorare: chi controlla davvero le carceri siriane oggi? Se il sistema di tortura dovesse risultare ancora operativo, significa che la transizione politica non ha intaccato i centri reali del potere coercitivo. E significa che la Siria del dopo Assad rischia di essere una continuità mascherata, non una trasformazione.


