21 Novembre 2025
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Il piano Trump smaschera tutti: vincitori, vinti e ipocriti

La bozza in 28 punti consegnata a Zelensky è chiarissima: Crimea, Donbass intero, Kherson e Zaporizhzhia congelati lungo la linea attuale restano alla Russia; Kiev rinuncia per sempre alla NATO, riduce drasticamente l’esercito, accetta una zona demilitarizzata e garanzie USA “à la carte” ma non l’Articolo 5.

In cambio, sanzioni revocate, beni russi congelati usati per ricostruire l’Ucraina e Mosca rientra nel salotto buono (G8, accordi nucleari, cooperazione energetica e tecnologica con Washington).Il messaggio geopolitico è brutale e cristallino: chi invade con la forza e resiste tre anni ottiene ciò che vuole. Punto. La Russia ha perso 600.000 uomini tra morti e feriti gravi (dati Intelligence USA e UK), ha speso oltre 200 miliardi di dollari, è stata isolata economicamente, ma alla fine tiene il 20% del territorio ucraino e blocca l’espansione NATO.

Ha vinto sul campo, anche se a un costo mostruoso.

Zelensky piange “perdita di dignità” perché sa che firmare significa ammettere la sconfitta militare e politica dopo aver giurato “nemmeno un centimetro”. Ma l’alternativa è perdere anche il sostegno USA: Trump ha già fatto capire che senza accordo i rubinetti si chiudono.

L’Europa da sola non regge più il peso (Germania in recessione, Francia che litiga sui missili, Polonia che teme di essere la prossima).

L’Occidente collettivo, dopo aver pompato 200 miliardi di aiuti e aver promesso “fino alla vittoria”, adesso scarica Kiev con un’alzata di spalle: “pace ora, a qualunque costo”.

L’ipocrisia è totale: per trent’anni abbiamo ripetuto “mai ricompensare l’aggressione”, poi arriva il primo aggressore che tiene duro e il principio svanisce.

La pace è sempre preferibile alla guerra, ma questa pace insegna una lezione pericolosa al mondo: se sei disposto a pagare in sangue e a resistere abbastanza a lungo, alla fine l’Occidente cede.

Taiwan, Moldavia, Paesi Baltici e chiunque altro stanno prendendo appunti. Il vincitore morale è Putin: ha dimostrato che la forza paga ancora.

OpenAI perderebbe fino a 15 milioni di dollari al giorno con i video “sciocchi” di Sora

Sora, il modello per la creazione di video di OpenAI, è oggi uno dei sistemi per la creazione di video più avanzati al mondo.
La sua diffusione virale ha generato la produzione incessante di cortometraggi assurdi come “gatti e cani che si incontrano” e video controversi con “star defunte resuscitate“, venendo utilizzato con grande entusiasmo dagli utenti solo per creare contenuti divertenti.
Senza alcuna intenzione di pagare.
Il 30 settembre, OpenAI infatti pubblicato l’app Sora su iOS (tramite invito) ottenendo 1 milione di download in una settimana, mentre ad Halloween e secondo le stime AppFigures, erano già arrivati a 4 milioni: gli utenti hanno iniziato immediatamente a produrre milioni di micro-video da 10 secondi ogni giorno.

La situazione finanziaria di OpenAI: tra valutazioni record e presunte perdite colossali

Come confermato direttamente anche dal CEO di OpenAi/Sora Sam Altman, “Questi contenuti non possono sostenere i costi di elaborazione che consumiamo ogni secondo“.

Sebbene uno degli analisti della Bank of America, Lloyd Walmsley, l’abbia paragonata ad una vecchia strategia vincente da start-up per “catturare gli utenti, monetizzando dopo“, il costo dei video basati sull’intelligenza artificiale sembra essere molto più elevato rispetto a quello necessario per i contenuti di testo: generare un singolo video ad alta definizione consumerebbe molte più risorse di un testo, facendo si che la riduzione dei costi di produzione proceda molto più lentamente del previsto.

OpenAI è valutata circa 500 miliardi di dollari e ha previsto ricavi ricorrenti annui di 20 miliardi, anche se non tutto è oro: secondo stime indipendenti, OpenAI starebbe spendendo fino a 15 milioni di dollari al giorno per mantenere Sora operativa, con una spesa pari ad oltre 5 miliardi di dollari l’anno.

Per un’azienda che ha registrato perdite superiori ai 12 miliardi in un singolo trimestre, la questione non è marginale.

Il fatto che OpenAI sostenga la creazione di questi video si presenta agli analisti come un esercizio di marketing più che del lancio di un prodotto realmente vantaggioso.

La percentuale di video utilizzabili sarebbe infatti compresa solamente tra il 5% ed il 10% , mentre il resto è puro intrattenimento gratuito senza alcuna prospettiva di conversione verso servizi a pagamento o applicazioni commerciali di valore: di conseguenza, inutile.
OpenAI starebbe quindi spendendo per produrre contenuti che quasi non vengono usati, e questo diventa un grosso segnale di rischio anche per i suoi partner.

Perché i video AI costano così tanto?

Sora 2, l’ultima versione del modello per la creazione di video, è molto più costosa rispetto ad un modello testuale (tipo GPT) perché deve gestire dati spaziali e temporali complessi (più dimensioni e coerenza nei fotogrammi).

La differenza principale è quindi soprattutto tecnica: un video ad alta definizione generato dall’AI richiede il calcolo simultaneo di dati spaziali e temporali, utilizzando una quantità enorme di GPU – circuiti elettronici specializzati nel calcolo ad alta velocità utili per la gestione e la resa di immagini, video ed animazioni – e una potenza di calcolo continuativa molto più impegnativa rispetto alla generazione di risposte testuali.

Sempre secondo gli esperti, OpenAI sembra stia offrendo la generazione di video gratuita per attrarre gli utenti con l’obiettivo di monetizzare nel tempo i dati generati dagli utenti, puntando solo successivamente a guadagnare tramite eventuali pacchetti di pagamento per utenti “Premium” – aziende, studi cinematografici e professionisti del settore creativo – e ridurre di conseguenza le tasse future.
I contenuti per le creazioni di base potrebbero rimanere gratuiti, mentre le funzionalità avanzate come i video professionali di lunga durata, l’output in 4K e i diritti d’autore utilizzabili a fini commerciali è possibile che diventino a pagamento ed essere considerati costi operativi utili a ridurre le spese, anche se ciò al momento significa grandi perdite.

Viene infatti stimato che un video di 10 secondi possa costare circa 1,30 dollari in sola potenza GPU, cifra che sale considerevolmente quando si includono costi accessori tecnici come infrastrutture, manutenzione, trasferimento dati e raffreddamento.
Sora 2 è in grado di produrre sequenze sempre più coerenti e realistiche, ma questa qualità ha un prezzo: l’efficienza sembra non stia migliorando abbastanza rapidamente da compensare l’esplosione della domanda gratuita.


Rischi, incertezze e stime poco solide

Le previsioni sui costi di Sora sono tutt’altro che precise: Forbes sottolinea che OpenAI non ha rilasciato dati ufficiali sui volumi di utilizzo, né sul numero di GPU impiegate nei processi di creazione video.

Molti calcoli si basano quindi su assunzioni e modelli statistici.

L’azienda intanto sembra scommettere e investire utili per crescere a costo di perdite enormi, nonostante la situazione economica di Sora siacompletamente insostenibile, come ammesso da Altman.

A preoccupare esperti, partner commerciali ed investitori ci sono sia i rischi collegati alla qualità – se la maggior parte dei video generati non è davvero utilizzabile non si può puntare su Sora per campagne marketing “serie” – che l’incertezza sul ritorno degli investimenti: le aziende potrebbero non giustificare da soli i costi operativi attuali quando OpenAi non potrà più permettersi di sovvenzionare tutto.

Inoltre, se Sora non diventa effettivamente redditizio, Microsoft dovrà decidere se continuare a finanziarla o cambiare del tutto rotta.
Un elemento cruciale riguarda infatti il rapporto con Microsoft: secondo alcune fonti, Bill Gates avrebbe messo in guardia a suo tempo Satya Nadella – attuale CEO di Microsoft – dai rischi dell’ investire miliardi in un settore non ancora economicamente maturo e stabile.
Nonostante ciò, Microsoft ha puntato tantissimo su OpenAi, diventandone il principale motore finanziario.

L’idea, per alcuni osservatori, è che Microsoft stia tollerando enormi perdite in cambio della leadership assoluta nel settore video-AI sfruttando i dati generati dagli utenti per ottenere un vantaggio competitivo difficilmente replicabile.

La raccomandazione degli analisti è di usare Sora in modo sperimentale e non come pilastro centrale delle attività produttive principali, come campagne che richiedono stabilità ed un alto livello qualitativo dei prodotti – ma esclusivamente per brainstorming e prototipi interni.


Le dichiarazioni di Altman: nessun aiuto dal Governo

In mezzo alle polemiche sui costi dei data-center, Altman ha affermato su X che OpenAI non ha né cerca garanzie statali per ottenere finanziamenti.
L’azienda vuole essere percepita come indipendente, ambiziosa e capace di sostenere da sola la propria crescita.

Il messaggio sembra essere anche una risposta diretta alle preoccupazioni generate sull’investimento di cifre enormi in infrastrutture senza che ci siano stime e fondi completamenti sicuri per mantenerle: OpenAI punterebbe a costruire infrastrutture su larga scala senza dipendere da sovvenzioni governative, rafforzando di conseguenza l’idea che vogliano gestire il proprio destino finanziario scommettendo che i ricavi futuri (o almeno la crescita) giustificheranno questi investimenti massivi.

Non stiamo giocando con il denaro pubblico” è parte di un messaggio più grande che chiarisce come OpenAI veda il suo ruolo: non solo un’azienda, ma un’impresa che “costruisce AI per fare scienza e ricerca.

Altman rassicura tutti che OpenAI non è un ente che cerca sussidi ma è soprattutto un’azienda che crede nei suoi piani e vuole che questi siano sostenibili.
Questo può essere visto sia come una mossa coraggiosa e trasparente, sia come un iperbole retorica, soprattutto se dietro ci sono già impegni finanziari enormi che non sono pienamente coperti.

Sollecitato, il CEO fa proiezioni aggressive –100 miliardi di entrate entro il 2027– che non quadrano facilmente con le stime attuali e liquida le critiche -“Se volete vendere le vostre azioni vi trovo un investitore”.

La grande domanda: il punto di svolta arriverà davvero?

Nonostante Sora rappresenti uno dei più grandi balzi in avanti della generazione video, il mercato non è ancora disposto a pagare i costi reali di questa tecnologia dove persistono limiti tecnici importanti: durata massima dei video, incoerenze fisiche, problemi di copyright e rischi legati all’uso improprio di volti e identità.

La scommessa di OpenAI consisterebbe essenzialmente nell’ottenere entro i prossimi 12-18 mesi tecnologia, domanda e modelli di business maturi e sincronizzati tra loro.

Il caso Sora ci rivela comunque una contraddizione fondamentale del settore: l’innovazione tecnologica non significa ottenere automaticamente successo commerciale.

OpenAI dovrà trovare un equilibrio tra crescita, costi e sopravvivenza e la vera rivoluzione arriverà solo quando qualcuno riuscirà a costruire un modello economico unitario sostenibile, trasformando la generazione video da esperimento a industria.

Tra tweet difensivi e stime da record, resta l’impressione di un settore che promette molto più di quanto riesce a dimostrare: i modelli migliorano lentamente ed il mercato non regge ancora i costi reali della produzione video.
Servirebbe un approccio sostenibile migliorando l’efficienza e creando modelli di business che funzionino davvero, senza sprecare risorse o fiducia.

Trump abbraccia bin-Salman: quando il trilione di dollari vale più di un cadavere fatto a pezzi

Il riavvicinamento tra Donald Trump e Mohammed bin Salman del 18 novembre 2025 è un esercizio di realismo geopolitico spinto fino al cinismo estremo.

I fatti sono chiari: in 42 minuti di colloquio pubblico Trump ha definito Salman “protettore dei diritti umani”, ha respinto l’intelligence USA che lo indica come mandante dell’omicidio Khashoggi, ha liquidato la domanda di ABC News come “fake news” e ha promesso lo status di maggior alleato non-NATO in cambio di investimenti sauditi portati da 600 miliardi a 1 trilione di dollari.

Cena di gala, banda dei Marine, sei jet in formazione: la coreografia perfetta per seppellire sotto il tappeto rosso il cadavere fatto a pezzi nel consolato di Istanbul nel 2018. Il pragmatismo energetico e militare è comprensibile: l’Arabia Saudita resta il perno dell’OPEC+, il maggior acquirente di armi americane e un contrappeso all’Iran in un Medio Oriente che rischia di esplodere su Gaza, Yemen e Libano.

Ma esiste un confine tra realpolitik e complicità morale. Quando il presidente degli Stati Uniti nega pubblicamente la responsabilità del mandante di un giornalista assassinato sul suolo diplomatico, quel confine viene oltrepassato. Gli analisti del Council on Foreign Relations (Nov 2025) e dell’International Crisis Group sottolineano che questa normalizzazione rafforza l’impunità di MBS proprio mentre Riyadh reprime dissenso interno (oltre 200 esecuzioni nel 2024) e bombarda lo Yemen con armi USA.

Il messaggio è univoco: i diritti umani sono negoziabili se il prezzo è abbastanza alto. Gli Stati non sono aziende. Un’azienda può scegliere i propri clienti; uno Stato che pretende leadership morale globale non può vendere la propria credibilità per un trilione di petrodollari e qualche barile in più.

Il 18 novembre 2025 Washington ha scelto i secondi. La storia giudicherà se ne è valsa la pena.

Analisi del Malfunzionamento Globale di Cloudflare

Il 18 novembre 2025, Cloudflare, un fornitore di infrastruttura internet, ha subito una grave interruzione globale del servizio. L’incidente è iniziato intorno alle 11:20 e si è protratto per circa tre ore, causando un’ampia degradazione della connettività per milioni di utenti e servizi in tutto il mondo.

Classificazione e portata dell’incidente

L’interruzione è stata ufficialmente classificata come un guasto operativo interno e non come il risultato di un attacco informatico o attività malevola. Questo distingue l’evento da incidenti di sicurezza, concentrando l’analisi sulle vulnerabilità sistemiche della configurazione e del software. La portata del guasto si è manifestata principalmente attraverso la diffusione di errori HTTP 500 (Internal Server Error) e la contemporanea paralisi della Cloudflare Dashboard e delle API di gestione. Tali sintomi hanno esposto una profonda dipendenza dall’infrastruttura centralizzata di Cloudflare, compromettendo la stabilità della rete per una porzione significativa del web globale.

Principali risultati tecnici sulla causa

La causa principale del disservizio è stata ricondotta a un bug latente all’interno del software che gestisce le capacità di mitigazione dei bot e di sicurezza di Cloudflare. Questo difetto preesistente è stato innescato da un file di configurazione del traffico di che era cresciuto “oltre una dimensione prevista”. Quando il sistema software di gestione del traffico ha tentato di elaborare questo file eccessivamente grande, ha innescato un crash.

L’analisi indica una particolare vulnerabilità operativa nei sistemi difensivi. Il paradosso è che la complessità richiesta per difendere la rete (attraverso set di regole di sicurezza granulari e dinamiche) ha introdotto un nuovo vettore di fallimento interno. La configurazione di sicurezza altamente dinamica deve essere gestita con lo stesso rigore di validazione impiegato nello sviluppo e nel distribuzione del codice.

Analisi dell’Interruzione Cloudflare – Nov 2025

Anatomia di un Disservizio

Dossier Tecnico: Interruzione di Cloudflare a cura di Alground

Sintesi Esecutiva: L’Impatto

Il 18 novembre 2025, una porzione significativa di internet ha subito gravi disservizi a causa di una grave interruzione in Cloudflare, un fornitore critico di servizi di infrastruttura. Questo rapporto visivo analizza la cronologia, l’impatto e la causa tecnica principale dell’incidente.

90 Minuti

Durata approssimativa dell’interruzione diffusa dei servizi e dell’aumento dei tassi di errore.

>50% Calo di Traffico

Calo di traffico segnalato per le principali piattaforme colpite durante il picco dell’incidente.

Raggio d’Impatto: Chi è Stato Colpito?

Cloudflare opera come reverse proxy per milioni di siti web, fornendo sicurezza (WAF), prestazioni (CDN) e servizi DNS. L’interruzione ha immediatamente colpito qualsiasi servizio che si affidasse alla loro rete, portando a una cascata di disservizi in diversi settori.

Picco di Segnalazioni di Disservizio

Le segnalazioni degli utenti su piattaforme come Downdetector sono aumentate, in corrispondenza diretta con il guasto del servizio.

Settori di Servizio Colpiti

Il disservizio è stato avvertito in tutti i settori, colpendo piattaforme AI critiche, social media e servizi di e-commerce.

Cronologia dell’Evento (CET)

L’incidente si è sviluppato rapidamente durante una fascia oraria ad alto traffico, con le prime segnalazioni emerse poco prima delle 10:30 CET e le azioni di risoluzione iniziate intorno alle 11:00 CET.

12:28 CET

Segnalazioni iniziali degli utenti di errori 5xx e fallimenti di connessione per i principali siti (X, OpenAI) in forte aumento.

12:35 CET

Cloudflare pubblica l’avviso iniziale “Indagine in corso” sulla sua pagina di stato, riconoscendo problemi diffusi.

12:45 CET

Il disservizio raggiunge il picco. Downdetector mostra decine di migliaia di segnalazioni per dozzine di servizi.

13:02 CET

Cloudflare identifica la causa principale come una “distribuzione software fallita” e avvia le procedure di rollback.

13:30 CET

I servizi iniziano a stabilizzarsi a livello globale con la propagazione della correzione. Stato di Cloudflare aggiornato a “Monitoraggio”.

Analisi Tecnica della Causa Principale

Le fonti indicano che il disservizio non è stato un attacco doloso ma un errore interno. Un push software errato a un data center critico ha innescato un fallimento a cascata nel Border Gateway Protocol (BGP), ritirando di fatto i servizi principali dalle tabelle di routing di internet.

Diagramma di Flusso della Cascata di Fallimenti

1. Distribuzione Software

Una nuova configurazione è stata inviata a un data center centrale (es. Ashburn, VA).

2. Errore di Configurazione BGP

L’aggiornamento conteneva un errore che causava l’annuncio di route BGP errate.

3. Fallimento a Cascata

Route non corrette si sono propagate a livello globale, portando altri router a interrompere le connessioni con la rete Cloudflare.

4. Servizi Fuori Linea

I servizi gestiti da Cloudflare sono diventati irraggiungibili, risultando in errori 5xx.

Risoluzione e Punti Chiave

Il problema è stato risolto con il rollback della distribuzione software difettosa. Questo incidente evidenzia l’immensa centralizzazione dell’infrastruttura internet e il rischio sistemico associato ai punti singoli di fallimento, anche in reti altamente resilienti.

  • Rischio di Centralizzazione: L’eccessiva dipendenza da pochi grandi fornitori di infrastrutture significa che piccoli errori possono avere conseguenze globali.
  • Fragilità BGP: Il protocollo di routing centrale di internet (BGP) si basa sulla fiducia e può essere vulnerabile a errori di configurazione che si diffondono rapidamente.
  • Importanza dei Rollback: L’identificazione rapida e le procedure di rollback sono essenziali per mitigare la durata dei disservizi causati internamente.

Questa infografica è un’analisi tecnica basata su rapporti pubblici. Tutti i dati sono rappresentativi.

Implicazioni strategiche immediate

L’evento ha immediatamente evidenziato i gravi rischi associati alla centralizzazione dell’infrastruttura internet, agendo come un chiaro Punto Singolo di Fallimento (SPOF) a livello globale. A livello finanziario, l’interruzione ha causato un calo del valore azionario di Cloudflare e ha aumentato l’attenzione da parte dei clienti aziendali.

Poiché Cloudflare aveva già sperimentato diverse interruzioni minori nel 2025 (incluso giugno, luglio e settembre ), la frequenza cumulativa degli incidenti amplifica l’ansia di investitori e clienti, rendendo imperativa la necessità di una trasparenza eccezionale nell’analisi post-mortem per mitigare una potenziale perdita di clientela a lungo termine. Questa preoccupazione è destinata ad accelerare l’adozione di architetture più complesse, ma resilienti, come il Multi-CDN (Content Delivery Network) e il Global Server Load Balancing (GSLB).

Cronologia dell’incidente e valutazione dell’impatto globale

L’incidente è iniziato intorno alle 12:20 con le prime segnalazioni di un “picco insolito di traffico” che ha innescato l’errore. Alle 12:48 , Cloudflare ha ufficialmente confermato il problema sulla sua pagina di stato, segnalando “Errori 500 diffusi, Cloudflare Dashboard e API in fallimento”.

Vi era una sovrapposizione temporale con una manutenzione programmata (ad esempio, nel datacenter SCL di Santiago, tra le 12:00 e le 15:00 UTC), sebbene le fonti non colleghino direttamente i due eventi, sollevando interrogativi sulla sincronizzazione della gestione dei cambiamenti. L’interruzione ha raggiunto il picco intorno alle 13:00 , con il sito di monitoraggio Downdetector (ironicamente anch’esso brevemente colpito a causa della dipendenza da Cloudflare) che registrava il massimo delle segnalazioni. Il servizio è stato dichiarato pienamente risolto alle 15:30.

Sintomatologia tecnica e risposta agli errori

La sintomatologia dominante è stata la comparsa di Errori HTTP 500, indicando un fallimento interno ai server di reverse proxy di Cloudflare che impediva l’elaborazione del traffico.

Un sintomo secondario, ma cruciale, è stato il fallimento dello strato di sicurezza, che ha generato il messaggio di blocco: “Please unblock challenges.cloudflare.com to proceed”. Questo messaggio indica che il sistema di sicurezza e challenge (WAF/Bot Mitigation) di Cloudflare era in uno stato di malfunzionamento. Il WAF, anziché reindirizzare correttamente il traffico o servire il contenuto in cache, ha bloccato aggressivamente gli utenti legittimi dall’accedere ai contenuti di origine, anche se i server web sottostanti potevano essere operativi.

La terza manifestazione critica è stata la paralisi del Control Plane, ovvero l’inaccessibilità della Dashboard e delle API. Questo ha impedito ai tecnici di Cloudflare e ai clienti di monitorare lo stato in tempo reale o di eseguire rapidamente modifiche alla configurazione per il ripristino. Il fatto che un fallimento del sistema edge possa contemporaneamente abbattere l’infrastruttura di gestione indica che l’architettura di controllo non è sufficientemente isolata dal data plane critico.

Impatto operativo trasversale

L’interruzione ha avuto un impatto vasto, sottolineando il ruolo centrale di Cloudflare nell’ecosistema digitale moderno:

  • Social Media e Intelligenza Artificiale (AI): Piattaforme ad alta intensità di traffico come X (precedentemente Twitter), e fornitori di servizi AI di nuova generazione come OpenAI (ChatGPT e Sora) e Claude AI sono stati gravemente colpiti. La dipendenza di questi servizi dall’infrastruttura CDN/sicurezza di Cloudflare è stata imponente.
  • Settori Economici: L’impatto si è esteso a piattaforme di e-commerce (Shopify), servizi finanziari (Coinbase, PayPal) e applicazioni di trasporto (Uber, NJ Transit), dimostrando l’ampiezza delle ripercussioni economiche generate da un fallimento a livello di infrastruttura.

L’analisi della sintomatologia rivela che un guasto sistemico di basso livello, innescato da un bug latente e un overflow di dati interni, si è tradotto in errori catastrofici di alto livello (500), creando un’interruzione di servizio globale.

OrarioSintomo OsservatoComponente ColpitoSignificato Tecnico
12:20Picco di errore inizialeSoftware di Mitigazione MinacceCarico di configurazione ha superato la capacità del sistema
12:48Errori 500 Globali & Dashboard InattivaRete Edge / Control PlaneCrash simultaneo del data plane e deterioramento del sistema di gestione
13:00Errore di Blocco WAFLivello di Challenge di Sicurezza (WAF)Fallimento nel servire i contenuti a causa di una logica di sicurezza corrotta
15:30Risoluzione e RipristinoRete GlobaleAvvio del rollback della configurazione problematica

Il malfunzionamento è stato direttamente collegato a un file di configurazione generato dinamicamente, utilizzato dai servizi di mitigazione dei bot o dal Web Application Firewall (WAF) di Cloudflare. Questo file contiene una serie di regole necessarie per proteggere i siti web identificando e bloccando i pattern di traffico dannoso. In un ambiente di Content Delivery Network (CDN) globale come Cloudflare, che impiega migliaia di Point of Presence (PoP), la configurazione deve essere propagata in modo quasi istantaneo a tutti i server edge.

Meccanismo del bug latente

Il fallimento si è verificato quando il file di configurazione in questione si è espanso, raggiungendo una dimensione inattesa ed eccessiva (“beyond an expected size of entries”). Il difetto latente risiedeva nel componente software incaricato di analizzare, caricare o applicare questo file di configurazione ai motori di gestione del traffico.

L’analisi dei sistemi distribuiti suggerisce che l’overflow della dimensione del file abbia causato un esaurimento di risorse. È probabile che si sia verificato un fallimento nell’allocazione della memoria (RAM) o un potenziale buffer overflow quando il software ha tentato di ingerire l’enorme set di regole. Quando un processo di sistema incontra un errore fatale nell’allocazione delle risorse critiche, può innescare un crash del processo o un kernel panic su tutta la flotta distribuita di server edge.

Questo evento mette in luce i pericoli derivanti dall’affidarsi a limiti impliciti. La configurazione non era vincolata da un limite di dimensione definito, e il software di gestione non possedeva meccanismi di controllo degli errori sufficientemente robusti o l’applicazione esplicita di vincoli di dimensione prima del caricamento critico. Tali omissioni rappresentano un difetto fondamentale nella progettazione dei sistemi distribuiti, dove l’ottimizzazione delle prestazioni spesso compromette la verifica robusta dei limiti.

Distinzione da attacchi esterni

Sebbene l’interruzione sia stata inizialmente attribuita a un “picco insolito di traffico” il quale funge da trigger che ha causato la crescita dinamica del file di configurazione Cloudflare ha fornito chiare dichiarazioni escludendo l’attività malevola o attacchi DDoS come causa radice. Il fallimento è stato categoricamente definito come interno e sistemico.

Processo di ripristino

La risoluzione primaria dell’incidente ha richiesto l’identificazione della configurazione errata e l’implementazione di un fix. La difficoltà nel ripristino è stata esacerbata dal Control Plane in panne, che ha rallentato la capacità di diagnosticare rapidamente il problema di configurazione e di eseguire il rollback globale.

OpenAI, con servizi come ChatGPT e Sora, richiede API ad alta velocità e bassa latenza. Cloudflare opera come un gateway API essenziale per la sicurezza e il rate limiting.14 Il fallimento di OpenAI e Claude AI durante l’interruzione non è stato dovuto a un guasto delle loro infrastrutture di calcolo, ma al blocco avvenuto a livello di reverse proxy di Cloudflare.

La manifestazione dell’errore WAF implica che gli utenti sono stati respinti alla “porta d’ingresso” del sistema. L’infrastruttura di OpenAI, seppur potenzialmente sana, è diventata inaccessibile perché il servizio di accesso e sicurezza di Cloudflare era in uno stato di blocco. Di conseguenza, la possibilità per l’AI provider di eseguire un failover rapido è stata annullata, poiché il blocco è avvenuto a un livello (Layer 7 Proxy/WAF) troppo basso per consentire l’attivazione di meccanismi di fallback a livello applicativo (come quelli offerti da soluzioni come Cloudflare AI Gateway).

L’impatto universale su piattaforme come X, Spotify e Canva suggerisce che queste entità utilizzano Cloudflare per funzioni fondamentali: non solo la distribuzione di contenuti statici (CDN), ma anche la mitigazione DDoS, la risoluzione DNS e il reverse proxying del traffico applicativo di base.

La strategia di affidarsi a un singolo fornitore per il WAF e il DNS crea un collo di bottiglia architetturale. L’incapacità di risolvere le challenge di sicurezza o di instradare il traffico a causa del guasto del ruleset del WAF ha paralizzato l’intera applicazione, indipendentemente dalle misure di scalabilità o ridondanza interna adottate dal cliente.7

Fragilità di DNS e Routing Anycast

Cloudflare sfrutta il routing Anycast per annunciare i suoi indirizzi IP globalmente, dirigendo il traffico verso il PoP più vicino. Sebbene ciò massimizzi le prestazioni, comporta un rischio. Una singola misconfigurazione o un crash del software che influisce sulla distribuzione interna dello stato di configurazione può innescare un fallimento simultaneo e globale in tutti i PoP che pubblicizzano le rotte Anycast. Precedenti eventi, come l’interruzione del resolver DNS 1.1.1.1 nel luglio 2025, hanno già dimostrato come errori di configurazione interni possano portare a ritiri di rotta su scala mondiale, causando indisponibilità catastrofica.

Il comportamento del WAF di Cloudflare, che impone un blocco irrisolvibile, è un esempio di postura di sicurezza “fail closed” aggressiva. Sebbene inteso a prevenire le violazioni, in caso di guasto dell’infrastruttura, garantisce l’indisponibilità totale per gli utenti legittimi. Questo approccio dimostra che per la maggior parte delle applicazioni enterprise (al di fuori delle piattaforme finanziarie ad altissimo rischio), una strategia “fail open” (che permetta un accesso non mitigato ma potenzialmente funzionale) o una “static failure” (che serva contenuto statico dalla cache) è spesso preferibile per la continuità operativa. La dipendenza estrema da un singolo punto di controllo espone X e OpenAI a un significativo debito tecnico derivante dalla centralizzazione, che ora impone una riprogettazione urgente per la ridondanza.

L’imperativo della diversificazione dei fornitori

L’incidente ha confermato che anche le piattaforme meglio ingegnerizzate non sono immuni da meccanismi di fallimento imprevisti, quali bug latenti e misconfiguration. La fiducia storica nella robustezza di Cloudflare deve essere bilanciata con la realtà del rischio sistemico. I concorrenti diretti, inclusi Akamai Technologies, Fastly e AWS CloudFront, sono pronti ad assorbire la domanda di resilienza e diversificazione. Le aziende che si affidano a un unico fornitore sono ora costrette a re-immaginare le loro strategie, accelerando l’adozione di approcci multi-cloud e Multi-CDN per mitigare i Punti Singoli di Fallimento.

La strategia Multi-CDN prevede la distribuzione dello stesso traffico attraverso più CDN indipendenti. Per gestire questa complessità, è necessario un livello di routing superiore, noto come Global Server Load Balancing (GSLB).

Il GSLB funge da strato di risoluzione intelligente che distribuisce le richieste tra i fornitori (ad esempio, Cloudflare e Fastly) in base a controlli di integrità in tempo reale (health checks), latenza geografica e prestazioni regionali. Il meccanismo di resilienza è intrinseco: se Cloudflare fallisce un health check a causa di errori 500 diffusi, il GSLB reindirizza automaticamente il 100% del traffico verso il CDN secondario sano, garantendo la continuità operativa.

L’interruzione di Cloudflare del novembre 2025 rappresenta un evento significativo che ha messo in discussione la supposta robustezza dell’infrastruttura internet moderna, evidenziando che i fallimenti operativi interni rimangono la minaccia più pervasiva per l’alta disponibilità.

Raccomandazioni strategiche

Sulla base delle vulnerabilità esposte dall’incidente, si raccomanda ai responsabili tecnici di adottare il seguente piano d’azione immediato:

  1. Rendere Obbligatoria la Ridondanza Multi-WAF: Implementare almeno due strati WAF/sicurezza indipendenti su fornitori distinti. Ciò mitiga la modalità di fallimento critica osservata a novembre, in cui il fallimento del WAF ha portato al blocco completo.
  2. Implementare GSLB Robusto con Health Checks in Tempo Reale: Utilizzare il Global Server Load Balancing per instradare il traffico basandosi sullo stato di salute istantaneo dei CDN, assicurando il failover automatico durante gli errori sistemici di tipo 5xx.
  3. Disaccoppiare il DNS dal CDN: Garantire che la risoluzione DNS primaria e secondaria sia gestita in modo indipendente o attraverso fornitori di servizi diversi per prevenire il fallimento simultaneo di DNS e CDN.
  4. Applicare Pipeline di Validazione della Configurazione Rigorose: Introdurre test automatizzati rigorosi (pre-flight checks) per tutte le modifiche di configurazione, convalidando esplicitamente la dimensione dei file, l’integrità delle strutture dati e il consumo di risorse rispetto a limiti di sicurezza predefiniti, prima di qualsiasi deployment globale.
  5. Rivedere gli Accordi sui Livelli di Servizio (SLA): Condurre revisioni immediate degli SLA e dell’idoneità ai crediti di servizio con tutti i fornitori di infrastrutture chiave (CDN, Cloud, DNS) per quantificare e mitigare i rischi finanziari associati ai tempi di inattività.

Musulmani per Roma 2027: nasce il primo gruppo politico islamico nella Capitale

Nella città eterna, cuore della cristianità e capitale d’Italia, sta prendendo forma un fenomeno politico senza precedenti che promette di ridisegnare gli equilibri delle prossime elezioni amministrative. MuRo27, acronimo di “Musulmani per Roma 2027”, rappresenta il primo tentativo organizzato della comunità islamica romana di trasformarsi in soggetto politico attivo in vista delle elezioni che si terranno nella Capitale tra meno di due anni.

L’iniziativa, annunciata attraverso i canali sociali nelle scorse settimane, ha immediatamente acceso un dibattito infuocato che vede contrapposti chi parla di legittima partecipazione democratica e chi invece intravede i rischi di derivare integraliste.​

L’ispirazione di New York e il sogno di Mamdani

L’elemento scatenante che ha dato il via al progetto MuRo27 è stata la storica vittoria di Zohran Mamdani alle elezioni per la carica di sindaco di New York dello scorso novembre. Il giovane politico trentaquattrenne di origini ugandesi e indiane, musulmano e autodefinitosi socialista, è diventato il primo sindaco di fede islamica della metropoli americana , un risultato che ha risuonato ben oltre i confini statunitensi.

Per i promotori del gruppo romano, l’elezione di Mamdani ha rappresentato molto più di una semplice curiosità politica dall’altra parte dell’Atlantico. Come dichiarato sulla pagina Facebook di MuRo27, la sua vittoria “ha avuto il merito di sottolineare, caso mai ce ne fosse ancora bisogno, l’arretratezza della nostra classe politica rispetto alla società in cui viviamo che è di fatto multiculturale”.

Mamdani

Mamdani, che ha conquistato oltre un milione di voti nella città più popolosa degli Stati Uniti, ha saputo intercettare il malcontento di diverse comunità, in particolare quella musulmana e sud-asiatica, storicamente emarginate dopo gli attentati dell’11 settembre.

La sua campagna elettorale si è concentrata su temi concreti come il contenimento degli affitti, il congelamento delle tariffe dei trasporti pubblici e una maggiore giustizia sociale, dimostrando che l’identità religiosa può convivere con un programma politico laico e inclusivo. Questo modello di partecipazione politica musulmana in Occidente ha fornito ai promotori di MuRo27 un esempio concreto da seguire , seppur in un contesto profondamente diverso come quello italiano.​​

Francesco Tieri, il volto dietro MuRo27

Il principale artefice dell’iniziativa romana è Francesco Tieri, ingegnere italiano convertito all’islam, già segretario delle Comunità islamiche del Lazio e figura controversa nel panorama politico capitolino . Tieri non è un nome nuovo per chi segue le dinamiche politiche romane. Nel 2021 si era già candidato alle primarie del centrosinistra per la presidenza del V municipio, sostenuto dall’allora lista “Democrazia Solidale” in quota Partito Democratico, a sostegno dell’attuale sindaco Roberto Gualtieri. Durante quella campagna elettorale aveva costruito la sua base di consenso principalmente attorno alle moschee del territorio, come lui stesso ammise: “Non ho un partito alle spalle e una struttura. Sono musulmano. Ho chiesto aiuto nei centri di preghiera per la raccolta delle firme”.​

Il V municipio, dove si concentra la maggior parte dei luoghi di culto islamici della Capitale, era stato al centro del suo programma elettorale. Tieri aveva dichiarato che in quella zona vivevano circa 50mila persone di origine straniera, il 20% della popolazione totale, di cui circa la metà musulmani, e aveva proposto la costruzione di “due moschee più grandi per feste e ricorrenze che rendono riconoscibile questa pratica collettiva”. Oggi Tieri collabora con il sito islamico “La Luce”, gestito dai fratelli Piccardo, uno dei quali è consigliere dell’Ucoii (Unione delle Comunità Islamiche d’Italia), e ha pubblicato nel 2024 un libro dal titolo eloquente: “Guerra alle moschee in assenza di terrorismo. I casi: Monfalcone, Pioltello e Legge Foti”.​

La comunità musulmana a Roma: numeri e presenza

Per comprendere la portata di questa iniziativa politica, è necessario contestualizzarla all’interno della realtà demografica della Capitale. Roma è la prima città italiana per numero assoluto di presenze musulmane, avendo superato la soglia delle 100mila unità, con tempi che arrivano a 120mila persone considerando anche le irregolarità . Applicando le metodologie di stima più accreditate, che utilizzano le percentuali di musulmani nei paesi d’origine, il numero di residenti stranieri musulmani a Roma si attestava intorno alle 71mila unità al 2015, corrispondente al 2,5% della popolazione residente, sostanzialmente in linea con il dato nazionale.neodemos+ 2

A questi vanno aggiunti circa 40mila musulmani di cittadinanza italiana, inclusi i convertiti stimati tra le 3 e le 4mila unità, per arrivare a una presenza regolare di circa 111mila abitanti, pari al 3,8% della popolazione residente nel Comune di Roma. L’Islam è diventato così la seconda religione per numero di fedeli della Capitale dopo quella cattolica, superando quella ortodossa . Le prime cinque comunità per numerosità (Marocco, Bangladesh, Egitto, Pakistan e Albania) rappresentano il 66% di tutti i residenti stranieri musulmani presenti nel Comune di Roma. Tra i musulmani presenti nella Capitale, quelli con cittadinanza italiana rappresentano il 33% sul totale, un segnale evidente di un mutamento sociale in atto anche all’interno delle comunità islamiche.​

Il precedente di Monfalcone e la lista “Italia Plurale”

L’iniziativa romana non nasce nel vuoto, ma si inserisce in un percorso già tracciato in altre città italiane. Il precedente più significativo è quello di Monfalcone, cittadina friulana con la più alta percentuale di immigrati in Italia, dove alle elezioni amministrative dell’aprile 2025 si è presentato per la prima volta “Italia Plurale”, lista a guida islamica che candidava a sindaco Bou Konate . Konate, ingegnere senegalese laureato a Trieste e già assessore ai Lavori pubblici in una giunta di centrosinistra, aveva raccolto 18 candidati, tra cui sei donne, con l’ambizione di intercettare i 7.982 elettori stranieri, pari al 34% del corpo elettorale locale.​

Nonostante l’esito elettorale sia stato modesto, con solo il 3% dei voti, il capolista Jahirul Islam aveva dichiarato: “Noi corriamo per vincere, ma in ogni caso andrà bene. Siamo riusciti a raccogliere le firme, a fare una lista con 18 nomi. Prima, non ci pensavamo proprio. È stata la politica di odio contro di noi, a unirci. Sono sicuro che Monfalcone sarà un esempio anche per gli immigrati d’altre città. E Italia Plurale diventerà un simbolo”. Il riferimento era alla “politica di odio” incarnata dalla sindaca leghista Anna Maria Cisint, che aveva chiuso due luoghi di culto islamico per presunte violazioni urbanistiche e di sicurezza, innescando una battaglia giudiziaria che ha visto più volte il TAR dare ragione alla comunità musulmana.​

Le reazioni politiche: tra allarme e vigilanza

La nascita di MuRo27 ha provocato reazioni immediate da parte del centrodestra italiano. Anna Maria Cisint, europarlamentare della Lega ed ex sindaco di Monfalcone, ha definito il fenomeno come “un nuovo partito islamico, portatore di un messaggio ideologico-politico islamista che ambisce all’applicazione del Corano, alla sostituzione della Costituzione con la Sharia, all’annientamento delle nostre libertà e dei nostri diritti, a partire da quelli delle donne” . Secondo Cisint, dopo il tentativo a Monfalcone “ora si riparte dalla Capitale con un nuovo partito islamico” e la presenza di “un partito composto interamente da soli musulmani rappresenta una pericolosa deriva per la visione liberticida e anti-occidentale che porta avanti”.​

Anche altri esponenti del centrodestra hanno espresso preoccupazione. Il presidente dei senatori di Forza Italia Maurizio Gasparri ha invitato a tenere “gli occhi aperti, bisogna sempre verificare connessioni e collegamenti, perché a Roma abbiamo troppi gruppi di fondamentalisti e moschee abusive”.

Il deputato di Fratelli d’Italia Federico Mollicone ha definito “inquietante la nascita di una lista civica ispirata alla legge islamica” e ha chiesto “un’attenzione massima da parte degli apparati di prevenzione”, sostenendo che “le sure e la legge italiana non sono compatibili”. Il deputato della Lega Rossano Sasso ha rincarato la dose affermando che “il loro intento e le loro parole non lasciano spazio alla minima forma di dubbio, vogliono islamizzare l’Italia”.​

I legami con le moschee e il V municipio

Secondo quanto ricostruito da diverse testate giornalistiche, dietro il progetto MuRo27 ci sarebbe l’appoggio del centro culturale che fa capo a Ben Mohamed Mohamed, imam della moschea Al Huda di via dei Frassini, nel quartiere di Centocelle. Questo imam tunisino ha un passato politico legato al partito Ennahda in Tunisia, affiliato ai Fratelli Musulmani, come lui stesso ha dichiarato in diverse interviste . La moschea di Centocelle è stata al centro di diverse polemiche negli anni scorsi e Tieri aveva organizzato proprio in quella sede una delle tappe della raccolta firme per la sua candidatura alle primarie del 2021.​

Il V municipio romano rappresenta un punto nevralgico per la comunità islamica capitolina, essendo l’area dove sorgono la maggior parte dei luoghi di culto, molti dei quali abusivi o privi delle necessarie autorizzazioni. Proprio in questo municipio sta per nascere quella che diventerà la seconda più grande moschea di Roma, nell’ex mobilificio Gaggioli di piazza delle Camelie, un progetto che prevede la trasformazione di un edificio di quattro piani in grado di ospitare fino a 1000 persone.

L’immobile è stato acquistato nel 2014 dall’associazione culturale legata alla moschea Al Huda per 3,6 milioni di euro con fondi provenienti dal Qatar, ma i lavori si sono poi fermati per mancanza di finanziamenti e sono ripresi solo recentemente grazie alle donazioni dei fedeli.​

L’obiettivo dichiarato e lo sguardo al 2027

Nella loro presentazione ufficiale, i promotori di MuRo27 hanno definito il gruppo come composto da “musulmani che vivono, studiano e lavorano nella capitale e che vogliono contribuire alla discussione politica in vista delle elezioni amministrative del 2027”. Il documento programmatico sottolinea che “la rilevanza politica della presenza islamica in Italia, rispetto al contributo che questa potrebbe dare alla società, può ad oggi essere valutata come quasi insignificante” e dichiara che “il gruppo MuRo27 intende promuovere e stimolare idee e proposte politiche di utilità collettiva con l’appartenenza religiosa dei propri membri”.​

Quest’ultima frase, in particolare, ha suscitato le maggiori perplessità. L’esplicito riferimento a “proposte politiche coerenti con l’appartenenza religiosa” viene interpretato da molti osservatori come l’affermazione di un islam politico, ovvero l’applicazione di precetti islamici alla vita politica e al tessuto sociale. La pagina Facebook di MuRo27 non lascia spazio a dubbi sulle simpatie politiche: campeggia una fotografia del Colosseo sormontato da una mezzaluna e un post a sostegno del ticket Ignazio Marino e Virginia Raggi come candidati alle prossime amministrative della Capitale. Entrambi gli ex sindaci hanno recentemente espresso la loro contrarietà al bis di Roberto Gualtieri, pur provenendo da aree politiche diverse.​

Il contesto nazionale e le sfide dell’integrazione

Il fenomeno MuRo27 si inserisce in un quadro più ampio che vede l’Italia alle prese con le sfide dell’integrazione della comunità musulmana, stimata in circa 2,8 milioni di persone, di cui circa la metà ha già acquisito la cittadinanza italiana. L’Islam non è ufficialmente riconosciuto dallo Stato italiano, a differenza del cristianesimo e dell’ebraismo, il che significa che le moschee non possono ricevere finanziamenti pubblici, i matrimoni islamici non hanno valore legale ei lavoratori musulmani non hanno diritto a permessi per le festività religiose.​

Nel 2017, nove associazioni islamiche che rappresentano il 70% dei musulmani residenti in Italia hanno firmato con il Ministero dell’Interno un “Patto nazionale per un Islam italiano”, il primo del genere nel paese. L’accordo, composto da 20 punti, impegna i firmatari a rigettare ogni forma di violenza e terrorismo e prevede che le preghiere nelle moschee siano tenute in italiano.

Tuttavia, la strada verso il pieno riconoscimento religioso e l’integrazione rimane complessa, soprattutto in un clima politico dove l’immigrazione e l’islam sono spesso oggetto di strumentalizzazione elettorale.​

La situazione italiana si differenzia da altri paesi europei dove la partecipazione politica musulmana ha già prodotto risultati significativi. A Londra, dal 2016, governa Sadiq Khan, primo sindaco musulmano di una capitale europea, mentre in Francia e Germania esistono da tempo rappresentanti musulmani eletti nei parlamenti nazionali e locali.

Il tentativo di MuRo27 di organizzarsi politicamente rappresenta quindi un fenomeno nuovo per l’Italia, ma non per l’Europa , e solleva interrogativi sulla capacità del sistema politico italiano di integrare queste nuove istanze senza cedere a derivare identitarie o, al contrario, senza marginalizzare ulteriormente una comunità già oggetto di discriminazioni.​

Prospettive future e scenari possibili

Le elezioni amministrative di Roma del 2027 coincideranno probabilmente con le politiche nazionali, rendendo il test elettorale della Capitale ancora più significativo. Se MuRo27 riuscirà a strutturarsi come lista civica oa influenzare l’agenda politica delle coalizioni esistenti, potrebbe rappresentare un punto di svolta nella partecipazione politica musulmana in Italia.

Lo scenario più probabile vede il gruppo cercare alleanze con la sinistra radicale e con figura come l’ex sindaco Ignazio Marino, oggi parlamentare europeo eletto con Alleanza Verdi e Sinistra, o con Virginia Raggi, che non ha mai nascosto la sua opposizione al Partito Democratico e all’attuale sindaco Gualtieri.​

Secondo alcune ricostruzioni giornalistiche, dietro il progetto ci sarebbe l’ambizione di creare un soggetto politico nazionale che vada oltre Roma, con liste civiche sui territori che potrebbero confluire in un unico movimento a livello nazionale, coinvolgendo anche l’associazionismo filo-palestinese e figura come il parlamentare Aboubakar Soumahoro, già sceso in campo a fianco di Bou Konate a Monfalcone. Francesco Tieri, nel libro pubblicato nel 2024, aveva scritto che “alla luce dello scenario politico dato, la costituzione di questo soggetto politico ci sembra non ulteriormente rimandabile oltre che necessaria alla società”.​

Resta da vedere se l’elettorato musulmano romano, stimato in diverse decine di migliaia di aventi diritto al voto, risponderà all’appello di MuRo27. La comunità islamica della Capitale è estremamente eterogenea, divisa per nazionalità, correnti religiose e livello di integrazione.

Molti musulmani italiani potrebbero non riconoscersi in un progetto esplicitamente confessionale , preferendo partecipare alla vita politica attraverso i tradizionali partiti laici, come testimonia il caso di Mariam Ali, giovane musulmana egiziana candidatasi nel 2021 al consiglio comunale di Roma con una lista di centrosinistra, che aveva dichiarato: “Non mi candido per rappresentare i musulmani in Italia. Mi candido come cittadino italiano e romano, e voglio dare voce ai giovani, agli anziani e ai bisognosi”.​

Il dibattito su MuRo27 è appena iniziato e nei prossimi mesi si capirà se questo gruppo riuscirà a trasformarsi in un vero soggetto politico competitivo o se rimarrà un fenomeno di nicchia. Ciò che è certo è che la presenza musulmana a Roma, e in Italia, non può più essere ignorata dalla politica, e che nuove forme di partecipazione democratica stanno emergendo in una società sempre più multiculturale e plurale.

Il genocidio sudanese raccontato da una sopravvissuta che il mondo ignora

Davanti ai banchi del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite, Niemat Ahmadi ha portato le voci di milioni di donne sudanesi vittime di una guerra dimenticata. La fondatrice del Darfur Women Action Group, sopravvissuta al genocidio del Darfur venticinque anni fa, non ha smesso di gridare l’allarme: il Sudan brucia, le donne muoiono, e la comunità internazionale tace.

Un inferno senza fine: la devastazione del Sudan contemporaneo

Il Sudan è stato travolto da una violenza feroce da oltre un anno , ha denunciato Ahmadi nelle sue dichiarazioni al Consiglio di Sicurezza dell’ONU. Il conflitto ha assunto dimensioni bibliche: tra i 10.000 ei 15.000 morti nella sola città di El Geneina, oltre 10 milioni di sfollati interni, 18 milioni di persone—oltre un terzo della popolazione sudanese—condannate alla fama. Le Nazioni Unite avvertono che il Sudan diventerà presto “la peggiore crisi alimentare del mondo”.

Ma dietro questi numeri ci sono volti, storie, sofferenze indicibili. Il ciclo di violenza mostra un disprezzo totale per il diritto internazionale e può configurarsi come crimini di guerra, crimini contro l’umanità e genocidio , ha affermato Ahmadi con una lucidità che esprime tutta la gravità della situazione.

Da una parte le Rapid Support Forces (RSF) continuano a occupare e saccheggiare le case dei civili, utilizzando la violenza sessuale, gli stupri e la schiavitù sessuale come tattica di guerra sistemica. Dall’altra, le Forze Armate Sudanesi (SAF) lanciano bombardamenti di artiglieria pesante e attacchi aerei indiscriminati contro case civili, mercati, ponti, servizi essenziali e vie di evacuazione. Nessuno rispetto per la vita umana. Nessun limite.

La scelta della morte: i suicidi di massa delle donne sudanesi

Tra i racconti che Ahmadi ha portato davanti al mondo, c’è uno particolarmente agghiacciante. Nel novembre 2024, durante il suo intervento al Consiglio di Sicurezza, l’attivista ha rivelato un dato che pochi nel mondo hanno compreso pienamente: oltre 130 donne hanno commesso suicidio di massa nello stato di Al-Jazirah come via di fuga dalla violenza sessuale perpetrata dalle RSF.

Sono scelte che nessuna famiglia dovrebbe mai dover fare. Sono donne che hanno preferito la morte al terrore della violenza ripetuta, donne che non vedevano alcuna via d’uscita se non quella definitiva. Migliaia di altre donne sono state uccise , mentre lo stupro e altre forme di violenza di genere rimangono una caratteristica distintiva di questa guerra.

Nel gennaio 2024, il Panel di Esperti dell’ONU sul Sudan ha documentato violenze sessuali diffuse e in escalation nel Darfur, inclusi rapimenti, stupri e sfruttamento sessuale di donne e ragazze. Io autori? Membri delle RSF e delle milizie alleate in tutte le aree sotto il loro controllo, con particolare accanimento contro le donne dell’etnia Masalit.

La violenza sessuale non è un effetto collaterale della guerra, ha sottolineato Ahmadi. È una strategia. È un’arma. È genocidio.

Abu Dhabi arma il genocidio: il ruolo degli Emirati Arabi

Mentre il mondo discute di sanzioni e di aiuti umanitari, Ahmadi ha indicato il vero finanziatore della macchina della morte: gli Emirati Arabi Uniti . In un’accusa diretta e senza filtri, l’attivista ha denunciato che Abu Dhabi sta sostenendo le RSF, fornendo loro armi, fondi e protezione diplomatica.

I fratelli Dagalo—Mohammad Hamdan (“Hemedti”), Abdul Rahim e Al Gony—che guidano le RSF e che discendono dai Janjaweed, i responsabili delle stragi in Darfur venticinque anni fa, vivono oggi negli Emirati, da cui coordinano traffici di armi e fondi, violando apertamente le sanzioni internazionali . Alcuni leader delle RSF viaggiano liberamente in Europa e negli Stati Uniti con passaporti falsi forniti da Abu Dhabi.

” Gli Emirati si presentano come moderati filo-occidentali, ma sono un regime autoritario che sostiene genocidi: quello in Sudan come quello a Gaza “, ha dichiarato Ahmadi in un’intervista che rappresenta una delle più esplicite accuse jammai rivolte a un governo del Golfo da parte di un’attivista per i diritti umani.

Ahmadi ha rimarcato un dato cruciale: senza la diffusione di armi, i livelli di violenza sessuale attualmente osservati in Sudan non si sarebbero mai verificati . Le parti in conflitto ei loro sponsor esterni continuano a violare l’embargo sulle armi del Consiglio di Sicurezza sul Darfur con totale impunità.

Le richieste urgenti al Consiglio di Sicurezza

Ahmadi non si è limitata a denunciare. Ha anche fornito un piano d’azione concreta, rivolgendosi direttamente al Consiglio di Sicurezza dell’ONU con una serie di raccomandazioni specifiche.

Primo: cessate il fuoco immediato e incondizionato. Tutte le parti devono fermare gli attacchi contro civili e infrastrutture civili, e consentire un accesso umanitario pieno, rapido, sicuro e senza ostacoli, in conformità con il diritto internazionale umanitario.

Secondo: fine della violenza sessuale. Tutte le parti devono cessare immediatamente gli atti di violenza sessuale e di genere, ei perpetratori devono essere ritenuti responsabili.

Terzo: una nuova presenza ONU sul campo, ben equipaggiata e molto più forte, capace di garantire la protezione dei civili e le operazioni umanitarie in tutto il Sudan, nonché di documentare le violazioni del diritto internazionale.

Quarto: un embargo sulle armi esteso a tutto il Sudan ea tutte le parti in conflitto, non solo al Darfur, e con meccanismi reali di controllo e di sanzione per chi lo viola.

Quinto: garantire la partecipazione piena, equa, sicura e significativa delle donne sudanesi in tutti gli sforzi di de-escalation, costruzione della pace, assistenza umanitaria, giustizia e responsabilità, nonché in tutti i processi politici riguardanti il ​​futuro del Sudan.

Sesto: rendere la violazione dei diritti delle donne e tutte le forme di violenza sessuale e di genere criteri espliciti per l’imposizione di sanzioni internazionali.

Il fallimento morale della comunità internazionale

Ma Ahmadi sa bene che queste richieste rischiano di cadere nel vuoto. Nel suo discorso del novembre 2024, ha rivolto un’accusa senza precedenti alla comunità internazionale: “Vi sto parlando con angoscia e urgenza” .

Ha sottolineato come entrambe le parti in guerra sembrano convinte di poter prevalere sul campo di battaglia, grazie al considerevole sostegno esterno, anche un flusso costante di armi nel paese . E mentre le armi fluiscono, il Consiglio di Sicurezza rimane paralizzato. Perché? Perché i veti delle grandi potenze, gli interessi geopolitici, il cinismo della realpolitik sono più forti della morale.

Ahmadi ha accusato gli Stati Uniti e l’Europa di ipocrisia: “Pur avendo riconosciuto che in Sudan è in corso un genocidio, non fanno nulla per far rispettare le sanzioni. È un fallimento morale e politico” . Ha rilevato come chi arma i genocidi contribuisce a creare le stesse crisi migratorie che poi vuole respingere .

E il Darfur? Venti anni dopo gli orrori del 2003-2009, non esiste più alcuna missione ONU nel paese, nessun nuovo individuo è stato inserito nel regime di sanzioni e l’embargo sulle armi è sia limitato che violato con impunità . “In questo contesto attuale, vediamo poca solidarietà con il popolo del Sudan”, ha concluso amaramente.

Una voce nata dal dolore: la storia di Niemat Ahmadi

Niemat Ahmadi non è una voce astratta. È la voce di chi ha vissuto l’inferno. Ha fondato il Darfur Women Action Group nel 2009 per dare potere alle sopravvissute, sia in Sudan che nella diaspora, e per prevenire future atrocità. Quando la guerra civile è scoppiata in Sudan nel 2023, ha reindirizzato il suo verso lavoro la documentazione dell’estesa e continua violenza sessuale, con la speranza di ottenere giustizia per le vittime.

Come sopravvissuta al genocidio del Darfur, sa cosa significa perdere tutto. Sa cosa significa guardarsi intorno e vedere il mondo voltarsi dall’altra parte. Per questo grida più forte. Per questo non smettiamo di raccontare.

Nelle sue dichiarazioni, Ahmadi ha sempre sottolineato la resilienza delle donne sudanesi , affermando che “le loro storie di sofferenze indicibili sono superate solo dai racconti del loro coraggio e della loro determinazione” . Ha ricordato che le donne rappresentano almeno il 50% della popolazione, del talento e delle risorse umane di qualsiasi nazione —ancora di più durante i periodi di guerra quando le risorse sono scarse e il coraggio è tutto ciò che rimane.

L’appello finale: un grido al mondo

Ahmadi non conclude i suoi interventi con rassegnazione. Concludo con una richiesta diretta ai cittadini del mondo: “Pretendete dai vostri governi che fermino le vendite di armi ai regimi che commettono genocidi” .

Ribadisce che la responsabilità ricade sui governi occidentali che continuano a vendere armi ai regimi del Golfo, che chiudono gli occhi davanti alle loro violazioni, che riconoscono il genocidio ma non agiscono. È un appello morale che va oltre la diplomazia, oltre la politica estera tradizionale. È un appello alla coscienza.

Il Sudan continua a bruciare. Le donne sudanesi continuano a morire, a soffrire, a cercare scappatoie dalla violenza anche nella morte. E Niemat Ahmadi continua a gridare, sperando che qualcuno, da qualche parte nel mondo, abbia il coraggio di ascoltare.

Jiu Tian: la Cina lancia la prima “portaerei” volante

Nel panorama della tecnologia militare moderna, la Cina si prepara a introdurre un velivolo che potrebbe ridefinire completamente le strategie di combattimento aereo. Il Jiu Tian, ​​il primo “drone mothership” al mondo segna l’ingresso di una categoria completamente nuova di velivoli militari che nessun altro paese si sta attualmente sviluppando.

Presentato per la prima volta allo Zhuhai Airshow nel novembre 2024, questo mastodontico aeromobile senza pilota rappresenta un salto tecnologico che combina dimensioni impressionanti, capacità autonome avanzate e un concetto operativo rivoluzionario.​

Un gigante dei cieli con specifiche da primato

Le dimensioni del Jiu Tian sono a dir poco impressionanti: con un’apertura alare di 25 metri, una lunghezza di 16,35 metri e un peso massimo di 16 tonnellate, questo UAV supera di gran lunga i droni da combattimento più avanzati attualmente in servizio. Per fare un confronto, il celebre MQ-9 Reaper americano pesa appena 6 tonnellate, mentre il cinese Wing Loong-3 si ferma a 7,8 tonnellate. Con una capacità di carico utile di 6 tonnellate, il Jiu Tian si posiziona in una categoria completamente diversa rispetto agli UAV convenzionali.

Le prestazioni operative sono altrettanto notevoli: il velivolo può operare a un’altitudine massima di 15.000 metri, posizionandosi al di sopra della portata della maggior parte dei sistemi di difesa aerea a medio raggio. Con una velocità di crociera di 700 chilometri orari e un’autonomia massima di 7.000 chilometri, può rimanere in volo per oltre 36 ore secondo alcune fonti, anche se altri rapporti indicano una durata di missione di 12 ore. Questa combinazione di altitudine, velocità e autonomia gli consente di operare ben oltre i confini immediati della Cina, con una portata che include l’intero Mar Cinese Meridionale, lo Stretto di Taiwan e persino le basi statunitensi strategiche come Guam.

Il sistema di propulsione utilizza un motore turbofan WS-9 “Qinling”, originariamente progettato per aerei da combattimento e ora utilizzato sul cacciabombardiere JH-7. Questo motore è montato in posizione dorsale sulla fusoliera per ridurre le interferenze con i sistemi montati sul corpo del velivolo e ottimizzare la firma radar.​

L’innovazione della “Cella a nido d’ape eterogeneo”

Il vero elemento rivoluzionario del Jiu Tian risiede nella sua “异构蜂巢任务舱” (heterogeneous honeycomb mission bay), un compartimento modulare situato nella sezione centrale della fusoliera che rappresenta una prima assoluta nel campo dei grandi droni. Questo vano può ospitare fino a 100 droni di piccole dimensioni o munizioni vaganti, che possono essere rilasciati in volo per creare sciami d’attacco coordinati. Secondo fonti cinesi, alcune proprietà potrebbero trasportare tra i 200 ei 300 micro-droni o missili da crociera, creando una vera e propria “tempesta d’acciaio” una volta dispiegati.

La filosofia operativa dietro questo sistema è profondamente influenzata dalle lezioni apprese dal conflitto in Ucraina, dove gli attacchi di sciami di droni hanno dimostrato la capacità di saturare anche le difese aeree più sofisticate.

Quando il Jiu Tian si avvicina all’area target, può rilasciare lo sciame di droni che, coordinati attraverso intelligenza artificiale e sistemi di edge computing, possono eseguire autonomamente missioni diverse: alcuni conducono guerra elettronica per disturbare i radar nemici, altri effettuano ricognizione in tempo reale, mentre altri ancora eseguono attacchi suicidi contro obiettivi ad alto valore.​

Ogni micro-drone è dotato di sensori elettro-ottici, telecamere a infrarossi e sistemi radar che consentono missioni ISR ​​(intelligence, sorveglianza e ricognizione) avanzate. L’intero sistema può completare l’assegnazione dinamica dei compiti in 0,3 secondi grazie ai chip di edge computing integrati, creando una rete operativa chiusa “rilevamento-disturbo-attacco”. Test condotti nel Mar Cinese Meridionale nel 2024 avrebbero dimostrato che uno sciame di 200 micro-droni può simulare efficacemente un attacco di saturazione contro un gruppo d’attacco di portaerei, validando la tattica del “vincere attraverso la quantità”.​

Modularità e versatilità multiruolo

L’architettura modulare del Jiu Tian rappresenta un altro elemento distintivo : il vano di missione può essere sostituito in sole due ore, permettendo al velivolo di passare rapidamente da una configurazione all’altra. In modalità “sciame madre”, centinaia di micro-droni CH-817 capaci di colpire un’area di 15 chilometri quadrati con fuoco concentrato. In modalità guerra elettronica, può montare compartimenti con impulsi elettromagnetici capaci di paralizzare radar e sistemi di comunicazione in un raggio di 30 chilometri. Nella configurazione d’attacco strategico, gli otto punti d’aggancio esterni sotto le ali possono trasportare fino a 12 missili antinave YJ-12 o 2 missili da crociera supersonici CJ-100.​

Oltre agli armamenti convenzionali, il velivolo può essere equipaggiato con pod di guerra elettronica, missili aria-aria della serie PL-11AE/PL-12AE, missili anti-radiazione CM-102, missili antinave C-705 e bombe guidate di precisione come la YL-V302. Questa versatilità lo rende adatto non solo per missioni di attacco profondo, ma anche per supporto aereo ravvicinato in scenari complessi come combattimenti urbani, guerra asimmetrica e operazioni antiterrorismo.​

Le applicazioni civili non sono state trascurate : la struttura modulare permette al Jiu Tian di trasportare fino a 8 tonnellate di materiali di soccorso per operazioni di emergenza. Durante le simulazioni di disastri naturali come le alluvioni di Zhengzhou, il sistema ha dimostrato di poter completare la consegna di 300 tonnellate di materiali in 72 ore, con un’efficienza superiore agli aerei da trasporto tradizionali. Altre applicazioni civili includono pattugliamento marittimo e di frontiera, trasporto ad alta sicurezza e missioni di ricerca e salvataggio.​

Sviluppo accelerato e integrazione tecnologica

Il programma Jiu Tian ha beneficiato di un finanziamento di oltre 3 miliardi di yuan (circa 416 milioni di dollari) e si basa interamente su una catena di approvvigionamento domestico. Sviluppato dalla Aviation Industry Corporation of China (AVIC) in collaborazione con Shaanxi Unmanned Equipment Technology e Guangzhou Haige Communications Group, il progetto ha visto la realizzazione di quattro prototipi in soli 18 mesi dal suo avvio alla fine del 2023. Il quarto prototipo ha completato l’assemblaggio della struttura nell’aprile 2025 ed è attualmente in fase di installazione dei sistemi e test presso gli stabilimenti di Xi’an.​

L’azienda Haige Communications ha svolto un ruolo particolarmente innovativo , sviluppando ambienti di gemelli digitali per i test, integrando tecnologie a idrogeno per la propulsione e implementando protocolli di comunicazione quantistica per migliorare l’affidabilità delle missioni e la resistenza alla guerra elettronica. Questi elementi rappresentano una prima assoluta per la flotta di UAV cinesi e riflettono l’impegno di Pechino nell’integrare le tecnologie emergenti nei sistemi militari.​

Implicazioni strategiche e contesto globale

Il Jiu Tian si inserisce in una strategia più ampia della Cina per dominare la guerra senza pilota , un settore in cui il Paese del Dragone ha già dimostrato capacità di innovazione radicale. Altri esempi includono il bombardiere stealth senza pilota a lungo raggio CH-5, il WZ-9 Divine Eagle progettato per dispiegare radar multipli a lungo raggio da altitudini elevate, e il WZ-7, attualmente l’unico velivolo al mondo progettato per operare a velocità ipersoniche. L’Esercito Popolare di Liberazione (PLA) sta imparando attivamente dalle lezioni dal conflitto in Ucraina, dove droni FPV a basso costo hanno dimostrato efficacia letale contro carri armati e dove tattiche di sciame hanno rafforzato sopraffatto le difese tradizionali.

Gli analisti occidentali esprimono opinioni contrastanti sul Jiu Tian. Alcuni esperti sottolineano che le sue dimensioni lo rendono vulnerabile ai sistemi avanzati di difesa aerea come THAAD, Patriot PAC-3 e Aegis BMD. Un ex pilota dell’Air Force americana ha commentato su X che il velivolo sarebbe come “cercare di infiltrarsi nello spazio aereo nemico con una formazione di KC-10, semplicemente non è sopravvissuto, è un magnete gigante per i missili”. Tuttavia, altri analisti riconoscono che la capacità di sciame potrebbe comunque saturare anche difese sofisticate , specialmente quando combinata con altri asset aerei o navali del PLA, e che l’altitudine operativa lo pone fuori dalla portata di molti sistemi a medio raggio.​

Il concetto di portaerei volanti è stato esplorato fin dai primi anni della Guerra Fredda, particolarmente negli Stati Uniti, ma la Cina è ora pronta a diventare il primo paese al mondo a schierare operativamente un sistema del genere. Potrebbe aprire la strada a velivoli portadroni ancora più grandi, capaci di trasportare quantità maggiori di droni o classi di droni più grandi, ridefinendo fondamentalmente il concetto di potenza aerea proiettata.

Verso una nuova era della guerra aerea

Il Jiu Tian rappresenta molto più di un semplice velivolo senza pilota: incarna una visione strategica della guerra futura in cui sciami autonomi coordinati da piattaforme aeree ad alta quota sostituiranno progressivamente le operazioni aeree tradizionali. Con la sua combinazione di portata strategica, capacità di carico massiccio, sistemi modulari e integrazione AI, questo “drone mothership” potrebbe davvero segnare l’inizio di una nuova era nel conflitto aereo. Mentre il mondo osserva con attenzione il volo inaugurale previsto per giugno 2025 , una cosa è certa: la Cina ha dimostrato ancora una volta la sua determinazione a ridefinire le regole dell’ingaggio militare del XXI secolo attraverso innovazione tecnologica audace e investimenti massicci nella guerra senza pilota.

Scheda Tecnica: Jiu Tian (九天) SS-UAV

CLASSIFICAZIONE

  • Tipo: Veicolo aereo senza equipaggio (UAV) da alta quota a lunga persistenza (HALE)
  • Categoria: Drone Mothership / Portaerei aerea volante
  • Designazione: Jiutian SS-UAV
  • Produttore: Aviation Industry Corporation of China (AVIC) / Shaanxi Unmanned Equipment Technology / Xi’an Chida Aircraft Parts Manufacturing​
  • Paese: Cina
  • Primo volo previsto: Giugno 2025

DIMENSIONI E PESI

Dimensioni strutturali:

  • Lunghezza: 16,35 metri​
  • Apertura alare: 25 metri​
  • Altezza: Non specificata

Pesi operativi:

  • Peso massimo al decollo (MTOW): 16 tonnellate (16.000 kg)​
  • Carico utile massimo: 6 tonnellate (6.000 kg)​
  • Peso a vuoto: Non specificato

PROPULSIONE

Sistema di propulsione:

  • Tipo motore: Turbofan WS-9 “Qinling” (涡扇-9 “秦岭”)​
  • Numero motori: 1​
  • Configurazione: Montaggio dorsale sulla fusoliera​
  • Spinta massima: 6 tonnellate (59 kN)​
  • Tecnologia integrativa: Propulsione a idrogeno in sviluppo​
  • Tipo originale: Derivato dal motore del cacciabombardiere JH-7 “Flying Leopard” (versione senza postbruciatore)​

PRESTAZIONI

Parametri di volo:

  • Velocità massima: 700 km/h​
  • Velocità di crociera: 700 km/h
  • Autonomia massima: 7.000-8.000 km​
  • Durata della missione: 12-36 ore (variabile secondo le fonti)​
  • Tangenza operativa: 15.000 metri (49.200 piedi)​
  • Raggio d’azione operativa: Copre l’intero Mar Cinese Meridionale, Mar Cinese Orientale, Stretto di Taiwan e basi USA a Guam​

ARMAMENTO E CARICO BELLICO

Punti d’aggancio esterni:

  • Numero hardpoint: 8 punti d’attacco sotto le ali​
  • Capacità singolo punto: Fino a 1.000 kg​

Armamenti trasportabili:

Missili aria-aria:

  • PL-11AE​
  • PL-12E / PL-12AE​

Missili aria-superficie:

  • YJ-12 (鹰击-12) antinave (fino a 12 unità)​
  • CJ-100 (长剑-100) da crociera supersonico (fino a 2 unità)​
  • CM-102 anti-radiazione​
  • C-705 anti-nave​
  • TL-7 (KD-88)​

Bombe guidate:

  • LS-6 guidate di precisione​
  • Guida YL-V302 (fino a 1.000 kg)​

Munizioni vaganti e droni:

  • CH-817 micro-droni (200-300 unità)​
  • FPV droni kamikaze (fino a 100 unità)​
  • Munizioni circuitanti di varie tipologie​

SISTEMI INTERNI

Vano missione “A nido d’ape eterogeneo” (异构蜂巢任务舱):

  • Capacità: 100-300 droni/missiliYoutube​​
  • Configurazione: Modulare, sostituibile in 2 ore​
  • Posizione: Sezione centrale della fusoliera (ventre)​
  • Tipologie di carico:
    • Sciame di micro-droni da combattimento
    • Missili da crociera
    • Droni kamikaze FPV
    • Pod di guerra elettronica
    • Materiali logistici (fino a 8 tonnellate in configurazione civile)​

AVIONICA E SISTEMI

Sensori e ricognizione:

  • Sensori elettro-ottici​
  • Telecamere a infrarossi​
  • Sistemi radar integrati​
  • Capacità ISR (Intelligence, Sorveglianza, Ricognizione)​

Sistemi di coordinamento:

  • Chip di edge computing per controllo sciame​
  • Assegnazione dinamica compiti in 0,3 secondi​
  • Intelligenza artificiale per coordinamento autonomo​
  • Comunicazioni quantitative crittografate​

Contromisure elettroniche:

  • Pod di guerra elettronica​
  • Sistema EMP (impulsi elettromagnetici) con raggio di 30 km​
  • Disturbo radar e comunicazioni​

Riduzione firma radar:

  • Materiali avanzati per riduzione RCS​
  • Progettazione con attenzione alla furtività (limitata)​

CONFIGURAZIONI OPERATIVE

Modalità蜂群母舰 (Nave Madre dello Sciame):

  • Carico: 200-300 droni CH-817
  • Superficie coperta: 15 km²​

Modalità guerra elettronica:

  • Pod EMP
  • Raggio d’azione distruttiva: 30 km​

Modalità bombardiere strategica:

  • 12 missili YJ-12 o 2 CJ-100​

Modalità emergenza civile:

  • Carico logistico: 8 tonnellate
  • Efficienza: 300 tonnellate in 72 ore​

SVILUPPO E PRODUZIONE

Cronologia:

  • Avvio progetto: Fine 2023​
  • Prima presentazione pubblica: Novembre 2024 (15° Zhuhai Airshow)​
  • Completamento Prototipo 04: Aprile 2025​
  • Primo volo previsto: Fine giugno 2025
  • Tempo di sviluppo: 18 mesi (dal progetto al prototipo)​

Investimenti:

  • Budget totale: Oltre 3 miliardi di yuan (~416 milioni USD)​
  • Catena di approvvigionamento: 100% domestica​

Numero prototipi realizzati: 4​

CONFRONTI DIMENSIONALI

ParametroJiu TianMQ-9 Reaper (Stati Uniti)Wing Loong-3 (Cina)RQ-4B Global Hawk (Stati Uniti)
Peso max decollo16.000 kg~5,670 kg​7.800 kg​~14.600 kg​
Apertura alare25 metri20 metri~20 metri39,9 metri​
Carico utile6.000 kg~1.700 kg~2.300 kg~1,360 kg
Autonomia7.000 chilometri~1,850 km~10.000 km~22.000 km​
Tangenza15.000 metri15.240 metri10.000 metri18.288 metri​

NOTA OPERATIVA

Vantaggi strategici:

  • Prima piattaforma drone mothership operativa al mondo
  • Altitudine operativa superiore a molti sistemi SAM a medio raggio
  • Capacità di saturazione difese aeree tramite sciami​
  • Modularità estrema per missioni multiple​

Vulnerabilità riconosciute:

  • Ampio firma radar (RCS significativo)​
  • Vulnerabile a sistemi avanzati come THAAD, Patriot PAC-3, Aegis BMD​
  • Endurance reale sotto carico massimo potenzialmente inferiore ai dati dichiarati​

Gaza tra due piani di pace: Russia sfida l’America all’ONU e apre allo Stato palestinese

Il nuovo scenario diplomatico sulla crisi di Gaza sta vivendo una svolta senza precedenti. La Russia ha presentato una sua risoluzione al Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite, sfidando apertamente la proposta americana che sostiene il controverso piano di pace di Trump per il futuro della Striscia. Questa mossa riflette la crescente polarizzazione sulla gestione della crisi in Medio Oriente e pone Russia e Stati Uniti su fronti opposti nel cuore della diplomazia globale.

Il piano americano: Board of Peace e forza internazionale

Il testo russo chiede al Segretario Generale delle Nazioni Unite di esplorare opzioni per la creazione di una forza internazionale di stabilizzazione a Gaza, senza però includere il concetto di “Board of Peace” americano, cioè quell’organo transitorio che vedrebbe Donald Trump alla presidenza dell’amministrazione ad interim fino al 2027. Il progetto russo si dichiara ispirato al draft USA, ma punta a garantire una linea più equilibrata e condivisa, sottolineando il bisogno di una soluzione sostenibile e di un cessate il fuoco duraturo.​

La versione americana offre una visione completamente differente. Washington prevede infatti l’istituzione di una International Stabilisation Force (ISF) che, collaborando con Israele, Egitto e una rinnovata polizia palestinese, dovrebbe assicurare la sicurezza dei confini e lavorare per la demilitarizzazione della Striscia. L’ISF sarebbe composta da circa 20.000 uomini, con contributi militari richiesti a paesi quali Indonesia, Pakistan, Emirati, Egitto, Qatar, Turchia, Azerbaigian, ma senza soldati statunitensi sul campo. Il piano USA insiste anche sullo smantellamento definitivo delle armi detenute dai gruppi armati non statali, sulla protezione dei civili e sulla creazione di corridoi umanitari. In questo contesto, il “Board of Peace” dovrebbe farsi garante della transizione politica fino al 2027, con il fine ultimo di favorire riforme nell’Autorità Palestinese e la ricostruzione di Gaza, aprendo una possibilità concreta per la piena autodeterminazione e lo Stato palestinese. L’ultimo draft include, cosa mai accaduta prima, un riferimento esplicito alla futura creazione di uno Stato palestinese, legato però alla realizzazione di specifici requisiti di governance e sicurezza.​

L’alternativa russa: una mediazione multilaterale

La diplomazia russa ha espresso forti riserve sul piano americano. Mosca ritiene che la proposta USA rischi di cristallizzare posizioni divisive e mancare un reale coinvolgimento multilaterale, sostenendo che solo il dialogo inclusivo può portare ad una pace resiliente. Il documento russo mira a “un approccio bilanciato, accettabile e unificato”, disapprovando la supervisione diretta della Board of Peace americana sulla transizione.​

Le reazioni del mondo arabo e il ruolo delle potenze

La reazione delle nazioni arabe e di molti paesi emergenti si polarizza su questa dicotomia. Diversi rappresentanti arabi hanno chiesto modifiche sostanziali per garantire la piena sovranità palestinese e lasciare spazi di autonomia nell’amministrazione della Striscia. Il Qatar, la Turchia e l’Egitto hanno avuto un ruolo fondamentale nelle trattative che hanno portato ad una fragile tregua, sottolineando la necessità di uscire dalla mera logica del controllo militare per abbracciare la via della ricostruzione e dei diritti umani. La Russia ha sottolineato che il rilancio del processo politico debba basarsi sulla soluzione dei due Stati, sostenuta dalle Nazioni Unite e dalla comunità internazionale.​

Gli interessi israeliani e la questione della sicurezza

Il punto più controverso resta la demilitarizzazione. Israele e Hamas hanno accettato, per ora, solo la prima fase del piano statunitense: una tregua biennale e lo scambio di prigionieri e ostaggi. Tuttavia, le ostilità sono tutt’altro che concluse. La Russia, insieme a Cina e numerosi Stati arabi, ha bocciato risoluzioni USA che prevedevano condanne a senso unico di Hamas senza menzionare le violazioni israeliane, insistendo su una piena applicazione del diritto internazionale e del rispetto dei diritti civili di entrambe le parti.​

Sul fronte israeliano, la posizione ufficiale del governo Netanyahu rimane ambigua: Israele ripete che intende proseguire l’offensiva fino alla sconfitta totale di Hamas, sollevando non pochi dubbi sulla reale volontà di accettare un compromesso e alimentando le perplessità di Mosca, che ha dichiarato di non volere porre il veto alle risoluzioni solo per rispetto della volontà del mondo arabo. Secondo la Russia, qualsiasi accordo deve poggiare su parametri chiari, inclusa la liberazione degli ostaggi, il cessate il fuoco permanente e il rispetto dei confini del 1967 con Gerusalemme Est come capitale dello Stato palestinese.​

Il destino della popolazione civile e la crisi umanitaria

La situazione umanitaria a Gaza, intanto, rimane drammatica. Secondo fonti internazionali, sono oltre 900.000 i palestinesi costretti ad abbandonare le proprie case, con il rischio concreto di una nuova catastrofe causata dalle condizioni meteorologiche avverse e dalla mancanza di risorse primarie. I corridoi umanitari proposti nelle varie bozze di risoluzione sono visti come la chiave per evitare una crisi di proporzioni ancora maggiori e per assicurare la protezione dei civili, spesso vittime di bombardamenti indiscriminati e operazioni militari che hanno già mietuto decine di migliaia di vittime.​

Una partita diplomatica ancora aperta

La controversia internazionale attorno allo status di Gaza si intensifica. Il piano di Trump garantisce all’Autorità Palestinese la possibilità di riformarsi, ma la supervisione americana viene vista con sospetto dalle nazioni non-allineate e dai principali partner arabi. Il documento russo, invece, enfatizza il ruolo primario delle Nazioni Unite e la necessità di una mediazione non imposta, fatta di dialogo reale e tutela dei diritti, con la richiesta esplicita di evitare ogni forma di radicalismo, estremismo e razzismo che possa minare il futuro della regione. La proposta di una forza internazionale di stabilizzazione, seppure appoggiata da molti, resta soggetta a tensioni geopolitiche, mentre il mondo segue con apprensione la sorte della popolazione civile sotto assedio e le ripercussioni sugli equilibri dell’intero Medio Oriente.

La partita diplomatica è tutt’altro che conclusa. Le prossime settimane saranno decisive per comprendere se le diverse anime del Consiglio di Sicurezza dell’ONU riusciranno a convergere su una soluzione realmente inclusiva per la crisi di Gaza. La prospettiva di uno Stato palestinese appare per la prima volta formalmente accolta da Washington nel testo di una risoluzione, ma questo non basta a placare le diffidenze di Mosca, di Pechino e delle capitali arabe, tutte unite dal timore che la supervisione esterna non porti a una pace stabile, ma a una nuova stagione di instabilità e tensione.​

I “Cecchini del Weekend” di Sarajevo: l’Inchiesta Italiana sui Safari Umani durante l’Assedio

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Durante l’assedio di Sarajevo, uno dei più lunghi e tragici della storia moderna, si consumava un orrore che solo oggi viene alla luce con maggiore evidenza. Mentre la capitale bosniaca veniva bombardata quotidianamente ei suoi abitanti correvano tra le vie sotto il fuoco dei cecchini, alcuni facoltosi cittadini stranieri pagavano cifre esorbitanti per partecipare a quella che è stata definita una vera e propria “caccia all’uomo”. La Procura di Milano ha aperto un’inchiesta su questi presunti “safari umani” , un’indagine che potrebbe finalmente fare luce su uno degli episodi più macabri della guerra in Bosnia.

L’inchiesta è stata avviata dal pubblico ministero Alessandro Gobbis, che coordina l’unità antiterrorismo della Procura milanese, sulla base di un esposto dal giornalista e scrittore Ezio Gavazzeni, assistito dagli avvocati Nicola Brigida e dall’ex magistrato Guido Salvini, figura di spicco della magistratura italiana nota per aver condotto importanti inchieste sul terrorismo e sulla strategia della tensione. Il fascicolo, aperto per volontario plurimo aggravato da motivi abietti e dalla crudeltà, è al momento contro ignoti, maomicidio l’obiettivo degli investigatori è chiaro: gli italiani che avrebbero preso parte a questi crimini efferati.

Secondo le testimonianze raccolte nel dossier di 17 pagine depositato a gennaio, i cosiddetti “cecchini del weekend” erano perlopiù uomini benestanti, appassionati di armi e spesso legati ad ambienti dell’estrema destra , che si radunavano nel nord Italia, principalmente a Trieste, per poi essere trasportati sulle colline che circondano Sarajevo. Da queste posizioni elevate, che dominavano la città, potevano sparare sui civili che tentavano disperatamente di attraversare le strade per procurarsi cibo e acqua. Le somme pagate per questa macabra esperienza oscillavano tra gli 80.000 ei 100.000 euro , cifre enormi anche per gli standard odierni, che garantivano ai “turisti della guerra” l’opportunità di sparare su esseri umani indifesi come se fossero prede in un safari africano.

Ma l’aspetto forse più agghiacciante di questa vicenda riguarda l’esistenza di un vero e proprio listino prezzi per le vittime . Secondo quanto emerso dalle indagini, sparare a un bambino costava di più, seguito dal costo per uccidere uomini armati in uniforme, poi donne, mentre gli anziani potevano essere presi di mira gratuitamente. Questa differenziazione tariffaria trasformava la vita umana in una merce, in un prodotto da acquistare per soddisfare gli impulsi sadici e il desiderio di provare l’adrenalina dell’uccisione senza conseguenze.

L’organizzazione di questi viaggi dell’orrore era complessa e coinvolgeva diverse figure. I partecipanti volavano da Trieste a Belgrado utilizzando l’infrastruttura della compagnia aerea serba Aviogenex, che negli anni Novanta operava anche collegamenti charter. Da Belgrado, gli aspiranti cecchini venivano poi trasportati via terra o tramite elicotteri dell’esercito jugoslavo fino a Pale , la cittadina a una decina di chilometri da Sarajevo che era diventata la capitale della Repubblica Serba di Bosnia, controllata dalle forze di Radovan Karadzic, il leader serbo-bosniaco poi condannato per genocidio e crimini contro l’umanità.

Una volta giunti a destinazione, i “turisti” sono venuti accompagnati da membri dell’esercito serbo-bosniaco alle postazioni di cecchini già operative intorno alla città. Qui ricevevano le armi e potevano sparare liberamente sulla popolazione civile. Alcune testimonianze hanno descritto scene in cui questi stranieri, facilmente riconoscibili per l’abbigliamento inappropriato al contesto di guerra urbana e per le armi più adatte alla caccia in foresta che al combattimento nei Balcani, venivano guidati quasi per mano da militari locali che conoscevano perfettamente il terreno.

Una delle testimonianze più significative raccolte da Gavazzeni proviene da un ex agente dell’intelligence bosniaca, identificato nel dossier con le iniziali ES, che ha fornito dettagli cruciali su come le autorità locali fossero venute a conoscenza del fenomeno. Questo testimone ha affermato che alla fine del 1993 i servizi segreti bosniaci informarono il SISMI, il servizio di intelligence militare italiano dell’epoca, della presenza di almeno cinque italiani sulle colline intorno a Sarajevo , accompagnati specificatamente per sparare ai civili. L’ex 007 bosniaco ha raccontato che le informazioni provenivano dall’interrogatorio di un volontario serbo catturato, il quale aveva rivelato di aver viaggiato da Belgrado alla Bosnia insieme a cinque stranieri, di cui almeno tre erano italiani e uno aveva dichiarato di provenire da Milano.

Secondo questa fonte, le comunicazioni tra l’intelligence bosniaca e quella italiana erano frequenti durante quel periodo, e le informazioni sui “safari” furono trasmesse agli ufficiali del SISMI presenti a Sarajevo all’inizio del 1994. La risposta italiana sarebbe arrivata due o tre mesi dopo, con l’assicurazione che i servizi avevano scoperto che i viaggi partivano da Trieste e che erano riusciti a bloccarli. Tuttavia, non furono mai forniti i nomi degli organizzatori o dei partecipanti, e la documentazione relativa a questa corrispondenza sarebbe conservata negli archivi bosniaci come materiale classificato “top secret”, accessibile solo tramite ordine giudiziario.

Questa rivelazione solleva interrogativi inquietanti sul livello di conoscenza che le autorità italiane avevano del fenomeno e sulle azioni intraprese per fermarlo. Se davvero il SISMI era stato informato nel 1994 e aveva identificato Trieste come punto di partenza avviati di questi viaggi, perché non furono effettuate indagini per identificare e i responsabili? La mancanza di azioni concrete da parte dello Stato italiano all’epoca potrebbe configurare responsabilità che ora i magistrati milanesi intendono accertare.

L’indagine di Gavazzeni non si basa solo su testimonianze orali, ma include anche riferimenti a documenti ufficiali ea procedimenti giudiziari internazionali. Nel 2007, durante il processo al comandante dell’esercito serbo-bosniaco Ratko Mladic presso il Tribunale Penale Internazionale per l’ex Jugoslavia all’Aja, un testimone chiave aveva già parlato dei “turisti cecchini” . Si trattava di John Jordan, un ex vigile del fuoco americano che aveva operato come volontario a Sarajevo durante l’assedio. Jordan aveva dichiarato di aver assistito in più occasioni alla presenza di persone che non sembravano locali, identificabili dal loro abbigliamento, dalle armi che portavano e dal modo in cui venivano guidati e trattati dai militari serbo-bosniaci.

Jordan aveva descritto questi individui come “tourist shooters”, turisti cecchini, e aveva spiegato che erano evidenti per il loro comportamento e per il fatto che portavano armi da caccia inadatte al contesto di combattimento urbano nei Balcani. Il vigile del fuoco aveva testimoniato di averli visti a Grbavica, uno dei quartieri di Sarajevo controllati dai serbo-bosniaci, e in altre posizioni di osservazione intorno alla città. La sua testimonianza aveva già sollevato dubbi e domande, ma solo ora, con l’inchiesta milanese, questi elementi stanno venendo collegati in un quadro investigativo coerente.

Un altro elemento cruciale dell’inchiesta riguarda il documentario “Sarajevo Safari”, realizzato nel 2022 dal regista sloveno Miran Zupanic e prodotto da Al Jazeera Balkans. Questo film di 75 minuti, presentato in anteprima al festival internazionale del documentario di Sarajevo nel settembre 2022, ha raccolto testimonianze e dimostra che hanno contribuito a riportare l’attenzione su questo fenomeno. Il documentario include l’intervista a un testimone protetto, un ex ufficiale dell’intelligence che ha raccontato di aver assistito personalmente a sette episodi di cecchini stranieri in azione tra il 1992 e il 1994 .

Questo testimone anonimo ha descritto con precisione le scene che aveva osservato: uomini venuti da lontano, chiaramente benestanti a giudicare dal loro aspetto e comportamento, che venivano accompagnati da militari serbo-bosniaci in posizioni di tiro strategiche. La tensione e l’eccitazione di questi “cacciatori” erano palpabili prima dell’azione, come se si preparassero per una battuta di caccia sportiva. Il testimone ha sottolineato le notevoli capacità di tiro di alcuni di questi individui, confermando che non si trattava di dilettanti ma di persone con esperienza nell’uso delle armi.

Il regista Zupanic ha cercato non solo di documentare i fatti, ma anche di indagare gli aspetti psicologici di persone disposte a rischiare la propria vita entrando in una zona di guerra ea pagare somme ingenti per il “piacere” di uccidere civili sconosciuti. Nelle interviste rilasciate per promuovere il film, Zupanic ha spiegato che è fondamentale comprendere quali meccanismi mentali possano portare esseri umani a comportamenti così aberranti. Esperti di psicologia intervistati nel documentario parlato hanno impulsi sadici che alcune persone riescono a controllare nella vita quotidiana ma che cercano opportunità per esprimere in contesti in cui possono farlo impunemente .

La proiezione del documentario ha avuto un impatto significativo. Benjamina Karic, all’epoca sindaca di Sarajevo, presentò nel settembre 2022 una denuncia penale contro ignoti presso la Procura bosniaca, allegando un rapporto sui “ricchi stranieri impegnati in attività disumane”. Tuttavia, le autorità bosniache hanno successivamente archiviato l’indagine, citando le difficoltà di procedere in un paese ancora profondamente diviso e segnato dalla guerra. La stessa Karic, che ha ricoperto la carica di sindaca dal 2021 al 2024, ha poi inoltrato nell’agosto 2024 una denuncia alla Procura di Milano tramite l’ambasciata italiana a Sarajevo , dichiarandosi disponibile a testimoniare e fornendo tutta la documentazione in suo possesso.

Karic ha spiegato che i giornalisti che lavoravano a Sarajevo durante la guerra, così come tutta la popolazione assediata, erano consapevoli della presenza di questi “turisti della morte”. Ha affermato che gli stranieri provenienti da tutta Europa pagavano ai checkpoint gestiti dalle milizie paramilitari serbe sia in Croazia che in Bosnia per poi trascorrere un fine settimana a sparare sui civili dalle colline che sovrastavano la città. La decisione di presentare denuncia in Italia nasce dalla constatazione che né la giustizia bosniaca né quella serba sembravano in grado o disposte ad affrontare seriamente la questione.

L’esposto di Gavazzeni contiene dettagli specifici che potrebbero rivelarsi fondamentali per l’identificazione delle responsabilità. Tra gli italiani segnalati nelle testimonianze raccolte ci sarebbe un imprenditore milanese proprietario di una clinica privata specializzata in chirurgia estetica, un uomo di Torino e uno di Trieste . Queste indicazioni, anche se ancora da verificare, forniscono agli investigatori piste concrete da seguire. Il pm Gobbis, insieme ai carabinieri del ROS, l’unità speciale dell’Arma che si occupa di antiterrorismo e criminalità organizzata, sta già pianificando di convocare i testimoni indicati nel dossier per raccogliere ulteriori elementi probatori.

L’inchiesta si inserisce in un contesto legale particolare. In Italia, il reato di omicidio aggravato da motivi abietti e crudeltà è punibile con l’ergastolo e non cade mai in prescrizione , il che significa che anche crimini commessi più di trent’anni fa possono essere perseguiti. Inoltre, secondo il codice penale italiano, se la fase finale di un crimine è stata commessa all’estero ma il responsabile è cittadino italiano, la giurisdizione italiana rimane valida e il processo può svolgersi in Italia. Questo impedisce che un cittadino possa commettere crimini orribili all’estero e poi trovare rifugio impunito nel proprio paese.

L’avvocato Nicola Brigida, che assiste Gavazzeni insieme a Salvini, ha un’esperienza significativa in casi internazionali complessi. Ha lavorato su procedimenti riguardanti cittadini italiani scomparsi in Cile e Argentina durante le dittature militari , partecipando ai processi contro l’ammiraglio Emilio Massera ei generali Suárez Mason e José Antonio Rivera della giunta militare argentina, figura chiave durante la dittatura tra il 1976 e il 1983. Si è occupato anche di casi relativi alle vittime dell’Operazione Condor, la campagna coordinata di repressione condotta dalle dittature sudamericane negli anni Settanta e Ottanta.

Brigida ha dichiarato che la documentazione presentata alla Procura di Milano è ricca di dimostrare che meritano di essere indagate ulteriormente e che è fermamente convinto che possano portare all’identificazione di almeno alcune delle responsabilità. Ha sottolineato che dopo aver lavorato su casi come i “voli della morte” in Argentina, questo caso presenta un profilo comune tra i perpetratori: persone malvagie, forse anche ideologicamente motivate, appassionate di armi, che frequentavano poligoni di tiro nella loro vita normale ma che cercavano esperienze estreme.

Guido Salvini, l’altro legale coinvolto, è un ex magistrato di grande prestigio che ha dedicato oltre quarant’anni della sua carriera ad indagini su alcuni dei casi più oscuri della storia italiana. Ha riaperto le indagini sulla strage di Piazza Fontana del 1969, ha investigato il terrorismo neofascista e la rete segreta Gladio , ed è stato consulente di diverse commissioni parlamentari d’inchiesta, tra cui quella sull’occultamento dei fascicoli relativi alle stragi nazifasciste e quella sul sequestro di Aldo Moro. La sua partecipazione al caso conferisce credibilità e peso all’iniziativa giudiziaria.

La Procura di Milano sta ora richiedendo gli atti di vari procedimenti del Tribunale Penale Internazionale per l’ex Jugoslavia all’Aja, dove alcune testimonianze hanno fatto riferimento a questi “turisti della guerra”. L’obiettivo è incrociare le informazioni raccolte nel corso degli anni in diversi contesti processuali per costruire un quadro probatorio solido. Gli investigatori sperano anche di ottenere accesso agli archivi classificazione dell’intelligence bosniaca e, eventualmente, a documenti del SISMI che potrebbero confermare le informazioni trasmesse dai servizi segreti bosniaci nel 1994.

Non si trattava solo di italiani. Le testimonianze raccolte nel corso degli anni parlano di “turisti cecchini” provenienti da vari paesi, tra cui Stati Uniti, Canada, Russia, Regno Unito, Francia e Germania. Un caso ben documentato riguarda lo scrittore russo Eduard Limonov, ripreso in un filmato della BBC del 1992 mentre sparava con un kalashnikov verso Sarajevo in compagnia di Radovan Karadzic . Limonov, scrittore e politico ultranazionalista, ha sempre sostenuto di aver sparato solo a un poligono di tiro e che le riprese fossero state manipolate per farlo sembrare coinvolto in azioni contro civili, ma la sua presenza sulla linea del fronte serbo-bosniaco è indiscutibile.

Secondo le fonti dell’intelligence bosniaca citate da Gavazzeni, l’organizzazione di questi “safari” sarebbe stata coordinata dal servizio di sicurezza dello Stato serbo , con il coinvolgimento di Jovica Stanisic, alto funzionario poi condannato per crimini di guerra dal Tribunale Penale Internazionale. La “copertura” dell’attività venatoria serviva per portare i gruppi a destinazione senza sospetti: alcuni partecipanti si fingevano membri di spedizioni di caccia sportiva diretta nei Balcani, altri si mescolavano a convogli umanitari partiti dal nord Italia, fingendosi volontari mentre in realtà trasportavano denaro e armi.

L’assedio di Sarajevo, iniziato il 5 aprile 1992 e terminato il 29 febbraio 1996, è durato complessivamente 1.425 giorni, diventando uno degli assedi più lunghi della storia moderna. Durante questo periodo furono uccisi 13.952 persone, di cui 5.434 civili, tra cui 1.601 bambini . Le forze serbo-bosniache bombardavano quotidianamente la città con una media di 329 proiettili al giorno, per un totale stimato di oltre mezzo milione di bombe sganciate. Il principale viale della città divenne tristemente noto come “Sniper Alley”, il viale dei cecchini, dove attraversare la strada significava rischiare la vita.

Un rapporto delle Nazioni Unite dell’epoca chiarisce inequivocabilmente la natura degli attacchi: “Tiratori esperti spesso uccidono i loro obiettivi con un singolo colpo alla testa o al cuore, ed è chiaro che hanno esercitato l’intento specifico di colpire obiettivi civili evidenti senza altro scopo che causare morte o gravi lesioni corporali”. Il rapporto confermò che i cecchini operavano in squadre intorno alla città e prendevano deliberatamente di mira civili, obiettivi non combattenti e soccorritori che tentavano di aiutare le vittime, oltre al personale delle Nazioni Unite.

Tra i massacri più devastanti si ricorda quello del mercato Markale del 5 febbraio 1994, in cui 68 civili furono uccisi e 200 feriti da un singolo attacco con mortaio. Le strutture mediche erano sopraffatte dalla scala delle vittime civili, e solo un piccolo numero di feriti poteva beneficiare di programmi di evacuazione medica come l’Operazione Irma del 1993. I dati mostrano che il 1992 fu l’anno con il maggior numero di vittime, con una media di 300 persone uccise al mese , per poi diminuire negli anni successivi ma rimanendo comunque a livelli drammatici.

L’analisi demografica condotta per il tribunale dell’Aja ha rivelato che tra le vittime identificate nel periodo 1992-1994 c’erano 295 bambini, 670 donne e 85 anziani tra i morti, mentre tra i feriti si contavano 1.251 bambini, 2.477 donne e 179 anziani. Le cause principali di morte e ferimento erano bombardamenti, colpi di cecchino e altre armi da fuoco . In particolare, 699 persone furono uccise da cecchini, di cui 253 erano civili, mentre 3.111 furono ferite da cecchini, di cui 1.296 civili. Questi numeri testimoniano la portata della tragedia e il deliberato attacco alla popolazione civile.

In questo contesto di orrore sistematico, l’idea che alcuni individui pagassero per aggiungere ulteriore sofferenza, trattando l’uccisione di esseri umani come un’attività ricreativa, rappresenta un livello di depravazione che sfida la comprensione. Gli esperti di psicologia interpellati per comprendere il fenomeno hanno parlato di persone capaci di controllare i propri impulsi sadici nella vita quotidiana, in attesa di opportunità per esprimerli in contesti in cui ritengono di poter agire impunemente .

Il caso dei “safari di Sarajevo” non è completamente isolato nella storia dei conflitti. Durante la guerra civile libanese del 1975-1990, John Jordan aveva testimoniato di aver già sentito parlare di “tourist shooters” che operavano lungo la “linea verde”, la terra di nessuno piena di cecchini che separava Beirut in due metà. Anche in contesti più recenti, come il conflitto in Ucraina, sono emerse segnalazioni di mercenari e appassionati di armi che si recano nelle zone di guerra, anche se con motivazioni e modalità diverse.

L’inchiesta milanese rappresenta un tentativo significativo di fare giustizia per crimini che rischiavano di rimanere nell’ombra. Gavazzeni ha stimato che i “cecchini del weekend” italiani potrebbero essere stati almeno un centinaio , mentre altre fonti parlano di circa duecento italiani e di molti altri stranieri. Anche se identificare tutti le responsabilità dopo più di trent’anni sarà estremamente difficile, i magistrati sperano di riuscire ad individuare almeno alcuni di loro, specialmente quelli che all’epoca erano più giovani e che quindi sono ancora in vita e potrebbero essere processati.

La collaborazione internazionale sarà fondamentale per il successo dell’inchiesta. Il console bosniaco a Milano, Dag Dumrukcic, ha garantito la “piena cooperazione” del governo del suo paese , dichiarando che le autorità bosniache sono desiderose di scoprire la verità su una questione così crudele e di fare i conti con il passato. Dumrukcic ha affermato di essere a conoscenza di alcune informazioni che contribuiranno a fornire all’indagine. Anche le autorità serbe sono state interpellate, ma hanno respinto le accuse definendole una “leggenda urbana”, una posizione che riflette le persistenti divisioni e tensioni nella regione.

L’apertura dell’inchiesta ha suscitato reazioni diverse. Alcuni osservatori hanno espresso scetticismo sulla possibilità di identificare e processare le responsabilità dopo così tanto tempo, soprattutto considerando che molti dei potenziali testimoni potrebbero essere morti o irreperibili. Altri hanno criticato l’attenzione mediatica sul caso, sostenendo che serva a “satanizzare il popolo serbo”, come ha affermato Radan Ostojic, presidente dell’Organizzazione dei Veterani della Repubblica Srpska, che ha condannato il documentario di Zupanic e le successive indagini.

Ljubisa Cosic, sindaco di Sarajevo Est nell’entità della Repubblica Srpska della Bosnia-Erzegovina, ha persino presentato una denuncia contro il regista Zupanic per diffusione di odio razziale, religioso e nazionale. Ostojic ha sostenuto che “la vera verità” è che durante la guerra “cacciatori provenienti da paesi islamici venivano a Sarajevo per cacciare serbi per la jihad, e in safari i soldati NATO”. Queste affermazioni, prive di prove documentali, riflettono i tentativi di alcune fazioni di ribaltare la narrativa e di negare responsabilità ampiamente documentate.

Tuttavia, la stragrande maggioranza della comunità internazionale e degli esperti di diritti umani sostiene l’importanza di fare luce su questi episodi. Le vittime dell’assedio di Sarajevo ei sopravvissuti meritano giustizia, e ogni responsabile di crimini contro civili indifesi deve essere identificato e processato , indipendentemente dalla nazionalità o dal tempo trascorso. L’impunità per crimini di questa gravità non solo nega giustizia alle vittime, ma crea anche un pericoloso precedente che può incoraggiare comportamenti simili in conflitti futuri.

L’inchiesta della Procura di Milano rappresenta quindi non solo un tentativo di fare giustizia per specifici crimini commessi durante la guerra in Bosnia, ma anche un messaggio più ampio: che nessuno può credere di poter partecipare a massacri di civili e poi tornare tranquillamente alla propria vita quotidiana senza conseguenze. Il fatto che l’Italia abbia deciso di procedere con questa indagine, nonostante le difficoltà e il tempo trascorso, è un segnale importante di impegno verso i principi fondamentali del diritto internazionale e della giustizia universale.

Nei prossimi mesi, il pm Gobbis ei carabinieri del ROS inizieranno a convocare i testimoni indicati nel dossier di Gavazzeni. Sarà fondamentale raccogliere nuove testimonianze, verificare le informazioni già in possesso e tentare di accedere agli archivi classificati in Bosnia e, eventualmente, in Italia. Se emergeranno elementi sufficienti per identificare anche solo alcuni degli italiani che hanno partecipato a questi “safari umani”, i loro nomi verranno iscritti nel registro degli indagati e potrebbero iniziare un processo che finalmente porterebbe alla luce una delle pagine più oscure della partecipazione straniera alla guerra in Bosnia.

La storia dei “cecchini del weekend” di Sarajevo è una testimonianza agghiacciante di come gli istinti più bassi dell’essere umano possono emergere quando le circostanze lo permettono e quando si crede di poter agire impunemente. È una storia di ricchi annoiati che trasformarono la sofferenza di un popolo assediato in un gioco macabro , pagando somme enormi per il privilegio di togliere vite umane come se fossero in una riserva di caccia. E mentre le ferite di quella guerra non si sono ancora rimarginate nei Balcani, l’inchiesta italiana offre una speranza, forse l’ultima, che almeno alcuni di quei “cacciatori” possono essere chiamati a rispondere dei loro crimini davanti alla giustizia.


Titolo: Safari Umani a Sarajevo: la Procura di Milano Indaga sui “Cecchini del Weekend” Italiani

Descrizione SEO: La Procura di Milano apre un’inchiesta sui ricchi italiani che negli anni ’90 pagavano fino a 100.000 euro per sparare sui civili durante l’assedio di Sarajevo. Testimonianze esclusive, documenti segreti e il ruolo dell’intelligence italiana in uno dei capitoli più oscuri della guerra in Bosnia.

Aggressione a Cicalone, lo youtuber anti borseggiatori della metro di Roma

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Sono di ieri sera le immagini dall’ospedale che testimoniano la nuova “aggressione metropolitana” a Simone Ruzzi, in arte Cicalone, e le parole della sua videomaker Evelina.
L’ex pugile 50enne, ora youtuber autoproclamatosi “narratore delle periferie disgraziate”, da circa un anno ed insieme al suo staff, si è concentrato sulla denuncia delle ingiustizie cittadine andando a caccia di borseggiatori sulle linee A e B della metropolitana che scorre sotto la Capitale.

Il risultato sono aggressioni e violenze di gruppo soprattutto da parte dei “manolesta“, prontamente documentati e immediatamente condivisi con il pubblico tramite le piattaforme social.

Alla fermata Ottaviano l’ultimissimo episodio violento nei suoi confronti: colpito alle spalle da cinque borseggiatori e ferito a sopracciglio, zigomo e bocca, ha lasciato che le dichiarazioni sull’accaduto venissero fornite alla stampa dalla sua collaboratrice:
Erano sei o sette volti noti, rom o dell’Est Europa, brutti ceffi aggressivi che prima di noi avevano minacciato anche le guardie giurate. Erano persone che avevamo già incontrato e che ci avevano già minacciato. Crediamo fossero dei “capi” e non dei borseggiatori comuni”.


Il target sembrava essere proprio Cicalone che, stando al racconto, non ha potuto difendersi e ha dovuto quindi subire calci e pugni, questi ultimi apparentemente alle spalle, nonostante i borseggiatori stessero già discutendo con le guardie giurate in stazione che erano intervenute per sedare il parapiglia.
L’accaduto sarà visibile grazie alle varie registrazioni dell’aggressione effettuate tramite GoPro, Ray-Ban Meta e telecamera classica, unici strumenti a tutela di Ruzzi per dimostrare l’accaduto.

I borseggiatori a Roma, una lunga storia

Donne, minorenni e stranieri mimetizzati tra i turisti.
Un fenomeno ormai strutturato e non improvvisato: sanno quando colpire e come agire in pochi secondi, lasciando la vittima tendenzialmente ignara dello scippo.
La tratta più colpita è proprio quella della metro A, da Termini a San Pietro, colma di turisti distratti e pendolari anche se non viene disdegnata nemmeno la linea B nel tratto Laurentina-Termini.

Spesso si lavora in gruppo per creare diversivi, procedere al borseggio e disperdersi in stazione: in questo modo, anche se qualcuno di loro viene preso, non è detto che sia effettivamente la persona con la refurtiva.

Le forze dell’ordine conoscono bene lo schema e i blitz sono frequenti, anche se estirpare questa piaga risulta impossibile considerata la continua formazione di nuove leve, la minore età degli arrestati in flagranza e l’identità incerta dei fermati.
Le protagoniste sono spesso giovanissime donne, ben conscie della “macchina” giudiziaria che permette loro tutti gli escamotage necessari ad evitare il carcere: chi viene ormai riconosciuto in una determinata città, emigra temporaneamente in un altra per agire indisturbata.

Ho rubato ieri, ho rubato oggi. Già lo sanno che rubiamo, rubare è il nostro lavoro, dobbiamo rubare.” ha dichiarato una ragazza rom della provincia di Roma, già ampiamente conosciuta da Polizia Capitolina e di Stato, mentre veniva arrestata a Milano.
Arresto che raramente viene finalizzato: i tribunali penali dispongono l’obbligo di firma mentre i pubblici ministeri chiedono semplicemente gli arresti domiciliari che con poca probabilità verranno rispettati.

La misura cautelare, ad esempio l’arresto in carcere, è una aggravante troppo pesante per le donne che hanno dei figli o per le minorenni “stagiste” del mestiere che conservano le refurtive: se la cavano rimanendo incinte per evitare l’arresto e solo in prossimità dell’incontro con il giudice ordinario.
Una situazione estremamente esasperante per cittadini, lavoratori, turisti e dipendenti Atac.

Le soluzioni del Comune di Roma e del Governo contro i furti

Il decreto sicurezza varato dal governo è stato solo il primo passo, ne seguiranno altri come ad esempio la procedibilità d’ufficio per i reati più odiosi come quello di borseggio ”, ha dichiarato recentemente Ostellari relativamente alle modifiche alla riforma Cartabia chieste a gran voce da cittadini e partiti.

La riforma ha reso il furto con destrezza un reato procedibile solo tramite querela di parte, rendendo difficile alle forze dell’ordine intervenire senza esplicita richiesta della vittima, innescando di conseguenza la presentazione di forme di legge alternative per contrastare il fenomeno.

Intanto le uniche risposte di Stato e Comune di Roma sembrano essere iniziative sociali di poco successo e l’aumento delle forze dell’ordine nei luoghi più a rischio tra cui proprio la metropolitana di Roma, mentre il sostegno per Ruzzi arriva solamente dall’assessore Onorato: “Non è tollerabile che la politica si indigni più per chi denuncia rispetto a chi compie il reato. Il governo Meloni passi ai fatti concreti.

Quest’ultima aggressione a Roma ci dimostra nuovamente le estreme difficoltà di controllo delle forze dell’ordine, nonostante i rafforzamenti già in atto per il Giubileo, mentre i borseggiatori riescono nel frattempo a sfruttare bene le vulnerabilità del sistema: le azioni di repressione, la percezione elevata dell’impunità oltre che gli ostacoli nella prevenzione dei reati in specifiche situazioni, continuano di fatto a rendere Roma un giungla urbana dove i borseggiatori giocano a “prendi e scappa” sotto gli occhi di telecamere, pattuglie e turisti che stringono le borse come reliquie.

Intanto tra proclami, contenuti social e conferenze stampa, i cittadini continuano quindi a contare più borse rubate che soluzioni concrete e l’unico vero risultato tangibile resta la sensazione che la sicurezza, a Roma, sia ancora un lusso.
Almeno finché qualcuno non ce lo ruba.