18 Luglio 2025
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Nomine portuali: il punto sulle scelte del governo Meloni

Il governo Meloni si trova in questi giorni al centro di una delicata e controversa partita sulle nomine dei presidenti delle Autorità di Sistema Portuale (AdSP) italiane. Dopo mesi di stallo e tensioni interne alla maggioranza, la questione è diventata urgente per il settore portuale e logistico nazionale, che chiede a gran voce una governance stabile e competente per affrontare le sfide infrastrutturali e di mercato.

Le procedure di nomina si sono sbloccate solo parzialmente, con alcuni nomi già proposti dal Ministero delle Infrastrutture e dei Trasporti e in attesa di ratifica parlamentare o del via libera definitivo delle Regioni:

  • Antonio Gurrieri (AdSP Mare Adriatico Orientale – Trieste e Monfalcone)
  • Francesco Benevolo (AdSP Adriatico Centro Settentrionale – Ravenna)
  • Francesco Mastro (AdSP Mare Adriatico Meridionale – Bari, Brindisi, Barletta, Manfredonia, Monopoli, Termoli)
  • Giovanni Gugliotti (AdSP Mare Ionio – Taranto)
  • Davide Gariglio (AdSP Mar Tirreno Settentrionale – Livorno, Capraia, Piombino, Portoferraio, Rio Marina, Cavo)
  • Matteo Paroli (AdSP Mar Ligure Occidentale – Genova e Savona)

Alcune di queste nomine hanno già ricevuto il parere favorevole delle Regioni di riferimento, come nel caso di Mastro e Gariglio, mentre altre sono ancora bloccate da trattative politiche e audizioni parlamentari.

Le cause dello stallo: scontri politici e spartizione tra partiti

Il ritardo nelle nomine è dovuto principalmente a un braccio di ferro interno alla maggioranza di governo, in particolare tra Fratelli d’Italia e Lega, che puntano a “mettere la bandierina” sui porti più strategici. La situazione è ulteriormente complicata da:

  • Inchieste giudiziarie (come quella sul porto di Genova), che hanno imposto maggiore cautela nelle scelte.
  • Necessità di allineare le scadenze dei presidenti in carica, per procedere a un rinnovo complessivo e non frammentato.
  • Accuse di spartizione politica e mancanza di competenze specifiche nei candidati, con alcuni nomi considerati troppo vicini a vecchie gestioni o a logiche di partito, e altri che rischiano di non rispettare i requisiti anagrafici previsti dalla legge.

Le principali associazioni del cluster marittimo-portuale (Alis, Ancip, Assiterminal, Assologistica, Confitarma, Federagenti, Uniport) hanno inviato un appello urgente al governo e al ministro Salvini affinché si proceda rapidamente alle nomine, sottolineando come la mancanza di presidenti effettivi stia rallentando opere infrastrutturali e la gestione dei porti.

Per sbloccare la situazione, si valuta la nomina temporanea dei candidati come commissari straordinari, in attesa della ratifica parlamentare.

Le polemiche sulle scelte e il rischio di “resa politica”

Le scelte del governo sono finite nel mirino di stampa e opposizione, che denunciano una “svendita” della governance portuale a logiche di spartizione partitica e la presenza di candidati senza esperienza manageriale portuale o addirittura in conflitto con i limiti di età previsti6. In particolare, viene criticata la conferma o la candidatura di figure considerate troppo legate al passato o a logiche di partito, sia di centrosinistra che di centrodestra.

Esempi di nomine contestate

Porto/AdSPCandidatoCriticità evidenziate
Genova/Savona (Mar Ligure Occ.)Matteo ParoliEsperienza manageriale diretta contestata
Livorno (Mar Tirreno Sett.)Davide GariglioVicinanza a PD, competenze logistiche dubbie
Bari (Adriatico Meridionale)Francesco MastroNomina politica, vicino a Emiliano
Ravenna (Adriatico Centro Sett.)Francesco BenevoloBurocrate ministeriale, critico col centrodestra
Trieste (Adriatico Orientale)Antonio GurrieriLegato a vecchie gestioni di centrosinistra
Napoli/CivitavecchiaAnnunziata/PetriRischio superamento limiti di età

Il dossier nomine portuali rappresenta una delle principali criticità politiche e gestionali per il governo Meloni in queste settimane. La scelta dei nuovi presidenti delle Autorità di Sistema Portuale è bloccata da scontri interni alla maggioranza, accuse di spartizione e timori legati a inchieste giudiziarie. Il settore chiede una rapida soluzione per garantire la piena operatività dei porti, mentre il governo valuta soluzioni-ponte in attesa di un difficile compromesso politico.

Putin, Trump e il Papa: la pace in Ucraina resta lontana

Negli ultimi giorni, il conflitto in Ucraina ha visto un nuovo sviluppo diplomatico di rilievo: Vladimir Putin ha avuto colloqui telefonici sia con il presidente statunitense Donald Trump sia con Papa Leone XIV. Tuttavia, dalle dichiarazioni dei protagonisti emerge chiaramente che una soluzione di pace immediata resta, al momento, fuori portata.

Il colloquio tra Putin e Trump

La telefonata tra Putin e Trump, durata circa un’ora e un quarto, ha avuto come tema centrale l’attacco ucraino alle basi aeree russe che ospitavano bombardieri strategici, avvenuto lo scorso fine settimana. Trump, attraverso un messaggio su Truth Social, ha definito la conversazione “buona”, ma ha sottolineato che non produrrà una pace immediata. I due leader hanno discusso non solo degli attacchi agli aerei russi, ma anche di altre azioni militari compiute da entrambe le parti.

Putin, dal canto suo, ha ribadito la volontà della Russia di rispondere agli attacchi ucraini, mentre Trump ha riconosciuto che la situazione resta estremamente complessa e che il dialogo, per quanto utile, non ha portato a risultati concreti sul fronte del cessate il fuoco.

Il ruolo del Papa e la diplomazia

Parallelamente, Putin ha avuto un primo dialogo con Papa Leone XIV dall’elezione del pontefice. Il presidente russo si è dichiarato favorevole a una soluzione diplomatica del conflitto, ma ha accusato il regime di Kiev di degenerare in un’organizzazione terroristica. Il Papa, pur auspicando una soluzione pacifica, non sembra aver ottenuto aperture significative da Mosca.

Sul fronte ucraino, il presidente Volodymyr Zelensky ha accusato la Russia di utilizzare i colloqui solo per guadagnare tempo ed evitare nuove sanzioni internazionali. Secondo Kiev, Mosca non sarebbe realmente interessata a un cessate il fuoco e starebbe manipolando i negoziati per i propri interessi strategici.

Nel frattempo, la situazione militare resta tesa: l’Ucraina ha rivendicato l’abbattimento di numerosi droni russi e la Gran Bretagna ha annunciato un nuovo pacchetto di aiuti militari, con la fornitura di 100.000 droni entro il 2026. Sul piano diplomatico, Istanbul continuerà a essere la sede dei colloqui tra Russia e Ucraina, anche se la delegazione ucraina accusa Mosca di temporeggiare e di non voler realmente negoziare.

Un piccolo segnale di distensione arriva dall’annuncio di uno scambio di 500 prigionieri per parte previsto per il fine settimana, ma il clima generale resta di profonda sfiducia reciproca e di preparazione a nuovi scontri.

“È stata una buona conversazione, ma non produrrà una pace immediata”, ha dichiarato Trump dopo la telefonata con Putin.

Nonostante i recenti tentativi di dialogo ad alto livello, la guerra in Ucraina sembra destinata a proseguire ancora a lungo. Le posizioni restano distanti: la Russia insiste su una risposta militare agli attacchi ucraini, mentre Kiev chiede un vero cessate il fuoco e il rafforzamento delle sanzioni. La diplomazia internazionale, compresa quella vaticana, fatica a trovare spazi di manovra concreti. La pace, almeno per ora, resta un obiettivo lontano e incerto.

L’Ucraina attacca in territorio russo. Morti e feriti tra i civili

Il fumo acre dei detriti bruciati avvolge ancora l’aria, mentre i riflettori dei soccorritori illuminano a intermittenza la scena di un disastro annunciato. Nella notte tra sabato e domenica, due ponti sono esplosi in altrettante regioni russe al confine con l’Ucraina, trascinando nella morte almeno sette persone e ferendone decine. Mentre il governo di Mosca accusa Kiev di “terrorismo”, e i media di Stato parlano di un attacco coordinato, il conflitto entra in una nuova fase: quella dello scontro asimmetrico, lontano dalle trincee del Donbas, ma vicino alle case di civili inermi.

La strage del treno passeggeri: “Ho visto i vagoni sollevarsi in aria”

Tutto è iniziato alle 22:50 di sabato, quando il ponte stradale sulla ferrovia Bryansk-Klimov è crollato esattamente nel momento in cui un treno passeggeri, diretto a Mosca, transitava. L’esplosione, descritta dai sopravvissuti come “un boato che ha spento la luce delle stelle”, ha scagliato tonnellate di calcestruzzo sui vagoni, deragliandone sette su dodici. “Eravamo seduti vicino al finestrino quando il soffitto si è piegato su di noi”, racconta Irina Sokolova, 34 anni, ricoverata con una frattura al bacino. “La gente urlava, i bambini piangevano. Ho visto il vagone davanti al nostro sollevarsi in aria come un fiammifero”.

Il bilancio è crudele: sette morti, tra cui il macchinista Sergey Volkov, 58 anni, padre di tre figli, e sessantanove feriti, tre dei quali bambini. Uno di loro, un ragazzino di nove anni, lotta tra la vita e la morte nel reparto di terapia intensiva dell’ospedale regionale. Le operazioni di soccorso, coordinate da 180 uomini tra vigili del fuoco e volontari, sono continuate fino all’alba, con i cani da ricerca che guaivano tra le lamiere contorte. Il governatore Alexander Bogomaz, in una conferenza stampa convocata alle 3:17 di notte, ha parlato senza mezzi termini di “atto criminale”, promettendo “una risposta adeguata”.

Kursk, l’incubo si ripete: “Sembrava il fronte, ma eravamo a casa”

Mentre Bryansk piangeva i suoi morti, un secondo boato ha squarciato l’alba nella regione di Kursk, 250 chilometri più a est. Qui, alle 5:30 di domenica mattina, un ponte ferroviario strategico, lo stesso già colpito da un’incursione ucraina nell’agosto 2024, è crollato sotto il peso di un’esplosione che ha investito un treno merci. La locomotiva, carica di materiale edile, ha urtato i detriti della struttura, prendendo fuoco e costringendo l’equipaggio a un’evacuazione disperata. “Le fiamme salivano alte venti metri”, testimonia un ferroviere anonimo, ancora sotto shock. “Sembrava di essere al fronte, invece eravamo a casa nostra”.

Le autorità, pur evitando di confermare ulteriori vittime, hanno classificato l’episodio come “sabotaggio deliberato”. Svetlana Petrenko, portavoce del Comitato Investigativo russo, ha dichiarato a Reuters che “entrambi gli attentati presentano firme tecniche simili”, lasciando intendere un’unica regia. Intanto, canali Telegram vicini all’FSB, come Baza e SHOT, hanno iniziato a diffondere video di presunti “sabotatori ucraini” catturati nelle foreste di Bryansk, sebbene nessuna prova ufficiale sia stata fornita.

Il retroscena geopolitico: infrastrutture nel mirino, diplomazia in stallo

I due attentati arrivano in un momento delicatissimo per gli equilibri del conflitto. Le regioni di Bryansk, Kursk e Belgorod, da mesi nel mirino di droni e artiglieria ucraina, sono diventate il simbolo della vulnerabilità russa lontano dal fronte. Solo la scorsa settimana, un attacco a un deposito di carburante a Sudzha aveva causato un blackout energetico in tre distretti, mentre il Cremlino accusava la NATO di fornire “istruzioni per colpire il cuore della Russia”.

Kiev, dal canto suo, non ha rivendicato gli attacchi, ma ha denunciato un raid aereo russo su Kyiv avvenuto poche ore dopo i crolli. “Sono due facce della stessa medaglia: la guerra si sta spostando sulle città, sulle linee ferroviarie, sui ponti”, spiega Mikhail Troitskiy, analista del Carnegie Center raggiunto telefonicamente. “È una strategia della tensione che mira a logorare il morale della popolazione e a destabilizzare le reti logistiche”.

Non a caso, il ponte di Bryansk faceva parte della M13, arteria cruciale per i rifornimenti militari verso il fronte di Luhansk. La sua distruzione ha creato un cratere di quindici metri, rendendo impossibile il transito per almeno sei mesi, secondo le stime degli ingegneri inviati sul posto.

Soccorritori tra le macerie: “Abbiamo lavorato con le barelle nel fango”

A Bryansk, i sopravvissuti sono stati trasportati in ospedali sovraffollati, mentre la scuola di Vygonichi si è trasformata in un rifugio temporaneo per famiglie sfollate. “Abbiamo utilizzato le aule come dormitori”, racconta Olga Ivanova, direttrice dell’istituto. “I bambini disegnavano sui banchi per calmarsi, mentre fuori continuavano a passare le ambulanze”.

Nikolai Zaitsev, capo delle operazioni di soccorso, descrive una notte di incubo: “Il terreno era instabile, pioveva, e dovevamo muoverci con cautela per non innescare ulteriori crolli. Abbiamo estratto un uomo da sotto un masso usando le mani, perché le macchine non potevano avvicinarsi”. A Kursk, intanto, i danni hanno avuto ripercussioni immediate sul traffico merci, già paralizzato da mesi di blocchi e controlli militari.

Reazioni internazionali: Trump minaccia sanzioni, il Cremlino invoca trattative

La comunità internazionale ha reagito con apprensione. Il presidente statunitense Donald Trump, in una dichiarazione rilasciata da Mar-a-Lago, ha esortato Mosca e Kiev a “sedersi al tavolo prima che sia troppo tardi”, minacciando sanzioni “senza precedenti” contro la Russia in caso di escalation. La Casa Bianca, tuttavia, non ha fornito dettagli sulle possibili misure, alimentando scetticismo tra gli osservatori.

Il Cremlino, dal canto suo, ha proposto un nuovo round di colloqui a Istanbul per lunedì 3 giugno, ma l’Ucraina ha posto condizioni preliminari, tra cui la presenza di mediatori neutrali e garanzie sulla trasparenza delle trattative. “Siamo pronti a dialogare, ma non a costo di cedimenti territoriali”, ha ribadito il portavoce presidenziale ucraino, Serhiy Nykyforov.

Mentre il sole del primo giugno illumina le macerie dei ponti, la domanda che attanaglia i residenti di Bryansk e Kursk è semplice: quanto ancora durerà questo incubo? Per Alexander, un insegnante in pensione che abita a trecento metri dal ponte crollato, la risposta è amara: “Nel 2022 pensavamo sarebbe finita in due mesi. Oggi non sappiamo più cosa aspettarci. La guerra è entrata nelle nostre case, e nessuno sembra in grado di fermarla”.

Con le trattative in stallo, le infrastrutture nel mirino e il costo umano che continua a salire, il conflitto russo-ucraino sembra aver trovato una nuova, tragica normalità: quella di una guerra senza fronti, senza vincitori, e senza fine all’orizzonte.

Gaza: il terzo hub non regge l’assalto della popolazione

Il gruppo privato Gaza Humanitarian Foundation (GHF), sostenuto dagli Stati Uniti e con il benestare di Israele, ha inaugurato giovedì un terzo centro di distribuzione nella Striscia e promette di aprirne altri nelle prossime settimane. L’afflusso di migliaia di palestinesi in cerca di viveri ha però messo subito a dura prova il nuovo sistema, il cui debutto, martedì, era precipitato in scene di panico: le recinzioni sono state abbattute, le guardie private costrette alla fuga e tutto ciò che poteva essere portato via – tubi, lamiere, persino il filo spinato – è sparito fra la folla.

Da allora la fondazione dichiara di aver servito poco più di 1,8 milioni di pasti, ma le critiche non si placano. Le Nazioni Unite e diverse ONG bollano l’iniziativa come insufficiente e mal concepita, incapace di colmare il vuoto lasciato dalle undici settimane di blocco imposto da Israele sugli aiuti diretti a Gaza.

Tra chi si è fatto largo fino agli hub c’è Wessam Khader, 25 anni, padre di un bimbo di tre: «La fame mi ha costretto ad andarci; da settimane non avevamo farina né altro», racconta da Rafah. Da martedì è in fila ogni giorno, ma solo il primo è riuscito a ottenere un pacchetto da 3 kg con farina, sardine in scatola, sale, noodles, biscotti e marmellata.

Al suo arrivo, le promesse israeliane di identificare e tenere lontani i sospetti affiliati a Hamas sembravano già crollate sotto la pressione della massa. «Nessuno mi ha chiesto documenti, non c’erano varchi elettronici: tutto era finito schiacciato», dice.

GHF sostiene di aspettarsi reazioni simili da una «popolazione in stato di angoscia». L’ONU replica che il volume di aiuti resta distante anni luce dai fabbisogni: prima della guerra servivano 500-600 camion al giorno, mentre ora l’afflusso è «equivalente a una scialuppa dopo il naufragio», usando le parole dell’inviata Onu per il Medio Oriente Sigrid Kaag.

Per i residenti del Nord di Gaza, isolati dai punti di distribuzione del sud, anche queste briciole restano un miraggio. «Vediamo i video della gente che riceve qualcosa, ma a noi dicono che nessun camion può passare», spiega Ghada Zaki, 52 anni, madre di sette figli a Gaza City.

Mentre migliaia di persone cercano cibo, i raid aerei israeliani proseguono. Giovedì, secondo i medici locali, almeno 45 palestinesi sono morti, 23 dei quali colpiti nel campo di Bureij, nel centro della Striscia. L’esercito israeliano rivendica «decine di obiettivi» neutralizzati – depositi d’armi, postazioni di cecchini, tunnel. Il ministero dell’Interno guidato da Hamas riferisce che diversi agenti di polizia sono rimasti uccisi durante un’operazione contro saccheggiatori a Gaza City.

Diplomazia in stallo

Nel frattempo crescono le speculazioni su un possibile cessate il fuoco: l’inviato speciale di Donald Trump, Steve Witkoff, ha rivelato che la Casa Bianca sta lavorando a una bozza di accordo che Hamas afferma di “esaminare”. Restano però gli stessi scogli che hanno fatto naufragare i negoziati di marzo: Israele pretende il disarmo e lo smantellamento totale di Hamas, oltre alla liberazione dei 58 ostaggi tuttora prigionieri; Hamas rifiuta di consegnare le armi e chiede il ritiro delle truppe israeliane.

La pressione internazionale su Tel Aviv aumenta: persino Paesi europei finora prudenti chiedono la fine del conflitto e un massiccio piano di soccorso.

Una guerra che devasta

Israele ha lanciato l’offensiva dopo l’attacco del 7 ottobre 2023, costato la vita a circa 1.200 israeliani e culminato nel rapimento di 251 persone portate a Gaza. Da allora, secondo il ministero della Sanità locale, l’operazione militare ha ucciso oltre 54.000 palestinesi e ridotto la Striscia in macerie.

Mentre il terzo hub di GHF si apre fra le macerie e il frastuono delle bombe, resta intatta la domanda centrale: basteranno nuovi punti di distribuzione a placare la fame di oltre due milioni di persone o servirà, prima di tutto, far tacere le armi?

Poltrone ballerine in Regione: Bucci agita il centrodestra

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L’idea, per ora, è poco più di un sussurro nato nelle ore della sconfitta a Palazzo Tursi, ma basta a far tremare gli equilibri della coalizione che governa la Liguria. Nei corridoi del centrodestra circola la tentazione di rimettere mano all’accordo siglato dopo le regionali: quando la giunta passerà da sette a nove componenti — ipotesi al momento appesa a un provvedimento del governo — i due nuovi assessorati non finirebbero più uno alla Lega e uno a Forza Italia. Il governatore Marco Bucci starebbe infatti valutando di dirottare la casella “azzurra” su un nome che azzurro non è: Pietro Piciocchi, ex sindaco reggente e candidato sconfitto da Silvia Salis.

Stoccate e veleni

Bucci, raccontano fonti interne, non avrebbe risparmiato frecciate a Fratelli d’Italia e a Forza Italia per il tiepido sostegno offerto a Piciocchi in campagna elettorale. La replica dei meloniani è arrivata per bocca del coordinatore regionale Matteo Rosso: «Meglio evitare lo scaricabarile, altrimenti rischiamo ripercussioni in Regione». Lega e Fratelli d’Italia, insomma, alzano le barricate.

Il Carroccio, forte di 1.443 voti in più rispetto alle regionali 2024, rivendica di aver «fatto il proprio dovere», come ha sottolineato il viceministro Edoardo Rixi: ringraziamenti a Piciocchi, auguri a Salis e un avvertimento implicito al resto della coalizione. Non a caso la casella leghista (destinata ad Alessio Piana) resta al sicuro.

Forza Italia sotto accusa

Diversa la situazione per Forza Italia, ferma al 3,78 % alle comunali: troppo poco per convincere Bucci a mantenere la promessa fatta ad Angelo Vaccarezza, designato a entrare in giunta regionale. Il rischio, ora, è di vedere il posto consegnato proprio a Piciocchi, da otto anni braccio destro del governatore a Palazzo Tursi.

Resta l’incognita: il diretto interessato, reduce da anni di lavoro senza tregua e da una campagna elettorale logorante, non ha ancora deciso se restare in consiglio comunale, tornare alla professione o accettare l’eventuale offerta di Bucci.

Intanto, nei gruppi WhatsApp di partito gira un foglio excel che scarica la colpa del tracollo sul “civismo” targato Bucci-Piciocchi: i partiti tradizionali sono saliti dal 22,26 % del 2022 al 25,32 % di oggi (+3,06 %), mentre le due civiche e l’ex Lista Toti sono crollate dal 32,93 % al 18,51 % (-14,42 %). Dati che Bucci contesta, rivendicando su Facebook la solidità di Orgoglio Genova e celebrando i tre eletti Ilaria Cavo, Vincenzo Falcone e Lorenzo Pellerano.

Una cosa è certa: nel centrodestra ligure il dopo-Tursi è solo all’inizio, e il vero duello — più che con l’opposizione — si gioca dentro la stessa maggioranza.

Salis. Quote rosa a Genova stavolta servono a salvare gli uomini

Secondo la legge Delrio (art. 1, l. 56/2014) — che fissa al 40 % la soglia minima per ciascun sesso nelle giunte dei Comuni sopra i 3.000 abitanti — la neo-sindaca dovrà nominare almeno cinque uomini. Il paradosso, a Genova, è che la norma nata per favorire la presenza femminile finirebbe per “salvare” quella maschile.

Il rebus AVS

L’altro nodo riguarda Alleanza Verdi Sinistra, forte del 7% dei voti: avrebbe puntato a tre assessorati ma ne otterrà due. In lizza l’architetta del paesaggio Francesca Coppola (terza con 700 preferenze, ideale per l’Urbanistica) e Francesca Ghio, la più votata di lista (oltre 1.500) ma senza delega definita. Portarle entrambe è complicato: entrano in competizione con Emilio Robotti, avvocato vicino a Sinistra Italiana e in pole per la Sicurezza, utile anche a bilanciare le quote di genere. Sullo sfondo Lorenzo Garzarelli, secondo per preferenze, reclama spazio.

Le caselle quasi certe

Fra i nomi dati per sicuri compaiono:

  1. Tiziana Beghin (M5S)
  2. Cristina Lodi (Italia Viva)
  3. la segretaria regionale di Azione
  4. Arianna Viscogliosi e Filippo Bruzzone (Linea Condivisa)

In bilico la regista Laura Sicignano, candidata non eletta ma sponsorizzata per la Cultura.

Il capitolo Pd

Con il 30 % dei consensi e 14 seggi, il Partito Democratico rivendica almeno sei incarichi.

  • Claudio Villa destinato alla presidenza del Consiglio comunale
  • Alessandro Terrile vicesindaco in pectore
  • assessorati probabili per Rita Bruzzone e Massimo Ferrante

Restano due poltrone, almeno una femminile. In ballo Vittoria Canessa e Monica Russo; ma per salvare l’equilibrio di genere il Pd potrebbe virare su un altro profilo maschile. Tra le opzioni:

  • un ripensamento di Davide Patrone, primatista di preferenze
  • un tecnico esterno, il docente Maurizio Conti
  • la suggestione Federico Romeo, ex presidente di municipio e consigliere regionale

Un Pd quasi tutto al maschile riaprirebbe lo spiraglio per includere sia Coppola sia Ghio (e sacrificare Robotti). Più remota l’ipotesi di escludere Filippo Bruzzone a favore di Sicignano.

Autonomia energetica Ue a portata di mano, così rafforziamo il mercato unico

L’Unione Europea può affrancarsi del tutto dalle forniture energetiche russe e consolidare il proprio mercato interno. Ne è convinto il vicepresidente esecutivo della Commissione, Raffaele Fitto, intervenuto ieri a un incontro all’Università Cattolica.

«Prima della guerra importavamo dalla Russia circa la metà del carbone e una quota rilevante di petrolio e gas; oggi quelle percentuali si sono drasticamente ridotte e dobbiamo spingerci oltre», ha dichiarato il commissario, indicando nell’“autonomia strategica energetica” la condizione essenziale per «rafforzare il mercato unico e dargli una prospettiva di lungo periodo».

Fitto ha poi toccato il tema dei dazi, definendo «vicino» un accordo politico sull’azzeramento progressivo delle tariffe: «Siamo partiti dal 100 per cento, poi è arrivata una proroga, quindi il taglio al 50 per cento e un’ulteriore proroga. Ora ci sono tutte le condizioni per chiudere».

Il vicepresidente ha rivendicato l’«attivismo europeo» sul fronte commerciale, citando il recente via libera all’intesa con il Mercosur e i negoziati avviati in Asia centrale e Sudafrica. «La Commissione sta lavorando per dare maggiore forza al mercato unico e, per la prima volta, dispone di un commissario alla semplificazione: un segnale forte alle imprese», ha concluso.

Violazione di TeleMessage. Rubati dati sensibili del governo Usa

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Un grave episodio di cybersecurity ha scosso gli Stati Uniti, rivelando come un hacker sia riuscito a violare i sistemi di TeleMessage, un’applicazione di messaggistica utilizzata da funzionari governativi, tra cui l’ex consigliere per la sicurezza nazionale di Donald Trump, Mike Waltz. Secondo un’indagine esclusiva di Reuters, l’intrusione ha compromesso le comunicazioni di decine di rappresentanti delle istituzioni, sollevando interrogativi sulla protezione dei dati sensibili all’interno dell’amministrazione Trump. L’attacco, avvenuto tra marzo e aprile 2025, ha permesso al criminale informatico di accedere a messaggi, documenti riservati e persino coordinate operative di agenzie federali, esponendo potenziali vulnerabilità nei protocolli di sicurezza adottati da enti pubblici.

La raccolta di dati trapelati, analizzata da Reuters in collaborazione con Distributed Dial (un’organizzazione senza scopo di lucro che archivia documenti hackerati), ha identificato oltre 60 account governativi collegati a TeleMessage. Tra le vittime figurano team di soccorso della FEMA (Federal Emergency Management Agency), agenti della dogana, diplomatici, un membro dello staff della Casa Bianca e persino personale del Secret Service. I messaggi intercettati includono discussioni su operazioni antiterrorismo, dettagli logistici per missioni all’estero e scambi confidenziali tra funzionari durante crisi internazionali. Fonti del Dipartimento della Sicurezza Interna hanno confermato che almeno 12 conversazioni compromesse contenevano informazioni classificate come “Segreto” o “Top Secret”.

L’hacker, identificato con lo pseudonimo “ShadowGlitch”, ha sfruttato una falla nel sistema di autenticazione a due fattori di TeleMessage, riuscendo a replicare i codici di verifica inviati via SMS. Questa tecnica, nota come “SIM swapping”, gli ha permesso di bypassare i controlli di sicurezza e accedere agli account senza lasciare tracce immediate. Secondo analisti di cybersecurity intervistati da Reuters, l’attacco è stato particolarmente sofisticato: l’intruso ha utilizzato server proxy situati in Bulgaria e Kazakhstan per mascherare la propria ubicazione, rendendo difficile il tracciamento da parte delle autorità statunitensi.

Le implicazioni della violazione sono amplificate dal ruolo centrale di TeleMessage nelle comunicazioni dell’amministrazione Trump. Durante il mandato presidenziale, l’app era stata adottata da diversi collaboratori della Casa Bianca per evitare i controlli sui dispositivi ufficiali, una pratica già criticata da esperti di sicurezza. Mike Waltz, ora membro del Congresso, aveva continuato a utilizzare il servizio per coordinarsi con ex colleghi, ignorando gli avvertimenti della Cybersecurity and Infrastructure Security Agency (CISA) sulle app di messaggistica non certificate.

La reazione delle istituzioni non si è fatta attendere. Il Dipartimento di Giustizia ha avviato un’indagine federale, mentre la CISA ha emesso un’allerta nazionale invitando tutte le agenzie governative a verificare l’integrità dei propri sistemi. TeleMessage, da parte sua, ha rilasciato una dichiarazione in cui assicura di aver “patched” la vulnerabilità e di collaborare con le autorità. Tuttavia, fonti interne all’FBI hanno rivelato a Reuters che l’azienda non aveva aggiornato i propri protocolli di encryption dal 2022, nonostante ripetute sollecitazioni.

Il caso riaccende il dibattito sulla regolamentazione delle tecnologie utilizzate dal governo. Come sottolineato da un rapporto del Government Accountability Office del 2024, almeno il 40% delle app adottate da funzionari federali non supera gli standard di sicurezza minimi richiesti. L’episodio di TeleMessage potrebbe spingere il Congresso a legiferare per imporre verifiche obbligatorie, ma nel frattempo, la fuoriuscita di dati rischia di avere conseguenze geopolitiche. Alcuni messaggi compromessi, infatti, riguardavano negoziati segreti con alleati NATO sulla crisi ucraina, informazioni che potrebbero essere finite in mano a potenze straniere.

Mentre le autorità lavorano per contenere i danni, rimangono aperte domande cruciali: quanti altri strumenti di comunicazione usati dal governo presentano falle simili? E quali garanzie possono offrire le istituzioni per prevenire futuri attacchi? Quel che è certo è che questa violazione segna un punto di svolta nella consapevolezza dei rischi legati alla cybersecurity, costringendo gli Stati Uniti a fare i conti con una realtà sempre più esposta alle minacce del mondo digitale.

Gaza. Israele inizia l’operazione di terra I carri di Gedeone

Nelle prime ore di sabato 17 maggio 2025, i residenti di Deir al Balah, città nel cuore della Striscia di Gaza, hanno udito raffiche di armi automatiche risuonare tra le strade. Il fragore degli spari è arrivato poche ore dopo l’annuncio ufficiale dell’esercito israeliano: le truppe si stanno preparando per un’avanzata su larga scala nel territorio, con l’obiettivo di espandere il controllo militare, acquisire nuove aree e spostare ulteriormente la popolazione civile. Un’ondata di tensione ha attraversato la regione, mentre i mediatori internazionali, tra cui rappresentanti dell’amministrazione Trump, tentavano invano di negoziare una tregua temporanea.

Il contesto di un conflitto

Il conflitto tra Israele e Hamas, iniziato il 7 ottobre 2023 con l’assalto di militanti palestinesi nel sud di Israele, che causò circa 1.200 morti e 250 ostaggi, prosegue ormai da oltre 18 mesi. Nonostante le operazioni militari israeliane abbiano provocato, secondo le autorità sanitarie di Gaza, più di 50.000 vittime (senza distinzione tra civili e combattenti), Hamas non è stato sconfitto e almeno 58 ostaggi rimangono ancora nelle mani del gruppo. La strategia israeliana, basata su bombardamenti aerei, incursioni terrestri e un blocco totale degli aiuti umanitari imposto da marzo, non ha prodotto i risultati attesi. Anzi, ha aggravato la crisi umanitaria: due milioni di palestinesi affrontano carestie, mancanza di medicinali e condizioni igieniche disperate, come sottolineato dal presidente Trump in una dichiarazione recente.

La mobilitazione e le incognite strategiche

L’annuncio della mobilitazione delle truppe israeliane arriva dopo mesi di stallo. Sebbene l’esercito abbia già occupato porzioni significative di Gaza, la nuova fase sembra puntare a un’espansione territoriale senza precedenti. Fonti militari israeliane parlano di “preparativi per un’operazione decisiva”, ma i dettagli rimangono vaghi. Non è chiaro, ad esempio, se gli scontri a Deir al Balah siano parte di un’offensiva organizzata o di azioni localizzate. Quel che è certo è che il premier Benjamin Netanyahu intende aumentare la pressione su Hamas, costringendolo a cedere sulle richieste di liberazione degli ostaggi e smilitarizzazione.

L’operazione, denominata “Carri di Gedeone”, trae ispirazione dall’episodio biblico in cui il condottiero ebraico sconfisse i Midianiti con mezzi limitati. L’espressione «i carri di Gedeone», non compare nel testo ebraico. Bibbia alla mano, Gedeone non schierò affatto carri da guerra, simbolo di potenza militare: al contrario, la narrazione insiste sull’assenza di mezzi bellici sofisticati proprio per sottolineare l’intervento miracoloso di Dio, oggi la locuzione riemerge ogni tanto nel linguaggio giornalistico o militare per indicare un contingente ristretto ma decisivo.

Secondo i piani dell’IDF, decine di carri armati e migliaia di riservisti – molti già provati da 18 mesi di combattimenti – verranno schierati per conquistare interi quartieri strategici, spostando forzatamente i civili verso il sud della Striscia. Il ministro della Sicurezza nazionale Itamar Ben Gvir, esponente dell’estrema destra, ha dichiarato senza mezzi termini: «Dobbiamo entrare a Gaza con tutte le nostre forze, finire l’opera: occupare, conquistare il territorio e schiacciare il nemico».

La crisi umanitaria e il blocco degli aiuti

Mentre i carri armati si riposizionano, la popolazione civile paga il prezzo più alto. Il blocco imposto da Israele ha ridotto al minimo gli approvvigionamenti di cibo, acqua e medicine, creando una situazione definita “strumento di sterminio” da Human Rights Watch. Decine di migliaia di famiglie vivono tra le macerie delle abitazioni distrutte, senza accesso a servizi essenziali. Il venerdì precedente alla mobilitazione, almeno 115 persone sono morte in raid aerei, aggiungendosi a un bilancio già insostenibile. L’Alto Commissario ONU per i Diritti Umani, Volker Turk, ha accusato Israele di perseguire una “pulizia etnica” attraverso lo sfollamento forzato e la negazione degli aiuti.

Nonostante gli appelli delle Nazioni Unite, che hanno ribadito di essere pronte a gestire gli aiuti con «imparzialità e neutralità», il governo israeliano insiste nel limitare l’accesso agli operatori umanitari. Tom Fletcher, sottosegretario ONU, ha denunciato: «Abbiamo un piano pronto, ma non ci permettono di agire». Intanto l’amministrazione Trump sta valutando un controverso piano per trasferire fino a un milione di palestinesi dalla Striscia di Gaza alla Libia, sebbene i dettagli rimangano nebulosi.

Mediazioni fallite e prospettive future

I tentativi di mediazione, guidati dagli Stati Uniti, non hanno finora prodotto accordi. Hamas insiste che non rilascerà gli ostaggi senza un cessate il fuoco permanente e il ritiro completo delle truppe israeliane da Gaza. Israele, dal canto suo, rifiuta qualsiasi trattativa fino alla resa incondizionata del gruppo. I colloqui di Doha sono naufragati nell’amarezza.

Negli ultimi giorni un attacco aereo israeliano ha preso di mira Khan Younis, nel sud di Gaza, nel tentativo di eliminare Muhammad Sinwar, uno dei leader più influenti di Hamas ancora in libertà. Pare ormai accertata la morte del leader di Hamas.

La mobilitazione delle truppe israeliane segna una nuova, pericolosa fase in un conflitto che sembra destinato a prolungarsi. Con migliaia di riservisti richiamati e un’offensiva terrestre imminente, la comunità internazionale teme un’escalation senza ritorno. Tuttavia, senza una strategia politica che affronti le cause profonde dello scontro, dall’occupazione israeliana alla divisione tra fazioni palestinesi, qualsiasi vittoria militare rischia di essere effimera.

Il Washington Institute, think tank vicino alla lobby israeliana negli USA, ha avvertito che un’occupazione prolungata di Gaza potrebbe innescare una guerriglia infinita, rafforzando paradossalmente la resistenza palestinese. Come ha osservato un diplomatico europeo: «Le armi possono conquistare territorio, ma non costruire la pace». Intanto, a Gaza, il rumore delle armi continua.

Ucraina: la Russia lancia attacco di droni più massiccio mai eseguito

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Nella notte tra il 17 e il 18 maggio 2025, l’Ucraina ha vissuto uno dei momenti più cupi dall’inizio dell’invasione russa. In sole nove ore, il Paese è stato bersagliato da 273 droni, un numero che segna un nuovo record dall’inizio della guerra. L’attacco, diretto principalmente contro le regioni di Kyiv, Dnipropetrovsk e Donetsk, ha causato la morte di una giovane donna nel distretto di Obukhiv, il ferimento di almeno tre civili – tra cui un bambino di quattro anni – e la distruzione di infrastrutture civili. Non è solo il bilancio umano a far riflettere, ma il significato politico e militare di quest’azione, arrivata a meno di 48 ore dal fallimento dei primi colloqui di pace diretti tra Russia e Ucraina dopo tre anni di guerra.

I negoziati, tenutisi a Istanbul il 16 maggio, si sono rivelati un tentativo fragile e probabilmente prematuro di avvicinare due posizioni ancora inconciliabili. Durati appena 100 minuti, gli incontri si sono conclusi con un accordo sullo scambio di prigionieri – 1.000 per parte – ma nessun passo avanti su un cessate il fuoco. Le richieste russe, tra cui l’abbandono da parte di Kyiv delle ambizioni NATO e la cessione dei territori occupati, sono state bollate come «inaccettabili» dal governo ucraino. Una risposta netta, che ha chiarito quanto la distanza tra le due parti resti siderale.

Il giorno successivo ai colloqui, un drone russo ha colpito un minibus nella regione di Sumy, uccidendo nove civili. L’attacco, che il presidente Zelensky ha definito «deliberato», è stato il preludio a un’escalation ancora più brutale. Poche ore dopo, centinaia di droni si sono alzati in volo contro l’Ucraina, in quella che molti osservatori internazionali interpretano come una mossa ritorsiva da parte del Cremlino, decisa a rafforzare la propria posizione negoziale sul campo prima del previsto scambio di prigionieri.

L’offensiva ha impegnato i sistemi di difesa aerea ucraini per tutta la notte. Gli allarmi antiaerei hanno suonato ininterrottamente fino alle 9 del mattino del 18 maggio, testimoniando l’intensità e la durata dell’attacco. Dei 273 droni, 88 sono stati abbattuti e altri 128 sono andati fuori rotta. Ma quelli che hanno raggiunto l’obiettivo hanno lasciato un segno profondo. A Obukhiv, a sud della capitale, esplosioni e frammenti hanno raso al suolo edifici residenziali e colpito anche strutture civili nel centro di Kyiv.

Il governatore della regione, Mykola Kalashnik, ha confermato il decesso di una donna colpita dai detriti. Il Centro ucraino per la lotta alla disinformazione, per bocca di Andriy Kovalenko, ha denunciato l’utilizzo sistematico della guerra da parte russa come strumento di pressione durante i negoziati, sottolineando come l’attacco sia parte di una strategia ben precisa: intimidire, fiaccare, forzare concessioni con la violenza.

L’uso massiccio di droni, molti dei quali kamikaze e a basso costo, riflette una tattica russa studiata per logorare lentamente ma inesorabilmente la capacità difensiva ucraina. I sistemi di difesa forniti dall’Occidente sono efficaci ma costosi, e non possono essere ovunque. Saturare i cieli con ondate di droni significa mettere sotto stress le batterie anti-aeree e aprire varchi nelle difese. È una guerra d’attrito tecnologica e psicologica che sta cambiando il volto del conflitto.

Zelensky ha reagito chiedendo un inasprimento delle sanzioni internazionali contro la Russia. Ha ribadito che la pressione economica è uno degli ultimi strumenti rimasti alla comunità internazionale per fermare le uccisioni. Mentre le immagini delle macerie a Kyiv e delle vittime a Sumy fanno il giro del mondo, la Casa Bianca ha annunciato un’iniziativa diplomatica: l’ex presidente Donald Trump parlerà separatamente con Zelensky e Putin lunedì 19 maggio, nel tentativo di riattivare un dialogo tra le parti.

Il tempismo dell’attacco non è casuale. I droni sono stati lanciati subito dopo i colloqui falliti, in una sorta di messaggio armato che cancella ogni spazio per illusioni. La Russia non sembra interessata a negoziare da una posizione di parità. Vuole trattare solo quando l’Ucraina sarà stremata, militarmente o economicamente. Kyiv, al contrario, continua a insistere sulla necessità di un dialogo fondato sul diritto internazionale e sul rispetto dell’integrità territoriale. Nessuna concessione sui territori occupati, nessun passo indietro sulle alleanze occidentali. È una linea dura, ma coerente con l’idea di sovranità che il popolo ucraino sta difendendo con le armi.

Il quadro che si delinea è quello di una guerra entrata in una fase di pericoloso stallo, in cui ogni azione militare rischia di far deragliare definitivamente i pochi margini di trattativa rimasti. Con oltre il 20% del territorio ucraino ancora sotto occupazione russa e milioni di cittadini sfollati, le prospettive di pace sembrano ancora lontane. Gli esperti militari vedono due scenari possibili all’orizzonte: un’escalation ulteriore, con attacchi su larga scala per influenzare lo scambio di prigionieri e guadagnare vantaggi strategici, oppure un consolidamento difensivo da parte ucraina, in attesa di nuovi rifornimenti militari da parte della NATO.

In entrambi i casi, la richiesta di Kyiv rimane la stessa: garanzie di sicurezza vincolanti da parte della comunità internazionale. Senza questo elemento, ogni trattativa rischia di trasformarsi in una tregua apparente, preludio a nuove ostilità. La sfida non è solo militare, ma politica. È la definizione stessa dell’ordine europeo e del concetto di sovranità a essere in gioco.

L’attacco del 18 maggio non è solo un episodio bellico. È il simbolo di un conflitto che ha ormai assunto una dimensione totale, in cui le battaglie si combattono sul campo, nei cieli, nei palazzi del potere e nei media internazionali. Una guerra che non può essere congelata con un compromesso qualsiasi, ma solo risolta attraverso un equilibrio che riconosca i diritti di chi è stato aggredito e punisca chi ha violato le regole fondamentali della convivenza tra Stati.

Finché questo equilibrio non verrà raggiunto, gli attacchi continueranno. I droni voleranno ancora sopra le città ucraine. E il mondo resterà con il fiato sospeso, in attesa di capire quale sarà la prossima mossa.