WhatsApp. Anche il Garante italiano indaga sui dati degli utenti

Anche in Italia, l’applicazione di instant messagging Whatsapp finisce sotto la lente di ingrandimento del Garante della Privacy Antonello Soro, che chiede all’azienda californiana chiarimenti sull’utilizzo dei dati degli utenti.

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I dubbi di Soro si concentrano sulle modalità di funzionamento dell’applicazione: una volta scaricata ed installata, questa pone come requisito fondamentale il completo accesso alla rubrica dell’utente, non limitandosi a collegare fra di loro contatti già appartenenti alla cerchia Whatsapp, ma immagazzinando anche i dati di utenti estranei al circuito: di fatto, un quantitativo ingente di informazioni finisce negli archivi dell’azienda senza il consenso dei proprietari. Il Garante, in una richiesta ufficiale, chiede a Whatsapp di spiegare dove, come e per quanto tempo i dati vengono conservati, e quale sia il numero esatto di account italiani in loro possesso specificando che ”alcune caratteristiche nel funzionamento dell’applicazione comportano implicazioni e rischi specifici per la protezione dei dati personali degli utenti”.

La richiesta italiana, giunge a breve distanza da un analogo intervento da parte dell’ Office of the Privacy Commissioner del Canada e della Dutch Data Protection Authority, che nel gennaio di quest’anno avevano già sollevato critiche sulla modalità del trattamento dei dati, e alle quali i portavoce di Whatsapp avevano opposto una prima difesa, specificando che i dati degli utenti estranei al circuito venivano effettivamente conservati nei database in California, ma criptati con algoritmo hash, e dunque non consultabili nemmeno agli stessi dipendenti.

Il quadro dirigente di Whatsapp dovrà rispondere alle richieste ed dimostrarsi particolarmente convincente: in gioco non vi è solo il naturale danno d’immagine che l’azienda sta peraltro già subendo a seguito di questi controlli, ma la possibilità di una multa che in casi come questi può rivelarsi particolarmente ingente, come già accadde ad aziende come Google che per aver utilizzato dei codici traccianti nella barra di ricerca integrata sui dispositivi Apple, patteggiò con la FTC il pagamento di una multa da 22.5 milioni di euro, pur di evitare una causa contro l’azienda della mela.

Roberto Trizio