01 Luglio 2025
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La guerra segreta della Cia e degli Stati Uniti in Ucraina

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La guerra in Ucraina ha molte sfaccettature. Non basta pensare ad un aggredito, il popolo ucraino e un aggressore, la Russia. Non serve capire chi ha sbagliato, o forse chi ha sbagliato per primo, si può guardare anche solamente la realtà: la dura e lucida guerra tra due nazioni.

Già, due nazioni. Siamo sicuri che sia proprio così? Ovviamente no. E la prova ce lo dà questo articolo. Non è di chi scrive, ma dei giornalisti del New York Times. Abbiamo letto l’originale, tradotto e condensato alcune parti per renderlo molto più facile da leggere e da capire.
Di cosa parla? Della guerra per procura degli Stati Uniti contro la Russia.

Se poi vogliamo vederla in modo più etico, l’aiuto degli Stati Uniti in una guerra tra un colosso, la Russia e una nazione fiera ma piccola, l’Ucraina.

Ma come sappiamo tutti, l’etica, in guerra, non ha posto. In fondo all’articolo trovate il link al lunghissimo originale del Nyt.

Traduzione e adattamento di Alessandro Trizio

Il segreto dell’alleanza tra Ucraina e Occidente, tra strategie militari e missioni clandestine

In una mattina di primavera, a due mesi dall’entrata delle truppe d’invasione di Vladimir Putin in Ucraina, un convoglio di auto non contrassegnate si è fermato in un angolo di una strada di Kiev, caricando due uomini in abiti civili di mezza età . Il convoglio composto da commando britannici in uniforme e pesantemente armati ha poi percorso 640 chilometri fino al confine polacco, attraversato agevolmente grazie a passaporti diplomatici, per raggiungere l’aeroporto di Rzeszów-Jasionka. Lì un aereo cargo C-130 attendeva pronto con i motori accesi per decollare alla volta della Clay Kaserne di Wiesbaden, quartier generale dell’esercito americano in Europa e Africa.

A bordo, due generali ucraini di alto rango, fra cui il tenente generale Mykhaylo Zabrodskyi, invitato a contribuire alla creazione di quello che sarebbe divenuto uno dei segreti più gelosamente custoditi della guerra: una partnership di intelligence, strategia, pianificazione e tecnologia destinata a cambiare le sorti del conflitto. Questa struttura avrebbe permesso all’amministrazione Biden di sostenere l’esercito ucraino e di contrapporsi, senza rischi di escalation, alle forze russe.

Tale alleanza ha operato in un crescendo di operazioni clandestine, pianificazioni condivise e uno scambio costante di informazioni. Dalla fornitura di artiglieria M777 e sistemi missilistici HIMARS allo sviluppo di droni marittimi, la collaborazione tra Stati Uniti, Paesi NATO e Ucraina si è rivelata cruciale nel respingere gli assalti russi, come nel caso dell’affondamento dell’incrociatore Moskva o nel contrasto alle offensive terrestri a Kharkiv e Cherson. Eppure, secondo le ricostruzioni degli stessi protagonisti, non sono mancati momenti di attrito, diffidenza e visioni strategiche divergenti.

I primi passi della partnership: da Kiev a Wiesbaden

Tutto è iniziato quando il generale Zabrodskyi è stato condotto all’Auditorium Tony Bass della guarnigione di Wiesbaden. Un ambiente che fino a poco tempo prima ospitava gare di tiro di scout e concerti di bande militari, ora trasformato in un fitto dedalo di cubicoli con ufficiali di varie nazioni. Qui si coordinavano le prime spedizioni occidentali di artiglieria pesante in Ucraina, tra cui i temuti M777 e i preziosi proiettili da 155 mm.

Ricevuto dal tenente generale Christopher T. Donahue, comandante del 18° corpo aviotrasportato, Zabrodskyi si è sentito proporre un patto: unire le competenze sul campo degli ucraini alle avanzate capacità d’intelligence e di pianificazione dell’esercito statunitense e dei suoi alleati. “Ho detto al comandante in capo che avevamo trovato il nostro partner”, ricorda lo stesso Zabrodskyi, rimasto colpito dalla leadership di Donahue.

Nonostante le diffidenze iniziali dovute anche ai tentennamenti occidentali del 2014 e delle limitazioni imposte dalla Casa Bianca nella condivisione di informazioni sensibili, gli ucraini scoprirono rapidamente i vantaggi di ricevere dati di intelligence precisi e in tempo reale. Grazie a questi, le forze di Kiev riuscirono a neutralizzare un radar russo “Zoopark” (Si tratta di un radar attivo mobile a scansione elettronica) e a sventare un tentativo di attraversamento fluviale vicino a Sievierodonetsk. Era solo l’inizio della convergenza fra l’analisi strategica occidentale e l’audacia operativa ucraina.

La sfida degli M777 e l’evoluzione verso gli HIMARS

Se i primi aiuti militari erano stati limitati a sistemi antiaerei, anticarro e droni, con l’avanzare del conflitto divenne necessario un cambio di passo. Gli Stati Uniti decisero di inviare obici M777 e munizioni a lungo raggio, permettendo agli ucraini di reggere l’urto russo nel Donbass e di frenare le avanzate sul fronte meridionale.

Malgrado la freddezza iniziale per il timore di innescare un’escalation internazionale, gli Stati Uniti acconsentirono a fornire poi i sistemi missilistici ad alta mobilità (HIMARS), con una gittata di circa 80 chilometri e testate di precisione. A Wiesbaden, il generale Donahue e i suoi uomini iniziarono a trasmettere “punti di interesse”, ovvero coordinate di obiettivi russi estrapolate dall’intelligence americana, che gli artiglieri ucraini avrebbero colpito con fermezza. Il successo fu immediato: le forze russe, sorprese, subirono durissimi colpi al morale e perdite crescenti.

Due offensive, un dubbio: Kherson e Kharkiv

In quel momento, le forze di Kiev apparivano in grado di passare all’offensiva. Dopo un periodo di pianificazione tra ucraini e Task Force Dragon (così era stata ribattezzata la squadra guidata dal generale Donahue), si decise di sferrare un colpo a sud, verso Kherson, e di lanciare un’azione più contenuta a est, nella zona di Kharkiv.

I due assalti avrebbero dovuti scaglionare nel tempo. Ma la decisione del presidente Volodymyr Zelensky di anticipare l’operazione meridionale, con la speranza di mostrare risultati concreti prima di un importante vertice internazionale, portò paradossalmente a un’evoluzione fulminea a est, dove la resistenza russa collassò inaspettatamente. Le forze di Kharkiv avanzarono così a tappe forzate, mentre a sud il comando ucraino esitava nel colpire i russi in ritirata sulla riva occidentale del Dnipro.

Gli attriti e l’incertezza su come sfruttare il vantaggio rallentarono i progressi: alcuni comandanti preferivano un approccio più cauto, altri invocavano l’audacia. Intanto, le trincee difensive scavate dall’esercito russo si moltiplicavano, arginando l’eventuale avanzata ucraina verso la Crimea.

Il peso delle rivalità interne e la cautela occidentale

L’alleanza era solida, eppure non priva di incrinature. Sul fronte ucraino, rivalità personali emergevano tra i generali Valery Zaluzhny e Oleksandr Syrsky, in competizione per leadership e risorse (come i preziosi sistemi HIMARS) . Alcune scelte, come il dispendioso assalto a Bakhmut, finirono per depotenziare il grande sforzo offensivo a sud, trasformando quella che avrebbe potuto essere un’avanzata decisiva in un nuovo stallo.

Dal lato americano, vigevano restrizioni e linee rosse dettate da Washington. L’amministrazione Biden temeva che un coinvolgimento troppo profondo, o attacchi diretti su obiettivi “sensibili” in territorio russo, potesse scatenare una reazione ancora più estrema di Putin. Perciò, all’inizio, era proibito segnalare con precisione obiettivi in Crimea o fornire coordinate che permettessero di colpire dentro i confini russi. Tuttavia, col passare dei mesi e l’intensificarsi della guerra, tali limitazioni furono progressivamente allentate.

I droni e la flotta del Mar Nero: l’escalation nel Mar d’Azov

Un esempio di questa evoluzione fu la serie di attacchi contro la flotta russa del Mar Nero a Sebastopoli, in Crimea. Inizialmente, la Casa Bianca aveva vietato di aiutare direttamente un’azione in territori che Mosca considerava parte della Federazione. Ma i timori degli alleati lasciarono gradualmente spazio all’urgenza di colpire basi, navi e sottomarini russi che continuavano a lanciare missili contro l’Ucraina.

Con il placet americano e britannico, la marina ucraina, sostenuta dalla CIA, sviluppò una flotta di droni marittimi in grado di superare i sistemi di difesa russi. Parallelamente, il Pentagono allargò la condivisione d’intelligence, inviando “punti di interesse” per colpire con razzi di precisione obiettivi sensibili, come depositi di munizioni o centri di comando russi.

Le linee rosse si spostano: Crimea, Russia e nuovi scenari

Se in precedenza era impensabile toccare il ponte sullo Stretto di Kerch, simbolo dell’annessione della Crimea, ora il clima era cambiato. L’amministrazione Biden diede il via libera a un piano congiunto fra esercito ucraino, CIA e Regno Unito per provare a far collassare il ponte con missili ATACMS e droni marittimi. Il risultato, però, non fu quello sperato: il ponte subì danni riparabili, lasciando l’amaro in bocca a chi sperava in un colpo simbolico a Putin.

Allo stesso tempo, i generali americani riconsiderarono la possibilità di sostenere azioni anche sul suolo russo, specialmente quando i sistemi di artiglieria di Mosca minacciavano dal confine regioni ucraine densamente popolate come Kharkiv. Si iniziò così a parlare di un’“area operativa” oltrefrontiera, in cui gli ucraini avrebbero potuto colpire con armi e intelligence occidentali obiettivi russi, rovesciando un altro tabù che all’inizio del conflitto sembrava invalicabile.

Uno dei successi più eclatanti della campagna ucraina, l’affondamento dell’incrociatore Moskva, nave ammiraglia della flotta russa nel Mar Nero, segnò un punto di svolta. 

La Moskva era la nave ammiraglia della Flotta russa del Mar Nero. Gli ucraini la affondarono.

L’affondamento fu un trionfo clamoroso, una dimostrazione dell’abilità ucraina e dell’inettitudine russa. Ma l’episodio rifletteva anche la disgregazione delle relazioni ucraino-americane nelle prime settimane di guerra.

Gli americani provarono rabbia perché gli ucraini non avevano dato alcun preavviso; sorpresa perché l’Ucraina possedeva missili in grado di raggiungere la nave; e panico perché l’amministrazione Biden non aveva avuto intenzione di consentire agli ucraini di attaccare un simbolo così potente della potenza russa.

Gli ucraini aggredirono la nave sfruttando anche informazioni ricavate dalle comunicazioni con la marina statunitense, pur senza avvisare gli americani dell’imminente attacco. 

Nel corso dei mesi, il coordinamento sul campo si è fatto talmente stretto che alcuni ufficiali europei hanno definito gli occidentali “parte integrante della catena di morte”. Con la mappa degli obiettivi condivisi a Wiesbaden e la tecnologia delle forze NATO, le artiglierie ucraine hanno potuto infliggere perdite elevatissime all’esercito russo. Eppure, ogni successo incrementava anche il rischio di oltrepassare quella linea rossa che Mosca aveva tracciato, e che comprendeva la minaccia nucleare.

Le offensive mancate e l’incubo dell’escalation

La grande controffensiva del 2023 mirava, nei progetti originari di Kiev, a riconquistare in breve tempo territori chiave come Melitopol, spezzando il collegamento terrestre con la Crimea. Ma le rivalità interne ai vertici militari, la pressione politica di Zelensky per ottenere risultati rapidi, la mancanza di coordinamento con gli Stati Uniti e l’eccessiva attenzione su Bakhmut, teatro di una battaglia logorante, finirono per rallentare e poi arenare la controffensiva. La partnership ha operato all’ombra del più profondo timore geopolitico: che Putin potesse considerarla una violazione di una linea rossa dell’impegno militare e dare seguito alle sue minacce nucleari. La storia della partnership mostra quanto gli americani e i loro alleati siano talvolta arrivati ​​vicini a quella linea rossa, come eventi sempre più disastrosi li abbiano costretti, alcuni hanno detto troppo lentamente, a spingerla su un terreno più pericoloso e come abbiano attentamente elaborato protocolli per rimanere al sicuro.

L’amministrazione Biden ha ripetutamente autorizzato operazioni clandestine che in precedenza aveva proibito. Consiglieri militari americani sono stati inviati a Kiev e in seguito autorizzati ad avvicinarsi ai luoghi dei combattimenti. Ufficiali militari e della CIA a Wiesbaden hanno contribuito a pianificare e sostenere una campagna di attacchi ucraini nella Crimea annessa alla Russia. Infine, l’esercito e poi la CIA hanno ricevuto il via libera per consentire attacchi mirati nelle profondità della Russia stessa.

Per certi versi, l’Ucraina è stata, in un contesto più ampio, una rivincita in una lunga storia di guerre per procura tra Stati Uniti e Russia: in Vietnam negli anni ’60, in Afghanistan negli anni ’80, in Siria tre decenni dopo.

Fu anche un grande esperimento di guerra, che non solo avrebbe aiutato gli ucraini, ma avrebbe anche ricompensato gli americani con lezioni da trarre per qualsiasi guerra futura.

Dall’altra parte, la Casa Bianca temeva costantemente che l’avanzare ucraino verso la Crimea potesse spingere Putin a considerare l’uso di armi nucleari tattiche. Ciò portò a contrattazioni continue su quali sistemi e munizioni consentire, su quali aree fosse lecito colpire e con quali modalità di targeting.

Dal 2024 in poi: nuove operazioni, nuove tensioni

Con il passare del tempo, la partnership ha prodotto risultati militari impressionanti, ma anche tensioni crescenti. Le trincee russe si moltiplicavano, e nuovi fronti si aprivano. Episodi come l’incursione del generale Syrsky oltre il confine russo a Kursk, inizialmente all’oscuro degli americani, hanno sollevato questioni sulla fiducia e sul rischio di escalation. Per gli americani, lo svolgimento dell’incursione rappresentò una grave violazione della fiducia. Non solo gli ucraini li avevano tenuti ancora una volta all’oscuro; avevano segretamente oltrepassato un limite concordato, portando equipaggiamento fornito dalla coalizione nel territorio russo compreso nell’area operativa, violando le regole stabilite al momento della sua creazione.

La cooperazione era stata istituita per prevenire un disastro umanitario non perché gli ucraini potessero approfittarne per impadronirsi del suolo russo. Gli americani avrebbero potuto staccare la spina alle operazioni. Eppure sapevano che farlo, ha spiegato un funzionario dell’amministrazione, “avrebbe potuto portare a una catastrofe”: i soldati ucraini a Kursk sarebbero morti senza la protezione dei razzi HIMARS e dell’intelligence statunitense.

Kursk, conclusero gli americani, era la vittoria a cui Zelensky aveva accennato fin dall’inizio. Era anche la prova dei suoi calcoli: parlava ancora di vittoria totale. Ma uno degli obiettivi dell’operazione, spiegò agli americani, era la leva finanziaria: catturare e mantenere il territorio russo che avrebbe potuto essere scambiato con quello ucraino nei futuri negoziati.

Nel frattempo, l’amministrazione Biden, sebbene inizialmente riluttante, ha autorizzato operazioni sempre più audaci, come la campagna denominata “Lunar Hail” per indebolire la presenza militare russa in Crimea. Si è persino discusso dell’opportunità di colpire obiettivi in profondità nella Federazione Russa, in particolare depositi di munizioni e centri logistici ritenuti cruciali per sostenere l’esercito invasore.

Un conflitto appeso a un filo geopolitico

Oggi l’alleanza tra l’Ucraina e l’Occidente, rappresentata simbolicamente dalla “Task Force Dragon” a Wiesbaden, appare come un laboratorio di guerra moderno, in cui si fondono tecnologia d’avanguardia, intelligence internazionale e il coraggio di un Paese invaso che combatte per la propria sopravvivenza.

In questa lotta, non esiste un punto di equilibrio stabile. Dalle audaci sortite con droni marittimi ai sistemi di difesa Patriot, dalle operazioni sotterranee della CIA alle divergenze fra generali sul campo, la partnership ha resistito tra successi e scetticismi. Resta da vedere se l’Ucraina riuscirà a trasformare questa collaborazione, forgiata in emergenza e imperniata sull’urgenza di un’“arma segreta”, in una vittoria duratura sul campo e, soprattutto, in una pace sostenibile.

I russi avevano compiuto progressi lenti ma costanti contro le forze ucraine ormai ridotte a est. Stavano anche riconquistando parte del territorio a Kursk, fino a riprenderlo completamente. Certo, le perdite russe erano aumentate vertiginosamente, raggiungendo tra le 1.000 e le 1.500 unità al giorno. Ma continuavano ad avanzare.

Nel primo anno di guerra, con l’aiuto di Wiesbaden, gli ucraini avevano preso il sopravvento, riconquistando più della metà del territorio perso dopo l’invasione del 2022. Ora, si stavano battendo per minuscole zolle di terra a est e a Kursk, ma continuavano a retrocedere.

La nuova situazione determinata dalla presenza alla Casa Bianca di Donald Trump porta tutto lo sforzo fatto ad un solo risultato: la Russia avrà le terre che voleva fin dall’inizio. Un accordo pare ormai fatto, le continue “alleanze” tecnico politiche tra Putin e Trump sembrano accertarlo. E la domanda diventa sempre più imponente, sempre più pressante: a cosa è servita la guerra?

E’ una domanda che ci si pone ormai da sempre dopo guerre devastanti che portano poi a risultati che si potevano forse ottenere in altro modo. Ma questo altro modo, la diplomazia, non viene mai ascoltato, sembra essere sempre una richiesta assurda perché non si può permettere a nessuno di oltrepassare la linea e di accaparrarsi terre non sue. Ci vuole la guerra perché capisca che non può farlo.

Ma alla fine, le terre rimangono comunque all’invasore.

Originalehttps://www.nytimes.com/interactive/2025/03/29/world/europe/us-ukraine-military-war-wiesbaden.html 

Germania verso il riarmo: spesa militare senza precedenti e debito in crescita

La Germania si prepara a una svolta storica nella sua politica di difesa, destinata a cambiare profondamente il ruolo del Paese non solo sul piano militare ma anche in ambito economico. Dopo anni di rigore finanziario e di attenzione alla riduzione del debito, il governo federale ha approvato un piano che prevede una spesa militare mai vista prima, aumentando in modo significativo gli stanziamenti per la difesa. L’obiettivo è superare i nuovi standard richiesti dall’alleanza NATO e posizionare la Germania tra i principali protagonisti del riarmo in Europa.

Un cambio di passo epocale

Il cambiamento è stato reso possibile grazie a una riforma costituzionale che ha allentato i vincoli sul debito, consentendo prestiti straordinari per spese militari e infrastrutturali. Secondo le previsioni, nei prossimi anni la Germania emetterà una quantità ingente di debito per finanziare queste voci strategiche. Il debito netto salirà sensibilmente rispetto agli anni precedenti e potrebbe raggiungere livelli mai visti nel prossimo decennio, se i deficit dovessero rimanere fuori controllo.

Il governo, guidato dal cancelliere, difende la scelta come necessaria per rispondere alla minaccia proveniente dall’Est e consolidare il ruolo di Berlino come principale sostenitore dell’Ucraina, soprattutto di fronte a una possibile riduzione degli aiuti americani. Il piano include stanziamenti annuali per Kiev e un potenziamento dell’esercito tedesco, che dovrebbe aumentare sensibilmente i propri effettivi nei prossimi anni.

Non mancano però le critiche. Alcuni membri della coalizione di governo hanno messo in discussione la rapidità e l’entità dell’aumento della spesa militare, mentre i Verdi accusano l’esecutivo di eludere le regole di bilancio. Il fondo speciale creato dopo l’invasione russa dell’Ucraina verrà esaurito entro pochi anni, lasciando spazio a nuovi debiti per sostenere la crescita della difesa.

Una Germania più forte, ma con nuove sfide

Da decenni la Germania ha mantenuto una politica di bassa spesa militare e di stretta selettività nelle esportazioni di armamenti, tanto che la prontezza dell’esercito si è progressivamente ridotta. Oggi la Bundeswehr si posiziona al secondo posto in Europa, ma l’obiettivo è quello di diventare la forza militare più preparata del continente, come ha dichiarato il cancelliere al Parlamento.

Ma c’è un altro elemento da considerare: la percezione dell’opinione pubblica. Secondo i sondaggi, i cittadini tedeschi ritengono le forze armate ancora insufficientemente preparate e dotate per affrontare una minaccia dall’Est. La sfida, dunque, non è solo finanziaria ma anche culturale e organizzativa.

La scelta della Germania di puntare su un riarmo massiccio e su un indebitamento senza precedenti rappresenta una rottura con il passato recente. Il rischio è che il debito possa sfuggire di mano, soprattutto se la crescita economica non dovesse tenere il passo. Tuttavia, per Berlino questa è un’occasione imperdibile per rilanciare la propria economia e assumere un ruolo di leadership nella sicurezza europea, in un contesto geopolitico sempre più incerto.

Droni europei: l’intelligenza artificiale guida la rivoluzione tecnologica

L’Europa sta vivendo una vera e propria rivoluzione nel settore dei droni militari, dove l’intelligenza artificiale e le tecnologie avanzate stanno ridefinendo il modo di concepire la sorveglianza e il combattimento. L’esperienza maturata sui campi di battaglia, come quello ucraino, ha reso chiaro quanto sia fondamentale dotare i droni di capacità autonome grazie all’integrazione di nuovi software e sistemi di navigazione.

Nuove tecnologie a bordo

La nuova generazione di droni europei si affida sempre più all’intelligenza artificiale per la navigazione autonoma, il riconoscimento di bersagli e la pianificazione delle missioni. Questi sistemi sono in grado di elaborare grandi quantità di dati provenienti da sensori di ultima generazione, come telecamere ad alta risoluzione, sensori termici e radar miniaturizzati. Grazie all’AI, i droni possono distinguere tra persone, veicoli e altri oggetti, evitare ostacoli in autonomia e adattare le traiettorie di volo in base alle condizioni ambientali o alle minacce rilevate.

Un aspetto cruciale riguarda la resilienza dei sistemi di navigazione: i droni moderni integrano sia la tecnologia satellitare che la navigazione visiva, che consente loro di operare anche in zone dove il segnale satellitare è assente o disturbato. La miniaturizzazione dei sensori e la loro integrazione con l’intelligenza artificiale migliorano la mappatura del terreno e il riconoscimento degli ostacoli, rendendo i droni più sicuri e affidabili anche in contesti complessi.

La sicurezza delle operazioni viene ulteriormente rafforzata da tecnologie che impediscono ai droni di entrare in aree sensibili e da sistemi anti-drone, che integrano radar a corto raggio e dispositivi per neutralizzare minacce aeree. Tutti i droni europei sono inoltre soggetti a normative che garantiscono la tracciabilità e il controllo su tutte le operazioni aeree.

Verso l’autonomia e lo sciame

Un altro aspetto chiave della nuova generazione di droni è la capacità di operare in “sciame”, cioè in gruppi coordinati che possono svolgere missioni complesse con una supervisione umana minima. Questo approccio è supportato da piattaforme di comando e controllo basate sull’intelligenza artificiale, che permettono di pianificare e gestire missioni simultanee con numerosi droni.

L’Unione Europea sta investendo risorse significative per raggiungere l’autonomia strategica nel settore dei sistemi militari autonomi, con progetti che coinvolgono diversi Paesi membri. L’obiettivo è sviluppare droni capaci di raccogliere dati, monitorare vaste aree e supportare le operazioni militari con un elevato grado di autonomia e sicurezza.

La convergenza tra droni, intelligenza artificiale, telecomunicazioni di nuova generazione e manifattura avanzata sta aprendo nuove applicazioni e guidando la crescita del mercato. Restano però alcune sfide importanti, come la necessità di dati affidabili per l’addestramento degli algoritmi, la capacità di elaborazione a bordo e la sicurezza informatica. Nonostante queste difficoltà, l’Europa si sta confermando come uno dei principali attori globali nell’innovazione dei droni militari e civili, pronta a sfruttare le opportunità offerte dalle nuove tecnologie per rafforzare la propria sicurezza e competitività.

Tel Aviv: migliaia manifestano per chiedere il cessate il fuoco

Migliaia di persone hanno riempito la piazza nota come Hostages Square e la strada Begin a Tel Aviv, riaccendendo le proteste dopo una pausa di tre settimane. La richiesta è chiara: un accordo per la liberazione dei 50 ostaggi ancora prigionieri a Gaza e la fine della guerra.

Le manifestazioni erano state sospese a causa della recente escalation tra Israele e Iran, che aveva monopolizzato l’attenzione pubblica e internazionale, e per il divieto di grandi assembramenti durante i ripetuti attacchi missilistici. Ora, però, la rabbia e la preoccupazione dei familiari degli ostaggi e dei sopravvissuti hanno riportato la questione al centro della scena politica e sociale del Paese.

Testimonianze e appelli al governo

Tra i protagonisti della serata, Liri Albag, una dei cinque soldati delle Forze di Difesa Israeliane rilasciati da Hamas durante la tregua tra gennaio e marzo, si è rivolta direttamente al primo ministro Benjamin Netanyahu e all’ex presidente americano Donald Trump, che nei giorni scorsi aveva espresso ottimismo sulla possibilità di un cessate il fuoco “entro la prossima settimana”.

“Negli ultimi quindici giorni, tutti i titoli parlavano dell’Iran. I miei fratelli e sorelle sono stati messi da parte”

“Negli ultimi quindici giorni, tutti i titoli parlavano dell’Iran. I miei fratelli e sorelle sono stati messi da parte”, ha detto Albag, riferendosi alla recente guerra con Teheran. “Cinquanta anime, cinquanta mondi: è ora di riportarli a casa”. Albag ha condiviso dettagli drammatici della sua prigionia: travestita con abiti palestinesi, è stata condotta per le strade di Gaza e poi rinchiusa in una gabbia sotterranea di due metri per due, insieme ad altre donne e ragazze. “Ci davano un quarto di pita, un dattero e mezza ciotola di riso al giorno. Ogni secondo sembrava un’eternità. Questa è la realtà degli ostaggi”, ha raccontato.

Anche Sharon Alony Cunio, moglie dell’ostaggio David Cunio, ha preso la parola con un appello commovente: “Ogni sera le mie figlie mi chiedono: ‘Mamma, quando torna papà?’. Io non ho risposte. E vi chiedo: qualcuno qui ha una risposta per me? Per le mie figlie?

Com’è possibile che siano passati quasi due anni e David, l’amore della mia vita, il padre delle mie bambine, sia ancora lì? Le bambine si ricordano ancora di lui, ma come ogni ricordo, sta svanendo. Io non voglio che David diventi solo un ricordo. Perché David è vivo. Ho bisogno che la mia voce diventi la vostra voce. Lottate con me. Non lasciate che questa situazione continui un altro giorno, un’altra settimana, un altro mese. Perché può tornare. Tutti possono tornare. Ora. Non con un accordo parziale, non a fasi, non a turni: tutti. Ora”.

All’inizio della serata, i familiari degli ostaggi hanno rilasciato una dichiarazione congiunta, chiedendo la fine immediata della guerra e un accordo globale per riportare a casa i loro cari. “Vivono di tempo in prestito: possono essere salvati”, ha detto Einav Zangauker, madre dell’ostaggio Matan Zangauker. Yehuda Cohen, padre del soldato rapito Nimrod Cohen, ha aggiunto: “C’è un accordo sul tavolo. Non possiamo perdere questa opportunità. È arrivato il momento di un accordo globale: è la volontà del popolo e nell’interesse di Israele”.

Critiche al governo e alle proposte di accordo

In un’altra parte di Tel Aviv, circa 1.500 manifestanti si sono radunati all’ingresso del quartier generale dell’IDF su Begin Road, dove nei giorni scorsi era caduto un missile iraniano. Itzik Horn, padre dell’ostaggio Eitan Horn e del sopravvissuto Iair Horn, ha condannato quello che ha definito “il fallimento continuo del governo dal 7 ottobre”. “Nonostante quello che abbiamo fatto con l’Iran, che è stata una cosa grande… non dimenticheremo e non perdoneremo. Dal 7 ottobre, nessun ministro o membro della Knesset della coalizione mi ha parlato”, ha detto.

Horn ha anche respinto la proposta di accordo avanzata dall’inviato speciale della Casa Bianca, che prevede un cessate il fuoco di 60 giorni durante il quale Hamas rilascerebbe circa la metà degli ostaggi vivi e morti a fasi. “Secondo questo piano, la metà degli ostaggi restano indietro”, ha detto Horn, paragonando la proposta alle selezioni nei campi di concentramento. “È impossibile spiegare perché il primo ministro scelga sempre di rilasciare gli ostaggi a pezzi”.

Negli ultimi giorni si è parlato di un rinnovato sforzo diplomatico tra Gerusalemme e Washington per arrivare, nelle prossime settimane, a un accordo che porti al rilascio di tutti gli ostaggi, ma non ci sono ancora conferme ufficiali. Le proteste di sabato hanno segnato la ripresa delle mobilitazioni settimanali, con la speranza che la pressione popolare possa accelerare la soluzione della crisi.

Trump nomina un 22enne senza esperienza a capo di un ufficio cruciale della sicurezza interna americana

Negli Stati Uniti, l’amministrazione Trump ha suscitato scalpore e critiche tra gli esperti di sicurezza nazionale nominando un 22enne neolaureato, senza alcuna esperienza nel settore, a capo di uno degli uffici più sensibili del Dipartimento della Sicurezza Interna (DHS): il Center for Prevention Programs and Partnerships (CP3), responsabile della prevenzione del terrorismo e della violenza mirata sul territorio americano.

Chi è Thomas Fugate?

Thomas Fugate, 22 anni, si è laureato nel maggio 2024 all’Università del Texas a San Antonio, con una laurea in scienze politiche. Prima di questa nomina, ha lavorato come giardiniere, commesso in un supermercato e membro di diverse organizzazioni conservatrici, tra cui la Heritage Foundation, think tank di riferimento per l’amministrazione Trump e promotore del controverso “Project 2025”. Fugate ha anche svolto stage per alcuni legislatori repubblicani e ha partecipato alla campagna elettorale di Trump nel 2024.

La nomina di Fugate è arrivata poco dopo la laurea e con un curriculum che non include alcuna esperienza in sicurezza nazionale o controterrorismo. Nonostante ciò, gli è stata affidata la gestione di un programma con un budget di oltre 18 milioni di dollari, destinato a identificare e prevenire la radicalizzazione e gli attacchi terroristici domestici.

La decisione ha suscitato forti critiche tra esperti di sicurezza, ex funzionari del DHS e gruppi della società civile. “È assurdo che una persona con così poca esperienza sia messa a capo di un programma direttamente collegato alla sicurezza dei cittadini americani”, ha dichiarato un ex alto funzionario del DHS a ProPublica. Altri hanno paragonato la situazione a “mettere un tirocinante al comando”.

Anche alcuni politici, come il senatore Chris Murphy, hanno espresso preoccupazione: “Mentre la nazione si prepara a possibili attacchi terroristici, questa è la persona che Trump ha messo a capo della prevenzione del terrorismo: 22 anni, esperienze recenti come giardiniere e commesso, mai lavorato un giorno nel controterrorismo. Ma è un grande fan di Trump, quindi ha ottenuto il lavoro”.

Motivazioni e contesto

Secondo fonti interne al DHS, Fugate è stato promosso temporaneamente a questa posizione per “meriti sul campo” e per la sua “etica lavorativa”, dopo aver lavorato come assistente speciale in un ufficio immigrazione. Tuttavia, molti osservatori sottolineano che la scelta riflette una tendenza dell’amministrazione Trump a privilegiare la lealtà politica rispetto alle competenze tecniche.

L’ufficio CP3, che contava 80 dipendenti sotto la presidenza Biden, è stato ridotto a meno di 20 persone dopo i tagli voluti da Trump, rendendo ancora più critica la scelta del suo leader.

La nomina di Thomas Fugate rappresenta un caso emblematico delle politiche di gestione della sicurezza interna americana sotto l’amministrazione Trump, mettendo in luce il dibattito tra lealtà politica e competenza tecnica. La scelta di affidare a un giovane senza esperienza una responsabilità così delicata ha sollevato dubbi sulla capacità del governo di proteggere il Paese da minacce terroristiche e violente.

Chi è Thomas Fugate?

Thomas C. Fugate III è nato negli Stati Uniti nel 2002. Ha conseguito una laurea in Politica e Giurisprudenza presso l’Università del Texas a San Antonio, dove si è distinto per aver ottenuto il massimo dei voti (magna cum laude). Prima di intraprendere la carriera politica, Fugate ha lavorato come giardiniere e proprietario di un’impresa di paesaggistica, oltre che come membro del personale presso il supermercato H-E-B di Austin, Texas, ricoprendo il ruolo di assistente multifunzionale.

Durante gli studi universitari, Fugate ha svolto stage presso la Heritage Foundation, un influente think tank conservatore dietro il Project 2025, e presso alcuni legislatori repubblicani del Texas, come Terry Wilson e Steve Allison. Ha inoltre partecipato attivamente alla campagna presidenziale di Donald Trump, lavorando nell’advance team e partecipando alla Convention Nazionale Repubblicana.

Dopo la laurea, Fugate è stato assunto come assistente speciale in un ufficio immigrazione del Dipartimento della Sicurezza Interna (DHS), dove si è distinto per la sua etica lavorativa e per i risultati ottenuti. Nonostante la quasi totale mancanza di esperienza in sicurezza nazionale, Fugate è stato nominato direttore del Center for Prevention Programs and Partnerships (CP3) del DHS, l’ufficio responsabile della prevenzione del terrorismo e della violenza mirata negli Stati Uniti. Ha assunto la guida dell’ufficio dopo le dimissioni del precedente direttore, Bill Braniff, un esperto di controterrorismo con oltre vent’anni di esperienza, in seguito ai drastici tagli al personale voluti dalla nuova amministrazione Trump.

La nomina di Fugate ha suscitato forti critiche tra esperti di sicurezza, ex funzionari del DHS e organizzazioni della società civile, che hanno sottolineato come la sua esperienza principale derivi principalmente da attività di volontariato e leadership in un club Model United Nations, oltre che dalla lealtà dimostrata verso il presidente Trump. Attualmente, Fugate gestisce un programma di 18 milioni di dollari destinato a prevenire la radicalizzazione e gli attacchi terroristici domestici, in un ufficio che è passato da circa ottanta a meno di venti dipendenti.

Fugate è attivo sui social media, dove cura un profilo politico e condivide immagini della sua attività di campagna e di eventi pubblici, spesso accanto a figure di spicco del mondo conservatore americano.

Cessate il fuoco tra Iran e Israele: una tregua fragile, tra accuse e speranze di pace

Dopo undici giorni di escalation militare che hanno tenuto il Medio Oriente con il fiato sospeso, è stato raggiunto un accordo per un cessate il fuoco tra Israele e Iran, mediato dal presidente statunitense Donald Trump e dal Qatar. La tregua, annunciata nella notte tra il 23 e il 24 giugno, è entrata ufficialmente in vigore alle 7:30 ora di Teheran (le 6:00 in Italia), ma la situazione resta tesa e il rischio di nuove violazioni è ancora alto.

Gli ultimi colpi prima della tregua

Nelle ore che hanno preceduto il cessate il fuoco, il conflitto ha raggiunto il suo apice. Missili iraniani hanno colpito edifici residenziali a Be’er Sheva, nel sud di Israele, provocando almeno quattro vittime civili secondo i primi bilanci, saliti poi a cinque secondo aggiornamenti successivi. Dall’altra parte, raid israeliani hanno ucciso almeno nove persone nella provincia iraniana di Gilan, tra cui donne e bambini, secondo quanto riportato dall’agenzia di stampa Tasnim.

Nonostante l’annuncio ufficiale, la mattina del 24 giugno sono suonate ancora sirene d’allarme in Israele, soprattutto nel centro del Paese e in Cisgiordania, segnalando l’arrivo di razzi e minacce in corso. Israele ha accusato l’Iran di aver violato la tregua con nuovi lanci missilistici, minacciando una “potente risposta nel cuore di Teheran” se le ostilità dovessero continuare. Teheran, però, ha smentito ogni violazione: “Nessun missile è stato lanciato in direzione del nemico” dal momento dell’entrata in vigore del cessate il fuoco, ha dichiarato un alto ufficiale iraniano alla CNN.

Le dichiarazioni delle parti in causa

Il governo israeliano, dopo una riunione del gabinetto di sicurezza, ha confermato di aver accettato la proposta di cessate il fuoco “alla luce del raggiungimento degli obiettivi dell’operazione” in Iran, sottolineando di aver “rimosso una doppia minaccia esistenziale immediata, sia nel campo nucleare che in quello dei missili balistici”. Il premier Benjamin Netanyahu ha ringraziato gli Stati Uniti per il sostegno e ha avvertito che Israele “risponderà con forza a qualsiasi violazione”.

Dall’altra parte, il Consiglio Supremo per la Sicurezza nazionale iraniano ha definito l’accordo una “sconfitta del nemico sionista”, rivendicando una “risposta umiliante ed esemplare” agli attacchi subiti. Teheran resta però in allerta: “Le nostre forze armate, con il dito sul grilletto, sono pronte a rispondere con forza a qualsiasi violazione da parte del nemico”.

La tregua è stata resa possibile grazie alla mediazione del Qatar e degli Stati Uniti. Secondo fonti della Casa Bianca, dopo l’attacco iraniano a una base americana in Qatar, Teheran avrebbe trasmesso un messaggio in cui dichiarava la fine della propria risposta, aprendo la strada ai negoziati per il cessate il fuoco. Donald Trump, in un post sul social Truth, ha definito il cessate il fuoco una “vittoria per il mondo” e ha esortato le parti a non violarlo: “Israele e Iran non si spareranno mai più”.

Tuttavia, la situazione resta delicata. L’Agenzia internazionale per l’energia atomica (AIEA) ha chiesto un incontro al ministro degli Esteri iraniano per sollecitare la ripresa della cooperazione sul programma nucleare, nella speranza di una soluzione diplomatica all’annosa controversia.

Il cessate il fuoco tra Iran e Israele rappresenta una svolta significativa dopo giorni di scontri e tensioni, ma la pace resta fragile. Mentre le sirene tornano a tacere e le popolazioni escono dai rifugi, la comunità internazionale osserva con attenzione, consapevole che la strada verso una stabilità duratura è ancora lunga e incerta.

La sfocatura dei confini: civili e militari nell’era della Cyberwarfare

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Il panorama dei conflitti moderni subisce una trasformazione radicale, invisibile ma pervasiva. Le tradizionali linee rosse che separavano obiettivi militari da infrastrutture civili si dissolvono progressivamente, creando una zona grigia in cui ospedali, reti elettriche e sistemi bancari diventano bersagli legittimi. Questo fenomeno, accelerato dalla convergenza digitale, espone società intere a rischi senza precedenti, ridefinendo il concetto stesso di “fronte”.

L’ambivalenza delle infrastrutture Dual-Use

Al cuore di questa evoluzione risiedono le infrastrutture “dual-use”, sistemi tecnologici che servono simultaneamente scopi civili e militari. I satelliti per comunicazioni ne sono l’esempio paradigmatico: garantiscono precisione alle operazioni militari, ma regolano anche il traffico aereo civile, i sistemi finanziari globali e le reti d’emergenza medica.

Un attacco mirato a comprometterne il funzionamento, come dimostrano ricerche del Centre for Strategic and International Studies (CSIS), non disabilita soltanto operazioni belliche ma paralizza intere comunità. Nel 2022, il jamming GPS in Ucraina orientale ha bloccato non solo droni militari ma anche ambulanze e consegne di farmaci salvavita, evidenziando l’impossibilità di separare gli effetti.

Il Diritto Internazionale alla prova del digitale

Questa sovrapposizione crea un vuoto normativo preoccupante. Il diritto internazionale umanitario, basato sulle Convenzioni di Ginevra, presuppone una chiara distinzione tra combattenti e civili. Tuttavia, quando un data center ospita sia servizi bancari che comandi militari, qualsiasi attacco viola inevitabilmente il principio di proporzionalità.

L’International Committee of the Red Cross (ICRC) segnala casi in cui malware progettato per colpire sistemi di difesa ha diffuso danni collaterali a impianti idrici cittadini, mettendo a rischio migliaia di civili. La “soglia d’attacco” diventa così un concetto sfumato: azioni come il phishing su dipendenti di aziende energetiche o l’iniezione di codici malevoli in software industriali operano in una zona al di sotto del conflitto armato tradizionale, ma con effetti potenzialmente letali.

Militare con in mano uno smartphone

Il paradosso più inquietante emerge quando i civili stessi diventano protagonisti attivi. Durante l’invasione russa dell’Ucraina nel 2022, migliaia di cittadini si sono uniti all'”IT Army”, un esercito digitale volontario coordinato via Telegram che ha lanciato attacchi DDoS contro infrastrutture russe.

Questo fenomeno, documentato dal Carnegie Endowment for International Peace, dissolve ulteriormente le categorie tradizionali: un cittadino con uno smartphone può ora partecipare a operazioni belliche senza addestramento formale, esponendo però intere reti civili a ritorsioni. Contemporaneamente, gruppi come Anonymous dimostrano come l’hacktivismo possa influenzare dinamiche geopolitiche, attaccando sia entità governative che aziende private coinvolte in conflitti.

L’effetto domino sulle Infrastrutture Critiche

Le conseguenze pratiche di questa convergenza sono tangibili in settori vitali. Le reti elettriche, ad esempio, rappresentano un bersaglio strategico per la loro natura ibrida: un rapporto del Centre for International Governance Innovation (CIGI) descrive come l’attacco del 2015 alla rete ucraina, attribuito a Sandworm, abbia lasciato al buio 230.000 persone durante l’inverno, danneggiando ospedali e sistemi di riscaldamento.

Analogamente, il settore finanziario subisce colpi a scopo destabilizzante: nel 2023, attacchi ransomware a banche polacche hanno interrotto pagamenti pensionistici e transazioni commerciali, mentre analisti di FireEye collegano l’episodio a gruppi legati a stati ostili. Persino dispositivi IoT domestici diventano armi: termostati intelligenti compromessi possono causare surriscaldamenti in impianti industriali, trasformando oggetti quotidiani in vettori d’attacco.

Verso nuovi paradigmi di difesa

Affrontare questa complessità richiede un ripensamento strutturale della sicurezza. In primo luogo, è urgente aggiornare i quadri giuridici internazionali. L’Tallinn Manual 3.0, redatto da esperti NATO, propone criteri per valutare la legittimità di attacchi a infrastrutture dual-use, ma manca un consenso globale sulla loro applicazione.

Parallelamente, la collaborazione pubblico-privato diventa essenziale: iniziative come il Cybersecurity and Infrastructure Security Agency (CISA) statunitense coinvolgono aziende tecnologiche nella protezione di reti critiche, condividendo intelligence in tempo reale. Microsoft, ad esempio, ha prevenuto attacchi a centrali idriche in Europa nel 2024 grazie a sistemi di threat detection sviluppati con governi.

La cyberwarfare non è più un campo riservato a eserciti e server militari. Ogni dispositivo connesso, ogni sistema cittadino, ogni banca dati ospedaliera è potenzialmente un fronte. Questa fusione tra sfera civile e militare crea vulnerabilità sistemiche che richiedono risposte altrettanto integrate: dalla formazione di cyber-difensori nelle comunità locali all’adozione di standard globali per la resilienza digitale.

Senza un’azione coordinata, il concetto stesso di “retrovia” potrebbe scomparire, esponendo ogni cittadino a rischi finora impensabili. La sfida per i prossimi anni sarà proteggere non solo le nazioni, ma l’infrastruttura stessa della civiltà interconnessa.

Fonti:

  • Centre for Strategic and International Studies (CSIS), “Satellite Vulnerability in Modern Conflicts” (2024)
  • International Committee of the Red Cross (ICRC), “Digital Threats to Civilians” (2023)
  • Carnegie Endowment for International Peace, “Civilian Cyber Militias” (2023)
  • Centre for International Governance Innovation (CIGI), “Critical Infrastructure Protection” (2024)
  • NATO Cooperative Cyber Defence Centre of Excellence, “Tallinn Manual 3.0” (2022)

Creatività oltre l’umano: come l’AI sta trasformando arte, musica e scrittura

L’intelligenza artificiale sta ridefinendo i confini della creatività umana, aprendo scenari inediti e sollevando domande fondamentali su cosa significhi davvero creare. Arte, musica e scrittura, ambiti tradizionalmente considerati dominio esclusivo dell’intuizione e dell’ispirazione umana, sono oggi terreno fertile per l’innovazione tecnologica. L’AI non solo assiste gli artisti, ma in alcuni casi diventa protagonista della produzione creativa, generando opere che sfidano le nostre categorie di autorialità e originalità.

L’arte generata dall’intelligenza artificiale

Uno dei campi più sorprendenti in cui l’AI si è affermata è quello delle arti visive. Le reti neurali generative, come i GAN (Generative Adversarial Networks), hanno dimostrato una capacità straordinaria di produrre immagini originali e affascinanti. In questi sistemi, due reti neurali “giocano” tra loro: una genera immagini, l’altra valuta quanto siano realistiche rispetto a un dataset di riferimento. Il risultato sono opere che spesso sorprendono per la loro qualità e originalità, tanto che alcune sono state esposte in gallerie d’arte e vendute all’asta.

Artisti come Mario Klingemann hanno sfruttato queste tecnologie per esplorare nuove frontiere dell’espressione visiva, creando opere che mescolano stili e iconografie in modo inedito. Strumenti come DeepArt, RunwayML e Artbreeder permettono a chiunque di trasformare fotografie in dipinti nello stile dei grandi maestri o di generare immagini completamente nuove, semplicemente descrivendo ciò che si desidera ottenere. Questo processo democratizza l’arte, rendendola accessibile anche a chi non ha competenze tecniche avanzate, ma solleva anche interrogativi sul ruolo dell’artista: chi è il vero autore di un’opera generata da un algoritmo?

La rivoluzione musicale dell’AI

Anche la musica sta vivendo una trasformazione radicale grazie all’intelligenza artificiale. Gli algoritmi di machine learning sono oggi in grado di comporre melodie, armonie e persino intere canzoni in stili diversi, adattandosi ai gusti e alle esigenze degli utenti. Piattaforme come Amper Music, AIVA e Udio permettono a chiunque di creare brani originali, anche senza conoscenze musicali approfondite. Basta descrivere il genere, gli strumenti o l’atmosfera desiderata, e l’AI genera una traccia completa, pronta per essere ascoltata o modificata.

Questa accessibilità sta democratizzando la produzione musicale, abbattendo barriere tecniche ed economiche che in passato limitavano la creatività a pochi eletti. Ora, chiunque può esprimersi musicalmente, sperimentare nuovi suoni e pubblicare le proprie composizioni online, spesso ottenendo anche riconoscimenti e guadagni. L’AI non solo assiste nella composizione, ma può anche analizzare enormi quantità di dati musicali per suggerire melodie uniche o arrangiamenti inaspettati, aiutando gli artisti a superare il blocco creativo e a esplorare nuovi territori sonori.

Tuttavia, l’ascesa dell’AI nella musica solleva questioni importanti sulla proprietà intellettuale e sul ruolo dell’artista. Se una canzone nasce dalla collaborazione tra un musicista e un algoritmo, chi detiene i diritti d’autore? E fino a che punto l’AI può essere considerata un co-autore o addirittura un autore indipendente? Questi interrogativi stanno animando il dibattito nel settore e costringendo legislatori, case discografiche e artisti a ripensare le regole del gioco.

Scrittura e storytelling con l’AI

La scrittura non è rimasta immune dall’influenza dell’intelligenza artificiale. Modelli di linguaggio come GPT-4 sono oggi in grado di generare testi coerenti, originali e spesso sorprendentemente creativi. Questi sistemi analizzano enormi quantità di dati testuali per imparare stili, toni e strutture narrative, permettendo loro di scrivere poesie, racconti, articoli e persino interi romanzi che imitano lo stile di autori famosi o inventano nuove forme di espressione.

Piattaforme come Botnik Studios sfruttano l’AI per co-creare storie insieme agli utenti, mescolando la creatività umana con quella artificiale. Il risultato sono opere spesso umoristiche, surreali o innovative, che sfidano le convenzioni narrative tradizionali. L’AI può anche essere utilizzata per generare idee, sviluppare personaggi o suggerire trame, diventando un prezioso alleato per scrittori professionisti e dilettanti.

Anche in questo ambito, però, sorgono domande sull’autenticità e l’originalità. Se un testo è generato da un algoritmo, può essere considerato una vera opera d’arte? E qual è il valore della creatività umana in un mondo in cui le macchine possono imitare, amplificare e talvolta superare le capacità espressive dell’uomo?

Implicazioni filosofiche e culturali

L’avvento dell’AI nella creatività ha profonde implicazioni filosofiche e culturali. Tradizionalmente, l’arte, la musica e la letteratura sono state viste come espressioni dell’anima umana, frutto di intuizione, emozione e intenzionalità. L’intelligenza artificiale sfida questo paradigma, sostituendo l’ispirazione con la computazione e separando l’autore dalla produzione artistica.

Si delineano tre principali prospettive sul ruolo dell’AI nella creatività: come strumento amplificatore della creatività umana, come entità creativa indipendente o come forza di sostituzione dell’umano. Nel primo caso, l’AI è vista come un’estensione delle capacità artistiche dell’uomo, che accelera e arricchisce il processo creativo. Nel secondo, si riconosce all’AI una forma di creatività emergente, basata su logiche diverse da quelle umane. Nel terzo, più critico, l’AI diventa il vero protagonista della produzione artistica, riducendo l’uomo a semplice fruitore o selezionatore di contenuti già generati.

Verso un futuro di collaborazione

Nonostante le sfide e le incertezze, il futuro della creatività sembra destinato a essere sempre più ibrido. L’AI offre agli artisti nuovi strumenti, nuove possibilità di espressione e nuovi modi di interagire con il pubblico. Collaborare con l’intelligenza artificiale significa unirsi a un partner innovativo che può espandere i confini della creatività, suggerire idee inaspettate e rendere l’arte più accessibile a tutti.

Tuttavia, è fondamentale non perdere di vista il valore della creatività umana. L’AI può analizzare, imitare e generare, ma è l’uomo che dà senso, emozione e profondità all’opera d’arte. Bilanciare innovazione tecnologica e visione artistica personale sarà la sfida dei prossimi anni, in un mondo in cui la creatività non conosce più confini tra umano e artificiale.

Esplosioni sopra Doha: Iran sferra attacco missilistico alla base americana di Al-Udeid in Qatar

La tensione nel Golfo è esplosa letteralmente in cielo questa sera, con un attacco missilistico iraniano diretto contro la base americana di Al-Udeid, la più grande installazione militare statunitense in Medio Oriente, situata a pochi chilometri dalla capitale qatariota. Secondo fonti ufficiali iraniane e report di agenzie internazionali, almeno sei, forse fino a dieci, missili sono stati lanciati verso la base in risposta ai bombardamenti americani su tre siti nucleari iraniani avvenuti nel fine settimana.

La reazione della difesa aerea qatariota è stata immediata: le autorità di Doha hanno confermato che tutti i missili sono stati intercettati e abbattuti, senza registrare vittime o danni significativi. “La difesa aerea della nazione ha respinto con successo l’attacco e salvaguardato la sicurezza dei cittadini, dei residenti e degli ospiti”, ha dichiarato il portavoce del ministero degli Esteri, sottolineando che “la sovranità e l’integrità territoriale di Qatar non saranno mai compromesse”.

L’attacco è stato rivendicato dal Corpo delle Guardie della Rivoluzione iraniana (IRGC), che ha definito la base di Al-Udeid “il più grande punto di forza strategico del terrorismo americano nella regione” e ha annunciato l’inizio dell’operazione “Bisharat al-Fath” (Annuncio della Vittoria). In un comunicato, l’IRGC ha minacciato ulteriori rappresaglie: “Ogni nuovo attacco sarà affrontato con una risposta che accelera il crollo delle istituzioni militari americane nella regione”.

La reazione americana e il contesto regionale

La Casa Bianca e il Pentagono hanno monitorato costantemente la situazione. Il presidente Donald Trump, già presente lo scorso mese alla base, ha ribadito che “qualsiasi ritorsione da parte dell’Iran sarà affrontata con una forza ancora maggiore rispetto a quella impiegata nei raid del weekend”. Le truppe americane, circa 10.000 unità, sono state messe in sicurezza e le ambasciate occidentali hanno invitato i propri cittadini a rimanere al chiuso e seguire le indicazioni delle autorità locali.

Qatar ha temporaneamente chiuso il proprio spazio aereo per precauzione, mentre le sirene d’allarme sono risuonate anche in Iraq, Kuwait e Bahrein, dove sono presenti altre basi americane. In Iraq, la difesa aerea ha intercettato missili diretti verso la base di Ain al-Asad, senza danni rilevanti.

Il rischio di escalation

L’attacco di questa sera rappresenta il secondo più grande attacco diretto dell’Iran contro obiettivi americani dopo la risposta all’uccisione del generale Qassem Soleimani nel 2020. Le fonti arabe sottolineano che la situazione rimane estremamente volatile: “Continuare con azioni militari di questo tipo rischia di trascinare la regione verso una spirale di violenza dagli esiti imprevedibili”, ha avvertito il ministero degli Esteri qatariota.

Il quadro diplomatico

Qatar, tradizionalmente attiva nella mediazione regionale, ha esortato tutte le parti a fermare le ostilità e tornare al tavolo del dialogo. “Solo la diplomazia può salvare la regione dalla catastrofe”, ha concluso il portavoce del governo.

L’attacco missilistico iraniano contro la base americana di Al-Udeid ha scosso il Golfo ma, grazie all’efficacia delle difese aeree qatariote, non ha provocato vittime. La minaccia di ulteriori ritorsioni rimane alta, mentre la comunità internazionale osserva con apprensione l’evolversi di una crisi che rischia di coinvolgere tutto il Medio Oriente.

Crisi in Medio Oriente, l’Italia alza il livello di allerta: oltre 29 mila obiettivi sotto vigilanza

L’operazione statunitense “Il martello di mezzanotte”, che ha colpito siti nucleari in Iran, ha innescato un’ondata globale di tensione. Anche l’Italia ha rafforzato le misure di sicurezza, già attive da giorni, portando l’allerta a un nuovo livello.

Nel mirino ci sono oltre 29 mila obiettivi sensibili, tra cui più di 10 mila infrastrutture critiche. Circa un migliaio gli interessi legati agli Stati Uniti e a Israele sotto sorveglianza speciale. La risposta italiana si è articolata in una lunga giornata di vertici istituzionali, aperta all’alba a Palazzo Chigi con una riunione tra la premier Giorgia Meloni, i ministri competenti e i vertici dell’intelligence.

I piani di sicurezza prevedono un presidio rafforzato nei luoghi pubblici più frequentati: musei, monumenti, eventi culturali, concerti, stadi e aree turistiche. Anche le amministrazioni locali sono state coinvolte nell’intensificazione dei controlli, in particolare nelle grandi città e nella Capitale.

Il Viminale, al termine di una serie di riunioni operative, ha aggiornato le direttive su prevenzione e contrasto al terrorismo. Il Comitato strategico antiterrorismo e il Comitato nazionale per l’ordine e la sicurezza pubblica, guidato dal ministro dell’Interno Matteo Piantedosi, hanno definito le nuove linee di intervento.

Secondo quanto riferito dal ministero, durante gli incontri sono stati esaminati i risultati delle recenti indagini e tracciate le priorità operative per contenere i rischi legati al deterioramento del quadro geopolitico. Particolare attenzione è rivolta agli obiettivi americani sul suolo italiano: le basi militari di Aviano e Sigonella sono state ulteriormente blindate, così come le sedi diplomatiche, le aziende statunitensi, le catene commerciali e i punti di interesse culturale.

Stretta anche sulla sicurezza dei militari USA presenti in Italia. Il rafforzamento dei controlli coincide con l’anno giubilare, rendendo ancora più sensibili aree come il Vaticano e i luoghi di culto nella Capitale. Massima vigilanza anche per gli eventi religiosi legati al Giubileo.

Infine, sotto osservazione rimangono circa 250 obiettivi legati alla comunità ebraica e israeliana, da sempre sorvegliati ma ora al centro di un’ulteriore intensificazione dei controlli.