04 Settembre 2025
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Alle radici della strana alleanza PD–M5S

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La politica italiana sta vivendo una stagione cruciale, fatta di dialoghi sotterranei, trattative estenuanti e alleanze che, fino a poco tempo fa, sarebbero state considerate improbabili. Uno dei più emblematici esempi di questo nuovo corso politico è il rapporto tra Paola Taverna e Igor Taruffi, ribattezzati da molti come la strana coppia incaricata di guidare le trattative tra Partito Democratico e Movimento 5 Stelle per la scelta dei candidati alle prossime elezioni regionali. Figure centrali, diverse per biografia e temperamento, che si trovano ora al centro di una partita destinata a segnare il futuro del centrosinistra italiano.

Igor Taruffi

All’interno di questo scenario così complesso, Igor Taruffi rappresenta il volto pragmatico e ragionevole del Partito Democratico guidato da Elly Schlein. Cresciuto politicamente in Emilia-Romagna, Taruffi viene spesso dipinto come il “braccio destro” della segretaria, colui che sa mischiare la determinazione al dialogo, grazie anche a una certa bonomia personale che lo rende abile mediatore. Schlein, consapevole delle sfide che l’attendono, ha affidato proprio a lui il compito di tessere la tela delle alleanze locali: “Testardamente unitari” è il mantra che accompagna il team di Taruffi, convinto che, in tutte le regioni chiamate al voto, l’intesa tra PD e M5S sia la sola strada possibile per competere realmente contro il centrodestra.

Paola Taverna

Sul fronte opposto, ma solo apparentemente, c’è Paola Taverna, ex vicepresidente del Senato e storica esponente pentastellata, ora assunta ufficialmente dallo stesso Movimento dopo aver esaurito i mandati parlamentari. Figura molto popolare tra la base grillina e dotata di una forte capacità di rappresentanza, Taverna si muove con disciplina rigida, determinata a non concedere alcuna subordinazione rispetto agli alleati del PD. La sua presenza nella trattativa, voluta esplicitamente da Giuseppe Conte, ha lo scopo di rafforzare il profilo di autonomia del Movimento, ormai deciso a non accettare passivamente ogni proposta proveniente dal Nazareno, pur senza precludere la via del dialogo.

La peculiarità di questo tandem risiede proprio nelle loro differenze. Se Taruffi viene da Porretta Terme, portando con sé i saperi e le pratiche della “vecchia scuola” dell’Emilia rossa, Taverna è il volto spigoloso e popolare della periferia romana, cresciuta fra la gente di Torre Maura, un quartiere non facile e che ne ha forgiato le doti di combattente. Insieme, si trovano a dover affrontare la sfida di una convergenza politica dove le differenze programmatiche e culturali rischiano di pesare più delle eventuali intese personali.

Trattative e mediazioni

Nei numerosi incontri riservati che si svolgono tra Roma e le varie capitali regionali, i due portano avanti una trattativa fatta di continue mediazioni, protagonisti di lunghi confronti su candidati, programmi e priorità. La regola non scritta del confronto tra Taverna e Taruffi è che nulla viene dato per scontato: ogni candidatura, ogni formula programmatica deve essere discussa, pesata, valutata rispetto alle ripercussioni sulla rispettiva base elettorale. Questo lavorìo capillare riflette sia la fragilità che il potenziale di una coalizione che può rappresentare, per la prima volta in maniera credibile, un’alternativa ad anni di dominio del centrodestra.

Agli osservatori più attenti non sfugge come il “campo largo” promosso da Schlein abbia bisogno, oggi più che mai, di interpreti capaci di tenere insieme sensibilità apparentemente inconciliabili: il rischio, certamente concreto, è quello di un’alleanza semplicemente aritmetica e non realmente politica, cioè incapace di tradursi in un progetto unitario e riconoscibile agli occhi degli elettori. Eppure, le ultime tornate elettorali hanno dimostrato che la somma tra le forze del centrosinistra e del M5S, unita alle sigle minori e agli ambientalisti, può effettivamente insidiare una destra che appare compatta soprattutto nelle urne, non altrettanto nei confronti delle emergenze sociali, economiche e ambientali.

Nel retroscena di queste trattative, si trovano mille dettagli curiosi che restituiscono il clima delle infinite discussioni tra Paola e Igor. Si racconta, ad esempio, della caparbietà con cui Taruffi riesce a mantenere la calma anche nei momenti di più alta tensione, oppure della fermezza con cui Taverna sa porre il veto su candidature che non ritiene all’altezza delle aspettative del Movimento 5 Stelle. In tutto questo, nessuno dei due perde mai di vista l’obiettivo di fondo: mostrare al proprio elettorato che l’alleanza è una scelta strategica, non una sottomissione reciproca, ma un compromesso necessario per contendere il governo delle Regioni e, più in là, del Paese.

Il banco di prova della collaborazione

La missione dei due negoziatori non è priva di ostacoli: nell’ultima stagione politica, il centrosinistra si è spesso trasformato in un vero e proprio laboratorio di alchimie instabili, dove alla fine ha prevalso il senso di responsabilità verso il destino di un’opposizione che non può più permettersi divisioni sterili. Tuttavia, nessuno ha dimenticato i tanti segnali di insofferenza provenienti soprattutto dalla componente più movimentista del M5S, poco incline a sottostare agli equilibri imposti da un partito considerato, ancora oggi, “di sistema”. Per questo motivo, la partita delle regionali rappresenta molto di più di una semplice tornata amministrativa: è il vero banco di prova per una collaborazione che può ridefinire i rapporti a sinistra e dare un senso compiuto all’idea di alternativa alla destra populista e sovranista che governa il Paese.

Durante i conciliaboli di questi giorni, risulta chiaro come la posta in gioco sia particolarmente alta: le Regioni coinvolte sono strategiche non solo sul piano politico, ma anche su quello simbolico. Qui si misura la capacità di riaccendere la partecipazione, assottigliare il fenomeno dell’astensione e, soprattutto, presentarsi come una coalizione capace di governare e non solo di opporsi. Nelle dichiarazioni ufficiali, sia dal Nazareno che dal quartier generale pentastellato, si ribadisce la volontà di andare oltre la mera sommatoria delle sigle, puntando su candidati di alto profilo, credibili e radicati nei rispettivi territori.

La leadership di Elly Schlein spinge verso una linea di chiarezza e unità. Dal canto suo, il Movimento guidato da Conte vede nella partecipazione al processo di selezione dei candidati la possibilità di riaffermare la centralità della propria azione politica, al di là delle difficoltà incontrate negli ultimi mesi. Schlein e Conte, pur con tutte le differenze di percorso e stile, condividono la consapevolezza che l’elettorato chiede una risposta nuova alle mille emergenze sociali ancora irrisolte.

Mentre le trattative procedono, si moltiplicano anche le indiscrezioni su possibili nomi e strategie. Nessuno dei due leader, però, si lascia sfuggire nemmeno un commento fuori posto. Il compito di comunicare i progressi e, se necessario, i momenti di stallo è solo dei due mediatori. Un equilibrio delicatissimo, che impone a entrambi di non apparire mai troppo arrendevoli, ma nemmeno pronti allo scontro frontale che nuocerebbe irrimediabilmente alla costruzione di una credibile alleanza di governo.

La posta in gioco, quindi, non riguarda più soltanto le posizioni o le candidature, ma il futuro dei due principali soggetti dell’opposizione, chiamati a superare una storica diffidenza reciproca per cogliere la sfida di una stagione politica segnata da incertezza e crisi della rappresentanza. Il lavoro oscuro di Paola Taverna e Igor Taruffi resterà probabilmente nell’ombra, ma il suo esito sarà determinante per il progetto di “campo largo” che tanti auspicano e che oggi appare, per la prima volta dopo molto tempo, una possibilità concreta e non solo uno slogan da campagna elettorale.

L’Unione Europea approva un nuovo pacchetto di sanzioni contro la Russia

Il 18 luglio 2025 segna un nuovo punto di svolta nella strategia dell’Unione Europea verso la Russia. A Bruxelles, dopo settimane di intense negoziazioni e grazie allo sblocco decisivo del veto slovacco, i Paesi membri hanno dato il via libera a un nuovo pacchetto di sanzioni contro Mosca, una misura che, per portata e profondità, viene già definita dagli stessi funzionari europei “la più ambiziosa e severa mai concepita dal blocco comunitario”.

L’obiettivo centrale resta quello di colpire in modo sistematico le fondamenta finanziarie ed energetiche della macchina bellica russa, indebolendo la capacità di Mosca di sostenere economicamente e logisticamente l’aggressione all’Ucraina. Questa nuova tornata di sanzioni arriva in un momento cruciale, mentre la guerra in Ucraina è ormai entrata nel suo quarto anno e il Cremlino mostra segni di pressione, ma non accenna a ridurre la portata delle operazioni militari.

La trattativa Ue

La decisione della UE è maturata attraverso una trattativa estenuante, in cui la Slovacchia, strettamente legata alle forniture di gas russo, ha posto ripetutamente il proprio veto. Solo il raggiungimento di specifiche garanzie in merito al graduale phase-out delle importazioni di gas da Mosca ha permesso di superare lo stallo e portare l’intesa sul tavolo del Consiglio Europeo. Non meno fondamentale è stato il lavoro diplomatico portato avanti dalle principali cancellerie europee, determinate a ribadire la fermezza occidentale di fronte all’aggressione russa e a mantenere l’unità del blocco nonostante le divergenze interne.

Uno dei pilastri del nuovo pacchetto riguarda il rafforzamento delle misure sul settore energetico russo, cuore pulsante delle entrate statali della Federazione. La novità di maggiore rilievo è la fissazione di un nuovo price cap sul petrolio russo: il tetto per il greggio viene abbassato dagli storici 60 dollari a 47,6 dollari al barile, con una formula dinamica che garantirà un livello pari al 15% in meno rispetto alla media di mercato e sarà aggiornata ogni sei mesi, o più frequentemente in caso di forti variazioni del mercato globale. Questa misura, sostenuta dalla UE e dai partner G7 (anche se senza il sostegno statunitense), intende tagliare alle radici una delle principali fonti di valuta pregiata per Mosca e ridurre la capacità del Cremlino di finanziare il conflitto.

Tecnicamente, il meccanismo si traduce in una paralisi logistica e assicurativa per tutte le spedizioni di greggio russo che supereranno il nuovo tetto, poiché sarà vietato alle compagnie di navigazione e assicurazione con sede nella UE, in Canada e nel Regno Unito prestare assistenza a queste transazioni. Il target? Una cosiddetta shadow fleet di oltre 400 petroliere, la flotta “ombra” utilizzata da Mosca per eludere le restrizioni e piazzare il proprio greggio nei mercati di Asia, Africa e Medio Oriente. Altri 105 tankers sono stati aggiunti alla lista nera e perderanno il diritto di attraccare nei porti UE o ricevere servizi da soggetti europei. È un colpo destinato a produrre effetti potenzialmente devastanti non solo sulle entrate russe, ma anche sulla capacità operativa della flotta commerciale di Mosca.

Un altro punto nodale riguarda la messa al bando di tutte le operazioni collegate ai gasdotti Nord Stream, ormai non più attivi ma il cui riavvio era ritenuto da Bruxelles una minaccia concreta in future fasi di crisi energetica. Con queste nuove regole, nessun operatore europeo potrà più intrattenere rapporti, diretti o indiretti, legati alla struttura dei gasdotti. È la chiusura definitiva di un capitolo della storia energetica continentale e un chiaro segnale politico di irreversibilità della rottura tra UE e Mosca almeno sul fronte delle infrastrutture.

Blocco totale delle transazioni

Il braccio finanziario delle sanzioni prosegue con il blocco totale delle transazioni con ben 22 istituti bancari russi, tra cui il Russian Direct Investment Fund e le sue società controllate. Si rafforza inoltre l’embargo sulle esportazioni di beni a doppio uso, quelli cioè dotati di possibili applicazioni militari, e si amplia la lista delle tecnologie vietate alla Russia, in particolare nei comparti strategici che spaziano dall’elettronica alla meccanica di precisione fino ai componenti sofisticati per l’industria della difesa. Anche il settore delle telecomunicazioni viene colpito dal nuovo giro di vite, con la sospensione delle licenze di trasmissione per diverse testate parte della macchina di propaganda russa.

Da segnalare anche l’introduzione di misure secondarie riguardanti la lotta all’elusione delle sanzioni da parte di intermediari di Paesi terzi, in particolare due banche cinesi e una delle principali raffinerie indiane di proprietà di Rosneft. La UE, adottando questo approccio, mira a limitare la capacità di Mosca di aggirare i divieti, sfruttando triangolazioni o la complicità di attori economici internazionali restii ad allinearsi spontaneamente alle scelte occidentali.

Questa nuova offensiva economica non ha tardato a produrre reazioni a livello internazionale. Dalla Russia, come prevedibile, si sollevano accuse di “interferenza” e “guerra economica”, ma dagli ambienti vicini al Cremlino traspare anche una crescente preoccupazione per gli effetti sulle entrate statali e sull’accesso alle tecnologie avanzate, già messe a dura prova dai precedenti pacchetti. Gli analisti osservano che la strategia della UE si fonda su un meccanismo di pressione crescente e di adattamento continuo delle sanzioni, nella speranza di erodere nel medio termine la resilienza del sistema russo e incentivare una svolta diplomatica che resta lontana.

Particolarmente rilevante il fatto che siano stati colpiti anche i soggetti responsabili, secondo Bruxelles, della deportazione e indottrinamento di minori ucraini nelle aree occupate: una mossa che sottolinea la centralità della dimensione dei diritti umani nella risposta europea alla crisi ucraina e ribadisce la volontà di colpire ogni anello della catena repressiva russa. Ad arricchire il ventaglio delle misure approvate, figurano infine nuove restrizioni su porti, aeroporti e sulle compagnie aeree russe attive nei voli domestici, aumentando così il grado d’isolamento della Russia rispetto alle reti occidentali.

Zelensky è soddisfatto

Il presidente ucraino Volodymyr Zelensky ha accolto favorevolmente la decisione, definendola “essenziale e tempestiva”. Si tratta di una presa di posizione in linea con quanto più volte auspicato da Kiev, che aveva chiesto con forza un rafforzamento della pressione internazionale su Mosca e l’inclusione nel pacchetto di restrizioni al settore energetico, bancario e alle cosiddette flotte ombra. Zelensky ha dichiarato che “ogni nuova misura toglie un pezzo di capacità all’aggressore”, sottolineando che la coerenza europea costringerà gradualmente il Cremlino a “scegliere la diplomazia al posto della violenza”. Dal governo ucraino si sottolinea come le sanzioni siano uno strumento cruciale non solo per rallentare la macchina bellica russa, ma anche per mantenere vivo lo spirito di solidarietà euro-atlantica verso Kiev.

Il peso geopolitico di questo nuovo pacchetto è amplificato dal fatto che arriva in una fase di rinnovato coordinamento transatlantico, nonostante alcune divergenze manifestate dagli Stati Uniti, che non hanno aderito in questa fase all’ulteriore taglio del price cap. Ottawa e Londra, invece, confermano pieno sostegno. Sullo sfondo resta l’incognita sull’effettiva efficacia nel medio periodo di questa nuova tornata di sanzioni: se da un lato i dati mostrano una progressiva contrazione dell’economia russa e la perdita di “miliardi di introiti petroliferi” dal 2022 ad oggi, dall’altro il sistema russo ha dimostrato sinora notevoli capacità di adattamento e l’Occidente dovrà continuare a monitorare l’efficacia di ciascun provvedimento nel tempo.

Il lavoro degli ambasciatori dell’UE e degli organismi tecnici continuerà nelle prossime settimane, sia per assicurarsi che ogni misura venga implementata senza falle, sia per identificare eventuali ulteriori segmenti dell’economia russa cui applicare sanzioni mirate nella prospettiva della prosecuzione del conflitto. Il pacchetto ratificato segna la determinazione della UE a non abbassare la guardia e a proseguire, in sinergia con Kiev, sulla strada della pressione sistematica fino a quando Mosca non offrirà segnali di un serio cambiamento di rotta, sia sul terreno che al tavolo negoziale.

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Battaglia legale sui vitalizi: bocciato il ricorso di 800 ex deputati

La Camera dei Deputati ha chiuso definitivamente la partita sui vitalizi parlamentari, respingendo in via definitiva il ricorso presentato da circa 800 ex deputati che speravano di ottenere il ripristino degli assegni ridotti dalla controversa delibera del 2018. Il Collegio di Appello della Camera, in pratica la “Cassazione” di Montecitorio, ha confermato ieri sera l’impianto complessivo della delibera numero 14 del 2018, meglio conosciuta come “delibera Fico” dal nome dell’allora presidente della Camera Roberto Fico del Movimento 5 Stelle.

La decisione è stata presa all’unanimità dall’organismo composto da cinque deputati: Ylenja Lucaselli di Fratelli d’Italia (presidente del collegio), Ingrid Bisa della Lega, Marco Lacarra del Partito Democratico, Pietro Pittalis di Forza Italia e Vittoria Baldino del Movimento 5 Stelle. Un verdetto che ha fatto esultare Giuseppe Conte, leader del M5S, che ha definito la pronuncia “una vittoria politica e morale” per una battaglia storica del suo movimento.

Le radici della vicenda

La vicenda ha origini complesse e radici profonde nel dibattito sulla riduzione dei cosiddetti “costi della politica”. Nel 2018, sotto la presidenza di Roberto Fico, la Camera aveva infatti approvato una delibera che estendeva retroattivamente il sistema contributivo anche ai trattamenti previdenziali maturati prima del 2012, introducendo un taglio significativo agli assegni vitalizi. Questa riforma aveva comportato riduzioni anche del 90% per gli ex parlamentari più anziani, trasformando assegni da circa 4.000 euro a poco più di 1.000 euro mensili.

La situazione si era complicata ulteriormente quando, nel 2021, alcuni ex deputati più anziani avevano ottenuto una sentenza favorevole che aveva attenuato gli effetti della delibera Fico, basandosi sul principio costituzionale del “legittimo affidamento“. Questo aveva creato una disparità di trattamento, con alcuni ex parlamentari che beneficiavano di misure di mitigazione mentre altri rimanevano penalizzati dal taglio integrale. Il Senato, dal canto suo, aveva preso una strada completamente diversa: nel 2022 aveva “salvato tutti gli ex inquilini di Palazzo Madama“, indipendentemente dall’età, ripristinando integralmente i vitalizi.

Gli 800 ex deputati ricorrenti, rappresentati legalmente dall’avvocato Maurizio Paniz, avevano chiesto un trattamento analogo a quello riservato ai colleghi del Senato, sostenendo che la situazione era “irragionevolmente penalizzante” dato che tutti i risparmi sui vitalizi della Camera ricadevano ora solo su di loro, sui circa 3.300 ex deputati complessivi. Tra i nomi più noti dei ricorrenti figuravano Paolo Guzzanti, Ilona Staller, Claudio Scajola, Antonio Bassolino, Rosa Russo Iervolino, Fabrizio Cicchitto, Claudio Martelli, Italo Bocchino, Mario Landolfi, Gianni Alemanno, Giovanna Melandri e Angelino Alfano.

La battaglia legale

La battaglia legale si era sviluppata attraverso diversi gradi di giudizio interni alla Camera. Il primo ricorso era stato respinto nel luglio 2024 dal Consiglio di Giurisdizione, il “tribunale” di primo grado di Montecitorio. Gli ex deputati non si erano arresi e avevano presentato appello al Collegio di Appello, che rappresenta il secondo e ultimo grado di giudizio interno. Le udienze si erano tenute il 2 e il 10 luglio, con la decisione finale arrivata ieri sera, anticipata di un giorno rispetto alle previsioni.

La sentenza del Collegio di Appello ha confermato integralmente l’impianto della delibera Fico, respingendo tutti i punti sollevati dagli appellanti. Come spiegato dalla presidente Ylenja Lucaselli, la decisione è stata presa “all’unanimità” e le motivazioni sono già state depositate, nella convinzione di aver “reso un servizio ai principi del diritto“. Sono state inoltre confermate le misure di mitigazione già introdotte dall’Ufficio di Presidenza della scorsa legislatura per gli ex parlamentari più anziani, mantenendo quindi invariata la situazione complessiva.

La reazione politica non si è fatta attendere. Giuseppe Conte ha celebrato il risultato attraverso un video sui social media, sottolineando che “1.400 ex deputati volevano rimettersi in tasca i vitalizi” ma che la presenza del M5S nel collegio di appello aveva permesso di respingere questa richiesta. Il leader pentastellato ha colto l’occasione per una stoccata politica più ampia, evidenziando come “quando il M5S non può decidere i privilegi ritornano“, citando l’esempio del Senato dove il movimento non era rappresentato nel collegio decisionale.

Le implicazioni economiche della vicenda sono tutt’altro che trascurabili. Secondo alcune stime, se tutti i ricorrenti avessero ottenuto il ripristino integrale dei vitalizi e avessero fatto richiesta di rimborso per le somme non percepite, la cifra complessiva avrebbe potuto superare i quattro miliardi di euro. Un importo che avrebbe rappresentato un significativo onere per le casse dello Stato, soprattutto in un momento di particolare attenzione ai conti pubblici.

La decisione del collegio

La decisione del Collegio di Appello chiude sostanzialmente tutte le vie di ricorso interne alla Camera. Gli ex deputati sconfitti hanno ora esaurito gli organi giurisdizionali interni e dovranno decidere se rivolgersi in sede politica all’Ufficio di Presidenza della Camera, oggi guidato da Lorenzo Fontana. Tuttavia, questa strada appare in salita, considerando che la decisione è stata presa all’unanimità da un collegio rappresentativo di tutte le forze politiche presenti in Parlamento.

L’avvocato Maurizio Paniz, che ha seguito la difesa degli ex deputati, aveva già anticipato la possibilità di un ricorso alla Corte Europea dei Diritti dell’Uomo in caso di sconfitta. Paniz, che è stato anche beneficiario di vitalizi e si è sempre battuto per la difesa di questo istituto, aveva sostenuto che la delibera violava diversi principi fondamentali, tra cui il divieto di retroattività e la necessità di ragionevolezza nelle riduzioni.

La vicenda dei vitalizi rappresenta un capitolo emblematico del rapporto tra cittadini e istituzioni in Italia. La questione ha infatti alimentato un dibattito culturale profondo sul senso del servizio pubblico, della rappresentanza e del trattamento economico della classe dirigente. La gestione di questa materia è diventata una cartina tornasole della capacità della politica di autoriformarsi e di riconquistare la fiducia dell’opinione pubblica, in un contesto di crescente distanza tra istituzioni e cittadini.

Il caso assume particolare rilevanza anche dal punto di vista giuridico-costituzionale. La Corte Costituzionale si è pronunciata più volte sulla materia, chiarendo che i vitalizi non sono assimilabili tout court a pensioni da lavoro dipendente ma richiamano il disposto dell’articolo 69 della Costituzione, che stabilisce che i membri del Parlamento ricevono un’indennità stabilita dalla legge. La natura composita del vitalizio, con la sua funzione indennitaria, ha reso complessa l’applicazione dei principi elaborati dalla giurisprudenza costituzionale in materia pensionistica.

La differenza di trattamento tra Camera e Senato rimane uno degli aspetti più controversi dell’intera vicenda. Mentre Palazzo Madama ha sostanzialmente ripristinato i vitalizi per tutti i suoi ex membri nel 2022, la Camera ha mantenuto la linea del rigore, creando una disparità di trattamento che ha alimentato le proteste degli ex deputati. Questa asimmetria evidenzia come l’autonomia regolamentare delle due Camere possa portare a soluzioni diverse su questioni identiche, generando inevitabilmente tensioni e ricorsi.

Il verdetto di ieri sera segna probabilmente la parola fine su una delle battaglie più simboliche della XVIII legislatura. Il taglio dei vitalizi, voluto fortemente dal Movimento 5 Stelle quando era al governo, ha resistito a tutti i tentativi di ribaltamento, dimostrando che almeno in questo caso la “rivoluzione dei privilegi” promessa dai pentastellati ha avuto successo. La decisione del Collegio di Appello rappresenta una vittoria per chi vede nel taglio dei vitalizi un simbolo di equità e sobrietà istituzionale, ma anche la conferma che la politica italiana può, quando vuole, rinunciare ai propri privilegi per rispondere alle aspettative dei cittadini.

Genova e le tasse. Salis: servono 25 milioni

Il Comune di Genova ha approvato una manovra di bilancio di emergenza da 25,5 milioni di euro, definita dalla sindaca Silvia Salis come “necessaria” per garantire la continuità dei servizi pubblici essenziali. La decisione, presa durante la seduta di giunta di giovedì 17 luglio, ha come obiettivo principale quello di colmare il gap finanziario che la nuova amministrazione ha ereditato dalla precedente gestione di centrodestra.

La manovra, tecnicamente denominata “riequilibrio di bilancio”, deve essere approvata dal consiglio comunale entro la fine di luglio e rappresenta la prima grande sfida finanziaria della giunta Salis. Secondo quanto dichiarato dalla sindaca, l’amministrazione si è trovata di fronte a un fabbisogno di oltre 50 milioni di euro, una cifra che con questa manovra scende a 25 milioni.

L’aumento dell’Imu e le scelte difficili

La misura più controversa della manovra è senza dubbio l’aumento dell’aliquota Imu per i circa 27.000 alloggi a canone concordato, che passerà dallo 0,78% all’1,06%. Questa decisione, che comporterà un aumento medio di 190 euro annui per immobile, genererà un gettito di circa 5,5 milioni di euro nelle casse comunali.

La sindaca Salis ha spiegato che sappiamo che la manovra sull’Imu ha scatenato malcontento e non l’abbiamo decisa a cuor leggero, ma ha sottolineato come si sia trattata di “una scelta quasi obbligata dai tempi e dal bilancio che abbiamo ereditato”. L’amministrazione ha posto davanti a sé due strade: tagliare progressivamente i servizi pubblici oppure mantenerli chiedendo una contribuzione ai cittadini, optando decisamente per la seconda opzione.

Le proteste non si sono fatte attendere. Il sindacato degli inquilini Sunia ha definito il provvedimento come “una misura che colpirà direttamente i proprietari di case virtuosi” che scelgono di affittare a prezzi calmierati, con il rischio che l’aumento possa essere scaricato sugli inquilini o spingere i proprietari verso gli affitti brevi. Anche l’associazione dei piccoli proprietari Asppi ha duramente criticato la decisione, parlando di un “tradimento delle promesse elettorali” e di un errore grave nel giustificare l’aumento appellandosi ai servizi essenziali.

Come saranno investiti i 25 milioni

La ripartizione dei fondi reperiti mostra chiaramente le priorità dell’amministrazione Salis. Ben 7 milioni di euro andranno al settore sociale, con 4 milioni destinati agli interventi residenziali per minorenni, 1 milione per i centri servizi per le famiglie e 640.000 euro per servizi di inclusione sociale e assistenza economica per persone con disabilità.

Altri 5,7 milioni saranno dedicati ai servizi scolastici, mentre 2 milioni ciascuno andranno alla manutenzione delle strade e alla pulizia dei rivi. Il verde urbano riceverà 1,5 milioni, la cultura 1,1 milioni, la sicurezza 1,4 milioni, i progetti di digitalizzazione 2,5 milioni e il rinnovo contrattuale del personale 2 milioni.

Il confronto con la precedente amministrazione

La questione del bilancio ha scatenato un acceso botta e risposta tra la nuova amministrazione e quella uscente. La sindaca Salis, già al momento della presentazione della giunta, aveva denunciato “50 milioni di euro mancanti per il riequilibrio di bilancio”, oltre a specifici debiti come 1 milione per la tappa genovese della Ocean Race, 815.000 euro per i Balletti di Nervi, e 335.000 euro per garantire l’apertura dei musei della Lanterna e delle Emigrazioni.

L’ex vicesindaco Pietro Piciocchi ha respinto duramente le accuse, mostrando documenti che attestano 132 milioni di euro di cassa disponibile più altri 127 milioni vincolati. Piciocchi ha rivendicato otto anni di bilanci chiusi in avanzo e una riduzione del debito comunale di quasi 300 milioni di euro.

Il salario minimo comunale

Parallelamente alla manovra di bilancio, la giunta Salis ha approvato linee guida per garantire una retribuzione minima di 9 euro lordi all’ora per tutti i lavoratori impiegati negli appalti e subappalti del Comune. La misura, proposta dall’assessore al Lavoro Emilio Robotti, rappresenta secondo la sindaca “un valore simbolico fortissimo” e il mantenimento di una promessa elettorale per fermare il lavoro povero finanziato con denaro pubblico.

Le prospettive future

La manovra approvata dalla giunta dovrà ora passare al vaglio del consiglio comunale, dove è atteso un dibattito acceso. L’opposizione di centrodestra, guidata da Pietro Piciocchi, si è già detta pronta a dare battaglia, contestando non solo l’aumento dell’Imu ma anche la narrativa del “disastro ereditato” che la nuova amministrazione ha costruito attorno ai conti comunali.

La sindaca Salis ha però chiarito che “l’obiettivo della nostra azione è garantire i servizi essenziali”, sottolineando come quando mancano le risorse “le prime a pagarne le spese sono le donne”. L’amministrazione ha così scelto di stabilizzare i settori dei servizi sociali e di reperire fondi per il welfare, considerandolo un investimento prioritario per la città.

Iran deporta 1 milione e 400 mila afghani nell’indifferenza internazionale

Nell’indifferenza pressoché totale dei media internazionali, l’Iran ha condotto una delle più grandi operazioni di deportazione di massa della storia moderna. Oltre un milione e quattrocentomila afghani sono stati espulsi dal territorio iraniano nel corso del 2025, con un’accelerazione drammatica dopo il conflitto con Israele. Una tragedia umanitaria di proporzioni enormi che si consuma sotto gli occhi di un mondo che sembra aver voltato le spalle al popolo afghano.

Un esodo biblico

La scadenza fissata dalle autorità iraniane ha innescato un esodo biblico. Secondo l’Organizzazione Internazionale per le Migrazioni, centinaia di migliaia di afghani hanno attraversato il confine iraniano-afghano in pochissimi giorni. Il picco si è registrato quando decine di migliaia di persone sono state costrette a lasciare l’Iran in un solo giorno, mentre in una singola settimana ne sono state deportate centinaia di migliaia.

Il regime di Teheran ha utilizzato il pretesto della sicurezza nazionale per giustificare queste espulsioni su larga scala, accusando senza prove concrete i rifugiati afghani di spionaggio per conto di Israele. Richard Bennett, Relatore Speciale delle Nazioni Unite per i diritti umani in Afghanistan, ha denunciato come “centinaia” di afghani siano stati arrestati e accusati di spionaggio, in quella che appare come una caccia alle streghe alimentata da pregiudizi razziali e tensioni geopolitiche.

Le testimonianze raccolte dalle organizzazioni umanitarie dipingono un quadro agghiacciante di violenze sistematiche. Bashir, un giovane afghano, ha raccontato: “Prima mi hanno preso dei soldi. Poi mi hanno costretto a pagare altro nel centro di detenzione, dove non ci davano né cibo né acqua. C’erano centinaia di persone, ci picchiavano e ci maltrattavano”. Un altro deportato ha dichiarato: “Ci hanno trattato come spazzatura”, mentre le testimonianze parlano di famiglie separate, documenti strappati e violenze fisiche durante il processo di espulsione.

Deportato anche chi aveva i documenti

La maggior parte delle deportazioni è avvenuta con la forza, coinvolgendo non solo migranti irregolari ma anche persone con documenti validi. Il Center for Human Rights in Iran ha documentato casi di afghani con visti e permessi di residenza regolari deportati arbitrariamente. La situazione è peggiorata dopo la guerra tra Iran e Israele, quando i media di stato iraniani hanno iniziato una campagna di incitamento all’odio, etichettando gli afghani come “traditori” e “spie”.

La crisi umanitaria al confine afghano-iraniano è devastante. Al valico di Islam Qala, migliaia di persone sono ammassate sotto tende precarie, con temperature estreme. Mihyung Park, capo missione dell’OIM, ha descritto la situazione come “terribile”, segnalando l’arrivo anche di centinaia di minori non accompagnati. Le organizzazioni umanitarie riescono ad assistere solo una minima parte delle persone che hanno bisogno di aiuto.

L’incubo per le donne

Le donne afghane deportate affrontano un doppio calvario. Costrette a tornare in un Afghanistan governato dai talebani, dove le donne sono private di tutti i diritti fondamentali, molte si trovano senza tutore maschio e quindi impossibilitate ad accedere a servizi essenziali. Marwa, una giovane deportata, ha dichiarato: “L’Afghanistan è come una gabbia per le donne, e stiamo tornando in quella prigione”. Le restrizioni talebane vietano alle donne di parlare in pubblico, di lavorare, di studiare oltre la sesta classe e persino di mostrare il volto.

Il regime talebano ha mantenuto un silenzio assordante di fronte a questa tragedia. Molti osservatori ritengono che i talebani vedano di buon occhio le deportazioni, poiché molti rifugiati in Iran erano oppositori del regime, ex funzionari del governo precedente, giornalisti e attivisti per i diritti umani. Questa indifferenza calcolata condanna il proprio popolo a sofferenze devastanti.

L’Afghanistan, già prostrato da una crisi umanitaria gravissima, non è preparato ad accogliere un numero così elevato di rimpatriati. Secondo le Nazioni Unite, oltre la metà della popolazione afghana dipende dagli aiuti umanitari, mentre svariati milioni di persone necessitano di assistenza immediata. La situazione è aggravata dalla diminuzione dei finanziamenti internazionali: molte strutture sanitarie sono state costrette a chiudere, privando milioni di persone delle cure mediche.

La comunità internazionale ha sostanzialmente ignorato questa catastrofe umanitaria. Mentre le crisi in altre regioni del mondo ricevono ampia copertura mediatica e sostegno internazionale, il dramma afghano è relegato alle pagine interne dei giornali. L’Asian Forum for Human Rights and Development ha definito le deportazioni “una grave violazione degli standard internazionali dei diritti umani”, ma le proteste internazionali sono state inefficaci.

Il Pakistan ha seguito l’esempio iraniano, deportando centinaia di migliaia di afghani. Anche il Tagikistan ha annunciato l’espulsione di migliaia di afghani, creando un effetto domino che sta isolando completamente il popolo afghano. Questa convergenza di politiche repressive crea quello che gli esperti definiscono un regime coercitivo di rimpatri forzati.

Ipocrisia occidentale

L’ipocrisia occidentale è palese. Mentre l’Europa e gli Stati Uniti predicano i diritti umani e la protezione dei rifugiati, hanno lasciato che l’Iran procedesse indisturbato nelle deportazioni di massa. Alcuni paesi europei hanno persino annunciato la possibilità di stabilire canali di dialogo con i talebani per deportare afghani condannati, dimostrando come spesso la retorica umanitaria ceda il passo ai calcoli politici.

Ayatollah Ali Khamenei

La tragedia afghana rappresenta un fallimento collettivo della comunità internazionale. Mentre il mondo si concentra su altri conflitti, milioni di afghani vengono abbandonati al loro destino, vittime di un regime teocratico oppressivo in patria e di politiche xenofobe nei paesi di accoglienza. Le immagini di bambini disidratati al confine, di famiglie separate e di donne ridotte al silenzio dovrebbero scuotere le coscienze, ma sembrano destinate a rimanere un capitolo dimenticato nella storia contemporanea.

L’indifferenza mediatica verso questa tragedia è sintomatica di un mondo che ha perso la capacità di indignarsi uniformemente di fronte alle ingiustizie. Mentre alcune crisi ricevono attenzione globale, altre vengono ignorate, creando una gerarchia immorale della sofferenza umana. Il popolo afghano, già abbandonato dalle potenze occidentali, subisce ora una seconda forma di abbandono: quella del silenzio internazionale di fronte alle deportazioni di massa.

La storia giudicherà severamente questa indifferenza. Mentre l’Iran continua le sue deportazioni brutali e i talebani consolidano il loro potere repressivo, milioni di afghani continuano a soffrire nell’indifferenza generale. Il loro grido di aiuto echeggia nel vuoto di un mondo che sembra aver perso la memoria della propria umanità.

Siria nel caos: Israele bombarda il Palazzo Presidenziale

La situazione in Medio Oriente continua a deteriorarsi con una drammatica escalation delle tensioni che ha visto Israele bombardare il palazzo presidenziale di Damasco mentre scontri settari insanguinano il sud della Siria e Gaza continua a contare vittime civili in un conflitto che sembra non conoscere fine. Gli sviluppi delle ultime ore stanno ridisegnando gli equilibri regionali con gli Stati Uniti che tentano di frenare l’escalation attraverso una diplomazia sempre più sotto pressione.

Il bombardamento del Palazzo del Popolo

L’attacco israeliano al palazzo presidenziale di Damasco, conosciuto come “Palazzo del Popolo” e utilizzato dal presidente siriano Ahmed al-Shara, rappresenta un’escalation senza precedenti nel coinvolgimento militare israeliano in Siria. L’operazione, confermata dall’agenzia Reuters attraverso testimonianze oculari, ha visto tre raid israeliani consecutivi contro la struttura governativa siriana, secondo quanto riportato dal sito di notizie siriano Kol HaBira, affiliato all’opposizione.

L’esercito israeliano ha rivendicato l’attacco sostenendo di aver colpito l’ingresso del quartier generale dell’esercito siriano a Damasco, mentre i media statali siriani hanno confermato che i droni israeliani hanno preso di mira anche la città di Sweida, a maggioranza drusa, dove le forze governative siriane si erano schierate nonostante gli espliciti avvertimenti da parte di Tel Aviv. Un corrispondente dell’AFP ha documentato direttamente un attacco contro un camion militare all’ingresso occidentale di Sweida, evidenziando come gli scontri stiano assumendo dimensioni sempre più ampie.

La drammatica situazione dei Drusi

La comunità drusa si trova al centro di una crisi umanitaria e identitaria che sta mettendo alla prova i legami storici con Israele. Gli scontri settari tra drusi e beduini a Sweida hanno causato 248 morti, secondo i dati forniti dalle autorità locali, creando una situazione di emergenza che ha spinto la leadership drusa israeliana a lanciare un appello drammatico per attraversare il confine e soccorrere i “fratelli massacrati”.

Lo sceicco Mowafaq Tarif, che guida la comunità drusa in Israele, ha emesso una dichiarazione che evidenzia una profonda frattura nell’alleanza storica tra Israele e la comunità drusa. “Purtroppo, le IDF e il governo israeliano, nonostante i loro impegni espliciti, non stanno intraprendendo alcuna azione concreta per fermare le uccisioni”, recita il comunicato ufficiale che annuncia giorni di lutto nazionale e uno sciopero generale in tutti gli insediamenti drusi in Israele.

La risposta del primo ministro Benjamin Netanyahu è stata ferma ma carica di preoccupazione: “Stiamo lavorando per salvare i nostri fratelli drusi e per eliminare le bande del regime”, ha dichiarato, rivolgendo però un appello diretto ai drusi israeliani affinché non oltrepassino il confine, poiché “state rischiando la vita”. La situazione è diventata così tesa che drusi israeliani hanno sfondato la recinzione di confine tentando di raggiungere la Siria, come documentato da video diffusi sui media internazionali.

La posizione americana e le pressioni diplomatiche

L’amministrazione Trump si trova di fronte a una crisi diplomatica complessa che richiede un delicato equilibrio tra il sostegno all’alleato israeliano e la necessità di contenere un’escalation regionale. Il Segretario di Stato Marco Rubio ha espresso profonda preoccupazione per gli sviluppi in Siria, rivelando di aver “appena riattaccato al telefono con le parti interessate” e che gli Stati Uniti “vogliono che i combattimenti cessino”.

Secondo quanto riportato da Axios, gli Stati Uniti avevano chiesto a Israele di fermare i raid contro le forze militari siriane nel sud del Paese già nella giornata precedente agli attacchi al palazzo presidenziale. La risposta di Tel Aviv sarebbe stata inizialmente positiva, con l’impegno a cessare gli attacchi entro sera, ma gli eventi successivi hanno dimostrato quanto sia difficile controllare l’escalation militare una volta innescata.

Il coinvolgimento diretto del presidente Trump nella gestione della crisi emerge dalla programmata riunione con il primo ministro del Qatar Mohammad bin Abdulrahman al-Thani alla Casa Bianca, dove al centro dei colloqui saranno i negoziati per il cessate il fuoco nella Striscia di Gaza e il rilascio degli ostaggi. Questa iniziativa diplomatica dimostra come l’amministrazione americana stia cercando di utilizzare tutti i canali disponibili per contenere una situazione che rischia di degenerare ulteriormente.

Gaza: il bilancio continua a crescere

Mentre l’attenzione si concentra sugli sviluppi siriani, la situazione umanitaria a Gaza continua a deteriorarsi con numeri che testimoniano l’ampiezza della catastrofe in corso. Nelle ultime 24 ore, almeno 93 palestinesi sono stati uccisi nei bombardamenti israeliani, portando il numero dei feriti a 278, secondo i dati forniti dal Ministero della Sanità del territorio.

Il bilancio complessivo dall’ottobre 2023 ha raggiunto quota 58.479 morti accertati, la maggior parte dei quali donne e bambini, con almeno altre 139.355 persone rimaste ferite. Particolarmente significativo è il dato che indica come da quando Israele ha ripreso l’aggressione alla Striscia di Gaza il 18 marzo 2025, almeno 7.656 civili sono stati uccisi e altri 27.314 sono rimasti feriti.

La situazione si complica ulteriormente considerando che molte vittime restano intrappolate sotto le macerie, irraggiungibili per ambulanze e soccorritori, rendendo il bilancio delle vittime inevitabilmente incompleto. L’ufficio delle Nazioni Unite per i diritti umani ha registrato almeno 875 uccisioni nelle ultime sei settimane presso punti di soccorso gestiti dalla Gaza Humanitarian Foundation, evidenziando come anche l’accesso agli aiuti umanitari sia diventato mortalmente pericoloso.

Tensioni internazionali e reazioni diplomatiche

Il panorama internazionale mostra una crescente polarizzazione attorno alla gestione della crisi mediorientale. La Turchia, attraverso il suo ministero degli Esteri, ha denunciato che gli attacchi aerei israeliani su Damasco mirano a sabotare gli sforzi della Siria per stabilire la pace e la sicurezza, mentre il governo israeliano ha accolto con soddisfazione l’incapacità dell’Unione Europea di decidere sanzioni, definendola “un importante risultato politico”.

Il ministro degli Esteri israeliano Gideon Sa’ar ha sottolineato come Israele sia “impegnato in una campagna politica complessa, difficile e sfaccettata” oltre che militare, rivendicando di aver “respinto ogni tipo di tentativo ossessivo da parte di vari Paesi di imporre sanzioni contro Israele nell’Unione Europea”.

Di tutt’altro avviso si è mostrata la relatrice speciale delle Nazioni Unite Francesca Albanese, che dalla conferenza di Bogotà ha lanciato un appello affinché “ogni stato deve immediatamente rivedere e sospendere tutti i legami con lo Stato di Israele”, sostenendo che “l’economia israeliana è strutturata per sostenere l’occupazione che ora è diventata genocida”. Albanese, che è stata recentemente sanzionata dagli Stati Uniti, ha spiegato di essere stata punita “perché ho svelato l’economia del genocidio a Gaza”.

Violenze in Cisgiordania

La crisi si estende anche in Cisgiordania dove l’uccisione del palestinese-americano Seifeddin Musalat ha creato nuove tensioni diplomatiche. Il giovane di 20 anni, nato in Florida, è stato picchiato a morte da coloni israeliani nei terreni della sua famiglia durante il fine settimana, secondo quanto riferito dalla famiglia.

L’ambasciatore statunitense in Israele Mike Huckabee, noto sostenitore degli insediamenti israeliani, ha chiesto a Israele di indagare sull’uccisione definendola “un atto criminale e terroristico” per il quale “ci deve essere responsabilità”. L’episodio evidenzia le crescenti tensioni tra coloni e popolazione palestinese e mette in difficoltà un’amministrazione americana che deve bilanciare il sostegno a Israele con la protezione dei propri cittadini.

Le dinamiche regionali mostrano come ogni singolo episodio di violenza rischi di innescare reazioni a catena che coinvolgono attori multipli. Hamas ha condannato i continui attacchi israeliani definendoli “una escalation della guerra di sterminio”, mentre il presidente venezuelano Nicolás Maduro ha definito il governo Netanyahu “la più grande minaccia per l’Umanità”.

La gestione di questa crisi multidimensionale richiederà un coordinamento internazionale senza precedenti e la capacità di affrontare simultaneamente le emergenze umanitarie immediate e le cause strutturali di un conflitto che continua a espandersi geograficamente e a coinvolgere nuovi attori. La stabilità dell’intera regione mediorientale dipende ora dalla capacità delle potenze internazionali di trovare soluzioni diplomatiche prima che la situazione degeneri ulteriormente, mentre il tempo stringe e le vittime civili continuano a moltiplicarsi su tutti i fronti di questo conflitto sempre più complesso.

La caccia ai fringuelli in Liguria: una tradizione che sa di barbarie

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Liguria, estate. Nonostante il progresso dell’opinione pubblica e la crescente attenzione mondiale verso la tutela della fauna selvatica, la Regione Liguria ha recentemente autorizzato l’abbattimento in deroga di migliaia di fringuelli. L’annuncio è stato motivato ancora una volta con il ricorso alla “tradizione”, un’etichetta logora che sembra voler legittimare pratiche profondamente anacronistiche e ormai inaccettabili per una società civile che si voglia definire davvero moderna. La decisione, presa a margine di un acceso dibattito, ha scatenato l’indignazione delle associazioni ambientaliste e di numerosi cittadini, ulteriormente amplificata dall’impatto mediatico che la vicenda sta avendo in tutto il Paese.

Non è la prima volta che la Regione tenta di piegare le normative europee e nazionali sulla caccia per assecondare le pressioni di una minuscola minoranza. La strategia è sempre la stessa: invocare la specificità locale, la memoria dei tempi passati, i richiami alla cucina tradizionale, a storie narrate da Pellegrino Artusi, Carducci e addirittura Dante Alighieri. Una narrazione che vuole nobilitare il sangue sparso nel nome di riti antichi, dimenticando, però, che il rispetto per la biodiversità e il valore della vita animale dovrebbero essere principi inviolabili, inalienabili, non negoziabili.

L’elemento più inquietante di questa autorizzazione è dato dai numeri: migliaia di fringuelli, a cui si sommano anche storni, potranno essere uccisi in poche settimane. Davanti a questi dati, qualunque tentativo di giustificazione legato alla “modesta entità” della deroga cade nel vuoto. Siamo di fronte a uno sterminio autorizzato, una strage legalizzata mascherata da folklore regionale, perpetrata ai danni di specie protette a livello nazionale e comunitario.

Le associazioni ambientaliste hanno ribadito con forza l’illegittimità di queste deroghe. Fringuelli e storni non risultano tra le specie cacciabili secondo le normative vigenti in Italia e in Europa. Le stesse direttive europee sono chiare: le deroghe devono essere misure eccezionali, solo per motivi gravi e documentabili, mai per pura consuetudine alimentare o per mantenere usi e costumi. Tale posizione trova conferma nelle ripetute condanne inflitte al nostro Paese da parte della Commissione europea, che ha avviato una procedura d’infrazione proprio per l’eccessiva tolleranza di pratiche venatorie ai danni di specie protette. La Liguria, con questa delibera, si pone in aperto contrasto non solo con le norme di tutela della fauna, ma anche con ogni principio di etica ed equilibrio ecologico.

In questo scenario di tensione crescente, le motivazioni addotte dai difensori della caccia risultano sempre più deboli e sfuocate. Si citano ricette tipiche e memorie familiari come se potessero costituire un lasciapassare morale o giuridico. Si parla di “tutela delle tradizioni” per mascherare ciò che altro non è che la volontà di perpetuare un’abitudine di sofferenza e morte, senza alcuna reale necessità, senza alcuna giustificazione razionale in una società pienamente inserita nel ventunesimo secolo.

La caccia ai fringuelli, così come a molte altre specie di piccoli uccelli migratori, è una pratica crudele, fine a se stessa, che non risponde né a esigenze alimentari né di controllo ambientale. Al contrario, minaccia gravemente la biodiversità locale e contribuisce a impoverire gli ecosistemi già messi a dura prova dai cambiamenti climatici e dall’azione antropica indiscriminata. Proprio nel fringuello si concentra una simbolicità suicida della politica regionale: una specie minuta, fragile, che rappresenta la ricchezza della natura italiana e mediterranea, ridotta al rango di trofeo per pochi appassionati di doppiette e palati nostalgici.

Le associazioni animaliste sottolineano il carattere “ingiustificabile” di questa barbarie. Lo fanno con dati scientifici, ricordando gli effetti devastanti sulle popolazioni di uccelli migratori, sempre più minacciate dal bracconaggio e da prelievi massicci legittimati da atti amministrativi discutibili. Lo fanno con la forza della legge, richiamando sentenze passate della Corte di Giustizia Europea e del Consiglio di Stato. Lo fanno, soprattutto, con la voce della società civile, che, a differenza di quanto sostengono i sostenitori della caccia, si mostra sempre più sensibile e contraria a queste esibizioni di violenza organizzata.

Un altro aspetto inquietante, spesso sottovalutato dagli organi regionali, è il rischio per la sicurezza pubblica e la salute collettiva. La stagione di caccia in Italia lascia ogni anno una tragica scia di morti e feriti, non solo tra gli animali selvatici ma anche tra cittadini, agricoltori ed escursionisti. I boschi e le colline, luoghi di svago e cultura ambientale, vengono militarizzati e resi inaccessibili per settimane. Un prezzo altissimo per un vantaggio che riguarda soltanto pochissimi individui, spesso organizzati in lobby con un peso sproporzionato nei tavoli decisionali.

La caccia, e in particolare la caccia in deroga, genera anche problemi di legalità diffusa. I controlli scarsi, la tentazione del bracconaggio, l’utilizzo di richiami acustici illegali e la vendita clandestina di selvaggina rendono ogni stagione venatoria un campo minato per la legalità e la sicurezza. Paradossalmente, più si allarga la maglia delle autorizzazioni, più diventa difficile monitorare e contrastare i fenomeni di abuso, con le forze dell’ordine costrette a rincorrere una realtà sfuggente e pericolosa.

In Liguria, il contrasto tra la Regione e le realtà associative è ormai totale. Gli ambientalisti definiscono la nuova delibera “uno sfregio all’ambiente e allo Stato di diritto”, mentre la politica tenta di arrampicarsi sugli specchi giustificando l’ingiustificabile. C’è chi sostiene che questa sia un’occasione per rilanciare il turismo venatorio e l’enogastronomia, eppure nessuno studio serio dimostra legami certi tra la caccia al fringuello e lo sviluppo dell’economia locale. Anzi, la percezione diffusa è che certe immagini di uccisioni di massa siano un boomerang per l’immagine di una regione che punta sulla green economy e sulla valorizzazione del territorio.

L’Italia è già maglia nera in Europa per quanto riguarda le deroghe venatorie e le procedure d’infrazione, e la Liguria si distingue tristemente per la sua ostinazione a difendere pratiche sempre più isolate e obsolete. La domanda che sorge spontanea è: quanto ancora potranno le istituzioni ignorare la richiesta di cambiamento che sale dalla società? Fino a quando le tradizioni saranno invocate come alibi per perpetuare soprusi ambientali e arretratezza culturale?

Senza cedere allo sconforto, occorre riconoscere e celebrare i tantissimi cittadini, le associazioni, gli scienziati, gli avvocati e gli amministratori che, spesso contro tutto e tutti, continuano a difendere ciò che di più prezioso abbiamo: la natura, la biodiversità, il diritto ad un futuro vivibile per tutte le specie. È doveroso ribadire che la caccia ai fringuelli non appartiene alla tradizione, ma al passato oscuro di cui ogni società consapevole dovrebbe liberarsi senza rimpianti. Il Coraggio vero, oggi, sta nel dire basta, nell’essere innovatori, nel saper distinguere tra cultura e superstizione, tra conservazione e saccheggio.

Il tempo delle scuse è finito. Ogni abbattimento in deroga, ogni sanguinosa concessione fatta “in nome della tradizione” rappresenta una ferita aperta nel cuore della civiltà e dell’etica collettiva. Difendere i fringuelli è una battaglia di civiltà, e perdere questa sfida significherebbe ammettere la nostra incapacità di crescere davvero, di riconoscere nella tutela della vita il più alto traguardo di una comunità matura. La Liguria, l’Italia intera, meritano decisioni all’altezza di questo tempo, non ridicole scuse buone solo a giustificare interessi di parte e arroganza istituzionale.

Stangata IMU sui canoni concordati a Genova: colpita la fascia debole

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A rischio il futuro della casa per migliaia di famiglie

La scena economica e sociale di Genova è stata recentemente scossa da un provvedimento che ha rapidamente acceso il dibattito tra amministrazione comunale, associazioni dei proprietari immobiliari e rappresentanti degli inquilini. La decisione della nuova giunta guidata da Silvia Salis di aumentare l’IMU per le abitazioni affittate a canone concordato ha suscitato reazioni di protesta, lasciando intravedere profonde conseguenze economiche e sociali in una città già provata dalle sfide degli ultimi anni.

L’annuncio, arrivato a sorpresa, prevede che l’aliquota IMU salga già a partire dal saldo di dicembre. Si tratta di una prima manovra fiscale importante per la nuova amministrazione, giustificata con l’esigenza di risanare i conti comunali e coprire un disavanzo consistente. Questa misura dovrebbe garantire, secondo le stime ufficiali, un incasso extra per le casse municipali. Il vicesindaco e assessore al bilancio Alessandro Terrile ha illustrato la necessità di questa scelta, sottolineando che “serve a garantire servizi essenziali come il sociale, la scuola e la manutenzione dei rivi”, destinando quindi, nell’immediato, gran parte delle nuove entrate proprio ai settori del welfare cittadino e dell’istruzione.

Tuttavia, tale motivazione non ha calmato gli animi. Anzi, il provvedimento ha acceso robuste critiche su più fronti. Le associazioni dei piccoli proprietari, guidate da figure come Vincenzo Nasini, presidente provinciale dell’APE Confedilizia, hanno bollato la decisione come un “pessimo esordio” della giunta Salis: secondo Nasini, il Comune ha scelto di colpire la fascia di cittadini che ha sostenuto più di tutti le politiche abitative sostenibili, offrendo alloggi a canone calmierato, invece di favorire la speculazione sugli affitti brevi o di ricercare altrove i fondi mancanti.

Nel clima di contestazione, le associazioni dei proprietari immobiliari hanno maturato l’intenzione di disertare il tavolo di confronto programmato con l’amministrazione comunale, manifestando un netto rifiuto verso un dialogo che, dopo questa scelta, appare sempre più complicato. Le parole di Nasini hanno un tono inequivocabile: “Peggio di così non potevano iniziare”. Sostiene che questa misura non solo indebolisce la fiducia tra cittadini e amministrazione, ma rischia di accelerare la trasformazione del mercato immobiliare verso affitti più instabili e meno accessibili, con effetti paradossali sul tessuto sociale della città.

Il dettaglio economico

Analizzando più nel dettaglio, l’imposta sugli immobili locati con canone concordato rappresentava una delle agevolazioni fondamentali per chi sceglieva, volontariamente, di offrire la propria abitazione a famiglie o individui con minori possibilità economiche, secondo le regole definite dagli accordi territoriali tra associazioni di proprietari e inquilini, il canone si attestava su valori sensibilmente inferiori rispetto al libero mercato, proprio per garantire un accesso più equo alla casa. L’abolizione dell’agevolazione e il conseguente aumento dell’imposta rischiano ora di minare questo delicato equilibrio.

Le reazioni negative non si fermano ai soli proprietari: anche le associazioni degli inquilini, quali Sunia e Sicet, hanno espresso preoccupazione per un possibile effetto domino sull’accessibilità abitativa. Un rincaro dell’IMU potrebbe infatti ricadere direttamente sui canoni di affitto, aumentando la pressione sulle fasce più deboli della popolazione, tradizionalmente beneficiarie dei contratti a canone concordato. I rappresentanti degli inquilini sottolineano come la tendenza potrebbe incentivare molti proprietari a preferire l’affitto breve o turistico, giudicato oggi molto più redditizio rispetto alla locazione a lungo termine con canone calmierato.

Non meno accese le critiche delle opposizioni politiche in consiglio comunale. Per “Vince Genova” e le altre forze di centrodestra, la manovra viene percepita come un tradimento delle promesse elettorali della giunta Salis e come una scelta in contraddizione con l’impegno progressista assunto, almeno a parole, sul tema della casa e della tutela delle fasce sociali più fragili. Le opposizioni avvertono che questo provvedimento colpisce indirettamente soprattutto le classi medie e medio-basse, rischiando di aggravare la questione degli affitti, già esplosiva nelle principali città italiane, e portando benefici economici che, rispetto ai disagi arrecati, vengono considerati modesti e insufficienti a giustificare la decisione.

Il contesto in cui matura questa scelta è, del resto, estremamente delicato. Genova si trova infatti a gestire, come molte altre città italiane, una crisi strutturale legata al sistema casa che tocca sia la domanda che l’offerta: da un lato famiglie che faticano a trovare alloggi a prezzi sostenibili, dall’altro proprietari alle prese con costi crescenti di manutenzione e tassazione, spesso in difficoltà nella gestione di morosità e rischio di sfratti. In questo quadro, l’appeal degli affitti brevi rischia concretamente di sbilanciare ulteriormente il mercato a danno delle locazioni tradizionali.

Un’analisi più approfondita della situazione mostra come la norma interessi una cifra rilevante di alloggi, che incide direttamente su un’ampia fetta del mercato immobiliare cittadino. Il timore principale delle associazioni coinvolte è che, qualora la misura restasse invariata, si possa assistere a una fuga progressiva dei proprietari dal canale dell’offerta agevolata, con una riduzione dell’offerta di abitazioni a canone calmierato e un inevitabile aumento della pressione sugli affitti tradizionali. Una dinamica, avvertono diversi osservatori, che andrebbe a penalizzare ulteriormente l’accesso all’abitazione per i giovani, i lavoratori precari e le famiglie numerose, accentuando il disagio sociale in tutto il territorio.

C’è poi un’ulteriore questione cruciale: l’impatto psicologico e politico che questa decisione ha sul livello di fiducia tra categorie produttive e amministrazione. La decisione delle associazioni di abbandonare il tavolo di confronto non può essere sottovalutata. Si sta materializzando una rottura nel dialogo tra il Comune e chi, fino a oggi, aveva collaborato al fine di trovare soluzioni condivise per la questione abitativa. Il rischio di una contrapposizione esasperata tra istituzioni e cittadini cresce ogni giorno, generando uno scenario a tratti imprevedibile, in cui la concertazione sembra lasciare spazio solo alla protesta.

Dal Comune, la difesa della misura passa per la retorica dell’emergenza finanziaria e della necessità di dare priorità ai servizi essenziali. Tuttavia, il malessere diffuso evidenzia come la percezione della cittadinanza vada in tutt’altra direzione. L’amarezza traspare anche dalle parole di rappresentanza delle associazioni dei proprietari e degli inquilini, che in questi giorni si ritrovano, pur da fronti spesso opposti, uniti nella preoccupazione per una città che rischia di diventare ancora meno inclusiva ed equa sul fronte dell’abitare.

Di fronte a tutto ciò, una domanda centrale aleggia su Genova: quali saranno le ricadute reali sul mercato immobiliare e sul tessuto sociale cittadino nei prossimi mesi? Molti attendono di veder tradotta in atti pratici la promessa delle istituzioni di “cercare soluzioni alternative” e mitigare gli effetti negativi del provvedimento, magari individuando risorse da altre voci di bilancio o introducendo nuovi strumenti di protezione a favore dei più esposti. Tuttavia, la sensazione diffusa è che la frattura sia ormai profonda, e che per ricucirla serviranno molto più che parole di circostanza.

Il dibattito genovese sul rialzo dell’IMU offre così uno squarcio rivelatore sulle tensioni e sulle fragilità del sistema Italia nel suo complesso. Da un lato l’urgenza dei conti pubblici, dall’altro la tutela del diritto alla casa e della coesione sociale. Il caso genovese è destinato a far scuola, nel bene o nel male, e a costituire un importante banco di prova per il rapporto – sempre complesso – tra fiscalità, politiche sociali e futuro delle città.

Meloni e la sfida dei dazi USA: l’Italia si schiera con l’Europa

Nelle ultime ore la scena politica italiana è stata scossa da una serie di eventi che hanno visto protagonista la presidente del Consiglio, Giorgia Meloni, chiamata a rispondere a una delle più complesse sfide economiche e diplomatiche dell’anno: la minaccia di nuovi dazi commerciali da parte degli Stati Uniti. La tensione è salita vertiginosamente dopo che l’amministrazione Trump ha annunciato l’intenzione di imporre tariffe fino al 30% sui prodotti europei, colpendo in particolare settori chiave per l’economia italiana come l’agroalimentare e l’automotive. Di fronte a questa prospettiva, Meloni ha scelto di rompere il silenzio e di schierarsi con decisione al fianco della Commissione europea, sottolineando che “abbiamo la forza per farci valere”.

Il fine settimana è stato segnato da un clima di grande incertezza e da un acceso dibattito politico. Le opposizioni hanno criticato la premier per la sua iniziale assenza dal dibattito pubblico, accusandola di non aver preso posizione tempestivamente su una questione che riguarda da vicino il futuro delle imprese italiane. Meloni, tuttavia, ha risposto con una nota ufficiale nella quale ha ribadito il pieno sostegno alla linea europea, dichiarando che “la forza economica e finanziaria dell’Europa è tale da poter ottenere un accordo equo e di buon senso”. La premier ha voluto rassicurare le imprese e i cittadini, sottolineando che l’Italia farà la propria parte come sempre, pronta a difendere gli interessi nazionali all’interno di un quadro europeo coeso.

Il contesto internazionale in cui si inserisce questa vicenda è estremamente delicato. La decisione di Trump di alzare i dazi rappresenta una vera e propria sfida per l’Unione Europea, che si trova a dover negoziare da una posizione di forza ma anche di grande responsabilità. Meloni ha evidenziato come sia fondamentale evitare una guerra commerciale che rischierebbe di danneggiare l’intero Occidente, preferendo invece la via del dialogo e del negoziato. In questo scenario, il ruolo dell’Italia si conferma centrale: il governo è in stretto contatto con la Commissione europea e con tutti gli attori coinvolti nella trattativa, lavorando per trovare una soluzione che tuteli sia il mercato unico europeo sia le specificità dell’economia italiana.

Non sono mancate, tuttavia, le polemiche interne. Le opposizioni hanno accusato Meloni di aver sopravvalutato la propria influenza personale nei confronti dell’amministrazione Trump, sostenendo che la tanto sbandierata “relazione speciale” con Washington non abbia prodotto i risultati sperati. Diversi esponenti politici, tra cui Elly Schlein e Giuseppe Conte, hanno chiesto a gran voce che la premier si presenti in Parlamento per riferire sulla situazione e sulle strategie che intende adottare. Il dibattito si è acceso anche all’interno della maggioranza, con alcune voci critiche – in particolare dalla Lega – che hanno espresso dubbi sulla scelta di negoziare insieme alla Germania, suggerendo che trattative separate Stato per Stato potrebbero portare a risultati migliori.

Nonostante le tensioni, Meloni ha scelto la strada della fermezza e della chiarezza. Nel suo messaggio, la presidente del Consiglio ha sottolineato che l’Europa ha la forza economica e finanziaria per far valere le proprie ragioni e che l’Italia non intende arretrare di fronte a pressioni esterne. Il governo italiano ha ribadito che la priorità è quella di evitare una spirale di ritorsioni commerciali che finirebbe per penalizzare soprattutto le imprese e i lavoratori italiani. In particolare, il settore agroalimentare è considerato uno dei più esposti, e Meloni ha assicurato che il governo farà tutto il possibile per difendere le eccellenze del Made in Italy sui mercati internazionali.

La strategia adottata da Meloni si fonda su una doppia direttrice: da un lato, il sostegno pieno alla Commissione europea e la ricerca di una posizione unitaria tra i Paesi membri; dall’altro, il costante dialogo con le istituzioni statunitensi per evitare che la situazione degeneri in una guerra commerciale dagli esiti imprevedibili. Il ministro degli Esteri, Antonio Tajani, è volato negli Stati Uniti per avviare un confronto diretto con l’amministrazione americana, mentre a Bruxelles si lavora per costruire un fronte comune che possa reggere all’urto delle nuove tariffe.

La posizione di Meloni è stata accolta con favore da una parte del mondo imprenditoriale, che ha apprezzato la scelta di puntare su una soluzione negoziale e di evitare reazioni impulsive. Tuttavia, non sono mancati segnali di preoccupazione: il presidente di Confindustria, Emanuele Orsini, ha sottolineato che tariffe così aggressive rappresentano una minaccia concreta per il sistema produttivo italiano e che sarà necessario mantenere i nervi saldi per non compromettere i mercati di sbocco delle nostre aziende.

La partita che si gioca in queste settimane va ben oltre la questione dei dazi. In gioco c’è la credibilità dell’Italia e dell’Europa sullo scenario internazionale, la capacità di difendere i propri interessi senza rinunciare ai valori di apertura e cooperazione che hanno caratterizzato il progetto europeo fin dalle origini. Meloni, consapevole della posta in gioco, ha scelto di assumersi la responsabilità di guidare il Paese in una fase di grande incertezza, puntando su una strategia di dialogo ma senza cedere a ricatti o pressioni.

Il dibattito politico resta acceso. Le opposizioni continuano a chiedere maggiore trasparenza e coinvolgimento del Parlamento nelle scelte strategiche del governo, mentre la maggioranza cerca di mantenere la compattezza in un momento in cui le divisioni interne potrebbero indebolire la posizione italiana al tavolo delle trattative. Meloni, dal canto suo, si mostra determinata a non arretrare, convinta che solo una posizione ferma e unitaria possa consentire all’Italia e all’Europa di ottenere un accordo vantaggioso.

La vicenda dei dazi rappresenta un banco di prova cruciale per la leadership di Giorgia Meloni e per la capacità dell’Italia di giocare un ruolo da protagonista in Europa. La presidente del Consiglio ha scelto di puntare sulla forza dell’unità europea, consapevole che solo facendo squadra con gli altri Paesi membri sarà possibile affrontare con successo le sfide poste da un contesto internazionale sempre più complesso e competitivo.

Nel frattempo, il governo resta vigile e pronto a intervenire in ogni momento per tutelare gli interessi nazionali. Meloni ha ribadito che l’Italia farà la sua parte, come sempre, e che non verrà meno all’impegno di difendere le imprese e i lavoratori italiani. Il messaggio è chiaro: l’Italia non intende subire passivamente le decisioni altrui, ma vuole essere protagonista di una trattativa che riguarda il futuro di milioni di cittadini.

La forza dell’Europa e dell’Italia sta nella capacità di restare uniti, di difendere i propri valori e interessi senza cedere alle pressioni esterne. Meloni lo sa bene e, proprio per questo, ha scelto di affrontare la sfida dei dazi con determinazione e senso di responsabilità, consapevole che da questa partita dipende anche la credibilità internazionale del Paese. Le prossime settimane saranno decisive per capire quale direzione prenderà la trattativa e quale sarà il ruolo dell’Italia in un’Europa chiamata a dimostrare, ancora una volta, di avere la forza per far valere le proprie ragioni.

L’Hindi di Modi: Unità nazionale o minaccia alla diversità dell’India?

L’opinione di Alessandro Trizio

La volontà di Modi di promuovere l’Hindi come lingua nazionale risponde a una duplice esigenza: da un lato, rafforzare l’identità nazionale e superare le divisioni lasciate dal colonialismo britannico; dall’altro, consolidare il potere politico del BJP nelle regioni dove l’Hindi è dominante. La lingua, in questo contesto, diventa uno strumento di potere e di controllo: parlare la stessa lingua significa condividere valori, riferimenti culturali e visioni del mondo. Tuttavia, l’imposizione dall’alto rischia di generare nuove esclusioni e di minare la coesione sociale, soprattutto in un paese così complesso e articolato come l’India. La sfida, per Modi e per l’intera nazione, sarà quella di trovare una sintesi tra unità e diversità, evitando che la battaglia per la lingua si trasformi in una guerra di identità.

La situazione

Nel cuore dell’India contemporanea, la questione della lingua sta diventando uno dei temi più divisivi e sentiti del panorama politico e sociale. Il primo ministro Narendra Modi, leader del Bharatiya Janata Party (BJP), ha scelto di puntare con decisione sull’Hindi come lingua unificante del Paese, scatenando un acceso dibattito che coinvolge milioni di cittadini e mette in discussione l’equilibrio tra unità nazionale e pluralità culturale. La promozione dell’Hindi, sostenuta con forza dal governo centrale, viene percepita da molti come un tentativo di omologazione che rischia di soffocare le ricchissime identità linguistiche regionali dell’India.

L’India è una nazione che vanta una straordinaria varietà linguistica: la Costituzione riconosce ventidue lingue ufficiali, mentre centinaia di idiomi e dialetti vengono parlati quotidianamente da oltre un miliardo di persone. In questo mosaico, l’Hindi è la lingua più diffusa, soprattutto nel nord, e rappresenta la base elettorale del BJP. Tuttavia, in molte regioni, soprattutto nel sud e nell’ovest, la sua imposizione viene vissuta come una minaccia alla sopravvivenza delle lingue locali e, di conseguenza, delle culture che esse esprimono.

Negli ultimi anni, il governo Modi ha adottato una serie di misure per rafforzare la presenza dell’Hindi nell’amministrazione pubblica, nell’istruzione e persino nella comunicazione internazionale. Nuovi programmi statali, iniziative educative e campagne di sensibilizzazione sono stati lanciati con nomi rigorosamente in Hindi, mentre le istituzioni centrali sono state invitate a privilegiare questa lingua nelle comunicazioni ufficiali. Il Ministero dell’Interno ha sottolineato la necessità di fare dell’Hindi “l’alternativa all’inglese” e di renderla la lingua di collegamento tra i cittadini di stati diversi, senza tuttavia voler soppiantare le lingue regionali.

Nonostante le rassicurazioni, le reazioni non si sono fatte attendere. In Maharashtra, uno degli stati più ricchi e popolosi dell’India occidentale, il governo locale – guidato dal BJP – ha dovuto fare marcia indietro su una controversa decisione che prevedeva l’insegnamento obbligatorio dell’Hindi nelle scuole primarie. La misura è stata giudicata un affronto al Marathi, la lingua locale, e ha provocato proteste trasversali tra cittadini, opposizioni e associazioni culturali. Nel Tamil Nadu, stato meridionale storicamente ostile all’imposizione dell’Hindi, il conflitto si è intensificato: il governo regionale ha accusato New Delhi di voler condizionare il sistema educativo e ha avviato un’azione legale contro il centro, denunciando il rischio di perdere finanziamenti federali se non fosse stata adottata la politica delle tre lingue, che prevede l’Hindi come lingua aggiuntiva.

La questione linguistica è diventata così un terreno di scontro politico e simbolico. Il primo ministro Modi e i suoi alleati sostengono che l’Hindi sia uno strumento di integrazione nazionale, capace di rafforzare il senso di appartenenza e di superare le divisioni lasciate in eredità dal colonialismo britannico, che aveva imposto l’inglese come lingua dell’élite e dell’amministrazione. Secondo questa visione, la promozione dell’Hindi sarebbe un passo fondamentale per affermare una nuova identità indiana, libera dai retaggi coloniali e più vicina alle radici culturali del Paese.

Tuttavia, per molti osservatori e leader regionali, la spinta verso l’Hindi rischia di minare il delicato equilibrio federale su cui si regge l’India. In stati come il Tamil Nadu, il Karnataka e il Bengala Occidentale, la difesa delle lingue locali è vissuta come una battaglia per la sopravvivenza culturale e politica. I movimenti dravidici del sud, in particolare, hanno costruito la propria identità proprio sulla resistenza all’omologazione linguistica e sulla valorizzazione delle differenze.

La nuova politica educativa nazionale, introdotta dal governo Modi nel 2020, ha accentuato queste tensioni. Pur prevedendo la valorizzazione delle lingue madri fino alla quinta classe, la riforma suggerisce l’introduzione di una terza lingua – spesso l’Hindi – anche negli stati dove non è tradizionalmente parlata. Molti temono che questa scelta possa portare, nel lungo periodo, a una graduale marginalizzazione delle lingue regionali e a una perdita di ricchezza culturale senza precedenti.

Il dibattito si è acceso anche a livello internazionale. Modi ha scelto di esprimersi in Hindi durante i principali forum globali, promuovendo la lingua come simbolo dell’orgoglio nazionale. Il governo ha istituito divisioni speciali per la promozione dell’Hindi all’estero e ha avviato programmi di formazione per insegnanti nelle regioni dove la lingua è meno diffusa. Questa strategia mira a rafforzare la posizione dell’India sulla scena mondiale, presentando l’Hindi come lingua della nuova potenza emergente.

Non mancano, però, le critiche. Secondo diversi linguisti e attivisti, la questione della lingua non riguarda solo la comunicazione, ma il potere. Imporre una lingua significa anche imporre un modello culturale, un sistema di valori e una gerarchia sociale. In un paese dove più della metà della popolazione ha una lingua madre diversa dall’Hindi, la promozione forzata di quest’ultima rischia di creare nuove fratture e di alimentare sentimenti di esclusione e marginalizzazione.

Il governo, dal canto suo, insiste sul fatto che la valorizzazione dell’Hindi non deve essere vista come una minaccia alle altre lingue, ma come una risorsa per l’integrazione e lo sviluppo. Il ministro dell’Interno Amit Shah ha sottolineato che la nuova politica educativa offre strumenti per la crescita di tutte le lingue indiane, con la traduzione di libri di testo e la diffusione di contenuti digitali in decine di idiomi. L’obiettivo dichiarato è quello di rendere l’India un paese più coeso e competitivo, capace di parlare con una voce sola senza rinunciare alla propria diversità.

In questo scenario, la questione linguistica si intreccia con quella della democrazia e della rappresentanza. Molti temono che la spinta verso l’Hindi sia anche una strategia politica per rafforzare il potere del BJP nelle regioni dove la lingua è maggioritaria e per ridurre il peso delle opposizioni regionali. Le proteste, le manifestazioni e le battaglie legali che stanno scuotendo il Paese dimostrano quanto il tema sia sentito e quanto sia difficile trovare un equilibrio tra unità e pluralità.

L’India si trova così di fronte a una sfida cruciale: riuscire a costruire un’identità nazionale forte senza sacrificare la straordinaria ricchezza delle sue culture locali. La partita dell’Hindi non è solo una questione di parole, ma di futuro, di inclusione e di rispetto delle differenze. In gioco c’è la possibilità di immaginare un’India davvero federale, capace di parlare con molte voci senza perdere la propria anima.