Punti chiave
Crisi istituzionale a Bissau: i militari rovesciano il presidente alla vigilia dell’annuncio dei risultati elettorali, chiudono le frontiere e impongono il coprifuoco.
L’alba di un rovesciamento annunciato
Il 26 novembre 2025 la Guinea-Bissau è tornata al centro della scena internazionale quando un gruppo di ufficiali dell’esercito si è presentato negli studi della televisione di Stato, la TGB, per annunciare di avere preso il potere. L’apparizione non è stata un semplice messaggio ma ha rappresentato l’atto finale di una crisi politica che da mesi ribolliva sotto traccia. Mentre nella capitale si muovevano blindati e si udivano raffiche di mitra vicino al palazzo presidenziale e alla sede della commissione elettorale, il Paese ha improvvisamente sospeso il proprio percorso democratico.
Il generale Denis N’Canha, indicato nelle fonti lusofone anche come Dinis Incanha, capo dell’Ufficio Militare della Presidenza, ha dichiarato in diretta che le forze armate assunsero «il pieno controllo» dello Stato, congelando il processo elettorale e imponendo la chiusura delle frontiere. Il coprifuoco è entrato immediatamente in vigore. L’annuncio ha trovato conferma poche ore dopo, quando l’ormai ex presidente Umaro Sissoco Embaló ha dichiarato pubblicamente di essere «stato deposto» e trattenuto dai militari. Le sue parole, rilanciate dalle maggiori agenzie internazionali, sono state l’indicatore di un ribaltamento già compiuto.
Da quel momento la Guinea-Bissau ha assistito a una silenziosa ma rapida ridefinizione del proprio organigramma istituzionale: l’esercito ha proclamato la nascita dell’Alto Comando Militare per la Restaurazione dell’Ordine Pubblico e della Sicurezza Nazionale, una struttura provvisoria che governerà fino a nuovo ordine. È un passaggio che, nella storia del Paese, ha pochi elementi di originalità. Ciò che rende questo episodio diverso dagli altri è la convergenza simultanea di fragilità istituzionali, tensioni elettorali e attività criminali radicate, che spiegano perché il colpo sia avvenuto proprio ora.
Un Paese sospeso tra elezioni contestate e istituzioni logorate
La tempistica del golpe non è casuale, dato che Il voto si era tenuto appena tre giorni prima, il 23 novembre, in un clima dove il confronto politico era diventato quasi un referendum sul futuro stesso delle istituzioni. Embaló aspirava a un secondo mandato, elemento insolitamente raro per un Paese segnato da decenni di governi brevi e instabili. Fernando Dias da Costa, principale sfidante, aveva invece capitalizzato sul crescente scontento verso un’amministrazione accusata di decisionismo, riforme unilaterali e mancato controllo del narcotraffico.
Molti osservatori regionali avevano già registrato segnali di tensione nei mesi precedenti. La missione di mediazione dell’ECOWAS aveva lasciato il Paese dopo minacce di espulsione da parte dello stesso Embaló, un episodio che aveva sollevato dubbi sulla capacità del governo di garantire un processo elettorale trasparente. Nel frattempo la crisi economica, la pressione sociale e la diffusione delle reti criminali legate al traffico internazionale di cocaina avevano consolidato il sospetto di una convergenza tra politica e settori opachi del potere economico e militare.
Su questo sfondo si è inserita l’accusa chiave avanzata dal generale N’Canha durante il proclama televisivo. Secondo il militare, sarebbe stato in atto un presunto «piano di destabilizzazione» che coinvolgeva figure politiche e un «noto boss della droga». Questa affermazione, per quanto priva di prove rese pubbliche, è stata sufficiente per giustificare l’intervento armato e rafforzare la narrativa dei militari come difensori dell’ordine e della sicurezza nazionale.

La reazione delle istituzioni internazionali non si è fatta attendere. L’Unione Africana e l’ECOWAS hanno diffuso comunicati di forte condanna, chiedendo il ripristino dell’autorità civile e la liberazione dei funzionari detenuti. Le dichiarazioni degli osservatori elettorali presenti in loco hanno inoltre mostrato inquietudine per le irregolarità e gli arresti di membri della commissione elettorale, episodi che rivelano quanto le dinamiche istituzionali fossero già compromesse prima dell’intervento armato.
Una fragilità strutturale radicata nella storia
Per comprendere perché un colpo di Stato possa ancora avvenire in Guinea-Bissau nel 2025, occorre guardare alle radici profonde della sua instabilità. Dall’indipendenza dal Portogallo nel 1974, il Paese ha vissuto una successione quasi ininterrotta di crisi politiche, conflitti armati, governi rovesciati, dissoluzioni parlamentari e interferenze dell’esercito nella vita pubblica. Questa ciclicità ha prodotto un sistema istituzionale in cui la distinzione tra potere civile e potere militare non si è mai consolidata pienamente.
Negli anni più recenti, inoltre, la Guinea-Bissau è diventata un nodo nevralgico del traffico di droga proveniente dall’America Latina e diretta verso l’Europa. La permeabilità delle istituzioni, compresi settori dell’esercito, ha favorito l’emersione di reti criminali capaci di incidere sulle dinamiche politiche. Il governo Embaló non è riuscito a contrastare questo fenomeno e diversi analisti internazionali indicano che il narcotraffico non ha accennato a diminuire durante il suo mandato, alimentando tensioni e competizioni interne senza che venisse adottata una strategia efficace di contenimento.

A ciò si aggiunge una geografia politica fragile, un’economia dipendente da un numero limitato di esportazioni, un’élite politica frammentata e rapporti di forza continuamente rinegoziati fra governo, opposizione e componenti militari. In un contesto simile, l’esercito è spesso percepito, sia dalla popolazione sia dagli attori internazionali, come un arbitro o un attore di ultima istanza, un ruolo che finisce per legittimare la sua ingerenza nella sfera politica.
Ciò che accade oggi non appare dunque come un’eccezione, ma come un sintomo della difficoltà storica del Paese di costruire un equilibrio duraturo tra stabilità, legalità e sovranità istituzionale.
Il giorno del golpe: sequenza degli eventi e percezione pubblica
Secondo le testimonianze raccolte da diversi media internazionali, nelle ore precedenti l’annuncio televisivo si erano uditi spari vicino alla residenza presidenziale e alla sede della commissione elettorale. Alcune strade erano state bloccate, altri quartieri isolati. La popolazione ha assistito a un’improvvisa presenza di militari e barricate, con il governo che appariva già paralizzato. Alcuni funzionari della sicurezza sono stati arrestati, così come membri della commissione incaricata di certificare i risultati elettorali.
Dopo l’annuncio del generale N’Canha, la situazione nelle strade è rimasta tesa ma relativamente stabile. La chiusura delle frontiere ha impedito spostamenti verso Senegal e Guinea Conakry, rafforzando la consapevolezza di trovarsi di fronte a un rovesciamento già pienamente consumato. Il coprifuoco ha confinato la popolazione nelle proprie abitazioni e ha ridotto la possibilità di mobilitazioni immediate da parte di sostenitori dell’ex presidente.
Le dichiarazioni di Embaló, diffuse poche ore dopo, hanno confermato il quadro di un governo ormai privato di ogni margine di azione. In un contesto dove da anni la normalità istituzionale è fragile, la rapidità del rovesciamento ha impedito qualsiasi spiraglio di mediazione interna. La crisi è diventata fin da subito una questione da gestire a livello regionale.

Gli effetti regionali e internazionali di una crisi prevedibile
La Guinea-Bissau non è un’isola politica. Le instabilità dell’Africa occidentale e del Sahel hanno attraversato gli ultimi anni con una sequenza di colpi di Stato in Mali, Niger e Burkina Faso, che hanno minato la tenuta delle istituzioni regionali e ridisegnato gli equilibri all’interno dell’ECOWAS. L’organizzazione si è trovata a intervenire ripetutamente, spesso senza ottenere risultati soddisfacenti nel ripristinare la governance civile.
In questa cornice, il golpe di Bissau rischia di diventare un altro tassello di una deriva sempre più allarmante. La pressione internazionale per un ritorno all’ordine democratico potrebbe scontrarsi con interessi interni divergenti, la presa del narcotraffico e l’ambiguità di alcuni settori dell’esercito. Le tensioni tra i governi della regione, già impegnati nel contenimento dell’instabilità saheliana, rendono il contesto ancora più complesso.
La popolazione della Guinea-Bissau resta in attesa. Le prospettive di un ritorno rapido alla normalità appaiono incerte. Il timore, condiviso da osservatori e analisti, è che il nuovo organo militare non fissi a breve un calendario trasparente per il ripristino dell’autorità civile. La storia recente insegna che i governi di transizione imposti dall’esercito possono durare anni, mentre la democrazia resta sospesa.
In un Paese dove la vita politica è spesso scandita da colpi di Stato, dissoluzioni parlamentari e interferenze del narcotraffico, la crisi odierna evidenzia quanto la Guinea-Bissau sia ancora lontana dall’aver consolidato le basi per una stabilità istituzionale duratura. E mentre l’attenzione internazionale si concentra sugli sviluppi immediati, il futuro del Paese sembra dipendere più che mai dal rapporto di forza tra i militari, la società civile e gli organismi regionali chiamati a vigilare su un ritorno all’ordine costituzionale.


