La tensione in Israele continua a salire mentre il secondo giorno di protesta per il ritorno dei sequestrati nelle mani di Hamas si fa sentire con forza in tutto il paese.
Dall’alba, le strade si sono trasformate in teatri di mobilitazione: grandi bandiere sono state srotolate davanti all’ambasciata americana e decine di arterie stradali sono state bloccate dai manifestanti, determinati a mantenere viva l’attenzione pubblica sulla sorte dei prigionieri ancora trattenuti nella Striscia di Gaza. Gli organizzatori non intendono mollare la presa e hanno costruito una giornata di protesta che culminerà in serata mentre la mobilitazione, alimentata da rabbia e determinazione, abbraccia tutto il paese.
La mattina si è aperta con una serie di blocchi stradali che hanno messo a dura prova la viabilità. Dalle 6:30 le autostrade sono state parzialmente bloccate, mentre isolati interventi della polizia sono riusciti a tenere aperti solo temporaneamente alcuni snodi critici. Anche la zona centrale e settentrionale si è presto ricoperta di punti caldi: il traffico su arterie principali come la 4° e la 40° è stato fortemente interrotto, così come nei principali svincoli del nord e del sud. Le immagini parlano chiaro: cittadini comuni, attivisti e parenti dei sequestrati si sono schierati fianco a fianco, con la volontà di non lasciare che l’opinione pubblica distolga lo sguardo dalla vicenda.
Tra le voci più sentite spicca quella delle famiglie dei rapiti. Alle prime luci del giorno, nell’epicentro simbolico della protesta, la piazza dei sequestrati a Tel Aviv, si sono radunate decine di persone per ascoltare i familiari che invocano attenzione e responsabilità. Parole dure sono state pronunciate da madri e padri di alcuni dei giovani ancora nelle mani di Hamas: “Oggi è chiaro che Netanyahu teme una cosa sola: la pressione pubblica. Hanno provato a insabbiare, hanno diffuso documenti riservati con rischi per la sicurezza dello Stato, hanno attaccato sopravvissuti e famiglie, tutto pur di silenziare il caso. Abbiamo un popolo meraviglioso ma senza un vero governo, e la lotta per riportare a casa chi è ancora prigioniero è ormai nelle mani di tutti noi”.
La madre di un rapito:Abbiamo un popolo meraviglioso ma senza un vero governo, e la lotta per riportare a casa chi è ancora prigioniero è ormai nelle mani di tutti noi
Non mancano nemmeno le prese di posizione nei confronti degli Stati Uniti. Le famiglie dei sequestrati si sono rivolte direttamente all’ex presidente Donald Trump dopo alcune sue dichiarazioni secondo cui la guerra “potrebbe finire in un paio di settimane”. In una nota, il coordinamento delle famiglie ha risposto: “Preghiamo che sia vero; hai promesso ai sopravvissuti che hai incontrato che avresti riportato tutti a casa. Ora è il momento di mantenere la promessa”. Il tono di ogni appello è carico di urgenza e la speranza è che si possa concludere un accordo prima che sia troppo tardi.
La polizia, impegnata nel delicato compito di bilanciare il diritto di protesta con la tutela della circolazione, si è immediatamente attivata per aggiornare la popolazione sulle condizioni del traffico. “A dispetto delle fake news, tutte le principali arterie sono state nuovamente riaperte in breve tempo,” si legge in una nota ufficiale. Tuttavia, la diffusione delle proteste fa sì che, in molte zone, la situazione rimanga fluida e basta poco per ritrovare nuove chiusure o rallentamenti.
Tra i racconti della giornata quello di Chagit Chen, madre di Itai, giovane militare rapito, tocca direttamente il cuore della platea e del paese: “Lottare per riportare a casa mio figlio, con lui altri 49 rapiti, ciascuno dei quali è un mondo intero, è una sfida insopportabile. Non solo per la loro vita anche per la memoria di chi ha combattuto per salvarli,” afferma. La madre denuncia la scelta politica di proseguire le azioni militari invece di cercare un accordo che potrebbe riportare indietro i propri cari: “Esiste davvero l’opportunità, ora, di portare a casa i nostri amati. La chiusura politica di questa finestra di possibilità, in favore della strategia militare, rischia di perdere la chance per sempre”. Le sue parole fanno eco a una sensazione diffusa: il popolo non intende più essere spettatore inerte mentre una generazione potrebbe crescere nell’ombra dell’assenza e della paura. “Stiamo assistendo in diretta a una manovra per far fallire la trattativa, ma il popolo israeliano non è ingenuo. Abbiamo gli occhi aperti e sentiamo lo Stato al nostro fianco”.
Le manifestazioni, tuttavia, non si fermano alle principali arterie urbane. Nell’area di Sderot e di tutto il confine con Gaza le voci dei parenti si fanno sentire con maggior forza. Marce spontanee e blocchi hanno animato incroci strategici, alimentando una pressione continua sul governo Netanyahu che, secondo i manifestanti, avrebbe abdicato al suo ruolo di tutela. La convinzione condivisa da molti è che la mobilitazione sia ormai l’unica leva in grado di forzare la politica a una soluzione diplomatica.
Le strade di Tel Aviv, così come i nodi stradali del nord e del sud, sono diventate il palcoscenico di questo braccio di ferro. Il trasporto pubblico e l’economia locale ne subiscono inevitabilmente le conseguenze, ma nessuna delle parti sembra intenzionata ad abbandonare il campo. Un senso di comunità traspare da ogni testimonianza, e il messaggio dalle piazze è chiaro: la battaglia per la liberazione degli ostaggi è diventata la battaglia di tutto il popolo israeliano.
Quanto accade in queste ore in Israele è lo specchio di una società scossa, ferita ma incredibilmente coesa dal dolore e dalla speranza condivisa. Più passano le ore più emerge la convinzione che solo un coinvolgimento emotivo e numerico sempre maggiore potrà forzare la mano a chi ha in questo momento il potere di decidere le sorti dei prigionieri. L’emozione e la rabbia scorrono nelle vie come un fiume vigoroso che attraversa ogni barriera. In ogni intervista, in ogni slogan, il messaggio è: nessuno sarà dimenticato, nessuno verrà lasciato indietro.