07 Novembre 2025
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La strategia di Trump e la ridefinizione dell’ordine globale

La diplomazia come campo di battaglia

La politica estera è da sempre il riflesso più autentico del potere. Ogni periodo storico ha i suoi protagonisti, i suoi linguaggi e soprattutto i suoi strumenti. Nel 2017, con l’arrivo di Donald J Trump alla Casa Bianca, gli Stati Uniti hanno vissuto un profondo cambiamento, che li ha portati a una successiva, radicale, rottura nei confronti della tradizione diplomatica in vigore dal dopoguerra. Il presidente statunitense non ha soltanto cambiato stile o metodologia di comunicazione ma ha trasformato, più nel profondo, la struttura e la percezione a livello globale della negoziazione internazionale.

Come evidenziato dall’Aspen Institute, l’amministrazione del Tycoon ha introdotto cambiamenti innovativi e sostanziali, come il passaggio dalla fase di consenso a quella di competizione, trasformando una diplomazia, fino a quel momento discreta, in una diplomazia-spettacolo e ha scelto poi, senza indugio, di passare dal multilateralismo alla trattativa diretta. Cambiamenti strutturali importanti che hanno avuto enormi esiti su economia e collettività. Si tratta di un mutamento importante, per comprenderlo a fondo è necessario andare oltre alle apparenze, oltre al linguaggio social e provocatorio o all’uso, ormai sempre più diffuso, dei portali web in ambito politico.

Il cambiamento attuato da Trump è quello di aver trasformato la percezione della realtà in un valore concreto e misurabile e la stessa vale, oggi, tanto quanto la realtà nel processo di determinazione del successo di una strategia.

“America First”: il ritorno del nazionalismo economico

Dal multilateralismo all’unilateralismo sistemico: l’amministrazione Trump, fin dall’inizio, ha seguito e sostenuto un principio guida che può essere riassunto con il celebre slogan: “America First“. Non si tratta soltanto di un messaggio identitario ma il concetto racchiude in sé una dottrina strategica basata sulla convinzione, del presidente Usa, che la globalizzazione abbia penalizzato gli Stati Uniti a favore di altri attori internazionali, per esempio la Cina nota storica rivale, allo stesso tempo ha contemporaneamente portato a costi ritenuti sproporzionati per la protezione degli alleati europei.

Trump promise e successivamente attuò il suo piano di riportare al centro della diplomazia l’interesse nazionale e questa mossa ha interrotto, a suo avviso, decenni di concessioni unilaterali statunitensi. Dare senza ricevere, concetto che, secondo il capo di Stato americano, doveva necessariamente essere fermato e riequilibrato. Proprio con questo scopo sono state abbandonate le regole condivise fino a questo momento alla base del sistema liberale, per orientarsi invece verso un approccio transazionale. Cosa significa? Nel concreto ogni alleanza o negoziazione è stata valutata da quel momento come una trattativa commerciale dove ‘dare e avere‘ contano più della storia e dei valori del passato.

La visione del presidente Usa era certamente più improntata e simile a quella di un CEO, piuttosto che rispecchiare le tradizionali figure statistiche alle quali istituzioni e popolazione erano abituati. Ha scelto di misurare i risultati della diplomazia in termini monetari di profitto e quindi di trattare i Paesi come aziende, identificando negli attori internazionali profitti e posti di lavoro, che avvantaggiavano l’economia usa direttamente. Un approccio rivoluzionario che ha ricevuto resistenze e critiche globali ma, allo stesso tempo, ha imposto una revisione radicale delle abitudini diplomatiche internazionali.

Il metodo Trump: potere, narrazione e imprevedibilità

I tre pilastri della strategia negoziale: pensando alla diplomazia classica ciò che salta subito alla mente è come il potere era esercitato soprattutto dietro alle quinte, mentre Trump ha rovesciato questa regola. La visibilità e il proporsi in pubblico sono divenute parti indispensabili e integranti della sua strategia politica. Ogni negoziazione si è trasformata quindi in una performance mediatica dove ogni messaggio social ed ogni tweet, così come ogni conferenza stampa, hanno assunto il valore di leve strategiche. Il leader dei Maga ha messo in chiaro da subito i suoi tre pilastri principali, ovvero:

1. Pressione: minacce economiche, sanzioni o dichiarazioni pubbliche servivano a creare un vantaggio psicologico prima del negoziato.

2. Imprevedibilità: cambiare posizione improvvisamente costringeva gli avversari a rimanere reattivi e disorientati.

3. Narrazione: costruire una storia in cui gli Stati Uniti apparivano come la parte offesa o ingiustamente sfruttata, per giustificare azioni aggressive come tariffe, ritiro da accordi o riduzione dei fondi alle organizzazioni internazionali.

Un percorso che presentava molte similitudini con i metodi utilizzati nel business, le quali hanno trasformato in maniera sostanziale la diplomazia americana, rendendola più aggressiva ma, allo stesso tempo, personalizzata. Ora i rapporti tra leader avevano acquisito più peso rispetto ai rapporti tra Stati stessi. La strategia innovativa ha però rivelato fin da subito un difetto importante, che minava la sua stessa credibilità a lungo termine. Inutile precisare che l’efficacia tattica di breve durata di questa strategia è stata fin da subito palpabile, ma non si può dire lo stesso della credibilità a lungo termine. Quest’ultima ha risentito sensibilmente dell’imposizione americana di tassazioni su prodotti e importazioni estere, esempio concreto e recente sono i noti dazi. Ciò ha impattato notevolmente sui conti delle famiglie e generato malcontento anche in patria. La reazione generale scaturita da questa insoddisfazione popolare condivisa ha fatto si che il presidente americano riconsiderasse le proprie scelte e metodologie. Una sorta di marcia indietro che ha suscitato malcontento e generato poca fiducia. I dubbi su ciò che sarebbe potuto accadere in futuro hanno frenato le aspettative dei partner strategici.

L’economia come arma geopolitica

Uno degli aspetti più importanti della trasformazione strategica della diplomazia di Trump è stato senza dubbio l’utilizzo della leva economica, che nel corso del tempo si è trasformata in uno strumento di pressione finanziaria. L’attuale presidente Usa, nel 2018, ha scatenato una guerra commerciale con la Cina, seguita dalla decisione di imporre dazi sull’importazione di molti prodotti, per un valore di centinaia di miliardi di dollari. Contemporaneamente ha anche accusato Pechino di aver rubato proprietà intellettuali e di aver attuato dumping industriale.

Questo percorso, dichiarato come un atto volto a riequilibrare la bilancia commerciale, ha dimostrato invece la volontà di frenare l’ascesa della tecnologia cinese. L’emergente guerra tariffaria ha suscitato clamore internazionale e portato alla ridefinizione delle catene di approvvigionamento a livello globale e spinto le imprese statunitensi a riconsiderare la loro dipendenza dal mercato cinese.

Diplomazia tecnologica e sicurezza nazionale

Parlando di guerra commerciale non ci riferiamo soltanto a una questione monetaria, il campo è molto più ampio e lo stesso Trump lo sapeva bene. La vera battaglia era quella per la tecnologia. Ha deciso senza timore di colpire aziende come Huawei e ZTE e di imporre loro restrizioni sulle reti 5G, spingendo così gli alleati europei ad allinearsi alle posizioni americane. Questa è stata la prima volta in assoluto in cui la sicurezza nazionale americana si è intrecciata concretamente con la gestione dei dati e con le infrastrutture digitali.

Per comprendere meglio, osserviamo l’esempio clamoroso di Tik Tok, finito nel mirino di Washington, accusato di raccogliere informazioni sensibili per Pechino. È Proprio in questo momento che la diplomazia economica si è trasformata in diplomazia del dato e, sempre qui, la concorrenza tecnologica è divenuta deterrente geopolitico. Emerge chiaramente un messaggio: chi controlla la tecnologia controlla il mondo. Parte fondamentale del cambiamento anche l’interruzione dell’accordo di libero scambio nordamericano NAFTA con l’USMCA, soppiantato dall’ introduzione di clausole favorevoli all’industria automobilistica statunitense e alle produzioni interne. Questa è stata sicuramente una vittoria simbolica, oltre che politica, perché ha dimostrato che gli USA potevano imporre ai partner strategici condizioni migliori, per esempio a Canada e Messico, negoziando da una posizione di maggior forza. Washington ha scelto di puntare in modo massiccio sulle sanzioni economiche utilizzandole come strumento di negoziazione. Esempi noti sono Iran, Venezuela, Corea del nord, ma anche le aziende europee coinvolte nel progetto Nord Stream 2. Dazi e sanzioni si trasformano in armi persuasive diplomatiche.

Sicurezza e alleanze: dal vincolo alla transazione

Uno dei punti focali da cambiare secondo Trump era la dipendenza gratuita degli alleati americani che, a suo avviso avevano preteso troppo senza dare nulla in cambio. Il primo dei bersagli è stata la NATO che, come sostenuto da Trump, ha sempre imposto pagamenti al suo Paese troppo alti rispetto agli altri membri. Il messaggio diretto agli alleati era chiaro ovvero dovevano riassumersi la responsabilità finanziaria operativa per la difesa collettiva. Nonostante le polemiche e i toni non sempre pacati va precisato che il risultato è stato significativo. La maggior parte degli Stati UE hanno aumentato le spese militari e l’alleanza stessa ha avviato un procedimento di riforma interna.

Sostanzialmente Trump è riuscito a rinforzare la NATO attraverso il conflitto ed ha ottenuto ciò che i suoi predecessori avevano tentato con la diplomazia classica. Anche nella zona del Pacifico ha fatto scelte simili e improntate a creare pressione sui partner asiatici per generare un bilanciamento con Pechino ma, allo stesso tempo, per rafforzare i legami con Giappone e India, puntando al completo isolamento della Corea del Nord, mediante sanzioni e negoziazioni dirette. Il Medio Oriente è stato teatro delle mosse più eclatanti del leader del movimento Maga che ha scelto di mantenere una linea durissima con l’Iran, nonostante avesse criticato i precedenti interventi militari. Ha scelto di ritirarsi dall’accordo nucleare (JCPOA) firmato da Obama e ha introdotto nuove devastanti sanzioni. Ha costruito poi parallelamente un nuovo asse politico economico introducendo gli Accordi di Abramo. Grazie a ciò, unitamente alla regia di Jared Kushner, è riuscito a normalizzare i rapporti di Arabia Saudita, Bahrein, Sudan, Marocco ed Emirati Arabi nei confronti di Israele, un successo diplomatico evidente, perché si tratta di un riavvicinamento dettato soltanto da interesse economico, cooperazione tecnologica ma, anche, dalla volontà comune di opporsi a Teheran. Questo ha creato una nuova forma di diplomazia basata sul pragmatismo e sull’incontro di diversi interessi piuttosto che sulla storica ideologia.

Lo stile comunicativo: la diplomazia-spettacolo

La strategia di comunicazione di Trump ha puntato al mondo digitale e a come manipolare la percezione pubblica. Ha trasformato questi punti in una leva di potere e ha utilizzato ad esempio Twitter come reale strumento diplomatico, rompendo così la tradizione del linguaggio controllato. Ogni messaggio e comunicazione dell’amministrazione Usa aveva un fine geopolitico o commerciale. Nel 2018 e nel 2019 ha organizzato incontri con il leader nord coreano Kim Jong-un, i quali si sono trasformati immediatamente in eventi mediatici globali. Questo perché veniva mostrato l’atto concreto di negoziazione con il nemico.

Il limite strutturale di questa tipologia di diplomazia personalizzata risiede, però, nella sua fragilità istituzionale. Questa tecnica può servire si a stemperare un’escalation immediata ma non porta a soluzioni strutturali definitive, alla conclusione dei conflitti e, neppure, alla stabilità sistemica a lungo termine. La nuova forma di diplomazia non doveva più essere discreta ma piuttosto performante, dato che spiazzava gli avversari e rafforzava allo stesso tempo il consenso interno. L’approccio rivoluzionario degli Stati Uniti e, in particolar modo, della negoziazione di Trump ha prodotto effetti a lungo termine all’interno della scena internazionale.

Importanti e storiche organizzazioni come ONU, OMS e WTO hanno perso centralità, si puntava più ad accordi bilaterali e regionali che andavano a indebolire le istituzioni globali e ha spinto così gli altri attori, come Unione Europea, Cina e Russia, a cercare cooperazione altrove. L’UE ha reagito a questo momento di incertezza americana spingendo l’acceleratore sull’autonomia strategica, per questo sono nati progetti come la Bussola Strategica dell’UE e un nuovo fondo europeo per la difesa. Tutto questo proviene da quello che può essere definito il ‘trauma Trump‘, che ha sostenuto l’idea che la sicurezza del vecchio continente non possa basarsi completamente sulla difesa americana. A seguito di questo cambiamento altri leader internazionali hanno portato avanti la diplomazia in modo simile: in Turchia Erdogãn, in India Modi e persino Macron in Francia. La diplomazia assertiva si è tramutata in una tendenza globale. Oggi ogni Paese cerca di massimizzare la propria visibilità, così come il proprio margine di manovra, anche a costo di conflitti mediatici che in precedenza era consuetudine evitare.

Il dopo Trump: continuità e correzioni

Dopo la Presidenza di Trump e con il successivo arrivo di Joe Biden il mondo si aspettava un ritorno al vecchio metodo diplomatico, ma ciò non è accaduto. Molte introduzioni e dinamiche introdotte da Trump sono rimaste, per esempio la competizione con la Cina, la valorizzazione della produzione interna e la richiesta di contributi maggiori da parte degli alleati. Nonostante Biden abbia cercato di ricostruire il dialogo multilaterale non ha rinunciato, allo stesso tempo, a focalizzarsi sull’interesse nazionale. La diplomazia transazionale non ha rappresentato un incidente ma la trasformazione strutturale della politica estera americana. Inutile negare che l’eredità di Trump è complessa, contraddittoria ma allo stesso tempo duratura. È riuscito a riportare il potere al centro della conversazione internazionale e allo stesso tempo ha cambiato le precedenti regole standard. Questo dimostra che la comunicazione possa sostenere o addirittura sostituire la forza militare e che un tweet è in grado di influenzare mercati e destabilizzare negoziati. Inutile negare che le sue metodologie hanno innescato reazioni differenti e diviso opinioni ma, inevitabilmente, ha dato una lezione: la diplomazia è inseparabile dalla percezione pubblica. Sottolineando quanto sia indispensabile che un leader sappia parlare contemporaneamente agli altri governi e alla sua opinione pubblica, utilizzando un linguaggio semplice riconoscibile ed immediato.

Oggi è chiaro che la visibilità è potere, mentre il compromesso è visto come segno di debolezza e la negoziazione si è trasformata in un teatro globale. Da tutto ciò il mondo ne è uscito più competitivo, più trasparente, ma anche più instabile. La diplomazia internazionale del futuro dovrà concentrarsi su potete comunicativo. È necessario esporsi in maniera adeguata alle luci globali del pubblico che osserva, reagisce e giudica in tempo reale. La trasformazione dettata da Trump ha aperto la strada a un nuovo sistema diplomatico digitale. È inutile negare che le relazioni internazionali si intrecciano ai flussi di dati e algoritmi che influenzano le decisioni politiche, oggi, più della stessa geografia. La disinformazione, l’intelligenza artificiale e la cyber security sono diventate nuove armi di pressione, ma anche strumenti di negoziazione. Questo significa che la capacità di controllare la narrativa online è strettamente correlata al controllo del potere, collegando la diplomazia del futuro alla percezione della credibilità globale che, con le nuove tecnologia, acquisita in tempo reale. La scelta di Trump di usare comunicazione e percezione come leve geopolitiche rappresenta sostanzialmente l’anticamera della diplomazia algoritmica, in cui la parola dei leader e dei capi di Stato viaggia più velocemente delle decisioni dei governi.

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