Il riavvicinamento tra Donald Trump e Mohammed bin Salman del 18 novembre 2025 è un esercizio di realismo geopolitico spinto fino al cinismo estremo.
I fatti sono chiari: in 42 minuti di colloquio pubblico Trump ha definito Salman “protettore dei diritti umani”, ha respinto l’intelligence USA che lo indica come mandante dell’omicidio Khashoggi, ha liquidato la domanda di ABC News come “fake news” e ha promesso lo status di maggior alleato non-NATO in cambio di investimenti sauditi portati da 600 miliardi a 1 trilione di dollari.
Cena di gala, banda dei Marine, sei jet in formazione: la coreografia perfetta per seppellire sotto il tappeto rosso il cadavere fatto a pezzi nel consolato di Istanbul nel 2018. Il pragmatismo energetico e militare è comprensibile: l’Arabia Saudita resta il perno dell’OPEC+, il maggior acquirente di armi americane e un contrappeso all’Iran in un Medio Oriente che rischia di esplodere su Gaza, Yemen e Libano.
Ma esiste un confine tra realpolitik e complicità morale. Quando il presidente degli Stati Uniti nega pubblicamente la responsabilità del mandante di un giornalista assassinato sul suolo diplomatico, quel confine viene oltrepassato. Gli analisti del Council on Foreign Relations (Nov 2025) e dell’International Crisis Group sottolineano che questa normalizzazione rafforza l’impunità di MBS proprio mentre Riyadh reprime dissenso interno (oltre 200 esecuzioni nel 2024) e bombarda lo Yemen con armi USA.
Il messaggio è univoco: i diritti umani sono negoziabili se il prezzo è abbastanza alto. Gli Stati non sono aziende. Un’azienda può scegliere i propri clienti; uno Stato che pretende leadership morale globale non può vendere la propria credibilità per un trilione di petrodollari e qualche barile in più.
Il 18 novembre 2025 Washington ha scelto i secondi. La storia giudicherà se ne è valsa la pena.


