La guerra in Afghanistan iniziata il 7 ottobre 2001 come risposta agli attentati dell’11 settembre fu presentata come una campagna rapida per distruggere Al-Qaida, rovesciare il regime talebano che la ospitava e impedire che il paese tornasse a essere un santuario del terrorismo.
Venti anni dopo, nell’agosto 2021, i talebani entravano a Kabul quasi senza combattere e restauravano l’Emirato Islamico, mentre le ultime truppe statunitensi e NATO lasciavano il paese. In mezzo, una sequenza di operazioni militari, insurrezioni, accordi politici e fallimenti istituzionali ha prodotto un bilancio umano e strategico pesantissimo.
Secondo stime riconosciute, il conflitto ha ucciso circa 176 mila persone, inclusi oltre 46 mila civili, e ha generato milioni di rifugiati e sfollati interni, pur registrando periodi di miglioramento in ambito sanitario, educativo e di diritti femminili che non hanno retto all’ultimo collasso statuale del 2021.
L’operazione Enduring Freedom prese forma con una combinazione di bombardamenti aerei mirati, supporto alle milizie dell’Alleanza del Nord e l’impiego di forze speciali. La caduta di Mazar-i Sharif il 9 novembre 2001 e l’abbandono di Kabul da parte dei talebani pochi giorni dopo sembrarono confermare la validità della strategia di abbattere il regime con mezzi relativamente contenuti.
La resa di Kunduz, la fuga del mullah Omar da Kandahar il 7 dicembre e la campagna sulle grotte di Tora Bora completarono la prima fase, benché la mancata cattura di Osama bin Laden alimentasse già allora dubbi sulla tenuta dell’impianto antiterrorismo a lungo termine. In quel primo scorcio di guerra, gli USA e il Regno Unito rivendicarono l’attenzione esclusiva a obiettivi militari e lanci di aiuti umanitari dall’aria; ma le vittime civili, l’effetto dei bombardamenti e le prime accuse di violazioni misero presto in discussione la narrativa di una guerra “pulita” e chirurgica.
Le origini immediate dell’intervento si radicarono nelle relazioni tra Al-Qaida e il regime talebano, consolidatesi dal 1996 con la creazione di campi di addestramento, e nella sequenza di ultimatum lanciati dall’amministrazione Bush dopo l’11 settembre. Le risoluzioni del Consiglio di Sicurezza dell’ONU contro il terrorismo, insieme al riconoscimento dell’Afghanistan quale minaccia alla pace e sicurezza internazionale, furono interpretate da molti come un quadro di legittimità, seppure con margini controversi.
Una parte della dottrina giuridica riconobbe il diritto di legittima difesa, un’altra evidenziò l’assenza di uno Stato aggressore in senso classico. Eppure, il consenso internazionale sulla presenza della coalizione, la creazione dell’ISAF e il mancato isolamento diplomatico dell’operazione consolidarono la cornice politico-istituzionale del conflitto.
Dal 2002 in avanti, il baricentro operativo si spostò da una guerra di rovesciamento del regime a un conflitto controinsurrezionale. Nelle montagne di Shahi-Kot si riorganizzarono nuclei di Al-Qaida e talebani, dando vita a una fase di guerriglia transfrontaliera che sfruttò le aree tribali del Pakistan.
Gli attacchi con razzi, imboscate, ordigni improvvisati e il consolidamento delle retrovie in regioni impervie resero evidente che il “dopoguerra breve” non sarebbe mai arrivato, mentre la ricostruzione dello Stato afghano si scontrava con limiti strutturali, divisioni etniche e una corruzione endemica.
Con l’ingresso pieno della NATO nel 2006 e l’ampliamento dell’ISAF, la campagna cambiò scala. Operazioni come Medusa, Achille e le offensive nel distretto di Helmand riflettevano uno sforzo alleato crescente, con truppe britanniche, canadesi, olandesi e di altri paesi, accanto al dispositivo statunitense. Seguirono la surge annunciata da Barack Obama nel 2009 e, nel 2015, la transizione da ISAF a Sostegno Risoluto, con meno truppe e missione focalizzata sull’addestramento e il supporto. In parallelo, il sistema talebano divenne più fluido, resiliente e territoriale, alimentato anche dai proventi dell’oppio, mentre la governance afghana faticava a legittimarsi agli occhi delle comunità e a garantire sicurezza di base.
Il bilancio umano rimane tra i capitoli più dolorosi. Le stime citano circa 176 mila vittime complessive, con oltre 46 mila civili uccisi e fasi, come il 2011, in cui ai talebani fu attribuita la responsabilità per la grande maggioranza dei decessi civili. La guerra vide inoltre episodi documentati di crimini e violazioni: dai massacri e attentati indiscriminati dei talebani alle uccisioni illegali e alle torture imputate a forze afghane e a reparti occidentali, con inchieste che hanno coinvolto anche la Corte Penale Internazionale.
L’impatto sociale oscillò: nei periodi di più intensa presenza internazionale crebbero aspettativa di vita, scolarizzazione femminile, accesso all’acqua e rappresentanza parlamentare delle donne; ma la fragilità istituzionale rese questi progressi vulnerabili, fino al brusco arretramento imposto dal ritorno talebano.
Sul piano economico-finanziario, i costi furono enormi. Le stime aggregate indicano una spesa complessiva di centinaia di miliardi di dollari, con la quota statunitense preponderante e contributi significativi di Regno Unito, Germania, Italia e altri alleati. Le sole politiche di contrasto al narcotraffico costarono miliardi, senza riuscire a invertire strutturalmente la dipendenza rurale dal papavero da oppio. La resilienza dell’economia dell’oppio — fino a coprire la gran parte dell’offerta mondiale — segnò uno degli scacchi strategici più netti della coalizione e del governo di Kabul.
Il punto di svolta politico fu l’Accordo di Doha del 29 febbraio 2020, che fissò il ritiro statunitense entro 14 mesi a fronte di impegni talebani sul contrasto al terrorismo e sul dialogo intra-afghano. Le liberazioni di prigionieri e la riduzione della presenza militare internazionale prepararono la fase finale.
A maggio 2021 prese avvio il ritiro delle ultime truppe USA e NATO; l’effetto domino nelle province fu rapidissimo, con cadute in sequenza nel Nord e una capitolazione della sicurezza governativa che sorprese per velocità e ampiezza. Il 15 agosto i talebani entrarono a Kabul; il presidente Ashraf Ghani fuggì, e il 19 agosto fu proclamata la restaurazione dell’Emirato Islamico. Le ultime settimane furono segnate dall’evacuazione caotica all’aeroporto e da attentati che mostrarono il ritorno della minaccia jihadista in un ambiente di collasso istituzionale.
Il giudizio storico sul ventennio afghano mescola elementi contrastanti. Da un lato, l’eliminazione di Osama bin Laden nel 2011 e l’assenza, per anni, di un santuario indisturbato di Al-Qaida in Afghanistan furono risultati operativi non marginali. Dall’altro, la mancata costruzione di uno Stato legittimo e autosufficiente, la dipendenza dalla presenza militare straniera e la resilienza politico-militare dei talebani hanno eroso il senso degli obiettivi dichiarati.
Sotto il profilo del diritto internazionale, il dibattito sulla legittimità originaria dell’intervento non ha impedito un ampio sostegno multilaterale nei fatti; ma l’uscita precipitosamente gestita e la resa del terreno a un attore già responsabile di violazioni sistematiche dei diritti umani hanno inciso sull’immagine internazionale dell’Occidente e sulla percezione della coerenza strategica delle sue campagne. L’opinione pubblica nei paesi coinvolti è passata dal sostegno iniziale, molto alto nel 2001, a un crescente scetticismo sul prolungamento della missione e sull’utilità di restare, fino al sostegno maggioritario per il ritiro in diverse democrazie occidentali.
Nel quadro regionale, il ruolo del Pakistan è stato determinante e ambiguo. Le aree tribali transfrontaliere hanno funzionato da retroterra operativo per talebani e affiliati, complicando la logica controinsurrezionale. Allo stesso tempo, Islamabad ha coltivato legami di influenza in Afghanistan per ragioni di sicurezza strategica verso l’India, alimentando una dinamica che ha ostacolato una soluzione afgano-centrica.
Anche l’Iran ha esercitato nel tempo forme di influenza pragmatica, mentre Russia e Cina hanno valutato con attenzione il rischio di spillover jihadista e le opportunità economiche connesse alla stabilità, senza impegnarsi militarmente come l’Occidente. La caduta di Kabul ha ridisegnato gli equilibri regionali, ponendo nuove domande sulla gestione dei flussi migratori, sul narcotraffico e sulla prevenzione di nuovi hub del terrorismo internazionale.
Resta il dato che sintetizza l’intera vicenda: una guerra iniziata per negare spazio operativo al terrorismo e per sostituire un regime teocratico con uno Stato funzionante si è conclusa con il ritorno di quel regime e con istituzioni collassate, mentre milioni di afghani sono ripiombati nell’incertezza e in molte aree nella paura. È una lezione strategica che interroga dottrine militari, strumenti di nation-building e capacità di leggere il terreno sociale oltre il momento cinetico.
Le finestre di progresso registrate tra il 2002 e il 2020 — dall’istruzione femminile all’assistenza sanitaria, dalla crescita urbana all’apertura mediatica — mostrano che una società diversa era possibile, ma non sostenibile senza sicurezza, inclusione politica e lotta efficace alla corruzione. La storia del conflitto afghano dal 2001 al 2021 costringe oggi a ripensare tempi, strumenti e obiettivi di ogni intervento esterno in contesti statali fragili, dove legittimità interna e resilienza socioeconomica contano almeno quanto il successo militare tattico.