Israele è al centro di una delle crisi politiche e militari più delicate della sua storia recente, una crisi che si svolge sotto gli occhi attenti della popolazione ebraica e araba. In Israele la scena politica è dominata dal piano del Primo Ministro Benjamin Netanyahu e dal suo governo di procedere verso il controllo completo di Gaza City e, in prospettiva, di tutta la Striscia di Gaza, una scelta che sta letteralmente spaccando il paese e accendendo reazioni fortissime nel mondo arabo.
La tensione in Israele è palpabile: analisti, politici, ex ufficiali dell’esercito e leader dei movimenti di protesta animano costantemente il dibattito sulla sostenibilità e la legittimità di questa mossa. Siamo di fronte ad una società israeliana lacerata tra una leadership politica orientata allo scontro totale e una parte significativa dell’opinione pubblica, delle famiglie degli ostaggi e della società civile che teme ripercussioni catastrofiche, sia in termini umanitari sia per l’immagine internazionale del paese.
All’interno delle riunioni del gabinetto, Netanyahu si trova stretto tra la pressione degli alleati dell’estrema destra, come il Ministro delle Finanze Smotrich e il Ministro Itamar Ben-Gvir e le fortissime critiche dell’apparato militare. Questi ultimi, già esausti da mesi di operazioni militari costose e rischiose, vedono nel piano di occupazione di Gaza City e nei richiami alla mobilitazione di decine di migliaia di riservisti una strada pericolosa che potrebbe mettere a rischio la vita degli ultimi ostaggi e aggravare una crisi già fuori controllo.
Proprio tra la popolazione israeliana monta la preoccupazione per il destino dei circa venti ostaggi ancora in mano a Hamas. Le famiglie si mobilitano, scendono in piazza, organizzano scioperi generali che paralizzano settori chiave della società: sulle pagine delle principali testate ebraiche, la voce delle famiglie degli ostaggi diventa una delle più autorevoli e ascoltate. La loro posizione è chiara: procedere a un’operazione armata nelle aree dove si trovano i prigionieri rischia di comprometterne irreparabilmente la sorte, innescando una reazione a catena che nessuno può controllare.
In parallelo c’è il dramma dei civili palestinesi ormai ridotti allo stremo da una serie di assedi progressivi e dal rischio concreto di un’occupazione militare di Gaza City. Al-Manar, nelle sue corrispondenze quotidiane, descrive una città in cui la popolazione teme un nuovo disastro umanitario. Le parole della stampa araba sono lapidarie: “l’operazione comporterà la deportazione forzata di un milione di persone e la distruzione sistematica delle case palestinesi”, molti rilanciano la decisione israeliana come una scelta che porterà alla commissione di ulteriori crimini di guerra e crimini contro l’umanità.
La strategia israeliana, articolata in cinque punti prevede la distruzione militare di Hamas, la liberazione di tutti gli ostaggi, la demilitarizzazione della Striscia e l’instaurazione di un’amministrazione alternativa a Hamas e all’Autorità Nazionale Palestinese, nessun nome è stato ancora indicato, alimentando molte incertezze sul dopo. Il nodo risiede nell’approvazione del piano da parte del cosiddetto “gabinetto di sicurezza”, che raggruppa solo i ministri strategici e fedeli, e non tutto il governo. Questo piccolo organo ha dato il via libera sostenendo la linea “dura” di Netanyahu, benché molti alleati ritengano che, senza un’occupazione diretta e durevole, Hamas possa rigenerarsi facilmente.
Ma tutto il Mondo ha il timore di una “catastrofe umanitaria” e questo pare sia condiviso anche da parte dell’apparato di sicurezza, nonché da leader arabi.
Uno degli aspetti più inquietanti riguarda la gestione degli sfollati e le condizioni della popolazione civile a Gaza City. Israele ha già ordinato la costruzione di nuovi campi profughi a sud e ha disposto evacuazioni di massa, con la Croce Rossa e le organizzazioni internazionali che sollevano il rischio di morte per fame e per mancanza di assistenza medica. La stessa IDF starebbe, secondo indiscrezioni, tentando di coordinare i movimenti degli aiuti umanitari affinché non finiscano nelle mani di Hamas, ma tale politica non è sufficiente a placare i timori di una tragedia imminente.
Nel frattempo, sul fronte politico, il governo Netanyahu è attraversato da tensioni che emergono quotidianamente. In particolare, si discute del rischio che la crisi di Gaza diventi il detonatore di una crisi istituzionale più ampia: la minoranza parlamentare minaccia le dimissioni e la società civile, spalleggiata dalle famiglie degli ostaggi, teme che una guerra allargata inneschi una spirale di proteste come quelle viste nei mesi contro la riforma della giustizia. L’Istituto Israeliano per la Democrazia pubblica sondaggi che mostrano una società profondamente divisa, con la fiducia nei confronti dell’esecutivo ai minimi storici e la paura reale di una “frattura irreparabile” del tessuto sociale.
L’eco delle voci arabe trova chiara rispondenza anche fra le leadership dei paesi vicini: a più riprese il presidente palestinese Mahmoud Abbas ha definito la decisione israeliana un nuovo crimine che sarà portato dinanzi al Consiglio di Sicurezza ONU, mentre le capitali del Golfo e del Maghreb parlano di “solitudine diplomatica” di Israele, ormai isolato sia dall’Europa sia dai mercati arabi. La bocciatura della strategia israeliana è netta con la previsione che “l’occupazione potrà durare mesi, senza che si profili un reale successore politico per la gestione della Striscia”.
Emerge una questione centrale: chi governerà Gaza dopo Hamas? La risposta oscilla fra l’ipotesi di una forza araba internazionale, opzione che ha pochissime possibilità di realizzarsi e la prospettiva di un vuoto di potere che potrebbe favorire una nuova ondata di estremismo, anche oltre i confini di Israele. Un analista riassume il sentimento dominante: “la soluzione militare è solo l’inizio di una crisi politica regionale destinata a destabilizzare tutto il Medio Oriente”.
Dall’interno dei territori palestinesi, infine, l’impressione è di una popolazione esausta di emergenze, bombardamenti e nuove deportazioni, ma ancora convinta che “la fine di Hamas non possa essere imposta da fuori e che la sopravvivenza di Gaza passi necessariamente da una soluzione che coinvolga la rappresentanza locale, non solo un decennio di occupazione militare”.
La cronaca rispecchiata da questa pluralità di idee è dunque quella di un paese e di una regione sospesi tra guerra, disperazione e ricerca spasmodica di una nuova narrazione. Il mondo osserva con il fiato sospeso ma rimane per tutti una unica urgenza condivisa, quella di uscire finalmente da una spirale di sangue, vendetta e smarrimento che nessuno, da Gerusalemme a Gaza, sembra più in grado di governare davvero.