30 Ottobre 2025
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Israele sotto accusa: la Corte Suprema ordina cibo sufficiente per i detenuti palestinesi

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In una decisione rara e significativa, la Corte Suprema di Israele ha stabilito che il governo ha fallito nel garantire una nutrizione sufficiente ai detenuti palestinesi nelle sue carceri, imponendo alle autorità di migliorare le condizioni alimentari per assicurare il minimo indispensabile per la sopravvivenza. Questa sentenza rappresenta un momento di grande rilievo, considerando che, durante il conflitto durato quasi due anni con Gaza, la Corte aveva generalmente evitato di intervenire contro le azioni del governo e delle forze militari.

Da quasi due anni, migliaia di palestinesi sono stati detenuti in Israele, sospettati di legami con Hamas o altre attività considerate minacciose per la sicurezza dello Stato. Molti di loro sono stati rilasciati senza accuse dopo lunghi periodi di detenzione, ma le testimonianze di organizzazioni per i diritti umani denunciano condizioni durissime nelle prigioni e nei centri di detenzione. Queste includono forniture di cibo insufficienti, mancanza di cure mediche adeguate, condizioni igieniche pessime e casi di abusi fisici. Un esempio drammatico è quello di un ragazzo palestinese di 17 anni, morto lo scorso marzo in un carcere israeliano: è probabile che la fame sia stata la principale causa del decesso.

La sentenza della Corte Suprema arriva in risposta ad una causa presentata lo scorso anno dall’Associazione per i Diritti Civili in Israele (ACRI) e dall’organizzazione israeliana Gisha, che hanno denunciato un cambiamento nelle politiche alimentari applicate dopo l’inizio del conflitto a Gaza, le quali hanno portato a una situazione di severa malnutrizione e anche di fame tra i detenuti. Secondo un membro del governo, Itamar Ben-Gvir, ministro della Sicurezza Nazionale e responsabile del sistema carcerario, le condizioni imposte ai detenuti di sicurezza sono state ridotte al minimo assoluto consentito dalla legge israeliana.

La Corte, con una decisione unanime, ha affermato che lo Stato ha l’obbligo legale di fornire ai detenuti un’alimentazione sufficiente per garantire «un livello di esistenza di base». In una sentenza con il voto favorevole di due giudici su tre, la Corte ha evidenziato che vi sono forti dubbi sull’effettiva adeguatezza del cibo attualmente fornito ai prigionieri, definendo necessarie misure immediate per assicurare che il sostentamento rispetti le condizioni minime imposte dalla legge. La Corte ha sottolineato che la questione non riguarda certo «un vivere in modo confortevole o di lusso», ma solo le condizioni essenziali richieste per la sopravvivenza secondo la normativa vigente.

La decisione ha suscitato reazioni forti e contrastanti. Il Ministro Ben-Gvir ha criticato aspramente la sentenza, accusando la Corte di schierarsi a sfavore dell’Israele e a favore dei militanti di Hamas, mentre migliaia di ostaggi israeliani soffrono a Gaza senza assistenza. Ha ribadito la volontà di mantenere la politica secondo la quale garantire solo le condizioni minime richieste dalla legge ai detenuti palestinesi.

Dall’altra parte, l’Associazione per i Diritti Civili in Israele ha esortato all’immediata applicazione della sentenza, accusando il sistema carcerario di Israele di aver trasformato le prigioni in veri e propri «campi di tortura». Gli attivisti hanno ribadito con forza che «uno Stato non deve far soffrire la fame alle persone, indipendentemente dalle loro azioni». Le organizzazioni per i diritti umani richiedono un cambiamento immediato, ricordando che il diritto internazionale e la legislazione nazionale impongono che anche i prigionieri ricevano un trattamento umano e dignitoso.

Nel contesto più ampio del conflitto, l’attenzione anche sul fronte di Gaza è alta: la popolazione civile sta affrontando condizioni di carestia peggiorate dalle azioni militari israeliane e dalle restrizioni imposte. Il settore sanitario locale segnala decessi quotidiani dovuti a malnutrizione, aggravando ulteriormente la crisi umanitaria. Questi dati sottolineano la tensione crescente sia dentro che fuori dalle carceri israeliane, rendendo la sentenza ancor più significativa nel contesto delle legittime aspettative di rispetto dei diritti umani fondamentali.

Questa sentenza della Corte Suprema israeliana arriva quindi come un monito legale e morale in una situazione di guerra prolungata e difficilmente gestibile, evidenziando la responsabilità dello Stato verso tutti i detenuti, anche in situazioni di conflitto. Mentre le istituzioni cercano di bilanciare la sicurezza nazionale con il rispetto dei diritti umani, il caso di questi detenuti palestinesi rappresenta un banco di prova fondamentale per la giustizia e l’etica nel trattamento dei prigionieri.

Le implicazioni di questa sentenza sono molteplici: da una parte, si pone un limite chiaro alle politiche di restrizione alimentare attuate come strumento punitivo o di pressione; dall’altra, si apre uno spazio per un confronto più ampio sulla trasparenza e il controllo delle condizioni carcerarie in Israele, specialmente nella gestione dei detenuti palestinesi. Il dibattito pubblico che ne deriva è cruciale per capire come uno Stato democratico possa applicare la legge e i diritti anche nei momenti di emergenza.

In questo scenario così complesso, la decisione della Corte si distingue come un segnale forte di rispetto dei diritti umani. Garantire un’alimentazione adeguata non è soltanto un obbligo formale, ma un imperativo morale che riflette la base stessa della dignità umana, anche per chi è detenuto in condizioni di guerra. Proprio per questo, la sentenza non può essere vista come un semplice atto giuridico, ma come un appello a non perdere l’umanità in tempo di crisi.

Crisi al vertice: Bayrou rischia la sfiducia e la Francia si prepara a una nuova stagione di instabilità

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François Bayrou, primo ministro da meno di nove mesi, si trova al centro di una tempesta politica che potrebbe travolgere nuovamente il governo francese. Lunedì 8 settembre, con la proposta di un voto di fiducia sulla legge di bilancio presentata da lui stesso, Bayrou ha deciso di giocare il tutto per tutto contro una maggioranza parlamentare frammentata e un’opposizione agguerrita. La Francia rischia di perdere il suo terzo primo ministro in appena dodici mesi, accentuando lo stato di crisi e incertezza che domina la Quinta Repubblica. L’iniziativa di Bayrou nasce dalla necessità di ottenere il consenso su una dura spending review che prevede tagli alla spesa pubblica per decine di miliardi di euro, l’eliminazione di due giorni festivi e misure imposte dal deficit cresciuto ben oltre il limite europeo.

Questa situazione critica si inserisce in un contesto parlamentare dove nessuna formazione politica detiene una reale maggioranza. Le elezioni anticipate avvenute dopo la disastrosa dissoluzione dell’Assemblea Nazionale hanno creato un Parlamento frammentato tra Rassemblement National, sinistra e macronismo. Bayrou ha cercato alleati sia tra i centristi che tra i moderati, ma né la sinistra né l’estrema destra hanno voluto soccorrerlo, facendo preannunciare un nuovo periodo di instabilità per il paese. Questa crisi, sottolinea lo stesso Bayrou, nasce da una “guerra civile tra i partiti”, che si sono uniti solo per abbattere il governo senza trovare punti di convergenza reale tra loro.

Mentre la Francia si prepara alla sessione parlamentare straordinaria, la tensione è palpabile. La strategia di Bayrou mira a responsabilizzare tutti i deputati di fronte all’emergenza dei conti pubblici; il governo conta teoricamente su una minoranza, mentre l’opposizione totalizza consensi contrari decisivi. Lo scarto appare insormontabile e l’esito sembra già segnato: Bayrou rischia la bocciatura da parte di un Parlamento che non vuole altre misure di austerità.

Il discorso del primo ministro agli eletti è incentrato sulla trasparenza e sulla necessità di agire in nome dell’interesse nazionale. Nel suo intervento, Bayrou parla della gravità della situazione del debito pubblico, che ha raggiunto livelli record e che, secondo lui, richiede scelte dolorose ma imprescindibili: contenere il deficit, riformare la spesa sanitaria e rivedere il calendario festivo nazionale. Tuttavia, la sua posizione è contestata duramente dall’opposizione, in particolare da Marine Le Pen e dai leader della sinistra, che accusano il premier di voler scaricare i costi della crisi sulle fasce più deboli della popolazione.

Nella giornata cruciale, la Francia vive una paralisi politica e sociale: i mercati reagiscono con nervosismo, i titoli di Stato subiscono oscillazioni e le agenzie di rating minacciano un declassamento del debito sovrano. Il clima è quello di una vera crisi di regime, aggravata dalla difficoltà per il presidente Macron di trovare una soluzione rapida e consensuale. In poco tempo, il governo francese si trova a dover cambiare premier ancora una volta. La tradizionale separazione tra potere presidenziale e potere esecutivo si scontra con la realtà di una maggioranza sempre più ingestibile.

Sul fronte internazionale, l’instabilità politica francese preoccupa i partner europei e mette a rischio la credibilità della Francia come pilastro dell’Unione. La seconda economia dell’area euro vive una fase in cui le priorità di bilancio, le regole di Bruxelles e la pressione dei mercati finanziari si sovrappongono alle tensioni tra Stato e cittadini, con proteste e barricate che si moltiplicano nelle piazze di Parigi e delle principali città francesi.

Se Bayrou dovesse essere sfiduciato, Macron avrebbe davanti tre scenari possibili e nessuno senza rischi: la nomina di un altro capo del governo, il tentativo, assai improbabile, di ricostruire una nuova maggioranza, oppure il ricorso a nuove elezioni, opzione che la destra radicale invoca apertamente. È un passaggio storico, segnato da una crisi di identità per la politica francese, dove la leadership del presidente vacilla davanti all’incapacità di garantire stabilità e progresso sociale.

Lo stesso Bayrou, alla vigilia del voto, si è dichiarato convinto di aver fatto tutto ciò che andava fatto, denunciando una situazione in cui le forze politiche non trovano alcun punto di accordo e si mobilitano solo per abbattere l’esecutivo. Le sue dichiarazioni risuonano in un Parlamento bloccato, dove le scelte sulla legge di bilancio diventano il simbolo delle divisioni più profonde tra i partiti.

La crisi rivela un’immagine della Francia molto diversa da quella a cui il mondo era abituato: non più modello di stabilità, ma teatro di incessanti cambiamenti di rotta e incertezze, con una crescita economica minacciata e una società civile in fermento. Il futuro di Bayrou, e quello dell’esecutivo, si gioca su un terreno minato, dove ogni errore può diventare fatale per la tenuta dello Stato e della sua reputazione internazionale.

Il voto di fiducia sul governo Bayrou è il crocevia di una stagione politica segnata da dissidi, sfide economiche e sgretolamento della coesione nazionale. Nel momento in cui la Francia affronta la possibilità di un nuovo vuoto di potere, si fa strada la consapevolezza che le pagine di questa crisi saranno decisive per il futuro dell’intera Europa.

Ucraina: Chiesa ortodossa a rischio bando, la fede al centro del conflitto con Mosca

Il governo ucraino ha avviato ufficialmente la procedura per vietare l’attività della Chiesa Ortodossa Ucraina (UOC) con l’accusa di non avere realmente reciso i suoi storici legami con il Patriarcato di Mosca. Questa decisione rappresenta una svolta drammatica nella lunga disputa tra le due principali branche dell’ortodossia nel paese, mettendo in risalto come la religione sia divenuta terreno di conflitto parallelo alla guerra tra Ucraina e Russia. La questione della fede ortodossa si intreccia con l’identità nazionale e le pressioni geopolitiche che ormai da anni plasmano la società ucraina.

Il Parlamento ucraino aveva già approvato una legge che proibisce qualsiasi organizzazione religiosa connessa con la Chiesa Ortodossa Russa, accusata di aver sostenuto apertamente l’invasione del territorio ucraino. Questo provvedimento, pensato come tutela della sicurezza nazionale, ha dato mandato all’agenzia statale DESS (State Service of Ukraine for Ethnic Policy and Freedom of Conscience) di indagare sulla UOC e sulle sue reali relazioni con Mosca. Dalla primavera 2022, la UOC aveva annunciato di aver condannato la guerra e di aver dichiarato formalmente la propria indipendenza da Mosca, rinunciando a commemorare il Patriarca Kirill (che ha promosso il conflitto come “guerra sacra”) e modificando varie prassi liturgiche. Tuttavia, le autorità ucraine sostengono che la Chiesa non abbia modificato i documenti fondamentali né presentato prove sufficienti di una rottura definitiva con il patriarcato russo, contestando di fatto la sincerità della svolta.

La procedura di interdizione si trova ora nelle mani del sistema giudiziario: il governo ha depositato richiesta formale alla corte per la messa al bando della UOC. In caso di esito negativo per la Chiesa, questa potrà presentare ricorso una sola volta davanti a una corte di grado superiore, secondo quanto riferito dai suoi legali, ma la stessa controversia potrebbe trascinarsi per mesi e la posta in gioco è altissima sia per la sfera religiosa che per il contesto civile. Un eventuale ban getterebbe nell’incertezza centinaia di migliaia di fedeli e metterebbe a rischio la libertà di culto in una delle aree più sensibili d’Europa, già segnata da tensioni e sospetti reciproci. Tra le conseguenze immediate della normativa, si teme lo sfratto di decine di comunità religiose dagli edifici storici di proprietà statale, che rischiano di restare senza chiesa, monastero o luogo di culto.

Il governo si è concentrato soprattutto sul ruolo del Metropolita Onufry, guida della UOC, al quale sé stata revocata la cittadinanza ucraina. Le autorità accusano Onufry di non opporsi in modo attivo al controllo di sedi e monasteri della UOC nei territori occupati dalla Russia e di mantenere una linea ambigua nei confronti delle direttive del Patriarcato di Mosca. L

Il Patriarcato di Mosca ha reagito definendo la legge ucraina “un colpo gravissimo per tutto l’ortodossia” e “una violazione della libertà religiosa”, sostenendo che le restrizioni imposte ricordano sistemi totalitari. Le autorità russe accusano Kyiv di “persecuzione su base religiosa” e denunciano trasferimenti forzati, chiusure di monasteri, persecuzioni contro il clero e campagne mediatiche di delegittimazione. Mosca sostiene inoltre che la UOC è oggetto di intimidazione da parte dei servizi di sicurezza ucraini, con arresti, interrogatori e revoca della cittadinanza a sacerdoti accusati di propaganda filorussa o di tradimento. Secondo il governo ucraino, però, la misura era necessaria per “difendere la sovranità nazionale di fronte a una propaganda religiosa che sostiene l’aggressione armata”, e il presidente Zelensky ha più volte ribadito la necessità di “proteggere la spiritualità ucraina dagli influssi esterni”.

La questione si inserisce in un contesto religioso già frammentato, poiché la Chiesa Ortodossa di Ucraina (OCU), riconosciuta dal Patriarcato Ecumenico di Costantinopoli, si è affermata come ramo indipendente rispetto a Mosca. La OCU, sostenuta dalle autorità e dalla maggioranza dei fedeli, secondo i dati del sondaggio 2024 (KIIS), promuove una liturgia nazionale, in lingua ucraina e con riti distintivi, mentre la UOC ha continuato a rappresentare la tradizione storica, legata alla comunità russofona e ai fedeli dell’est e sud del paese. Le tensioni tra le due chiese hanno provocato divisioni anche a livello locale: intere parrocchie sono passate dall’una all’altra, litigando sulla gestione di edifici, icone, reliquie e patrimoni artistici.

In questo scenario, la religione diventa chiave di lettura per il conflitto identitario della società ucraina: la guerra ha polarizzato le comunità, trasformando la scelta di chiesa in un gesto politico e ideologico. La decisione governativa rischia di radicalizzare ulteriormente la dialettica tra le due anime dell’ortodossia locale, con il rischio di esasperare il clima di sospetto ed emarginazione. L’ONU, Papa Francesco e il Consiglio Mondiale delle Chiese hanno espresso preoccupazione per le conseguenze sulla libertà religiosa e il rischio di marginalizzazione di milioni di credenti, invitando Kiev a trovare soluzioni più inclusive.

Sul piano internazionale, la Russia utilizza la causa della UOC come strumento di retorica e propaganda, presentandosi come “difensore dei cristiani ortodossi perseguitati”, mentre l’Ucraina invoca la necessità di emanciparsi spiritualmente da Mosca e costruire una Chiesa nazionale integrata nella comunità europea. Influenti leader ortodossi in Europa e America dichiarano il sostegno alla sovranità ucraina e alla libertà di culto, chiedendo però che il processo legislativo sia rispettoso dei diritti fondamentali.

Il ricorso ai tribunali è destinato a rappresentare un banco di prova per la democrazia ucraina e per il modello europeo di convivenza tra Stato e religioni. Le prossime settimane saranno cruciali: un’eventuale conferma del divieto potrebbe scatenare proteste, appelli e mobilitazioni di massa tra i fedeli, con impatti sensibili su equilibri sociali già fragili. Le comunità ortodosse si interrogano sul futuro, mentre il dibattito pubblico affronta il delicatissimo bilanciamento tra libertà religiosa, sicurezza nazionale e diritto internazionale.

La vicenda della UOC è ormai diventata il simbolo di una guerra che non si combatte solo con le armi, ma anche con la cultura, la memoria e la fede. Mentre il conflitto armato prosegue senza tregua, la sfida per la libertà di culto, la tutela dei credenti e la costruzione di una società inclusiva continua a essere una delle partite più difficili per l’Ucraina.

Kim Jong Un: da leader isolato a protagonista della diplomazia globale

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Negli ultimi anni, Kim Jong Un ha vissuto una metamorfosi che ha sorpreso osservatori e analisti internazionali. Il leader nordcoreano, un tempo isolato, si è recentemente esibito con sicurezza e sorrisi distesi davanti a un vasto gruppo di capi di Stato nella cornice prestigiosa di Pechino, in uno degli incontri diplomatici di maggior rilievo del suo mandato. Questo evento segna una svolta profonda rispetto ai suoi primi anni di potere, quando la sua inesperienza alimentava dubbi sulla capacità di mantenere il controllo del regime.

La sua presenza a Pechino, accanto a Xi Jinping e Vladimir Putin, riflette la straordinaria evoluzione di Kim: non è più il giovane e incerto successore, ma un protagonista riconosciuto della scena eurasiatica, a suo agio tra i leader globali. Dal suo insediamento, passando per i momenti chiave come il summit con Donald Trump, Kim ha costruito una figura mediaticamente autorevole che l’opinione pubblica internazionale non può più ignorare.

Kim Jong Un è diventato oggetto di cortesia diplomatica e attenzioni strategiche, anche grazie a incontri con attori internazionali prima considerati impraticabili. Il cambiamento appare evidente: la sua trasformazione passa dai primi anni di chiusura totale agli ultimi incontri internazionali, dove la Corea del Nord viene percepita come un attore necessario, nonostante l’assenza delle potenze occidentali, come gli Stati Uniti, l’Unione Europea e il Giappone. Questi incontri sono anche un segnale del nuovo equilibrio mondiale, con blocchi asiatici ed eurasiatici sempre più disposti ad offrire legittimità a Pyongyang.

Le tappe di questa trasformazione sono numerose. Dal viaggio a Vladivostok per incontrare Putin, fino alle recenti apparizioni a Pechino, Kim ha abbandonato la prudenza e la paranoia del padre Kim Jong Il, noto per evitare viaggi internazionali e spostarsi soltanto tramite treno blindato. Il leader attuale ha invece svolto più missioni all’estero rispetto ai suoi predecessori, consolidando alleanze e accordi vitali, soprattutto con Russia e Cina.

Dal punto di vista geopolitico, il ruolo di Kim Jong Un non si limita allo spettacolo diplomatico. La Corea del Nord è ormai parte di un blocco che si oppone apertamente all’ordine internazionale guidato dagli Stati Uniti. Il supporto offerto alla Russia nella guerra contro l’Ucraina non si ferma all’assistenza verbale: si parla di aiuti materiali e addirittura di invio di truppe e armamenti, uno scambio strategico che porta tecnologia e risorse economiche al regime coreano. L’adesione a queste nuove alleanze consente a Kim di rafforzare la propria posizione e di rilanciare la Corea del Nord come attore regionale fondamentale.

Durante la grande parata militare di Pechino, Xi Jinping ha scelto di far salire Kim accanto a sé e a Putin sul palco di Tiananmen, in un gesto che ha attirato l’attenzione della stampa globale. Le immagini dei tre leader che salutano veterani di guerra, marciano fianco a fianco e scambiano sorrisi sono diventate il simbolo plastico di una diplomazia non più di resistenza, ma di protagonismo.

Il nodo centrale resta la politica nucleare. Kim Jong Un ha intensificato i test di missili e arme nucleari molto più dei suoi predecessori, ignorando le condanne internazionali e sfruttando la mancata coesione dell’Occidente. La strategia nucleare rimane il principale strumento di potere del regime: Kim mostra di credere che solo il possesso di un arsenale atomico garantisca la sopravvivenza della Corea del Nord. Questo convincimento rende meno probabile una rinuncia volontaria al nucleare, anche se la diplomazia americana rimane ufficialmente aperta al negoziato.

Il dialogo con Trump ha avuto effetti ambivalenti. Se da un lato il presidente americano ha cercato di rassicurare Kim, in un tentativo di provare a ridurre la tensione ed aprire la porta a possibili accordi sul nucleare, dall’altro questo dialogo ha contribuito ad accreditare il leader nordcoreano come interlocutore legittimo, un obiettivo che il regime insegue da tempo. Gli analisti sottolineano questo aspetto: che Trump, pur cercando accordi, ha finito per regalare a Kim quella riconoscibilità internazionale che il giovane dittatore desiderava.

Sul piano economico, la dipendenza dal commercio con la Cina resta fortissima. Prima della pandemia, la maggior parte delle esportazioni nordcoreane era diretta alla Cina, e dopo il calo degli scambi ora il regime sta cercando di riattivarli . In questa dinamica, il sostegno cinese è assolutamente vitale per il futuro del regime. L’obiettivo di Kim è ottenere investimenti, tecnologia e sicurezza energetica senza dover accettare pressioni politiche esterne.

Il risalto internazionale di Kim non si esaurisce nell’asse Pechino-Mosca. Continui messaggi di sostegno reciproco, incontri bilaterali, accordi militari e collaborazioni scientifiche confermano la volontà della Corea del Nord di radicarsi in un blocco che sfida la supremazia occidentale. La retorica antiamericana, portata avanti dai diplomatici di Kim, sostiene la rivendicazione di una “nuova equità globale”, in cui Pyongyang rivendica diritti, autonomia e prestigio contro la “tirannia delle potenze occidentali”.

Le ambizioni revisioniste del regime sono legate non solo alla sicurezza, ma anche al riconoscimento internazionale come potenza nucleare. Kim sogna un’accettazione globale della Corea del Nord, con un progresso economico che non metta a rischio la solidità militare e ideologica del regime. Tuttavia, la partita rimane complessa: senza risposte positive da Washington o conforto dalla Cina, la Corea del Nord rischia di doversi accontentare di un ruolo da protagonista periferico, forte solo di alleanze con regimi anch’essi contestati dall’Occidente.

In questi anni Kim Jong Un ha dimostrato di saper cogliere strategicamente le opportunità diplomatiche. Dinamiche come il rilancio dei rapporti con Mosca, la presenza accanto a Xi Jinping e Putin in eventi di rilevanza planetaria, e la capacità di restare al centro dell’attenzione nonostante un tasso elevatissimo di repressione domestica, sono la prova di una leadership che studia e utilizza la geopolitica a proprio vantaggio.

La trasformazione di Kim Jong Un da figura isolata a esperto diplomatico resta uno degli aspetti più sorprendenti della geopolitica contemporanea. In bilico tra minacce nucleari, crisi umanitarie e manovre di potere, il leader nordcoreano è ora protagonista di equilibri che attraversano l’Asia e definiscono la nuova realtà del confronto globale. Mentre la comunità internazionale continua a cercare vie diplomatiche per limitare le tensioni, Kim sfrutta ogni occasione per consolidare il proprio prestigio, fortificare il regime e mantenere la Corea del Nord in una posizione cruciale nella scacchiera geopolitica mondiale.

Terrore a Gerusalemme: sei morti alla fermata del bus, la città ripiomba nell’incubo

La mattina dell’8 settembre Gerusalemme si è svegliata nel terrore, colpita da un attacco a mano armata che ha seminato morte e caos tra la popolazione. In pochi minuti, una folla in attesa dell’autobus a Ramot Junction, uno dei nodi principali della città, è stata travolta da una raffica di colpi d’arma da fuoco: il fragore degli spari ha interrotto la quotidianità, lasciando sul terreno almeno cinque vittime e numerosi feriti, alcuni in condizioni gravissime. I testimoni presenti hanno raccontato scene di panico e disperazione, con i soccorritori che si sono precipitati tra i detriti e i vetri rotti per prestare i primi aiuti alle persone coinvolte.

L’attacco è stato rapido e brutale, secondo quanto riferito dalle autorità israeliane. Due assalitori, armati di mitraglietta “Carlo”, hanno aperto il fuoco senza preavviso sugli ignari civili che attendevano il passaggio degli autobus. Nella confusione, alcuni passeggeri si sono gettati a terra, altri hanno cercato rifugio dietro le pensiline o le auto di passaggio. L’intervento di un agente di sicurezza e di almeno un civile armato è stato decisivo: nel giro di pochi istanti, i due attentatori sono stati “neutralizzati”, stando alle dichiarazioni ufficiali della polizia israeliana. Il sangue sulle strade e le grida dei feriti, soccorsi in pochi minuti dal personale medico del Magen David Adom, hanno segnato il volto della città per tutta la giornata.

Fra le vittime accertate figurano due uomini sulla trentina, una donna e due uomini attorno ai cinquanta anni. Ma il bilancio avrebbe potuto essere drammaticamente più alto: alcuni dei circa quindici feriti, trasportati d’urgenza negli ospedali cittadini, lottano ancora tra la vita e la morte, mentre altri hanno subito conseguenze da schegge di vetro o traumi da caduta durante la fuga. Gli autisti degli autobus coinvolti hanno agito con sangue freddo, aiutando i passeggeri a mettersi in salvo mentre le sirene delle ambulanze si avvicinavano a tutta velocità.

Le forze di sicurezza hanno immediatamente avviato una massiccia operazione nella zona, bloccando i check-point e pattugliando i quartieri circostanti per individuare eventuali complici o sostenitori. Secondo fonti ufficiali, i due attentatori provenivano dalla Cisgiordania e tutto lascia pensare che l’attacco fosse pianificato nei minimi dettagli. I due, infatti, sarebbero riusciti a confondersi tra i pendolari prima di attaccare. Poco dopo la sparatoria, le autorità israeliane hanno rafforzato la presenza militare a Gerusalemme e nelle aree limitrofe, soprattutto ai confini con i territori palestinesi. Sono partite numerose perquisizioni a caccia di eventuali altri membri del commando.

Israele ha ribadito il suo diritto a “difendere la sicurezza dei cittadini”, mentre da parte di diverse istituzioni internazionali si sono levate voci preoccupate sui rischi di escalation. La tensione fra Israele e i territori palestinesi resta altissima, con continui riferimenti, nei commenti degli esperti, al contesto più ampio dei recenti scontri a Gaza e alla lunga serie di rappresaglie reciproche. L’attacco di Ramot Junction si inserisce in una stagione di grave instabilità, dove la paura di nuovi attentati soffoca l’aria della città e obbliga le autorità a un livello costante di allerta.

L’organizzazione Hamas ha pubblicamente elogiato l’operazione, definendola una “risposta eroica” agli avvenimenti degli ultimi giorni a Gaza. Pur senza una rivendicazione diretta, le autorità israeliane hanno dichiarato di non escludere la matrice terroristica palestinese, indicando la possibilità che l’attacco sia stato ispirato dall’escalation tra l’esercito e le fazioni militanti nei territori occupati. Intanto, le immagini delle telecamere di sicurezza hanno confermato la freddezza e la determinazione degli attentatori: armati e coordinati hanno agito in pochi secondi, colpendo indiscriminatamente prima di essere abbattuti.

I paramedici che sono intervenuti per primi hanno raccontato scene drammatiche, con feriti sparsi tra la strada e il marciapiede, molti dei quali in stato di shock o semicoscienti. “Abbiamo visto persone prive di sensi vicino alla fermata dell’autobus, molta confusione e distruzione ai nostri piedi”, ha dichiarato un soccorritore ai media locali. Il personale sanitario ha proceduto a una triage immediata: chi era più grave è stato caricato sulle ambulanze e trasferito negli ospedali cittadini, dove ancora si combatte per salvare la vita dei più colpiti. Alcuni sopravvissuti sono stati dimessi nella stessa giornata dopo aver ricevuto le cure necessarie per lesioni lievi.

Mentre aumentano i timori di nuovi episodi simili, il governo israeliano e le forze di polizia hanno inviato messaggi rassicuranti alla popolazione, promettendo “tolleranza zero” per ogni forma di terrorismo e un rafforzamento dei dispositivi di sicurezza nei luoghi pubblici più esposti. L’opposizione e le famiglie delle vittime hanno chiesto maggiore protezione per i cittadini e una risposta efficace che non si limiti alla repressione immediata ma apra anche un tavolo di dialogo e prevenzione a lungo termine.

Intanto Gerusalemme si interroga sulle conseguenze dell’attentato. La paura torna a dominare una città già provata da anni di conflitto, con i cittadini che si stringono nel lutto e nella rabbia. La vita normale, le attese alla fermata del bus, i viaggi sui mezzi pubblici, le passeggiate nei quartieri periferici, viene ferita ancora una volta dall’ombra della violenza politica e religiosa. Benché l’emergenza sia rientrata nel giro di poche ore, le patruglie restano presenti in forze nei punti nevralgici della città.

Il quadro rimane critico anche dal punto di vista politico: l’esecutivo israeliano, guidato dal primo ministro Netanyahu, ha ribadito la linea dura contro le organizzazioni armate che minacciano la sicurezza interna, mentre continuano le pressioni da parte delle frange ultranazionaliste per azioni ancora più incisive nei confronti dei villaggi palestinesi vicini e nelle aree considerate focolai di militanza. Dall’altra parte, diversi gruppi umanitari e osservatori internazionali hanno rinnovato gli appelli a non alimentare il ciclo di vendetta, ricordando la necessità di tutelare la popolazione civile e di lavorare per una soluzione diplomatica che prevenga ulteriori tragedie.

L’attacco alla fermata dell’autobus di Ramot Junction si conferma come una delle pagine più nere nella recente storia della sicurezza israeliana. Il ricordo di quella mattina, con i corpi distesi tra i sedili e i feriti soccorsi tra urla di dolore, rimarrà impresso nella coscienza collettiva di una città abituata a convivere con la tensione ma mai alla perdita e al terrore. Gli interrogativi restano aperti: come fermare la spirale d’odio? chi garantisce la protezione dei civili? quali saranno le mosse delle autorità per prevenire il prossimo attacco?

La giornata dell’8 settembre resterà impressa come il simbolo doloroso di una guerra che, ancora una volta, ha scelto di colpire i più indifesi tra la gente comune.

Papa Leone XIV: solo la soluzione a due Stati può fermare la guerra di Gaza

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Il Vaticano e Papa Leone XIV hanno ribadito con fermezza, durante l’incontro con il presidente israeliano Isaac Herzog, che solo una soluzione a due Stati può rappresentare la strada per mettere fine alla guerra a Gaza che ha devastato la regione e acceso tensioni diplomatiche e umanitarie su scala mondiale.

Il messaggio del pontefice è stato chiaro e ripetuto a più riprese. All’interno dei saloni vaticani si è consumata una delle tappe più significative del dialogo internazionale sulla crisi mediorientale degli ultimi mesi, a cui hanno preso parte anche il Segretario di Stato Pietro Parolin e il responsabile delle relazioni estere della Santa Sede, l’arcivescovo Gallagher.

La visita, al centro di polemiche diplomatiche sull’invito, ha costituito un passo importante per una relazione che il Vaticano considera strategica, non solo nei rapporti con Israele ma nella prospettiva più ampia di pace tra i popoli. Il pontefice ha ricordato la necessità di coraggio e volontà politica, coinvolgendo la comunità internazionale nella costruzione di una soluzione stabile che riconosca “le aspirazioni legittime dei due popoli”.

Il Vaticano si è schierato con forza contro l’uso della violenza contro i civili. Dopo l’attacco del 7 ottobre, in cui Hamas ha rapito ostaggi e ucciso migliaia di persone, la risposta israeliana ha portato a una escalation senza precedenti di bombardamenti, con decine di migliaia di vittime civili, secondo le stime dell’ONU.

Papa Leone XIV, il primo pontefice americano nella storia della Chiesa, ha idee ferme e pragmatiche, fedeli alla tradizione diplomatica vaticana. In continuità con papa Francesco, Leone XIV insiste su cessate il fuoco, diritto umanitario e una soluzione a due Stati. Israele dal canto suo respinge le accuse, sostenendo che ogni bombardamento mira a colpire solo obiettivi militari e che le perdite civili sono causate dalla presenza di infrastrutture di Hamas in aree urbane densamente popolate. Il Vaticano, però, rimane critico e auspica che tutte le parti si impegnino per limitare il più possibile le sofferenze della popolazione, garantendo accesso umanitario e rispetto delle regole internazionali.

Durante l’incontro sono stati affrontati anche i temi della protezione delle minoranze religiose e delle comunità cristiane, che in Medio Oriente continuano a subire persecuzioni ed emigrazione forzata. Il pontefice ha sottolineato il valore delle scuole cattoliche, dei centri di accoglienza sociale e dei progetti di coesione che contribuiscono quotidianamente alla promessa di una pace concreta.

Papa Leone ha ripetuto il suo appello per il cessate il fuoco: “Serve coraggio nelle scelte e il sostegno di tutta la comunità internazionale per raggiungere la pace con il riconoscimento pieno dei diritti palestinesi e della sicurezza di Israele”. Nella dichiarazione diffusa dopo l’incontro, la Santa Sede ha ribadito la richiesta di una ripresa rapida dei negoziati, la liberazione degli ostaggi, l’ingresso sicuro degli aiuti in tutte le aree colpite, il rispetto totale del diritto umanitario e il riconoscimento della legittimità delle aspirazioni dei palestinesi e degli israeliani.

Herzog ha ringraziato pubblicamente Papa Leone per l’accoglienza, auspicando una visita del pontefice in Terra Santa per rafforzare il dialogo interreligioso e la collaborazione “per un futuro di giustizia e compassione”. In cambio, il Vaticano si è impegnato a lavorare diplomaticamente per coinvolgere i principali attori globali nella definizione di una road map che porti finalmente al dialogo e alla soluzione a due Stati su cui insiste dal secondo dopoguerra.

Il peso delle parole papali è amplificato dall’urgenza che si respira nel contesto mediorientale: la diplomazia tradizionale appare stanca, il conflitto ingravescente e la comunità internazionale indecisa. Tra promesse di corridoi umanitari e richieste di cessate il fuoco, il Vaticano si pone come voce morale che richiama i governi al rispetto degli accordi internazionali e delle regole fondamentali della convivenza tra i popoli. Le trattative in corso, osteggiate dalla destra israeliana e criticate da gruppi radicali palestinesi, mostrano quanto il dialogo sia difficile ma imprescindibile.

L’incontro tra il leader spirituale della cristianità e il presidente israeliano ha avuto una forte valenza simbolica. Mai come ora il ritorno alla soluzione a due Stati appare come la porta d’accesso ad una pace negoziata, nonostante profonde divisioni e ferite ancora aperte nella regione. Il Vaticano ribadisce che solo così sarà possibile aiutare Gaza e la Cisgiordania a uscire dalla spirale di morte che si prolunga da decenni, tutelando insieme le radici storiche delle religioni, la sicurezza di Israele e la dignità del popolo palestinese.

Prima della partenza, Herzog ha ribadito l’invito al pontefice a visitare Israele e Gaza, segno di apertura e volontà di dialogo. Papa Leone, come già il suo predecessore, resta convinto che il ruolo della Chiesa e della diplomazia vaticana sia fondamentale per mantenere viva la speranza di una pace giusta. La soluzione a due Stati, promossa con decisione dalla Santa Sede, si conferma come il nodo essenziale attorno a cui ruotano tutte le speranze per il futuro del Medio Oriente.

La strage silenziosa di Gaza: una crisi umanitaria senza via d’uscita, oltre 64.000 vittime

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Il bilancio delle vittime a Gaza ha superato la soglia impressionante di 64.000 morti: un dramma umano senza precedenti e testimonianza della devastazione prodotta dalla guerra tra Israele e Hamas che dura ormai da quasi due anni. I dati sono stati diffusi dal Ministero della Sanità di Gaza, gestito dall’amministrazione Hamas e considerati affidabili da molte agenzie delle Nazioni Unite e da esperti indipendenti, anche se contestati da Israele, che però non ha finora pubblicato un proprio conteggio ufficiale. Un dettaglio significativo riguarda le ultime rilevazioni: circa 400 persone precedentemente segnalate come disperse vengono ora conteggiate come decedute, aggiornando così il bilancio globale delle morti individuate.

È fondamentale sottolineare che donne e bambini rappresentano circa metà delle vittime, secondo le stime diffuse dalle autorità. Gli ospedali di Gaza ricevono senza sosta corpi di civili e feriti gravi, e le notizie di offensiva militare israeliana nella zona di Gaza City si succedono con ritmo incalzante. Il numero dei morti continua ad aumentare giorno dopo giorno, soprattutto in seguito ai bombardamenti che colpiscono tende di sfollati e abitazioni precarie in quartieri residenziali e zone di rifugio.

A Gaza City, la situazione ha raggiunto livelli estremi di crisi. Nelle ultime ore, i raid israeliani hanno ucciso almeno 28 persone durante la notte, principalmente donne e bambini, come risulta dai registri dell’ospedale Shifa. Tra i corpi ritrovati figura anche quello di un neonato di appena 10 giorni, segno di una violenza che non risparmia nessuna fascia d’età. Nella parte meridionale della Striscia, ulteriori vittime sono state segnalate all’ospedale Nasser di Khan Younis. Le autorità sanitarie lamentano da tempo la carenza di forniture mediche e la mancanza di accesso sicuro per le ambulanze, soprattutto nelle aree più colpite dai combattimenti e dai bombardamenti. Le condizioni delle strutture ospedaliere sono drammatiche, sovraffollate, spesso prive di elettricità e con riserve di farmaci ormai esaurite, mentre il flusso di feriti non accenna a diminuire.

La crisi umanitaria è aggravata dal rischio di carestia che affligge la popolazione locale. L’ONU e le principali organizzazioni umanitarie mondiali denunciano una situazione “catastrofica”: la fame e la malnutrizione minacciano centinaia di migliaia di gazawi, colpendo in modo drastico i bambini e i malati cronici. La distribuzione degli aiuti umanitari è ostacolata dai combattimenti e dai blocchi israeliani, tanto che il Programma Alimentare Mondiale lamenta l’impossibilità di far giungere le forniture tramite camion, obbligando spesso a ricorrere a rischiose consegne via aria, che non riescono comunque a coprire il fabbisogno complessivo della popolazione. Intanto molte famiglie rischiano la vita cercando di avvicinare i punti di distribuzione o i drop aerei, mentre la tensione tra la fame e la guerra si trasforma in una lotta quotidiana per la sopravvivenza. Il rischio di morte per fame si somma a quello per i bombardamenti, creando un circolo vizioso che colpisce i più vulnerabili.

A livello diplomatico, il fronte della guerra appare bloccato. Hamas ha dichiarato di essere pronta alla restituzione di tutti gli ostaggi ancora nelle proprie mani, in cambio della liberazione dei detenuti palestinesi, del cessate il fuoco permanente, del ritiro delle forze israeliane da tutta Gaza e della riapertura dei confini, passo cruciale per la ripresa delle attività civili e la ricostruzione del territorio. Israele, tuttavia, ha respinto la proposta, etichettandola come mera propaganda, insistendo invece sul disarmo totale di Hamas, la restituzione di tutti gli ostaggi e il controllo militare sulla Striscia. Le condizioni poste dalle due parti sembrano quindi irrimediabilmente incompatibili, con il risultato che la guerra prosegue e la popolazione civile paga il prezzo più alto.

Le trattative per un cessate il fuoco, seguite nei mesi precedenti dal coinvolgimento di mediatori regionali come l’Egitto e il Qatar, si sono arenate dopo il rifiuto reciproco sulle condizioni proposte. Gli Stati Uniti hanno provato ad assumere il ruolo di mediatori, ma i negoziati si sono bloccati e non esiste al momento nessun segnale di ripresa concreta del dialogo. Le dichiarazioni delle parti continuano a essere intransigenti: Israele promette di liberare i territori di Gaza da ogni presenza armata di Hamas, mentre la fazione palestinese chiede la garanzia di poter ricostruire e vivere senza la minaccia di incursioni armate e bombardamenti indiscriminati.

Sul fronte militare, le truppe israeliane stanno portando avanti le fasi iniziali di una nuova offensiva volta a prendere il controllo di Gaza City, la zona più popolosa della Striscia. Molte delle circa un milione di persone che vivevano in città risultano sfollate e costrette a rifugiarsi in aree protette o improvvisati campi, spesso colpiti anch’essi dalle bombe. Il portavoce delle forze armate israeliane ha dichiarato che circa il 40% della città è ora sotto controllo israeliano e che le operazioni proseguiranno con ulteriore intensità nei prossimi giorni.

Israele ribadisce che i propri attacchi hanno l’obiettivo di colpire esclusivamente obiettivi militari e di evitare vittime civili, attribuendo la responsabilità dei morti a Hamas che, secondo il governo di Tel Aviv, utilizza le aree densamente abitate come basi operative. La comunità internazionale, tuttavia, esprime crescente preoccupazione per il continuo aumento delle morti tra la popolazione civile e per la difficoltà nel distinguere chiaramente tra obiettivi militari e residenziali in un contesto urbano tanto densamente popolato. Diverse organizzazioni, tra cui Human Rights Watch e Amnesty International, hanno chiesto cessate il fuoco immediato, l’apertura di corridoi umanitari e il rispetto del diritto internazionale, incluse le regole sulla protezione dei civili nei conflitti armati.

La gravità della crisi umanitaria mette in discussione la capacità del sistema internazionale di intervenire efficacemente e tutelare i diritti fondamentali della popolazione palestinese. Il dramma della fame e della mancanza di cure mediche si traduce anche in una pressione psicologica costante sui sopravvissuti, che vivono nella paura permanente. Molti bambini hanno perso intere famiglie e si ritrovano orfani e traumatizzati da esperienze di bombardamenti, distruzione e violenza. La distruzione materiale è confermata dai dati satellitari: vastissime aree di Gaza sono ridotte in macerie, scuole e ospedali distrutti, infrastrutture irrecuperabili e sistemi idrici e fognari compromessi per anni.

Nel contesto del conflitto, i tentativi internazionali di porre fine alle ostilità non hanno dato i frutti sperati. Più di cento organizzazioni no profit hanno denunciato la strumentalizzazione del flusso degli aiuti da parte delle autorità israeliane, bloccando l’ingresso di forniture vitali. Scene di disperazione popolano i report delle agenzie umanitarie: donne e bambini morti in fila per il cibo, giovani spinti dalla fame rischiano la vita nell’inseguire gli airdrop di farine e medicinali, medici costretti a lavorare senza strumenti, feriti e malati che non trovano alcuna possibilità di salvezza.

Ciò che sta avvenendo nella Striscia di Gaza pone domande sul futuro dell’intera regione, alimentando la spirale di odio e vendetta tra le popolazioni e rendendo sempre più difficile un vero processo di pace. Decine di rapporti delle organizzazioni internazionali mettono in evidenza il drammatico impatto sui minori, con un’intera generazione cresciuta tra macerie, fame, violenza e privazioni.

La popolazione di Gaza, stremata da continui bombardamenti e una crisi umanitaria senza precedenti, si trova oggi in condizioni di sopravvivenza estrema. La cifra di 64.000 morti è il simbolo più duro di una guerra che sembra non trovare soluzione. E mentre le diplomazie mondiali continuano a dibattere su come porre fine alle ostilità, il prezzo pagato dagli abitanti di Gaza è incalcolabile.

Putin e la linea rossa: “I soldati stranieri in Ucraina saranno bersagli legittimi”

Vladimir Putin ha dichiarato che qualsiasi contingente militare straniero inviato in Ucraina prima della firma di un accordo di pace sarebbe considerato un “bersaglio legittimo” dalle forze russe, una posizione che rilancia la tensione diplomatica e militare tra Mosca e l’Occidente. Queste affermazioni, pronunciate durante il Forum Economico Orientale a Vladivostok, arrivano appena dopo il rinnovato impegno europeo verso un potenziale dispiegamento di forze di “rassicurazione” in Ucraina, non appena i combattimenti terminassero.

Putin ha ribadito con fermezza che la presenza di truppe straniere oggi, nel vivo delle ostilità, le rende un obiettivo dichiarato per l’apparato militare russo. Non si tratta di una minaccia velata, ma di una chiara linea rossa: qualsiasi truppa occidentale schierata sul suolo ucraino, sia in qualità di forza di pace sia come garanzia di sicurezza, vedrebbe la sua incolumità a rischio diretto. Questo scenario si inserisce in una dinamica complessa, in cui Mosca rifiuta categoricamente qualsiasi formula di peacekeeping che preveda soldati di altri Paesi in Ucraina, sia nel periodo bellico che in quello successivo.

Il dibattito si è intensificato dopo l’iniziativa del presidente francese Emmanuel Macron, che ha annunciato che 26 alleati dell’Ucraina hanno dato la propria disponibilità a mandare truppe, navi o equipaggiamenti, nel periodo post-cessate il fuoco, per garantire la sicurezza e la stabilità del Paese aggredito. La coalizione di Parigi, composta da 35 Stati, punta a fornire una presenza internazionale capace di scoraggiare nuove aggressioni russe e di proteggere il fragile equilibrio che si verrebbe a creare dopo una eventuale firma sulla pace. Macron, inoltre, ha sottolineato che questa forza non ha l’obiettivo di combattere contro il Cremlino, ma di tutelare la sicurezza ucraina.

Mosca, tuttavia, ribadisce con forza che tale presenza non solo non garantirebbe la sicurezza dell’Ucraina, ma al contrario metterebbe in gioco la stabilità della regione e costituirebbe una minaccia anche verso la Russia stessa. Il portavoce presidenziale Dmitry Peskov ha sostenuto che le garanzie di sicurezza richieste da Kyiv non possono essere assicurate tramite contingenti militari stranieri, in quanto ciò minerebbe inevitabilmente la sicurezza della Federazione Russa. Tale posizione è rafforzata dalla narrativa russa che identifica la presenza della NATO e di forze occidentali nei Paesi limitrofi come un’escalation e una rottura degli equilibri storici nell’area. Mosca accusa quindi le proposte europee di essere una provocazione.

Parallelamente, Putin ha respinto la possibilità di uno schieramento internazionale anche dopo la pace, sostenendo che non ci sarebbe più nessuna necessità di truppe straniere qualora si raggiungesse un accordo realmente stabile e duraturo. In questo quadro, il leader russo ha dichiarato che la volontà di Mosca è quella di rispettare integralmente ogni trattato firmato, auspicando che entrambi gli Stati coinvolti, Russia e Ucraina, possano vedere riconosciute reciproche garanzie di sicurezza. Il presidente russo ha rilanciato anche l’ipotesi di un incontro con Zelensky, proponendo come sede Mosca stessa e garantendo la protezione totale della delegazione ucraina, un gesto che però Kyiv ha rifiutato poiché non intende negoziare nella capitale russa, preferendo un contesto neutrale.

La questione delle garanzie di sicurezza è centrale nella strategia ucraina: Kyiv teme infatti che senza impegni formali e la presenza internazionale, Mosca possa riorganizzarsi e lanciare nuove offensive, vanificando i risultati di eventuali negoziati di pace. Zelensky si è detto favorevole al coinvolgimento di Washington in un piano di sicurezza, precisando però che la formula di questa partecipazione è ancora in discussione. Gli Stati Uniti hanno affermato di essere disponibili a valutare il proprio coinvolgimento, tramite Macron e altri interlocutori, ma sono al momento lontani dal fornire dettagli operativi o tempistiche concrete.

La posizione russa, negativa e granitica verso qualsiasi presenza occidentale, si inserisce in un contesto di sfida geopolitica più ampia, dove Mosca vede nell’iniziativa europea un rischio militare diretto, ma anche un tentativo di consolidare l’influenza occidentale ai confini russi. L’invasione su larga scala, iniziata il 24 febbraio 2022 e anticipata dall’annessione della Crimea, ha generato anche una reazione sulla governance della sicurezza paneuropea, con oscillazioni tra volontà di deterrenza e timori di escalation. Alcuni osservatori avvertono che un dispiegamento di peacekeepers potrebbe trasformarsi in una trappola strategica per l’Europa, poiché la reazione russa potrebbe estendersi anche al di fuori dell’Ucraina, creando nuovi scenari di pressione.

Gli Stati europei infatti, pur mostrando un fronte apparentemente compatto, sono chiamati a riflettere sulla reale capacità di intervenire a tutela di Kyiv, senza provocare un’escalation oltre il territorio ucraino. Alcuni esperti di relazioni internazionali, però, mettono in guardia: abbandonare l’Ucraina, rinunciando al dispiegamento di forze, significherebbe dare via libera a Mosca per nuove azioni aggressive e indebolire la credibilità occidentale nell’intera regione.

La drammatica escalation verbale registrata negli ultimi giorni non sembra portare a una rapida soluzione negoziale. In assenza di segnali concreti, la discussione sulla presenza di truppe stranieri rimane speculativa, ma la deterrenza esercitata dalla minaccia russa è intesa da Mosca come un elemento fondamentale della sua strategia. La battaglia per le garanzie di sicurezza, tra richieste ucraine e veto russo, è la vera posta in gioco per il futuro del conflitto e della stabilità europea. In questa complessa partita, i margini di manovra delle diplomazie occidentali appaiono stretti, e la concreta applicabilità delle proposte di Parigi, Bruxelles e Washington va ancora misurata alla luce delle reazioni di Mosca.

Putin, dopo oltre tre anni e mezzo di guerra, mantiene un profilo inflessibile e rilancia la sua influenza proprio nelle ore in cui la discussione internazionale prova a trovare nuove soluzioni per la pace. Il concetto di “bersagli legittimi” suona come un avvertimento, ma anche come un chiaro segnale volto ad alimentare preoccupazione nelle cancellerie occidentali, quasi a voler congelare qualsiasi iniziativa multilaterale prima ancora di raggiungere un vero compromesso.

Forno elettrico ex Ilva, tra sogni di rilancio e incubo ambientale: le ombre del consenso istituzionale

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Il consenso unanime raggiunto a Genova sul progetto del forno elettrico per l’ex Ilva di Cornigliano nasconde una realtà più complessa di quanto le dichiarazioni istituzionali lascino intendere. Dietro i numeri rotondi degli investimenti da 1,3 miliardi e le promesse di centinaia di posti di lavoro, si celano interrogativi ambientali che dividono profondamente la città e che riportano alla memoria i fantasmi di un passato industriale che ha lasciato cicatrici profonde nel tessuto urbano del Ponente genovese.

La sindaca Silvia Salis, nel dare il suo benestare al progetto, ha dovuto fare i conti con una contraddizione che attraversa tutta la sua amministrazione. Da un lato il riconoscimento che “la tecnologia sia cambiata” e che esistano “rassicurazioni dal punto di vista di ricaduta ambientale con basi scientifiche molto solide”, dall’altro la consapevolezza di “capire la rabbia dei cittadini” per quello che è successo nei decenni passati. Questa duplicità di posizione rivela quanto sia complesso bilanciare le necessità economiche con le preoccupazioni sanitarie di un territorio che porta ancora i segni di decenni di inquinamento industriale.

La tecnologia del forno elettrico ad arco, pur rappresentando un significativo passo avanti rispetto ai vecchi altoforni, non è esente da impatti ambientali che potrebbero riaccendere le preoccupazioni dei residenti di Cornigliano. Secondo gli studi tecnici più recenti, questo tipo di impianto produce comunque tra i 10 e i 20 chilogrammi di polveri per ogni tonnellata di acciaio lavorato, polveri che contengono inevitabilmente metalli pesanti come zinco, cadmio, piombo, arsenico e mercurio. La differenza sostanziale rispetto al passato sta nei sistemi di filtrazione, ma la produzione di sostanze potenzialmente nocive rimane una costante del processo siderurgico.

Il ministro Adolfo Urso e il governatore Marco Bucci hanno puntato molto sull’aspetto della sostenibilità dell’operazione, definendo il progetto come parte della strategia di decarbonizzazione della siderurgia italiana. Tuttavia, la sostenibilità del forno elettrico dipende criticamente dalla fonte di energia utilizzata. Se l’elettricità proviene da fonti fossili, le emissioni di CO2, pur ridotte rispetto all’altoforno tradizionale, rimangono significative. La Liguria, con un mix energetico ancora dipendente dai combustibili fossili, potrebbe non garantire quella neutralità carbonica che viene spesso evocata come principale vantaggio della tecnologia elettrica.

La questione della materia prima rappresenta un altro nodo critico spesso trascurato nel dibattito pubblico. Il forno elettrico lavora prevalentemente rottami metallici, e la qualità di questi materiali di scarto determina direttamente l’impatto ambientale dell’intero processo. I rottami possono contenere sostanze radioattive provenienti da apparecchiature mediche dismesse, PCB da vecchi trasformatori, vernici al piombo da demolizioni automobilistiche. La selezione e il controllo di questi materiali richiede procedure complesse che, se non gestite correttamente, possono trasformare il processo di riciclo in una fonte di contaminazione.

I comitati cittadini, che hanno scelto di non partecipare al tavolo ministeriale organizzando invece una manifestazione di protesta, rappresentano la voce di chi ha vissuto sulla propria pelle le conseguenze dell’inquinamento industriale. Il comitato “No forno elettrico” considera “un incubo il ritorno della produzione a caldo nella delegazione del Ponente”, una posizione che affonda le radici in decenni di convivenza forzata con le emissioni degli impianti siderurgici. La memoria collettiva di Cornigliano è segnata da tassi di patologie respiratorie superiori alla media regionale, da decessi per tumore polmonare che hanno interessato intere famiglie, da bambini costretti a crescere respirando aria inquinata.

La sindaca Salis ha riconosciuto implicitamente questi timori parlando di “approfondimenti ambientali” richiesti, ma la natura di questi approfondimenti rimane vaga nelle dichiarazioni pubbliche. Gli studi di impatto ambientale per impianti di questo tipo dovrebbero includere valutazioni dettagliate delle emissioni diffuse, analisi dei venti dominanti per determinare la dispersione degli inquinanti, monitoraggio delle polveri sottili e ultrasottili che rappresentano il maggior rischio per la salute umana. Tuttavia, spesso questi studi vengono condotti utilizzando parametri standard che non tengono conto delle specificità del territorio e della densità abitativa dell’area.

Il progetto prevede la liberazione di 300mila metri quadrati di aree industriali per altre attività, un aspetto presentato come benefico ma che nasconde ulteriori criticità ambientali. Questi terreni, dopo decenni di attività siderurgica, potrebbero necessitare di costose operazioni di bonifica prima di poter essere riutilizzati. La caratterizzazione dei suoli, la rimozione di eventuali contaminanti, il monitoraggio delle falde acquifere rappresentano costi ambientali ed economici spesso sottovalutati nella fase iniziale dei progetti di riconversione industriale.

L’aspetto più preoccupante emerso durante gli incontri in prefettura riguarda la gestione dei rifiuti prodotti dal processo. Un forno elettrico genera tra 0,2 e 0,5 tonnellate di rifiuti speciali per ogni tonnellata di acciaio prodotto, rifiuti che includono scorie, polveri filtrate, refrattari esausti e fanghi di depurazione. Questi materiali, classificati spesso come pericolosi, richiedono sistemi di smaltimento specializzati che possono rappresentare un ulteriore fattore di rischio ambientale se non gestiti con procedure rigorose.

La mancanza di trasparenza sui soggetti che dovranno realizzare l’investimento aggiunge ulteriori elementi di incertezza. Come ha sottolineato lo stesso ministro Urso, sono gli investitori privati che dovranno presentare il piano industriale, ma l’identità di questi soggetti rimane ancora indefinita. La storia della siderurgia italiana è costellata di promesse industriali non mantenute, di investimenti annunciati e mai realizzati, di standard ambientali dichiarati ma non rispettati. La paura espressa dalla sindaca Salis che “questa gara vada deserta” potrebbe rivelarsi meno preoccupante di uno scenario in cui investitori poco affidabili ottengano le autorizzazioni per poi non rispettare gli impegni ambientali assunti.

Il coinvolgimento del sindacato nell’accordo, pur importante dal punto di vista sociale, non può mascherare il fatto che le organizzazioni dei lavoratori hanno storicamente privilegiato la salvaguardia dell’occupazione rispetto alle considerazioni ambientali. Questa dinamica, comprensibile dal punto di vista umano e sociale, ha spesso portato a compromessi al ribasso sugli standard di sicurezza ambientale, con le comunità locali costrette a subire le conseguenze sanitarie di scelte dettate da necessità economiche immediate.

L’operazione genovese si inserisce in un contesto europeo di transizione energetica che presenta ancora molte contraddizioni. Mentre l’Unione Europea spinge verso la decarbonizzazione dell’industria pesante, la concorrenza dei prodotti siderurgici asiatici, realizzati spesso con tecnologie molto inquinanti, rischia di rendere vani gli sforzi ambientali se non accompagnata da misure protettive del mercato interno. Il paradosso è che l’industria europea potrebbe diventare più pulita ma meno competitiva, spingendo la produzione verso paesi con standard ambientali più permissivi e aumentando, di fatto, l’inquinamento globale.

La questione del forno elettrico a Cornigliano rappresenta, dunque, molto più di una semplice operazione industriale. È il simbolo delle contraddizioni di una società che deve conciliare sviluppo economico, sostenibilità ambientale e giustizia sociale in un territorio che porta ancora le ferite di scelte industriali passate. Il consenso istituzionale raggiunto, per quanto importante dal punto di vista politico, non può cancellare i legittimi timori di una comunità che chiede garanzie concrete sulla propria salute e su quella delle generazioni future.

Indonesia: tensione e richieste di verità scuotono il Paese

Jakarta è al centro di una delle più gravi crisi sociali dell’ultimo decennio in Indonesia, dove l’ondata di proteste esplosa contro i benefici extralussuosi destinati ai parlamentari ha rapidamente assunto una dimensione nazionale. Le manifestazioni hanno travolto le principali città dell’arcipelago, lasciando il Paese sospeso tra rabbia, paura e sgomento. Secondo la Commission for the Disappeared and Victims of Violence (KontraS) sono almeno venti le persone scomparse durante gli scontri, una cifra che si aggiunge ai molti arresti e alle vittime causate da una gestione delle piazze che è sempre più sotto accusa.

Il movimento di protesta, nato in reazione alla scoperta che ogni deputato riceveva un’indennità mensile per l’alloggio pari a circa 3 mila dollari, quasi dieci volte il salario minimo di Jakarta, si è diffuso rapidamente dalle strade della capitale alle città di Bandung, Depok, e alle aree amministrative di Central, East e North Jakarta. Le proteste non hanno riguardato solo la corruzione e i privilegi parlamentari, ma sono state alimentate dal crescente malcontento per la disoccupazione, l’austerità, l’inflazione e la brutalità delle forze dell’ordine. La scintilla definitiva è stato il video diventato virale in cui un giovane corriere veniva ucciso da un veicolo della polizia durante gli scontri, gettando nello sconforto migliaia di famiglie e intensificando la rabbia verso le forze dell’ordine.

Durante la settimana di manifestazioni, la pressione sulle istituzioni è salita in modo vertiginoso. Il presidente Prabowo Subianto si è visto costretto a ritirare molte delle agevolazioni e dei benefit concessi ai parlamentari; ha annullato il suo viaggio, previsto tra fine agosto e inizio settembre, durante il quale avrebbe partecipato al vertice SCO a Tianjin e alla parata del Victory Day a Pechino, e ha sospeso i viaggi ufficiali dei parlamentari, procedendo a una revisione delle indennità. Ma la sua marcia indietro non è bastata a placare la protesta, che si è fatta più violenta con il passare dei giorni. La capitale e le altre città sono state presidiate da reparti militari e dalla polizia antisommossa che hanno cercato di bloccare manifestanti e scontri davanti al parlamento, provocando una escalation di tensioni con l’arresto di oltre 1.200 persone dal 25 agosto. La situazione a Jakarta si è fatta talmente caotica che, secondo le fonti locali, il bilancio dei giorni più drammatici conta almeno sei vittime ufficiali, con altre fonti internazionali che arrivano a parlare di otto morti.

Il ruolo della polizia è stato ora messo sotto la lente di osservazione dalla comunità internazionale, in particolare dalle Nazioni Unite, che hanno chiesto indagini approfondite sull’uso sproporzionato della forza. L’arresto di Delpedro Marhaen, noto attivista e direttore della ONG Lokataru Foundation, accusato di incitamento alla rivolta, è stato solo l’ultimo episodio in un crescendo di tensioni fra società civile e apparato statale. Secondo KontraS, la maggior parte delle venti persone scomparse proviene dalle aree urbane di Java ed è composta da giovani e studenti, coinvolti negli scioperi e nei cortei, ridotte al silenzio da sparizioni improvvise e gesti di violenza non identificata. Nonostante gli sforzi dei familiari e delle organizzazioni civili, la polizia e le autorità nazionali non hanno ancora fornito risposte esaustive sulla sorte degli scomparsi.

La dinamica delle proteste ha seguito uno schema ormai noto: manifestazioni inizialmente pacifiche che si tramutano in scontri violenti, barricades improvvisate, incursioni nelle sedi governative, assalti alle abitazioni dei ministri come quella di Sri Mulyani Indrawati. In molte circostanze, gli studenti si sono uniti ai lavoratori e ai disoccupati, marciando con striscioni e cori che chiedevano giustizia sociale e fine della corruzione. Tuttavia, l’intervento della polizia ha spesso anticipato i raduni con l’uso di cannoni ad acqua, lacrimogeni e massicce cariche che hanno disperso i manifestanti nelle vie adiacenti.

Le sparizioni si sono concentrate soprattutto durante questi momenti di caos, con testimoni che parlano di persone prelevate senza spiegazioni nei pressi di barricate e luoghi di scontro, e avvistamenti in località difficilmente identificabili. Alcuni giovani che cercavano di mettersi al riparo hanno riferito di essere stati inseguiti, mentre altre fonti raccontano di sequestri nei pressi delle stazioni ferroviarie e nei quartieri periferici di Jakarta. L’indignazione della società civile cresce di pari passo con la frustrazione di chi teme di non rivedere più i propri cari.

L’eco delle rivolte non si è limitata alla sola metropoli: in tutto l’arcipelago indonesiano si sono registrati cortei e raduni spontanei anche a Gorontalo, Sulawesi, e in altre città medie, a dimostrazione della portata nazionale della crisi. Il bilancio delle proteste è aggravato dalla mancanza di trasparenza e dalla diffusa percezione di impunità per le forze di sicurezza, un tema che si riflette nelle richieste di giustizia che animano le piazze.

Mentre il presidente Prabowo si trova costretto a gestire una crisi che rischia di minare la stabilità dell’intero sistema politico indonesiano, la pressione internazionale diventa sempre più intensa. Le parole della portavoce dell’ONU Ravina Shamdasani hanno sottolineato come “la violenza e la sparizione di persone non possono essere tollerate”, e hanno riaperto il dibattito sulla necessità di riforme e sull’urgenza di garantire diritti istituzionali ai cittadini. Le famiglie continuano ad attendere risposte dalle autorità e dagli organismi di sicurezza, mentre la società civile indonesiana si mobilita per chiedere chiarezza e giustizia per i venti scomparsi.

La situazione rimane tesa e le prospettive incerte. Le proteste contro i privilegi parlamentari, nate come manifestazione di disagio economico e sociale, si sono trasformate in una rivolta contro l’intero sistema, obbligando le istituzioni a rivedere le proprie politiche e a rafforzare meccanismi di trasparenza e responsabilità. In strada, giovani, studenti e lavoratori chiedono non solo la restituzione dei fondi pubblici, ma anche il rispetto della dignità, della vita e della sicurezza individuale. Il dramma delle venti persone scomparse è diventato il simbolo di una ferita collettiva che attraversa tutti gli strati della società indonesiana.