La mobilitazione di decine di migliaia di riservisti israeliani per una nuova offensiva su Gaza City segna un momento di grande tensione nella società israeliana. Sempre più soldati, con l’appoggio di gruppi organizzati e delle loro stesse famiglie, stanno rifiutando di obbedire agli ordini, rischiando conseguenze giuridiche e personali. Questo fenomeno si inserisce in una fase di profonda crisi politica e morale, con la guerra contro Hamas che prosegue senza soluzione apparente e le tensioni interne che si fanno ogni giorno più accese.
Il conflitto tra Israele e Hamas, iniziato quasi due anni fa dopo l’attacco di ottobre, ha raggiunto un livello di devastazione che rende sempre più difficile distinguere tra obiettivi militari e impatti sulla popolazione civile. La decisione del governo di richiamare numeri imponenti di riservisti per espandere l’offensiva su Gaza City ha generato forte dissenso, sia tra i militari che nella società civile. Numerosi soldati hanno dichiarato pubblicamente di non voler più tornare a combattere.
Madri e famiglie intere si sono unite al coro dei contrari, temendo per la sorte dei loro figli e chiedendo un immediato cambiamento di rotta.Alcuni riservisti e diversi critici interni al Paese sostengono che la prosecuzione della guerra risponda non soltanto a esigenze di sicurezza, ma anche a calcoli politici del governo. Secondo queste voci, la scelta di continuare le operazioni militari rischia di mettere in ulteriore pericolo gli ostaggi israeliani ancora nelle mani di Hamas.
I gruppi di riservisti che rifiutano il servizio sono sempre più attivi e visibili. Numerosi comunicati vengono diffusi sui social e in conferenze stampa, dove si afferma chiaramente la volontà di non partecipare a un conflitto considerato illegittimo, dannoso e, nei termini degli stessi militari, “un tradimento verso gli ostaggi, i cittadini e i principi morali della nazione”. Spiccano dichiarazioni come quella di un riservista di Unit 8200, che denuncia il “peso politico e non più strategico della guerra”, facendo appello a una responsabilità personale e collettiva.
La reazione delle istituzioni è ferma. Lo Stato Maggiore israeliano ha dichiarato che chi rifiuta apertamente la mobilitazione non potrà più prestare servizio militare. La portata del fenomeno, tuttavia, rimane difficile da quantificare: non esistono dati ufficiali, ma le stime parlano di centinaia di riservisti già pronti alla disobbedienza a oltranza; in alcune unità, lettere di protesta sono arrivate a raccogliere molte firme. Per molti di loro, il rischio di finire in carcere o perdere la propria posizione viene interpretato come “patriottismo morale”, una nuova forma di servizio alla collettività.
Sul fronte politico, la contestazione interna al governo Netanyahu si amplifica. Tantissimi manifestanti scendono in piazza accusando il Primo Ministro di prolungare la guerra per interesse personale, a scapito dei negoziati con Hamas per la liberazione degli ostaggi ancora vivi. Ex generali e alti funzionari della sicurezza ammoniscono sul rischio che la nuova campagna militare metta ulteriormente in pericolo i prigionieri israeliani nelle mani di Hamas, mentre la comunità internazionale intensifica la condanna per la crisi umanitaria in corso nella Striscia.
La pressione internazionale si fa sentire: tantissime ONG e fonti diplomatiche denunciano la mancata consegna di aiuti umanitari alla popolazione di Gaza, ormai alla fame e costretta in condizioni drammatiche a causa del blocco israeliano. Ospedali, scuole e interi quartieri sono ridotti in macerie: la guerra mostra un impatto devastante su civili, bambini e anziani, rendendo la posizione degli oppositori interni ancora più rilevante per l’opinione pubblica mondiale.
Accanto ai soldati e alle famiglie, molte figure di spicco del panorama sociale e accademico israeliano sostengono il diritto al rifiuto, citando la necessità di distinguere tra l’obbedienza agli ordini e la responsabilità etica. Secondo diverse testimonianze, la crescente mobilitazione nasce anche dalla mancanza di una strategia chiara: “Abbiamo attaccato Hamas, ma oggi non sappiamo quali siano davvero gli obiettivi. Mandare i giovani a combattere senza una vera direzione è un atto irresponsabile”, afferma un riservista intervistato in una trasmissione nazionale.
Nonostante il clima di conflittualità, la maggioranza dei riservisti continua a presentarsi alle chiamate per adempiere agli obblighi di legge e sostenere il Paese. Tuttavia, il movimento dei cosiddetti “refuseniks” è in crescita. Secondo gli analisti, questa frattura interna potrebbe influenzare nel medio periodo la capacità dell’esercito di sostenere operazioni prolungate e complicare la gestione strategica della guerra. La polemica riguarda anche le implicazioni legali: secondo il codice militare israeliano, rifiutare la chiamata può portare a pene detentive; tuttavia, nella pratica, solo pochi sono stati effettivamente processati.
Mentre Israele prepara ulteriori mobilitazioni e intensifica le campagne in Gaza, le tensioni sociali dilagano. Le famiglie degli ostaggi continuano a manifestare, chiedendo una soluzione diplomatica che ponga fine ai combattimenti e garantisca il ritorno dei propri cari. Sui social si moltiplicano appelli, lettere aperte e petizioni contro l’escalation.
La guerra prosegue, ma il dibattito interno su responsabilità, etica militare e senso collettivo del sacrificio si fa sempre più intenso. La protesta dei riservisti evidenzia una profonda frattura sociale su cosa significhi proteggere Israele, offrendo una nuova prospettiva sul rapporto tra Stato, cittadini e forze armate. In questo contesto mutevole, le scelte individuali diventano il simbolo di una società che cerca risposte a domande drammatiche e senza soluzioni semplici.