Punti chiave
Il gruppo privato Gaza Humanitarian Foundation (GHF), sostenuto dagli Stati Uniti e con il benestare di Israele, ha inaugurato giovedì un terzo centro di distribuzione nella Striscia e promette di aprirne altri nelle prossime settimane. L’afflusso di migliaia di palestinesi in cerca di viveri ha però messo subito a dura prova il nuovo sistema, il cui debutto, martedì, era precipitato in scene di panico: le recinzioni sono state abbattute, le guardie private costrette alla fuga e tutto ciò che poteva essere portato via – tubi, lamiere, persino il filo spinato – è sparito fra la folla.
Da allora la fondazione dichiara di aver servito poco più di 1,8 milioni di pasti, ma le critiche non si placano. Le Nazioni Unite e diverse ONG bollano l’iniziativa come insufficiente e mal concepita, incapace di colmare il vuoto lasciato dalle undici settimane di blocco imposto da Israele sugli aiuti diretti a Gaza.
Tra chi si è fatto largo fino agli hub c’è Wessam Khader, 25 anni, padre di un bimbo di tre: «La fame mi ha costretto ad andarci; da settimane non avevamo farina né altro», racconta da Rafah. Da martedì è in fila ogni giorno, ma solo il primo è riuscito a ottenere un pacchetto da 3 kg con farina, sardine in scatola, sale, noodles, biscotti e marmellata.
Al suo arrivo, le promesse israeliane di identificare e tenere lontani i sospetti affiliati a Hamas sembravano già crollate sotto la pressione della massa. «Nessuno mi ha chiesto documenti, non c’erano varchi elettronici: tutto era finito schiacciato», dice.
GHF sostiene di aspettarsi reazioni simili da una «popolazione in stato di angoscia». L’ONU replica che il volume di aiuti resta distante anni luce dai fabbisogni: prima della guerra servivano 500-600 camion al giorno, mentre ora l’afflusso è «equivalente a una scialuppa dopo il naufragio», usando le parole dell’inviata Onu per il Medio Oriente Sigrid Kaag.
Per i residenti del Nord di Gaza, isolati dai punti di distribuzione del sud, anche queste briciole restano un miraggio. «Vediamo i video della gente che riceve qualcosa, ma a noi dicono che nessun camion può passare», spiega Ghada Zaki, 52 anni, madre di sette figli a Gaza City.
Mentre migliaia di persone cercano cibo, i raid aerei israeliani proseguono. Giovedì, secondo i medici locali, almeno 45 palestinesi sono morti, 23 dei quali colpiti nel campo di Bureij, nel centro della Striscia. L’esercito israeliano rivendica «decine di obiettivi» neutralizzati – depositi d’armi, postazioni di cecchini, tunnel. Il ministero dell’Interno guidato da Hamas riferisce che diversi agenti di polizia sono rimasti uccisi durante un’operazione contro saccheggiatori a Gaza City.
Diplomazia in stallo
Nel frattempo crescono le speculazioni su un possibile cessate il fuoco: l’inviato speciale di Donald Trump, Steve Witkoff, ha rivelato che la Casa Bianca sta lavorando a una bozza di accordo che Hamas afferma di “esaminare”. Restano però gli stessi scogli che hanno fatto naufragare i negoziati di marzo: Israele pretende il disarmo e lo smantellamento totale di Hamas, oltre alla liberazione dei 58 ostaggi tuttora prigionieri; Hamas rifiuta di consegnare le armi e chiede il ritiro delle truppe israeliane.
La pressione internazionale su Tel Aviv aumenta: persino Paesi europei finora prudenti chiedono la fine del conflitto e un massiccio piano di soccorso.
Una guerra che devasta
Israele ha lanciato l’offensiva dopo l’attacco del 7 ottobre 2023, costato la vita a circa 1.200 israeliani e culminato nel rapimento di 251 persone portate a Gaza. Da allora, secondo il ministero della Sanità locale, l’operazione militare ha ucciso oltre 54.000 palestinesi e ridotto la Striscia in macerie.
Mentre il terzo hub di GHF si apre fra le macerie e il frastuono delle bombe, resta intatta la domanda centrale: basteranno nuovi punti di distribuzione a placare la fame di oltre due milioni di persone o servirà, prima di tutto, far tacere le armi?