Punti chiave
Negli ultimi giorni, il fragile equilibrio nella Striscia di Gaza ha mostrato quanto il cessate il fuoco fra Israele e Hamas sia solo una tregua sottile, sostenuta più da necessità geopolitiche che da un reale mutamento delle dinamiche di potere.
Hamas, nonostante le devastazioni subite e la perdita di buona parte delle sue infrastrutture, sta tentando con forza di riaffermarsi come unica autorità legittima nel territorio, colpendo duramente le milizie rivali e i clan armati che negli ultimi mesi hanno sfruttato il vuoto di potere per consolidare il proprio controllo su intere aree urbane.
Le vie di Gaza City e Khan Yunis, dove fino a poche settimane fa regnavano le bande armate in una drammatica frammentazione sociale, vedono ora la presenza di pattuglie di Hamas, uomini in divisa che cercano di ristabilire un ordine apparente. Questa riaffermazione di forza è un messaggio politico oltre che militare: Hamas vuole dimostrare di essere ancora il centro di gravità della governance palestinese, nonostante le pressioni internazionali affinché si ritiri dal potere e consenta la creazione di un’amministrazione transitoria sotto supervisione esterna.
Hamas non vuole perdere Gaza
Il cessate il fuoco, frutto della mediazione di Stati Uniti, Qatar, Egitto e Turchia, ha posto sul tavolo condizioni molto chiare: il disarmo progressivo di Hamas e il trasferimento della gestione del territorio a un’entità amministrativa internazionale, accompagnata da un piano di ricostruzione in più fasi. Ma Hamas ha resistito, dichiarando che non può “disarmare mentre Gaza è ancora instabile e soggetta a continue infiltrazioni”. Israele, dal canto suo, conserva il controllo militare di diverse zone della Striscia e osserva con preoccupazione l’evolversi della situazione. Il primo ministro Benjamin Netanyahu ha più volte ribadito che “la guerra finirà solo quando Hamas sarà completamente smantellata”.
Sul terreno la realtà è molto più complessa: dopo due anni di bombardamenti, occupazioni parziali e carestia, il tessuto sociale della Striscia è frantumato. Clan come i Doghmush, gli Abu Shabab e gli al-Mujaida si sono armati, hanno creato checkpoint autonomi e si sono imposti in questi anni come nuovi centri di potere locale. Alcuni di questi gruppi hanno avuto nei mesi scorsi un sostegno indiretto da parte di Israele, che li ha considerati un possibile contrappeso a Hamas. Ma questa strategia, avvertono gli analisti, rischia di riprodurre dinamiche già viste in Afghanistan negli anni Ottanta, quando le potenze esterne alimentarono milizie locali che in seguito si rivoltarono contro chi le aveva sostenute.
Le violenze tra Hamas e i clan non si sono fermate con la tregua. Nel quartiere di Sabra, a Gaza City, gli scontri con la potente famiglia Doghmush hanno causato almeno 27 morti, tra cui otto membri di Hamas, mentre nella zona di Khan Yunis il raid contro il clan al-Mujaida ha lasciato sul campo decine di vittime.
Questi episodi rivelano la difficoltà del movimento islamista nel riprendere un controllo capillare del territorio e nel garantire la sicurezza interna. Le stesse fonti palestinesi riconoscono che la proliferazione di armi leggere e la totale assenza di un’autorità civile efficace rendono ogni tentativo di stabilizzazione un’impresa quasi impossibile.
Trump appoggia il regolamento di conti
Donald Trump, oggi presidente degli Stati Uniti e principale mediatore del cessate il fuoco, ha commentato la repressione interna di Hamas in termini sorprendentemente diretti, affermando che il gruppo “ha eliminato alcune gang pericolose” e che questo “non lo preoccupa affatto”. Tuttavia, ha precisato che gli Stati Uniti sono pronti a intervenire “rapidamente e con forza” nel caso Hamas rifiuti di disarmarsi, lasciando intendere che Washington non intende consentire una rinascita militare del movimento.
Fonti diplomatiche vicine alle delegazioni arabe coinvolte nei colloqui hanno spiegato che la Casa Bianca punta a consolidare una forma di amministrazione neutrale, composta da tecnocrati palestinesi ma supervisionata da un’alleanza internazionale guidata dagli Stati Uniti.
Nel frattempo, all’interno di Gaza cresce un sentimento ambivalente fra la popolazione civile. Alcuni cittadini vedono nel ritorno delle pattuglie di Hamas una garanzia minima di sicurezza dopo mesi di anarchia, mentre altri denunciano la brutalità delle operazioni di “ripulitura” della milizia islamista, accusata di esecuzioni sommarie e arresti arbitrari. Le famiglie delle vittime parlano di incursioni notturne, sparizioni e torture, segnali di un clima di paura che ricorda gli anni più bui del controllo totalitario di Hamas.
A questo si aggiunge una crisi umanitaria ancora devastante. Secondo organizzazioni internazionali, oltre l’80% della popolazione di Gaza vive oggi senza accesso stabile all’acqua potabile, e le infrastrutture sanitarie restano paralizzate: solo un terzo degli ospedali è operativo. Le tensioni tra le diverse fazioni palestinesi rendono inoltre difficoltosa la distribuzione equa degli aiuti, spesso confiscati dai gruppi armati per rafforzare la propria influenza.
La lotta è per il potere non per la libertà
Tra i clan più attivi dopo il cessate il fuoco figura anche quello di Abu Shabab, operativo nel sud della Striscia, che ha istituito posti di blocco e imposto “tasse di passaggio” a convogli umanitari, tra cui veicoli delle Nazioni Unite e della Croce Rossa. Secondo fonti locali, l’esercito israeliano, pur consapevole di queste attività, avrebbe evitato di intervenire, probabilmente per non rischiare nuovi scontri e per favorire la pressione interna su Hamas.
Questa tolleranza, tuttavia, ha alimentato la percezione che Tel Aviv stia lasciando fare ai gruppi palestinesi, per non incorrere in nuovi scontri armati, una strategia che molti pensano sia un “consiglio” di Trump.
Mentre le cancellerie occidentali guardano con crescente incertezza al futuro politico della Striscia, Hamas tenta di dimostrare la propria capacità di governare. I portavoce del movimento affermano di voler “garantire la sicurezza e la stabilità, in vista di un’amministrazione condivisa con altri attori palestinesi”.
Tuttavia, sul terreno, le armi parlano più delle parole. Ogni quartiere di Gaza racconta una storia diversa: a nord prevale ancora la legge dei clan, a sud si combattono guerre private per il controllo degli aiuti, al centro Hamas tenta di imporre la sua disciplina. L’immagine di un potere frammentato è oggi il riflesso del fallimento collettivo di tutte le parti coinvolte, incapaci di offrire ai palestinesi un orizzonte politico chiaro.
Gli analisti della regione concordano sul fatto che la tregua mediata dagli Stati Uniti potrà durare solo se si interverrà su due fronti contemporaneamente: la ricostruzione materiale del territorio e la ricostruzione istituzionale della governance. In assenza di una forza politica condivisa e legittimata, Gaza rischia di scivolare in una condizione di “somalizzazione”, dove il potere si disperde tra fazioni locali, signori della guerra e interessi esterni.
Le prospettive per una stabilità duratura, dunque, restano incerte, e gli occhi del mondo tornano a puntarsi su una terra dove il confine tra guerra e pace è sempre più sottile e dove il cessate il fuoco non coincide con la fine della violenza, ma solo con il suo mutare di forma.