L’attacco israeliano ai leader di Hamas in Qatar, avvenuto durante delicate trattative di cessate il fuoco, ha rappresentato uno spartiacque nella lunga e complessa guerra tra Israele e Hamas, evidenziando i limiti strategici dell’approccio militare di Israele e la fragilità delle mediazioni internazionali di Doha. In uno degli episodi più audaci e controversi del conflitto, l’aeronautica israeliana ha colpito la sede della leadership politica di Hamas mentre si stavano vagliando le proposte americane per un cessate il fuoco, seminando terrore nel cuore del Qatar, un Paese finora rimasto attore di mediazione e mai di belligeranza diretta.
La notizia ha subito fatto il giro del mondo sollevando ondate di condanna globale: l’azione israeliana, diretto affronto alla sovranità di Doha ha causato almeno sei morti, tra cui cinque membri di Hamas e un agente della sicurezza qatarina, ma non ha colpito i vertici principali del movimento: Khalil al-Hayya, uno dei capi negoziatori, è scampato all’assalto.
La risposta qatariota non si è fatta attendere e la condanna del primo ministro Mohammed binrahman-Thani è stata secca e durissima: «Israele ha intenzionalmente cercato di ostacolare ogni tentativo di pace», ha dichiarato, ribadendo che Doha non si sarebbe arresa, decidendo di proseguire comunque la propria azione di mediazione malgrado “le provocazioni”. Qatar, peraltro, ospita Al Udeid, l’importante base militare americana in Medio Oriente e da tempo svolge il ruolo di mediatore non solo tra Israele e Hamas, ma anche tra molti attori globali in crisi: proprio per questo l’attacco è stato interpretato come una mossa che rischia di compromettere gli equilibri regionali ed internazionali, mettendo in discussione l’efficacia della diplomazia multilaterale.
Le motivazioni israeliane rimangono controverse. Tel Aviv ha ufficialmente dichiarato di essere intervenuta autonomamente. Secondo il presidente Trump, il governo degli Stati Uniti avrebbe avvertito i qatarioti in extremis, ma la tempistica del raid rimane oggetto di intensi dibattiti. L’operazione è stata condotta con un alto numero di jet, bombe e droni, ma la sua efficacia strategica resta in dubbio: Hamas ha subito perdite, però la leadership è rimasta intatta e, secondo la stessa organizzazione, la volontà di negoziare un cessate il fuoco non cambia, anche se la tensione è ormai alle stelle.
Il contesto in cui è avvenuto il raid è estremamente complesso. Il Qatar è da anni la cassaforte diplomatica del Medio Oriente, sede di trattative spesso segrete e location neutrale per la risoluzione di crisi che coinvolgono Afghanistan, Libano, Yemen e Iran. Il suo ruolo nella guerra tra Israele e Hamas era già stato criticato per l’accoglienza ai leader palestinesi, ma questa accusa si inserisce all’interno di una politica, sostenuta dagli Stati Uniti, di dialogo indiretto per favorire trattative e liberazione degli ostaggi israeliani detenuti nella Striscia. La capacità di Qatar come mediatore, basata sia su relazioni strategiche sia sulla presenza militare statunitense, viene ora messa in dubbio dal raid israeliano, che rischia di raffreddare anche i rapporti con Washington. Secondo gli analisti, infatti, il raid rischia di indebolire la credibilità del Qatar come mediatore “neutrale” poiché dimostra che non è comunque immune da attachi, e, allo stesso tempo, di incrinare la fiducia reciproca tra Doha e Washington, perché gli americani non sono riusciti a proteggere il loro alleato, il Qatar, dall’attacco israeliano.
Dal punto di vista geopolitico, emergono interrogativi sempre più pressanti. La brutalità dell’attacco, proprio mentre erano in corso negoziati cruciali, rischia di minare le possibilità di un cessate il fuoco. Non è sfuggito agli osservatori che Qatar ha deciso di non espellere Hamas, ma di “riesaminare tutto” riguardo al proprio ruolo di mediatore, un segnale inequivocabile che il raid israeliano potrebbe aver portato la diplomazia regionale sull’orlo dell’abisso. I tentativi di dialogo sono ostacolati dalla convinzione, esplicitata dai rappresentanti Hamas e da molti Paesi arabi, che il governo Netanyahu non sia realmente interessato a una soluzione negoziata, quanto piuttosto a una “eliminazione totale” dei vertici palestinesi, anche a costo di destabilizzare l’intera regione.
Nel frattempo il prezzo umano del conflitto resta altissimo: dall’inizio dell’offensiva di Hamas il 7 ottobre 2023, la guerra ha mietuto circa 64.600 vittime e più di 163.000 feriti, con danni incalcolabili nelle aree civili di Gaza. L’attacco su Doha ha anche scatenato una corsa alla sicurezza nella capitale qatariota, con operazioni di pattugliamento rafforzate, il blocco di interi quartieri da parte delle forze di sicurezza e una percezione generalizzata di vulnerabilità.
Nonostante le ferite ancora aperte e le perdite subite, Hamas, Qatar e i mediatori internazionali non intendono rinunciare alla via diplomatica: il gruppo palestinese ha immediatamente diramato comunicati in cui la leadership ribadisce la priorità assoluta alla fine delle ostilità, al ritiro totale delle truppe israeliane da Gaza e alla liberazione degli ostaggi. La politica del dialogo, la pressione sui governi occidentali e la costante richiesta di aiuti umanitari rimangono, almeno formalmente, al centro delle strategie di Hamas e dei mediatori regionali, nella speranza che la guerra non precipiti in uno scenario ancora più incontrollabile.
L’attacco israeliano in Qatar rivela i confini sempre più labili tra azioni militari e diplomazia internazionale: l’episodio mostra come, nel contesto di una guerra che si protrae ormai da quasi due anni, l’illusione di una “vittoria totale” appaia di fatto irraggiungibile senza una vera trattativa tra le parti. Il futuro della regione, così come quello delle complesse trattative internazionali, appare appeso a un filo sottilissimo.