Punti chiave
L’intervento di Trump alla festa di Hanukkah 2025 alla Casa Bianca offre un osservatorio privilegiato sui mutamenti dei rapporti di forza tra lobby filo‑israeliane, polarizzazione interna negli Stati Uniti e ridefinizione del ruolo di Israele nella strategia globale americana. Le sue parole sul “declino” della “Jewish lobby” non sono solo una provocazione retorica: riflettono un riequilibrio reale tra poteri di veto, opinione pubblica e nuove fratture ideologiche che investono tanto i democratici quanto la destra trumpiana.
Il discorso: messaggio interno e messaggio esterno
Nel suo intervento per Hanukkah, Trump dichiara esplicitamente che “se torniamo indietro di 10‑15 anni, la lobby più forte a Washington era la Jewish lobby, era Israele; non è più così, dovete stare molto attenti”, associando questo declino al fatto che “il Congresso sta diventando antisemita”. Questa formula contiene un doppio messaggio: verso l’interno mobilita il campo filo‑Israele e gli ebrei americani con un frame di assedio; verso l’esterno segnala agli attori globali che il legame privilegiato USA‑Israele non è più un dogma intoccabile della politica di Washington.
Trump costruisce il discorso su due pilastri narrativi: da un lato, l’elogio della “resilienza” ebraica e della centralità di Israele per l’Occidente; dall’altro, la denuncia di un sistema politico e mediatico degenerato, in cui università, media e parte del Congresso sarebbero infiltrati da ostilità verso gli ebrei e lo Stato ebraico.
Così, l’episodio del massacro durante una cerimonia di Hanukkah a Sydney diventa l’esempio di una minaccia globale, mentre la “perdita di influenza” della lobby ebraico‑israeliana è presentata come causa e sintomo di un declino dell’ordine filo‑occidentale tradizionale.
La crisi del paradigma “Jewish/Israel lobby”
Per decenni, il concetto di “Jewish lobby” o “Israel lobby” ha funzionato come scorciatoia analitica per descrivere la capacità dei gruppi organizzati pro‑Israele, da AIPAC alle reti di donatori, di influenzare Congresso e Casa Bianca, spesso oltre le linee di frattura partitiche interne.
Trump, però, parla di questo potere al passato, sottolineando di essere “sorpreso” dal fatto che Israele non abbia più “il più forte lobby” e che non eserciti più un controllo totale sul Congresso come in passato.
Questa diagnosi si intreccia con dinamiche documentate: da un lato, una parte crescente dei parlamentari democratici progressisti rifiuta o prende le distanze dai finanziamenti di AIPAC, contestando tanto l’occupazione quanto la guerra di Gaza.
Dall’altro, nello stesso campo repubblicano MAGA, cresce un filone “America First” contrario a guerre e impegni militari esterni, che guarda con sospetto agli aiuti a Israele e critica apertamente l’influenza della lobby filo‑israeliana nella definizione della politica estera.
Le parole di Trump, pur inserendosi in un filone storico di denuncia o esaltazione del “Jewish lobby”, rompono con il dogma repubblicano tradizionale: riconoscono che il consenso bipartisan per Israele non è più garantito e che lo stesso elettorato conservatore sta ridefinendo le priorità strategiche.
Tuttavia, l’uso insistito di un linguaggio che parla di “controllo totale” sul Congresso e di lobby “più potente” alimenta quei frame complottisti che molti osservatori e organizzazioni ebraiche considerano intrinsecamente problematici, anche quando provengono da un presidente percepito come pro‑Israele.
Polarizzazione interna e guerra di Gaza
Il riferimento alla guerra di Gaza e alla “perdita della battaglia dell’opinione pubblica” è cruciale per comprendere la dimensione geopolitica delle dichiarazioni. Trump sostiene che Israele possa vincere militarmente ma stia perdendo nel campo della percezione globale, paragonando chi nega i massacri del 7 ottobre ai negazionisti della Shoah, e sollecitando Israele a chiudere il conflitto per evitare un isolamento crescente.
Questa lettura dialoga con un dato strutturale: dopo ottobre 2023, i sondaggi negli Stati Uniti mostrano un aumento delle opinioni sfavorevoli verso Israele, soprattutto tra i giovani, i progressisti e le minoranze, mentre l’asse storico “Giudeo‑cristiano” viene reinterpretato in chiave di scontro culturale interno più che di guerra fredda esterna.
Il discorso di Hanukkah, in questo senso, non è solo un messaggio alla comunità ebraica ma un tentativo di ricompattare un blocco identitario filo‑israeliano in un contesto in cui il sostegno ad Israele è diventato un marker di appartenenza ideologica, non più una ovvietà bipartisan.
La scelta di attaccare esplicitamente deputate come Alexandria Ocasio‑Cortez e Ilhan Omar, accusando quest’ultima di “odiare gli ebrei”, cristallizza la polarizzazione. La causa palestinese diventa, per il trumpismo, il simbolo di un’alleanza tra élite progressiste, campus universitari e movimenti radicali, mentre il sostegno a Israele si carica ulteriormente di valenze nazionaliste, religiose e di ordine pubblico, con un forte richiamo all’elettorato evangelico e alla destra cristiana.
Implicazioni globali: Israele, Medio Oriente e multipolarismo
Sul piano internazionale, il “declino della Jewish lobby” evocato da Trump si inserisce in una fase di riposizionamento multipolare, in cui molti attori – dal mondo arabo a potenze come Russia, Cina, Iran e Turchia – interpretano la crisi del consenso pro‑israeliano negli USA come un’opportunità.
I media mediorientali in inglese hanno letto le sue parole come una sorta di ammissione che lo “special relationship” USA‑Israele non è più intoccabile, confermando la percezione che la guerra di Gaza abbia logorato l’immagine di Israele nel Nord globale e indebolito la capacità di Washington di imporre la propria narrativa.
Allo stesso tempo, il messaggio di Hanukkah rafforza l’idea che Israele rimanga, per la destra americana, un asset strategico e simbolico: Trump si presenta come garante della sicurezza di Israele, ricorda i successi diplomatici ottenuti (come la mediazione della tregua e la liberazione di ostaggi) e insiste sul fatto che gli USA devono continuare a difendere lo Stato ebraico in quanto avamposto dell’Occidente.
Tuttavia, l’esplicito riconoscimento di una lobby meno “temuta” e di un Congresso meno docile segnala agli alleati regionali che la protezione americana potrebbe essere più condizionata da vincoli interni, inclusa l’opinione pubblica e la frattura tra élite politiche e base elettorale.
In prospettiva, questo ridimensionamento retorico della “Jewish lobby” apre scenari in cui Israele dovrà diversificare maggiormente le proprie relazioni, facendo leva su partenariati con potenze non occidentali e su accordi regionali (come gli Abraham Accords) per compensare l’eventuale erosione del sostegno incondizionato di Washington.
Al tempo stesso, i Paesi arabi e musulmani che hanno normalizzato o intendono normalizzare i rapporti con Israele si muoveranno con maggiore cautela, consapevoli che il costo reputazionale presso le proprie opinioni pubbliche potrebbe non essere più bilanciato da un “ombrello” statunitense percepito come assoluto.
Il discorso di Hanukkah di Trump va letto come il sintomo di una transizione geopolitica e interna: da un’epoca in cui la centralità di Israele nel dispositivo di potere di Washington era data per scontata, a una fase in cui quella centralità deve essere continuamente difesa, negoziata e giustificata davanti a platee sempre più polarizzate.
La sua denuncia del “declino della Jewish lobby” non è solo un avvertimento agli ebrei americani, ma un messaggio al sistema globale: la politica americana verso Israele non è più un monolite, bensì un campo di battaglia, e su quel campo si gioca una parte decisiva del futuro ordine mediorientale e del posizionamento degli Stati Uniti nel mondo multipolare.


