Dal Mali emerge la trasformazione più significativa della presenza russa in Africa: un passaggio da una forza mercenaria opaca e non legata alle istituzioni direttamente a uno strumento militare pienamente statale che ridisegna sicurezza, alleanze e territori nel cuore del Sahel.
Un confine che racconta ciò che resta della guerra
Nel campo profughi di Mbera, in Mauritania, le file di tende sembrano moltiplicarsi ogni settimana. Le persone che arrivano lo fanno dopo giorni di marcia nel deserto e portano con sé testimonianze che, prese una per una, potrebbero sembrare episodiche. Riunite, invece, formano un disegno coerente.
Sono racconti raccolti in momenti diversi, da persone che non si conoscono e che provengono da villaggi distanti tra loro. La ripetizione degli stessi dettagli conferisce alle loro parole un peso che non può essere ignorato. Un viaggio fatto di stenti e dolore sia fisico per gli abusi subito sia mentale e causato da ciò che hanno visto, tutto ciò li ha cambiati per sempre.
Molti sopravvissuti descrivono attacchi condotti all’alba da gruppi altamente organizzati. I villaggi, secondo i racconti emerso, vengono circondati rapidamente e nessuno può uscire o entrare. Poi gli uomini vengono separati dalle donne, interrogati e spesso uccisi senza motivo, soltanto per fare capire agli altri cosa può accadere davvero.
Alcuni testimoni ricordano corpi lasciati in strada come deterrente. Le case vengono incendiate con taniche di carburante. I pozzi distrutti. I raccolti bruciati. La fuga diventa l’unica possibilità di sopravvivenza.
Le testimonianze si assomigliano anche quando si parla degli aggressori. Un uomo racconta di aver sentito comandi impartiti in russo. Una donna riporta la presenza di soldati africani che rispondevano a ordini pronunciati in quella lingua. Diverse rifugiate hanno descritto violenze sessuali durante detenzioni improvvisate, accompagnate da interrogatori riguardanti sospetti contatti con gruppi armati.
Una di loro ha raccontato di essere stata accusata ingiustamente di possedere un walkie talkie e di aver subìto sevizie che le hanno causato la perdita del figlio che portava in grembo.
Un gruppo di adolescenti ricorda droni che sorvolavano l’area prima che le truppe entrassero nel villaggio. Altri riferiscono di mezzi blindati leggeri mai visti nelle mani dell’esercito maliano. Nelle loro parole emerge una dinamica ripetitiva che analisti e operatori umanitari considerano significativa.
Questi racconti sono coerenti con decine e decine di testimonianze documentate da testate internazionali che si intrecciano con le valutazioni di OCHA e UNHCR secondo cui gli sfollati interni in Mali superano ormai il mezzo milione di persone. L’assenza della missione ONU MINUSMA, ritirata nel 2023, ha eliminato ogni possibilità di monitoraggio indipendente. Questo preoccupa molto la comunità internazionale che si batte per i diritti umani perché senza supervisione esterna l’ inferno diventa quotidianità.
Le agenzie internazionali hanno difatti sottolineato che non è possibile verificare sul campo ogni episodio a causa delle restrizioni di accesso e dei rischi per il personale. La convergenza delle testimonianze tra persone che non hanno avuto contatto tra loro, però rappresenta un elemento chiave nella ricostruzione di ciò che sta accadendo.
Come il Mali è diventato uno dei centri più importanti della nuova strategia russa
Per capire la situazione attuale è necessario tornare al 2021, quando il Mali ha rotto la sua storica alleanza con la Francia. La giunta militare salita al potere ha cercato rapidamente un nuovo partner di sicurezza. In questo contesto è entrato in scena il gruppo Wagner, già attivo in diversi Paesi africani. Wagner ha offerto supporto militare, addestramento e presenza nelle aree considerate instabili. In cambio ha ottenuto contratti, accesso alle risorse e una posizione di influenza crescente.
Le operazioni condotte nel 2022 nella città di Moura sono emblematiche. Secondo rapporti indipendenti, centinaia di civili sono stati uccisi in un’operazione congiunta tra forze maliane e personale associato a Wagner. Le modalità osservate, tra cui rastrellamenti, esecuzioni sommarie e punizioni collettive, sono diventate un punto di riferimento per comprendere la continuità tra Wagner e ciò che sta avvenendo oggi in altre aree del Mali.
Il 2023 ha però rappresentato una svolta, la rivolta interna del gruppo Wagner, seguita dalla morte della sua leadership e dalla necessità di Mosca di riaffermare il controllo completamente sulle operazioni estere, ha portato alla creazione dell’Africa Corps. Si tratta di una struttura direttamente collegata al Ministero della Difesa russo, concepita per sostituire la precedente entità mercenaria e assicurare al Cremlino una presenza più stabile, formale e prevedibile nel continente africano.
A differenza di Wagner, che operava in un’area grigia del diritto internazionale, l’Africa Corps è presentato come un apparato statale. Questo cambiamento non è solo semantico. La Russia ha deciso di assorbire infrastrutture, personale, contratti e relazioni politiche precedentemente gestite da Wagner e di convertirli in una piattaforma ufficiale di proiezione militare.
L’architettura dell’Africa Corps secondo i dati disponibili
L’Africa Corps è guidato da figure di alto profilo che indicano la natura istituzionale della struttura. Il generale Yunus Bek Yevkurov, oggi vice ministro della Difesa, è considerato l’architetto della riorganizzazione delle operazioni russe nel Sahel. Le sue frequenti missioni in Mali, Burkina Faso e Niger mostrano la centralità del progetto nella politica estera di Mosca. Accanto a lui opera Andrei Averyanov, figura centrale dell’intelligence russa e associato alla struttura delle operazioni speciali. La presenza congiunta di Yevkurov e Averyanov nelle missioni ufficiali è un segnale della duplice natura dell’Africa Corps: militare e informativa.
Questo approccio integrato permette di combinare addestramento, supporto operativo e creazione di reti politiche con i governi locali.Sul piano operativo, l’Africa Corps impiega personale russo con esperienza nelle forze speciali e ex miliziani di Wagner reinquadrati in un contesto più formale. A questi si aggiungono combattenti africani addestrati secondo dottrina russa. Le unità sono altamente mobili, impiegano mezzi leggeri, droni e sistemi di comunicazione criptata.
La capacità di condurre operazioni rapide e coordinate è coerente con quanto riportato dalle testimonianze dei civili. Le autorità maliane e russe hanno negato tutte le accuse di abusi, dichiarando che le operazioni sono dirette esclusivamente contro gruppi jihadisti attivi nella regione. Ma la mancanza di osservatori sul terreno impedisce un’analisi indipendente degli eventi come spiegato prima.
Come le testimonianze dei sopravvissuti si allineano alla strategia dell’Africa Corps
Le testimonianze raccolte a Mbera e in altre zone di confine mostrano analogie con le tattiche usate da Wagner in Siria, Libia e Repubblica Centrafricana. La rapidità dell’azione, la distruzione selettiva delle infrastrutture vitali e l’impiego di violenza come strumento di controllo territoriale compongono un quadro che richiama metodi già osservati.
I sopravvissuti parlano di operazioni condotte con precisione. Descrivono tutto l’ arrivo all’alba, la separazione della popolazione, l’uso di droni per identificare movimenti e gruppi di fuggitivi e la presenza di uomini che parlavano russo sono elementi che compaiono in più testimonianze. Questi dettagli coincidono con le capacità tecniche attribuite all’Africa Corps.
La distruzione dei pozzi e dei raccolti, riportata da molti rifugiati, è una tattica che mira a rendere insostenibile la permanenza delle comunità nei villaggi colpiti. Questo meccanismo favorisce lo spopolamento delle aree considerate vulnerabili o strategiche. La dispersione della popolazione riduce la capacità dei gruppi armati di radicarsi sul territorio e permette alle autorità locali di esercitare un controllo più diretto.Il perimetro di questo fenomeno non è confinato al Mali.
Burkina Faso e Niger fanno parte dell’Alleanza degli Stati del Sahel, un blocco regionale che ha assunto posizioni critiche verso l’Occidente e ha rafforzato i legami con Mosca. La cooperazione tra questi Paesi e la Russia indica che il modello operativo adottato in Mali potrebbe estendersi anche ad altri contesti.
Il nodo geopolitico: la nuova competizione per il Sahel
Il Sahel è oggi uno dei corridoi geopolitici più contesi del mondo. La presenza crescente della Russia si inserisce in un quadro caratterizzato da colpi di stato, crisi alimentari, dispute territoriali e insurrezioni armate. Il ritiro graduale delle missioni internazionali e la riduzione della presenza francese hanno creato un vuoto che attori esterni stanno cercando di colmare.
La Russia ha puntato su una strategia che combina supporto militare immediato e presenza politica. In cambio ottiene accesso a risorse come oro, uranio e concessioni minerarie. Le élite al potere nei Paesi del Sahel vedono nella Russia un alleato capace di offrire protezione senza condizioni democratiche o richieste di riforme interne.
L’Africa Corps è diventata uno strumento chiave di questa strategia. Opera come moltiplicatore di influenza, come forza di stabilizzazione per le giunte locali e come piattaforma per consolidare la presenza russa lungo un asse che va dal Mali al Niger.
Questa direttrice è cruciale perché collega regioni ricche di risorse con posizioni strategiche tra l’Africa occidentale e settentrionale.
Una guerra che ridisegna territori e alleanze
Le testimonianze dei civili e le analisi indipendenti indicano che la violenza osservata in Mali non è un insieme di episodi isolati, ma un metodo. Non si tratta solo di contrastare gruppi jihadisti. La distruzione sistematica dei villaggi, lo sfollamento delle comunità e il controllo delle aree svuotate di popolazione sono elementi di una strategia più ampia che come precisato prima punta a creare un ordine nuovo e coordinato sia da politica interna che straniera, in questo caso russa.
Il Mali è diventato il primo teatro dove questa strategia si manifesta in modo chiaro. La transizione da Wagner all’Africa Corps mostra la volontà della Russia di trasformare una presenza mercenaria in uno strumento pienamente statale, capace di operare con continuità e di stringere alleanze politiche durature. In un’area dove le crisi si moltiplicano, questo nuovo attore modifica gli equilibri.
Il futuro del Sahel dipenderà anche dalla capacità delle popolazioni colpite di raccontare ciò che accade, dalle analisi indipendenti che emergeranno e dalla risposta della comunità internazionale a una guerra che spesso si svolge lontano dagli occhi del mondo.
Le eccellenze dei “Comuni Rifiuti Liberi” sfidano la crisi della Capitale nella decima edizione del dossier di Legambiente. Sant’Ambrogio sul Garigliano guida la rivoluzione verde, mentre Roma mostra i primi timidi segnali di risveglio dopo un decennio di stasi.
La sala conferenze delle Industrie Fluviali a Roma ha ospitato la decima edizione dell’Ecoforum regionale di Legambiente, un appuntamento ormai imprescindibile per scattare una fotografia nitida e senza filtri dello stato di salute della gestione dei rifiuti nel Lazio. Il dossier presentato quest’anno, basato sui dati Arpa relativi al 2024, ci restituisce l’immagine di una regione a due velocità, divisa tra piccole eccellenze che competono con i migliori standard europei e una grande area metropolitana che fatica ancora a trovare il passo giusto. Il dato aggregato regionale racconta di una raccolta differenziata salita al 56,2% , un incremento di un punto percentuale rispetto all’anno precedente che permette al Lazio di posizionarsi tra le undici regioni più virtuose d’Italia secondo il rapporto ISPRA, ma che nasconde al suo interno profonde disparità territoriali che meritano un’analisi approfondita e dettagliata.
L’élite dei comuni virtuosi: la sfida del “Secco Residuo”
Il cuore pulsante del rapporto è rappresentato dalla classificazione dei Comuni Rifiuti Liberi , ovvero quelle amministrazioni che non si limitano a differenziare, ma riescono a contenere la produzione di rifiuto secco indifferenziato sotto la soglia critica dei 75 chilogrammi per abitante all’anno. Questo parametro è considerato dagli esperti il vero indicatore di qualità di un sistema di gestione ambientale, poiché premia la riduzione dei rifiuti alla fonte e non solo il loro smistamento. Nell’edizione 2025 sono trenta le amministrazioni che hanno ottenuto questo prestigioso riconoscimento, un numero in leggero calo rispetto ai trentatré dell’anno precedente, segno che mantenere standard di eccellenza richiede uno sforzo costante e non permette rilassamenti.
In vetta alla classifica si conferma una piccola realtà della provincia di Frosinone: Sant’Ambrogio sul Garigliano , che con una performance straordinaria di appena 40 kg di secco residuo per abitante , dimostra come anche i piccoli centri possono diventare laboratori di innovazione ecologica. Al secondo posto troviamo Vallecorsa con 44 kg, seguita da Vetralla che chiudendo il podio con 51 kg pro capite. Scorrendo la lista delle eccellenze incontriamo comuni come San Giovanni Incarico, Rocca Santo Stefano, Graffignano e Nerola, tutti ben al di sotto della soglia limite. È interessante notare come la provincia di Roma, spesso criticata per le performance della Capitale, sia in realtà il territorio con il maggior numero di comuni premiati in questa categoria, ben undici, tra cui spiccano realtà come Genzano di Roma, Fonte Nuova, Palestrina, Sacrofano e Manziana. Questo dato smentisce il pregiudizio di un’area metropolitana interamente in crisi, evidenziando invece come la “cintura” intorno alla città sta lavorando con efficacia e lungimiranza.
Oltre la soglia del 65%: l’esercito dei Ricicloni
Se la categoria “Rifiuti Free” rappresenta l’eccellenza assoluta, il corpo principale della transizione ecologica laziale è costituito dai Comuni Ricicloni , ovvero quelle amministrazioni che hanno superato l’obbligo di legge del 65% di raccolta differenziata. Qui i numeri sono decisamente incoraggianti: sono ben 217 i comuni laziali che hanno oltrepassato questa asticella, sette in più rispetto alla rilevazione del 2023. Un esercito di amministrazioni virtuose che dimostra come la cultura della separazione dei materiali sia ormai radicata nella maggior parte del territorio regionale.
Analizzando i dati assoluti della percentuale di differenziata, emerge il primato di Nepi , che conquista la vetta regionale con un impressionante 85,4% di materiali avviati a riciclo , seguito a strettissimo giro da Vetralla con l’85,2% e Genzano di Roma con l’84,9%. Ma la vera sorpresa arriva dall’analisi delle grandi città, quelle con oltre cinquantamila abitanti, dove la gestione dei servizi è storicamente più complessa. In questo segmento è Fiumicino a guardare tutti dall’alto con il suo 78,9% , confermandosi un modello di gestione per i grandi centri urbani costieri. Seguono con risultati eccellenti Aprilia al 78,4% e Velletri al 75,8%, mentre anche Tivoli, Guidonia e Pomezia si mantengono stabilmente sopra la soglia di eccellenza. Un plauso particolare va anche ai piccoli comuni sotto i cinquemila abitanti, dove Magliano Sabina e Canale Monterano sfiorano l’80% di differenziata, provando che l’efficienza non è questione di dimensioni demografiche ma di volontà politica e organizzazione capillare. Una menzione speciale è stata inoltre assegnata all’Unione dei Comuni Valle di Comino per il notevole lavoro svolto nell’ultimo biennio.
Il nodo irrisolto della Capitale e le speranze per il futuro
Non si può parlare di rifiuti nel Lazio senza affrontare il “gigante malato”: Roma. I dati presentati all’Ecoforum mostrano una Capitale che, seppur ancora in affanno, sembra essersi svegliata da un lungo letargo. La raccolta differenziata a Roma ha raggiunto il 48% , segnando un incremento di oltre un punto e mezzo percentuale rispetto all’anno precedente. Potrebbe sembrare un passo avanti modesto, ma va contestualizzato: si tratta del primo segnale di crescita reale dopo un intero decennio di stagnazione quasi totale. Roberto Scacchi, presidente di Legambiente Lazio, ha voluto sottolineare questo aspetto definendolo un grande segnale di ripresa che va però consolidato e accelerato drasticamente per generare una vera svolta.
Il peso specifico di Roma è determinante per l’intera regione. Il dossier evidenzia chiaramente come la città, con i suoi quasi tre milioni di abitanti e una produzione di rifiuti pro capite elevata, trascini verso il basso la media regionale. Se si escludesse la Capitale dal calcolo, il resto del Lazio vanterebbe una media di raccolta differenziata del 66,72%, ben oltre gli obiettivi normativi nazionali. Questo dato mette a nudo la doppia velocità del territorio: da una parte le province virtuose, dall’altra il capoluogo che rincorre. La situazione romana influisce pesantemente sulla performance della Città Metropolitana, che chiude la classifica provinciale con il 54%, mentre la provincia di Viterbo svetta al primo posto con il 67,3% , seguita da Latina al 64,3% e Frosinone al 63,5%. Anche Rieti, pur restando sotto il 60%, mostra segnali di vitalità posizionandosi al 58,7%.
Infrastrutture e tecnologia: la strada verso l’economia circolare
Il dibattito all’Ecoforum non si è limitato alle percentuali di raccolta, ma ha toccato il nervo scoperto dell’impiantistica. La regione produce complessivamente 2,9 milioni di tonnellate di rifiuti urbani, un dato in crescita del 2,3% che viaggia parallelamente alla ripresa dei consumi e del PIL. Per gestire questa mole di materiali non basta più la buona volontà dei cittadini nel differenziare; servono impianti industriali capaci di trasformare il rifiuto in risorsa. Legambiente ha ribadito con forza la necessità di implementare la rete dei biodigestori anaerobici per il trattamento della frazione organica, che da sola rappresenta circa il 37% di tutto ciò che viene differenziato.
Senza impianti di prossimità in grado di generare biometano e compost di qualità, il ciclo virtuoso si interrompe, costringendo le comunità a costosi trasporti fuori regione che impattano sia sulle tasse dei cittadini (TARI) sia sull’ambiente. Il presidente nazionale di Legambiente, Stefano Ciafani, ha rimarcato come il Lazio deve compiere un salto di qualità decisivo per allinearsi alle medie del Nord Italia, e questo potrà avvenire solo se Roma completerà la sua transizione impiantistica e se si diffonderà ovunque la tariffazione puntuale (TARIP), il sistema che fa pagare l’utente in base alla quantità reale di rifiuti indifferenziati prodotti.
Analisi delle dinamiche territoriali e prospettive
Approfondendo l’analisi dei dati, emergono storie di riscatto e di caduta che disegnano la mappa mutevole dell’ecologia laziale. È significativo il caso di Norma , che ha registrato l’aumento percentuale più marcato dell’anno con un balzo del +10,8%, o di Ponzano Romano e Faleria, anch’essi protagonisti di crescite importanti. Ancora più sorprendente è il caso di Rocca di Cave, capace di risalire la china dal 26% al 60% in soli dodici mesi, dimostrando che cambiare rotta è possibile in tempi brevi se c’è una chiara strategia amministrativa. Al contrario, la lieve flessione nel numero totale dei comuni “Rifiuti Free” deve suonare come un campanello d’allarme: l’eccellenza non è uno status acquisito per sempre, ma un processo dinamico che richiede manutenzione continua, campagne di informazione e controlli rigorosi.
Il 2025 si chiude dunque con un bilancio in chiaroscuro. Le luci sono quelle accecanti dei piccoli borghi e delle città medie che hanno ormai interiorizzato l’economia circolare come un valore identitario; le ombre sono quelle lunghe proiettate dalle carenze infrastrutturali e dal lento recupero della Capitale. La sfida per i prossimi anni sarà quella di ricucire questo strappo, portando Roma ai livelli delle sue province e trasformando il Lazio in un modello integrato dove il rifiuto cessa definitivamente di essere un problema per diventare, a tutti gli effetti, una risorsa economica ed energetica per il territorio.
Guardando ai mesi che verranno, la partita si giocherà sulla capacità della politica regionale e comunale di tradurre questi numeri in azioni concrete: nuovi impianti, estensione del porta a porta e applicazione della tariffa puntuale saranno gli strumenti indispensabili per non perdere il treno della transizione ecologica europea.
Non si tratta di carri armati o portaerei, ma di algoritmi, chip semiconduttori e sistemi quantistici. Mentre il mondo osserva le tensioni geopolitiche tradizionali, una competizione tecnologica senza precedenti sta ridefinendo i confini stessi della potenza militare globale. Gli Stati Uniti e la Cina sono impegnati in una corsa agli armamenti che non ha eguali dalla Guerra Fredda , ma questa volta la posta in gioco non riguarda solo testate nucleari, bensì il dominio assoluto attraverso l’intelligenza artificiale, la biologia sintetica e il calcolo quantistico.
L’alba della guerra intelligente
La competizione tecnologica tra Washington e Pechino ha assunto dimensioni che superano qualsiasi previsione degli analisti militari. Secondo i dati dell’università di Stanford, gli Stati Uniti ottengono un vantaggio significativo negli investimenti privati in intelligenza artificiale, con circa 109,1 miliardi di dollari investiti nel 2024 , una cifra che supera di quasi dodici volte i 9,3 miliardi di dollari della Cina. Tuttavia, guardare solo ai numeri degli investimenti privati significa ignorare la strategia complessiva cinese. Pechino sta implementando un approccio diverso, basato su finanziamenti statali massicci e una coordinazione centralizzata che potrebbe permetterle di colmare rapidamente il diverso.
La Cina ha pianificato di dispiegare 98 miliardi di dollari in investimenti nell’intelligenza artificiale nel 2025, di cui 56 miliardi provenienti da fonti governative. Questa strategia di fusione militare-civile, denominata ufficialmente “fusione militare-civile”, crea un percorso diretto dalle innovazioni del settore privato alle applicazioni militari. Il Libro Bianco sulla Difesa Nazionale cinese del 2019 ha rivelato che la “guerra intelligente” rappresenta un componente centrale degli sforzi di modernizzazione dell’Esercito Popolare di Liberazione, riferendosi all’integrazione di intelligenza artificiale, calcolo quantistico, big data e altre tecnologie emergenti.
Il presidente Xi Jinping ha esplicitamente richiesto lo sviluppo accelerato di capacità di combattimento autonomo e senza equipaggio, riconoscendo che l’intelligenza artificiale costituisce un elemento essenziale di questa trasformazione. Gli strateghi militari cinesi hanno caratterizzato le tendenze attuali come l’avvento di una nuova rivoluzione militare, in cui l’intelligenza artificiale e le tecnologie correlate stanno cambiando le metriche del potere militare. Non si tratta più semplicemente di avere più armi o soldati meglio addestrati, ma di possedere sistemi capaci di elaborare informazioni a velocità sovrumane, prendere decisioni tattiche in millisecondi e operare in ambienti dove l’intervento umano diretto risulta impossibile.
L’infrastruttura della potenza digitale
Dietro ogni sistema di intelligenza artificiale militare si nasconde un’infrastruttura fisica massiccia che determina chi può effettivamente competere in questa corsa. I data center, vero e proprio cuore pulsante dell’addestramento e del dispiegamento dell’intelligenza artificiale, rappresentano una metrica critica di capacità operativa. Gli Stati Uniti possiedono circa 5.426 data center a marzo 2025, mentre la Cina ne ha 449. Questa disparità apparentemente schiacciante nasconde però una realtà più complessa. Le due superpotenze rappresentano insieme il 70% dei 122,2 gigawatt di capacità installata mondiale nei data center, e le proiezioni indicano una crescita esplosiva per soddisfare le richieste dell’intelligenza artificiale.
La Cina sta implementando una strategia aggressiva per compensare questo divario. Shanghai, ad esempio, ha recentemente annunciato piani per costruire cinque nuovi data center nel 2025, con l’obiettivo di elevare la capacità di calcolo dell’intelligenza artificiale della città oltre i 100 exaflop. Un exaflop equivale a un quintilione di operazioni in virgola mobile al secondo, una potenza computazionale quasi incomprensibile. La potenza di calcolo totale della Cina ha raggiunto 246 exaflop a giugno 2024, posizionandola al secondo posto dopo gli Stati Uniti. Più significativamente, la Cina punta a raggiungere 300 exaflop entro il 2025, un obiettivo che testimonia l’ambizione nazionale in questo settore.
Pechino sta perseguendo anche progetti ancora più ambiziosi. La Cina prevede di costruire un data center spaziale centrale in orbita alba-tramonto, tra 700 e 800 chilometri di altitudine, con una capacità energetica superiore a 1 gigawatt. Il piano è articolato in fasi: satelliti di prova dal 2025 al 2027, seguiti da un data center orbitale su scala completa da un megawatt entro il 2035. Se realizzato, questo progetto potrebbe superare la capacità totale degli attuali data center terrestri cinesi, rappresentando un balzo tecnologico senza precedenti.
Il governo cinese sta inoltre implementando l’iniziativa “East Data West Compute“, che incoraggia la costruzione di data center nelle regioni occidentali del paese, offrendo sussidi elettrici fino al 50% per strutture di grandi dimensioni che utilizzano chip nazionali. Questa strategia persegue molteplici obiettivi: distribuire geograficamente l’infrastruttura critica, ridurre i costi energetici sfruttando le risorse rinnovabili occidentali e, fondamentalmente, accelerare l’adozione di semiconduttori domestici in risposta ai controlli sulle esportazioni americane.
La battaglia dei semiconduttori e dei controlli tecnologici
Se i data center rappresentano il corpo della potenza dell’intelligenza artificiale, i semiconduttori avanzati ne sono il cervello. Gli Stati Uniti hanno riconosciuto questa realtà implementando quella che molti analisti hanno rilevato la più espansiva azione di controllo delle esportazioni degli ultimi decenni. Nell’ottobre 2022, l’amministrazione Biden ha imposto controlli sull’esportazione di tipi designati di semiconduttori, alcuni sistemi informatici contenenti tali dispositivi e attrezzature utilizzate per fabbricarli verso la Cina.
La strategia americana, denominata “Chokepoint“, persegue quattro obiettivi fondamentali: limitare l’accesso della Cina ai chip per intelligenza artificiale attraverso controlli sulle esportazioni, bloccare l’accesso al software di progettazione americano che limita la capacità cinese di progettazione chip avanzati, arrestare la capacità domestica cinese di produrre chip limitando l’esportazione di attrezzature di produzione insostituibili, e restringere l’accesso cinese alle tecnologie americane e di altri Paesi che supportano l’architettura avanzata complessiva dello sviluppo dell’intelligenza artificiale.
L’idea chiave consiste nell’assicurare la dipendenza cinese dalle importazioni per le attrezzature di produzione di semiconduttori, che dovrebbero essere bloccate anche attraverso la postura diplomatica americana, inclusa l’alleanza Chip4, una cooperazione con Corea del Sud, Taiwan, Giappone e Paesi Bassi per limitare l’esportazione di tecnologia dei chip verso la Cina. Gli Stati Uniti stimano che senza accesso ad attrezzature avanzate, la capacità produttiva cinese sarà ridotta a un equivalente pari o superiore a 45 nanometri nella dimensione dei transistor.
Le revisioni di ottobre 2023 e gennaio 2025 hanno ulteriormente rafforzato queste misure, introducendo un framework di diffusione dell’intelligenza artificiale che divide il mondo in tre livelli e introduce limiti rigidi sulle importazioni di GPU e sui pesi dei modelli di intelligenza artificiale. Ad agosto 2025, il Dipartimento del Commercio ha chiuso una scappatoia dell’era Biden che permetteva ad alcune aziende straniere di esportare attrezzature e tecnologia di produzione di semiconduttori in Cina senza licenza, obbligando ora queste aziende a ottenere licenze per esportare la loro tecnologia.
La Cina non è rimasta passiva di fronte a questa offensiva tecnologica. Pechino ha dichiarato nel maggio 2023 che il produttore americano di chip di memoria Micron Technology aveva “fallito la sua revisione di sicurezza” e ha vietato agli operatori cinesi di infrastrutture critiche nazionali per acquistare prodotti Micron. A luglio 2023, la Cina ha imposto requisiti di licenza sulle esportazioni dei metalli delle terre rare gallio e germanio, oltre a diversi composti derivati da questi metalli, materiali chiave nella produzione di semiconduttori. Questi requisiti potrebbero facilmente trasformarsi in un meccanismo per ridurre l’accesso a questi materiali critici.
Nonostante queste restrizioni, o forse proprio a causa di esse, la Cina sta accelerando lo sviluppo della sua industria domestica di semiconduttori. Il governo ha stabilito una roadmap aggressiva per il settore, con il piano “Made in China 2025” che prevede l’80% di localizzazione del consumo cinese di chip entro il 2030, rispetto al circa 24% del 2020. Le province come Gansu, Guizhou e Mongolia Interna offrono sussidi elettrici fino al 50% per strutture di grandi dimensioni che utilizzano chip domestici, e recentemente questi incentivi si sono evoluti nei requisiti obbligatori: le nuove linee guida stabilizzano che qualsiasi data center che riceve supporto governativo deve utilizzare solo chip nazionali, persino mandando la sostituzione dei chip stranieri nei progetti in corso.
Le applicazioni militari dell’intelligenza artificiale
La competizione per l’intelligenza artificiale non si svolge in astratto, ma si traduce in applicazioni militari concrete che stanno già cambiando il volto della guerra moderna. L’Esercito Popolare di Liberazione sta capitalizzando la tecnologia dell’intelligenza artificiale per sviluppare sistemi di combattimento intelligenti e senza equipaggio, migliorare la consapevolezza situazionale del campo di battaglia, condurre operazioni multi-dominio e promuovere programmi di addestramento. Gli strateghi cinesi vedono l’intelligenza artificiale giocare un ruolo centrale nell’avanzamento del potere militare, con il segretario generale del Partito Comunista Cinese Xi Jinping che ha stabilito obiettivi ambiziosi per integrare queste capacità.
Sviluppando metodi di deep learning, missili intelligenti e proiettili possono essere prodotti per identificare i bersagli e le loro debolizze,eludere intercettori e condurre manovre nella fase finale , rafforzando sia le capacità di primo colpo che quelle di ritorsione dell’Esercito Popolare di Liberazione. Ancora più importante, i sensori intensivi facilitati dalla tecnologia di machine learning elaboreranno l’intelligenza che catturano una velocità fulminea, riducendo radicalmente il tempo tra l’identificazione dei bersagli e l’attacco agli stessi, aumentando la cadenza di fuoco.
L’applicazione dell’elaborazione dell’intelligenza artificiale per la fusione dei dati e l’analisi dell’intelligenza aiuterà le forze armate a interpretare le informazioni in modo più accurato e rapido, consentendo all’Esercito Popolare di Liberazione di ottenere la padronanza del comando e controllo del campo di battaglia e migliorare il processo decisionale. In un’era sovraccarica dall’alto volume di informazioni, una nuova sfida per le forze armate cinesi è l’elaborazione efficace di enormi quantità di intelligenza grezza e l’interpretazione accurata del significato reale dietro i flussi di informazioni.
Secondo il South China Morning Post, l’Esercito Popolare di Liberazione ha iniziato a utilizzare i modelli più recenti di DeepSeek in una gamma di ruoli non di combattimento, esplorando al contemporaneo se la sua intelligenza artificiale potrebbe essere applicabile a scenari di combattimento. Il rapporto evidenzia l’uso aperto da parte della Cina di intelligenza artificiale avanzata in contesti militari, mostrando il successo di Pechino nell’implementare la sua politica di fusione militare-civile, che cerca di incorporare aziende tecnologiche civili nella base industriale-militare del paese.
I media statali hanno precedentemente indicato che gli alti comandanti dell’Esercito Popolare di Liberazione potrebbero pianificare di utilizzare DeepSeek per comandare operazioni. In un rapporto del mese scorso, il Guangming Daily controllato dallo stato ha notato che DeepSeek sta “giocando un ruolo sempre più cruciale nel processo di intelligentizzazione militare“, riferendosi all’obiettivo dell’Esercito Popolare di Liberazione di integrare l’intelligenza artificiale nei suoi sistemi militari come parte dei suoi sforzi di modernizzazione. Altri media statali hanno affermato che il modello di intelligenza artificiale potrebbe fornire ai comandanti una migliore consapevolezza situazionale durante le manovre di combattimento, consentendo un processo decisionale più efficace.
Dal lato americano, l’Esercito degli Stati Uniti sta scommettendo fortemente sull’intelligenza artificiale e sui dati per rimodellare il modo in cui l’intelligence viene raccolta, analizzata e consegnata ai comandanti. L’obiettivo è semplice: prendere decisioni più rapide e intelligenti in un’era in cui le guerre si combattono non solo con armi, ma con informazioni. A differenza delle precedenti spinte di modernizzazione, questo sforzo riguarda l’integrazione dell’intelligenza artificiale in ogni livello delle operazioni dell’Esercito, dalla pianificazione del quartier generale alle decisioni in prima linea.
Automatizzando il lavoro tedioso di ordinamento e strutturazione delle informazioni, l’intelligenza artificiale libera gli analisti per concentrarsi su ciò che conta: individuare modelli, prevedere le mosse del nemico e fornire ai comandanti approfondimenti utilizzabili alla velocità di rilevanza. L’Esercito sta già testando questo approccio attraverso l’Army Intelligence Data Platform, un hub basato sul cloud che consolida i flussi di satelliti, sensori e sistemi informatici. A Fort Huachuca, in Arizona, i soldati stanno utilizzando strumenti di intelligenza artificiale per elaborare ore di filmati di droni in minuti.
Il Centro di Integrazione dell’Intelligenza Artificiale a Pittsburgh sta sviluppando nuovi modelli capaci di segnalazione attività sospette attraverso domini multipli, trasformando dati grezzi in intelligenza in tempo reale. I funzionari affermano che questi esperimenti stanno alimentando sforzi più ampi come i Global Information Dominance Experiments, che collegano i dati dell’Esercito nelle reti di comando congiunte. L’obiettivo è creare un’immagine digitale condivisa che consenta ai comandanti di ogni ramo di agire sulla stessa intelligenza, un passo importante verso la più ampia visione del Pentagono del Joint All-Domain Command and Control.
Il programma Replicator e i sistemi autonomi
Uno degli sforzi più ambiziosi del Pentagono nella competizione tecnologica con la Cina è il programma Replicator. Annunciato nell’agosto 2023 dal vice segretario alla Difesa Kathleen Hicks, Replicator mira a produrre migliaia di droni economici entro agosto 2025, o entro due anni dall’annuncio . Hicks ha dichiarato che il suo obiettivo è dissuadere la Cina, che ha una popolazione e un settore manifatturiero molto più ampi.
Il programma Replicator ha annunciato il suo primo lotto di contratti il 6 maggio 2024, che includevano acquisti di imbarcazioni senza equipaggio, droni aerei e difese anti-drone “di varie dimensioni e carichi utili da diversi fornitori tradizionali e non tradizionali”. Alcuni altri contratti “rimangono classificazione, inclusi altri nel dominio marittimo e alcuni nel portafoglio contro-UAS“, ha affermato un comunicato del Dipartimento della Difesa.
Nel comunicato di novembre 2024, il Pentagono ha rivelato che il nuovo lotto include diversi droni del programma di sistema aereo senza equipaggio di livello aziendale dell’Esercito, o UAS. Il servizio aveva selezionato il Ghost-X, prodotto da Anduril Industries, e il C-100, prodotto da Performance Drone Works. Il replicatore includerà anche l’Altius-600 di Anduril, un drone d’attacco monouso sotto contratto con il Corpo dei Marines, e il veicolo di prova aziendale, o ETV.
Il Dipartimento della Difesa ha dichiarato di aver preso in considerazione 500 aziende commerciali per Replicator, assegnando contratti a 30 aziende. Altre 50 sono incluse come subappaltatori. Il Pentagono ha ottenuto 500 milioni di dollari per l’anno fiscale 2024, con lo stesso importo incluso nella richiesta di bilancio della difesa per l’anno fiscale 2025.
Tuttavia, il programma ha un significato contrastante. Secondo il Wall Street Journal del settembre 2025, l’ambizioso programma Replicator ha registrato ritardi considerevoli a causa di diffusi fallimenti tecnici ed errori negli appalti. I problemi rivelano grandi sfide nello scalare la tecnologia dei droni autonomi per applicazioni militari, con implicazioni che si estendono ben oltre i circoli della difesa nell’industria più ampia dei sistemi senza equipaggio.
La responsabilità per Replicator è passata dal team dell’ex vice segretario alla Difesa Kathleen Hicks al Defense Autonomous Warfare Group, guidato dal tenente generale Francis Donovan dal Comando per le Operazioni Speciali degli Stati Uniti. La nuova organizzazione ha un mandato aggressivo di due anni per consegnare prototipi operativi, guidato da valutazioni dell’intelligence che identificano il 2027 come una possibile tempistica per un’azione cinese riguardo a Taiwan.
Nonostante le difficoltà, il programma continua sotto un nuovo nome. Nell’annuncio di dicembre 2025, i funzionari del Pentagono hanno confermato che Replicator vive, anche se con un nuovo nome, Defense Autonomous Working Group, e con un maggiore focus sul dispiegamento di droni d’attacco più grandi . Il rinominato Replicator si concentra specificamente su tipi più grandi di droni, ha aggiunto il Chief Technology Officer del Pentagono, sottosegretario per la Ricerca e l’Ingegneria Emil Michael.
Taiwan: il campo di prova della guerra autonoma
Taiwan rappresenta il teatro più probabile dove queste tecnologie emergenti potrebbero essere testate in un conflitto reale. L’isola si trova al centro della competizione strategica tra Stati Uniti e Cina, e il ministero della Difesa di Taiwan ha istituito un ufficio per l’intelligenza artificiale per coordinare il crescente uso dell’intelligenza artificiale attraverso le forze armate . L’Artificial Intelligence Project Office ha iniziato silenziosamente a lavorare all’inizio di ottobre all’interno del quartier generale del ministero e sta consolidando progetti di intelligenza artificiale precedentemente dispersi sotto un unico tetto.
Il tenente generale Huang Wen-chi, che guida il Dipartimento di Pianificazione Strategica del ministero, ha dichiarato ai legislatori che l’hub segue la guida legislativa per integrare strumenti di intelligenza artificiale commerciali affidabili nelle operazioni militari. I primi sforzi si concentrano su “riconoscimento di immagini, protezione informatica e anti-hacking“, mentre le applicazioni più avanzate saranno introdotte una volta che i sistemi si dimostreranno stabili.
Il ministro della Difesa Wellington Koo ha osservato che l’ufficio rimane in una fase di test, raccogliendo principalmente requisiti di intelligenza artificiale da diversi rami di servizio e abbinandoli alle tecnologie disponibili. Ha aggiunto che “non c’è ancora una tempistica” per quando l’ufficio sarà pienamente operativo. L’iniziativa riflette la politica governativa più ampia di Taiwan di adozione di prodotti di intelligenza artificiale commerciale matura per uso difensivo. Centralizzando il coordinamento, il ministero mira a semplificare test, integrazione e dispiegamento delle tecnologie di intelligenza artificiale.
Shield AI, l’azienda di tecnologia difensiva statunitense che costruisce software di autonomia all’avanguardia e velivoli, ha annunciato nel settembre 2025 di essere entrata in un accordo formale di collaborazione con Aerospace Industrial Development Corporation. L’accordo farà avanzare le capacità di difesa sovrana di Taiwan, rafforzerà la sua base industriale aerospaziale e migliorerà l’innovazione tecnologica collaborativa.
Un rapporto del Belfer Center del novembre 2025 ha evidenziato che i sistemi d’arma completamente autonomi previsti per la difesa di Taiwan sono almeno a cinque anni di distanza dalla maturità operativa e dal dispiegamento. Le sfide sono sia tecnologiche che strategiche. Gli attuali vincoli tecnologici come l’alimentazione e lo sviluppo del modello di intelligenza hanno impedito al Dipartimento della Difesa di dispiegare sistemi artificiali d’arma completamente autonomi fino ad oggi, e quelli con la portata ei livelli di autonomia necessari per contribuire efficacemente alla difesa di Taiwan sono probabilmente a cinque o più anni di distanza.
Per addestrare modelli di intelligenza artificiale avanzati per sistemi d’arma completamente autonomi, il Dipartimento della Difesa necessita di una raccolta estensiva di dati del mondo reale e set di dati sintetici realistici. I dati limiti dell’intelligence del mondo reale dagli esercizi dell’Esercito Popolare di Liberazione non sono sufficienti per addestrare sistemi d’arma autonomi per conflitti su larga scala nella difesa di Taiwan. Inoltre, i modelli di Generative Adversarial Network sono utili per creare ambienti sintetici completi per addestrare sistemi d’arma autonomi, perfezionare il modello di intelligenza artificiale sottostante e la sua capacità di identificare bersagli, rilevare anomalie durante le missioni e navigare in terreni complessi.
Tecnologie emergenti: quantistica, ipersonico e biologia sintetica
Oltre all’intelligenza artificiale, altre tecnologie emergenti stanno trasformando il panorama della sicurezza globale. La valutazione delle minacce 2025 della Defense Intelligence Agency avverte che le tecnologie quantitative si stanno avvicinando all’uso militare operativo, con nazioni rivali che investono in rilevamento, comunicazioni sicure e calcolo per sfidare i vantaggi strategici degli Stati Uniti. I sensori quantistici e le comunicazioni stanno progredendo più rapidamente del calcolo, con Cina e Russia che espandono reti quantitative su scala cittadina e sviluppano strumenti di rilevamento che potrebbero aggirare i sistemi stealth tradizionali e GPS.
Questi dispositivi, che rilevano cambiamenti nei campi magnetici o gravitazionali, stanno diventando abbastanza sensibili da localizzare sottomarini o strutture sotterranee senza assistenza satellitare. Tali capacità potrebbero fornire alle forze armate maggiore consapevolezza situazionale in ambienti dove i segnali GPS sono deboli o bloccati. Il rapporto segnala anche i progressi nelle comunicazioni quantitative sicure. La rete quantistica nazionale cinese continua ad espandersi, ora includendo collegamenti multipli che attraversano le città che trasmettono dati tramite distribuzione di chiavi quantistiche , un metodo ritenuto immune alle attuali tecniche di intercettazione.
Il calcolo quantistico rappresenta potenzialmente l’arma asimmetrica che la Cina potrebbe dispiegarsi per ribaltare finalmente decenni di dominio militare statunitense. Secondo Nikkei Asia, la rapida spinta della Cina nel calcolo quantistico sta emergendo come un potenziale equalizzatore militare decisivo, con esperti che avvertono che la tecnologia potrebbe eclissare i simboli tradizionali del potere statunitense come le portaerei.
Gli analisti hanno anche notato il lancio su larga scala da parte della Cina di comunicazioni quantitative e reti di Quantum Key Distribution, dandole un vantaggio nell’assicurare i propri sistemi. Sebbene le capacità quantitative rimangano immature, gli esperti hanno affermato che la prima nazione a raggiungere macchine tolleranti ai guasti potrebbe ottenere accesso istantaneo ai segreti degli avversari, rimodellando fondamentalmente la guerra futura.
Le armi ipersoniche rappresentano un’altra frontiera critica. L’intelligenza artificiale sta giocando un ruolo fondamentale nello sviluppo e nella difesa contro queste armi. I ricercatori militari cinesi affermano di aver sviluppato una tecnologia di intelligenza artificiale capace di prevedere la traiettoria di un missile volante ipersonico mentre si avvicina al suo bersaglio a velocità superiore a cinque volte quella del suono. Secondo loro, un sistema di difesa aerea cinese alimentato dall’intelligenza artificiale può prevedere la traiettoria potenziale di uccisione di un’arma in arrivo e lanciare un rapido contatto entro tre minuti.
L’arma planante ipersonica, a differenza di un normale missile balistico, si muove attraverso l’atmosfera come una pietra che rimbalza sull’acqua e virando a sinistra e a destra, rendendola più difficile da rilevare e intercettare. A velocità Mach 5 o superiore, c’è poco tempo per un sistema di difesa aerea per rispondere, motivo per cui è ampiamente diffuso che la tecnologia attuale semplicemente non può fermare questi sistemi. Il nuovo sistema può funzionare su un computer portatile e produrre un risultato in 15 secondi, secondo lo studio, nonostante sia più avanzato di qualsiasi precedente intelligenza artificiale per la previsione della traiettoria ipersonica.
La biologia sintetica rappresenta forse la minaccia più inquietante e meno compresa. La biologia sintetica è una piattaforma sofisticata e programmabile che potrebbe in teoria consentire lo sviluppo di un’ampia gamma di armi biologiche e chimiche. Tuttavia, perché una capacità meriti preoccupazione in questo contesto, deve non solo essere possibile creare un agente in laboratorio, ma anche utilizzare l’agente per effettuare un attacco.
Sviluppi nella biologia sintetica, che l’Accademia Nazionale delle Scienze definisce come “concetti, approcci e strumenti che consentono la modifica o la creazione di organismi biologici”, rappresentano una minaccia profonda. A differenza delle armi biologiche tradizionali, che la maggior parte degli stati ha abbandonato come inaffidabili, le armi biologiche sintetiche sono minacce biologiche armate modificate attraverso la biologia sintetica per effetti, meccanismi o processi nuovi.
Il tenente generale dell’Esercito Popolare di Liberazione He Fuchu, vicepresidente dell’Accademia Cinese di Scienze Militari, ha sottolineato che “la biotecnologia è una nuova ‘altezza strategica di comando‘”. La sua agenzia Science of Military Strategy del 2017 definiva la biologia “come un dominio di lotta militare”. Il COVID-19 ha rivelato una chiave chiave degli Stati Uniti, e gli avversari hanno preso nota. Le armi biologiche sintetiche forniscono una capacità completamente nuova: fuochi del dominio umano senza alcun equivalente convenzionale.
GenAI.mil e la risposta americana
Di fronte a queste sfide multidimensionali, gli Stati Uniti stanno accelerando la propria integrazione dell’intelligenza artificiale nelle operazioni militari. Nel dicembre 2025, il Pentagono ha annunciato il lancio di GenAI.mil, una piattaforma di intelligenza artificiale militare alimentata da Google Gemini. In un video ottenuto da FOX Business, il segretario alla Guerra Pete Hegseth ha dichiarato che la piattaforma è progettata per dare al personale militare statunitense accesso diretto a strumenti di intelligenza artificiale per aiutare a “rivoluzionare il modo in cui vinciamo”.
“Il futuro della guerra americana è qui, e si scrive AI”, ha detto Hegseth. “Man mano che le tecnologie avanzano, così fanno i nostri avversari. Ma qui al Dipartimento della Guerra, non stiamo rimanendo con le mani in mano“. Hegseth ha affermato che la piattaforma mette “i modelli di intelligenza artificiale di frontiera più potenti del mondo, iniziando con Google Gemini, direttamente nelle mani di ogni guerriero americano“.
Attraverso questo dispiegamento dell’offerta “Gemini for Government” di Google Cloud, più di 3 milioni di personale civile e militare potranno accedere alla stessa intelligenza artificiale avanzata che le aziende utilizzano ogni giorno per guidare l’efficienza amministrativa e una maggiore produttività aziendale. L’annuncio arriva mesi dopo che il presidente Donald Trump ha emesso l‘America’s AI Action Plan, che secondo la Casa Bianca “identifica quasi un centinaio di azioni federali per accelerare l’innovazione dell’intelligenza artificiale americana“.
Il Pentagono ha dichiarato che fornirà anche al personale formazione gratuita su come utilizzare GenAI.mil, finalizzata a costruire fiducia e insegnargli come utilizzare la piattaforma nel modo più efficace. Il servizio è basato sul web contro la ricerca Google, il che aiuta a prevenire le allucinazioni. La mossa rappresenta un cambiamento drammatico rispetto al 2018, quando Google affrontò proteste interne quando permise al Pentagono di utilizzare la sua intelligenza artificiale emergente per analizzare filmati di droni per l’identificazione dei bersagli. Le proteste dei dipendenti costrinsero la direzione a ritirarsi dall’accordo.
La militarizzazione della Silicon Valley
Quella resistenza si è in gran parte sciolta, lasciando il posto a capitalisti di rischio che stanno investendo miliardi in startup di tecnologia difensiva, mentre gli ingegneri stanno lasciando alcune delle più grandi aziende americane per costruire la prossima generazione di armi da campo di battaglia. “Ogni azienda con cui parlo vuole assicurarsi che se c’è qualcosa che possono fare, lo stanno facendo“, ha detto Emil Michael, sottosegretario del Pentagono per la ricerca e l’ingegneria, a una conferenza sulla tecnologia difensiva di Washington il mese scorso.
Il capitale di rischio per startup di tecnologia difensiva con sede negli Stati Uniti ha raggiunto circa 38 miliardi di dollari nella prima metà del 2025 e potrebbe superare il picco raggiunto nel 2021 se l’attuale slancio continua per tutto l’anno. Le dinamiche mutevoli del conflitto globale negli ultimi decenni hanno portato il Dipartimento della Difesa degli Stati Uniti ad individuare diverse tecnologie chiave essenziali per la sicurezza nazionale, tra cui armi ipersoniche, resilienza energetica, progressi spaziali, rilevamento integrato e sicurezza informatica.
A febbraio, Google ha anche annunciato la rimozione del suo divieto auto-imposto sull’uso dell’intelligenza artificiale nelle armi. In un post sul blog, l’azienda ha osservato che “una competizione globale è in corso per la leadership dell’intelligenza artificiale in un panorama sempre più complesso. Crediamo che le democrazie dovrebbero prendere l’iniziativa nello sviluppo dell’intelligenza artificiale“. Sia Google che Meta hanno rifiutato di commentare.
Un notevole beneficiario di questo cambiamento è Anduril, fondata nel 2017 da Palmer Luckey, l’imprenditore tecnologico dietro l’auricolare virtuale Oculus. Anduril, che sviluppa armamenti guidati dall’intelligenza artificiale, ha ottenuto un contratto da 642 milioni di dollari per anti-drone con il Corpo dei Marines a marzo e un contratto da 250 milioni di dollari per potenziare la tecnologia difensiva del Dipartimento della Difesa. A Hayward, in California, la produzione è accelerata presso Skydio, un produttore di droni autonomi. A giugno, la startup ha ottenuto un contratto da milioni di dollari con il Dipartimento di Stato per fornire droni per sforzi globali.
Le questioni etiche e il dibattito sulle armi autonome
Mentre la corsa tecnologica accelera, crescono le preoccupazioni etiche riguardo allo sviluppo e al dispiegamento dei sistemi d’arma autonomi letali. Isostenitori giustificano le armi autonome sulla base di maggiore efficienza militare e riduzione delle vittime tra i soldati, migliore conformità al diritto umanitario internazionale attraverso la precisione algoritmica e necessità operativa in ambienti ad alta minaccia. Tuttavia, questi argomenti non riescono a stabilire la legittimità etica delle armi autonome secondo i critici.
L’analisi conclude che i sistemi d’arma autonomi minano fondamentalmente la responsabilità morale in guerra, esacerbano i rischi per i civili e corrodono l’agenzia umana nel processo decisionale letale. Il fallimento etico principale risiede nel gap di responsabilità intrinseco ai sistemi autonomi. Quando le armi autonome causano danni non intenzionali, sia attraverso errori algoritmici, malfunzionamenti dei sensori o inganno avversario, non è possibile identificare alcun agente moralmente colpevole.
Come dimostra il filosofo Robert Sparrow, le strutture di responsabilità si fratturano attraverso la catena di responsabilità. La responsabilità si frammenta tra programmatori, operatori e comandanti. Come sostiene Jeremy Waldron, la legittimità del diritto umanitario internazionale deriva in parte dalla sua espressione di rispetto reciproco tra avversari: anche in guerra, riconosciamo l’umanità nei nemici. Delegare il targeting alle macchine recide questo riconoscimento, riducendo gli avversari a modelli di dati.
Il Comitato Internazionale della Croce Rossa insiste quindi che il controllo umano deve rimanere “significativo“, non meramente supervisionario, per preservare la dignità umana e la responsabilità etica. I sostenitori sostengono che l’intelligenza artificiale, non gravata dalla stanchezza umana, dalla paura o dalla vendetta, può applicare i principi del diritto umanitario internazionale, in particolare la distinzione (separare i combattenti dai civili) e la proporzionalità (bilanciare il vantaggio militare contro il danno collaterale), con obiettività matematica impossibile per operatori umani fallibili.
Tuttavia, questo argomento di superiorità algoritmica fraintende fondamentalmente la natura del diritto umanitario internazionale come un quadro normativo che richiede ragionamento morale contestuale piuttosto che applicazione meccanica delle regole. La presunta precisione delle armi autonome si infrange su tre ostacoli etici-legali correlati e insormontabili: l’incapacità intrinseca degli algoritmi di interpretare scenari di combattimento dipendenti dal contesto, la dissoluzione delle strutture di responsabilità quando si violazioni e l’errore categoriale di ridurre norme legali aperte a formule computabili.
Comando e controllo congiunto all-domain: il futuro del comando militare
Al centro della strategia militare americana per integrare queste tecnologie emergenti c’è il concetto di Joint All-Domain Command and Control. JADC2 è il concetto che il Dipartimento della Difesa ha sviluppato per connettere sensori da tutti i rami delle forze armate in una rete unificata alimentata dall’intelligenza artificiale. Questi rami includono l’Air Force, l’Army, il Marine Corps e la Navy, così come la Space Force.
Ogni ramo militare ha la sua iniziativa che contribuisce a JADC2: l’Army ha Project Convergence, la Navy ha Project Overmatch e l’Air Force ha l’Advanced Battle Management System, noto anche come ABMS. La Space Force ha la National Defense Space Architecture della Space Development Agency. Un’applicazione primaria di JADC2 è una richiesta di fuoco. Il JADC2 combinato è quasi pronto per il dispiegamento in attesa dell’approvazione del Congresso per i finanziamenti dell’anno fiscale 2024.
Secondo il Dipartimento della Difesa, questo concetto “è inteso a produrre la capacità bellica di percepire, dare senso e agire a tutti i livelli e fasi della guerra, attraverso tutti i domini, e con i partner, per fornire vantaggio informativo alla velocità di rilevanza“. Ma mentre questa definizione cattura ciò che JADC2 mira a raggiungere, dice poco su come raggiungerlo.
La serie di Global Information Dominance Experiments, co-sponsorizzata con il Joint Staff, fornisce una serie sperimentale iterativa per fornire capacità incrementali a supporto degli sforzi JADC2. GIDE è una serie di esperimenti finalizzati a migliorare la capacità collettiva della Forza di rilevare, dissuadere e dominare attraverso un ambiente di sicurezza globalmente interconnesso. I team di sperimentazione sono composti da leader di tutti i rami di servizio, tutti e undici i comandi combattenti e alleati e partner internazionali.
Il primo GIDE si è tenuto a dicembre 2020. Durante quell’esperimento, NORAD e USNORTHCOM, in coordinamento con US Southern Command, US Indo-Pacific Command, US Transportation Command, US Strategic Command e il sottosegretario alla Difesa per l’intelligence e la sicurezza, hanno convocato un esercizio digitale da tavolo per prototipare la collaborazione tra comandi combattenti avvisi utilizzando di allarme precoce abilitati dall’intelligenza artificiale dei movimenti di minacce di livello pari.
Verso un nuovo ordine mondiale tecnologico
La competizione tecnologica tra Stati Uniti e Cina sta ridefinendo i parametri fondamentali della potenza globale. Non si tratta più semplicemente di chi ha più portaerei o testate nucleari, ma di chi può elaborare informazioni più rapidamente, chi può dispiegare sistemi autonomi più efficaci, chi può sfruttare il calcolo quantistico per penetrare le difese avversarie. Questa corsa agli armamenti del XXI secolo è più veloce, più imprevedibile e potenzialmente più destabilizzante di quella nucleare della Guerra Fredda.
Gli investimenti massicci in intelligenza artificiale, semiconduttori avanzati, tecnologie quantistiche, armi ipersoniche e biologia sintetica stanno creando un panorama strategico in rapida evoluzione dove i vantaggi tecnologici possono essere fugaci e dove l’innovazione determina la sopravvivenza. La fusione militare-civile perseguita dalla Cina e la nuova alleanza tra Silicon Valley e il Pentagono rappresentano due modelli diversi di come mobilitare la capacità tecnologica nazionale per fini strategici.
Taiwan rimane il punto di infiammabilità più probabile dove queste tecnologie potrebbero essere testate in combattimento reale, con analisti che identificano il 2027 come una possibile tempistica critica. La preparazione di entrambe le parti per questo scenario attraverso massicci investimenti in sistemi autonomi, intelligenza artificiale per il comando e controllo, e capacità di guerra multi-dominio suggerisce che il confronto, se dovesse verificarsi, sarebbe profondamente diverso da qualsiasi conflitto precedente.
Le questioni etiche sollevate da queste tecnologie, in particolare riguardo alle armi autonome letali e al controllo umano sulle decisioni nucleari, richiedono un dibattito urgente e strutture normative internazionali. La velocità dello sviluppo tecnologico sta superando la capacità delle istituzioni internazionali di stabilire regole e salvaguardie adeguate. Il rischio di escalation accidentale, di malintesi algoritmici o di attacchi pre-emptivi basati su falsi allarmi generati dall’intelligenza artificiale rappresenta una minaccia esistenziale che richiede cooperazione internazionale anche tra avversari strategici.
La corsa agli armamenti tecnologici del XXI secolo è iniziata, e il suo esito determinerà non solo quale superpotenza dominerà il secolo, ma anche quale tipo di futuro l’umanità affronterà. Un futuro dove le macchine prendono decisioni di vita o di morte in millisecondi, dove la guerra può essere condotta attraverso algoritmi invisibili e armi biologiche su misura, dove lo spazio diventa un campo di battaglia e dove la distinzione tra pace e guerra si offusca in una competizione tecnologicamente permanente. In questo contesto, la vera sfida non è solo vincere la corsa, ma assicurarsi che l’umanità sopravviva ad essa.
Gli Stati Uniti vogliono conoscere cinque anni di vita online dei viaggiatori. La nuova regola su ESTA apre una fase completamente diversa nel controllo delle frontiere.
Un salto senza precedenti nella sorveglianza dei turisti
La proposta resa pubblica dal Customs and Border Protection statunitense rappresenta uno dei più significativi cambiamenti nell’intero sistema di ingresso negli Stati Uniti dall’introduzione dei controlli biometrici post Undici Settembre. Il governo americano intende rendere obbligatoria la consegna della cronologia dettagliata dei social media usati negli ultimi cinque anni per tutti i viaggiatori che richiedono l’autorizzazione ESTA attraverso il Visa Waiver Program, un programma che coinvolge decine di paesi e che facilita l’ingresso di milioni di turisti, studenti e lavoratori temporanei.
Secondo il documento normativo federale diffuso nelle ultime ore, la richiesta non riguarderà più solo il nome degli account, ma anche informazioni aggiuntive capaci di ricostruire l’identità digitale di una persona con precisione quasi totale. È un salto che segna una nuova fase nel rapporto tra libertà individuale, privacy e sicurezza nazionale.
Fonti locali spiegano che la bozza di regolamento prevede anche l’obbligo di fornire numeri di telefono utilizzati negli ultimi cinque anni, indirizzi mail impiegati fino a dieci anni prima, indirizzi IP, metadati fotografici e altre informazioni personali, che ampliano drasticamente la quantità di dati trattenuti dal governo americano.
Una parte degli esperti di diritto ha osservato che si tratta di un’estensione senza precedenti della nozione di controllo di frontiera, perché rende la storia digitale non un elemento opzionale della valutazione di rischio, ma un requisito essenziale per accedere al Paese. La misura arriva in un momento in cui Washington ricostruisce le proprie strategie di screening dopo una serie di casi di radicalizzazione e disinformazione online ritenuti connessi a minacce alla sicurezza.
Perché gli Stati Uniti vogliono i social media dei visitatori
Le autorità federali da anni sostengono che i social media sono diventati uno dei terreni principali in cui si verifica quella che chiamano attività pre operativa. Il concetto si riferisce al modo in cui potenziali attori ostili potrebbero rivelare, anche senza volerlo, dettagli sulle proprie inclinazioni politiche, contatti, viaggi, affiliazioni o comportamenti ritenuti indicatori di rischio.
L’amministrazione statunitense considera questa dimensione digitale un’estensione diretta dell’identità reale e, in un contesto globale segnato da flussi migratori intensi, tensioni geopolitiche e minacce ibride, ritiene necessario moltiplicare i livelli di verifica prima che un individuo metta piede nel paese.
La novità sta nel fatto che fino a oggi la richiesta di informazioni social era già prevista per molte categorie di visti, ma mai per i viaggiatori ESTA, che rappresentano il gruppo più numeroso e comprendono cittadini di paesi considerati alleati o comunque sicuri.
Gli Stati Uniti compiono quindi un passo che non riguarda più solo chi chiede un visto per studio o lavoro, ma chiunque arrivi per turismo o affari, una scelta che secondo alcuni analisti è destinata a modificare la percezione internazionale degli Stati Uniti come destinazione aperta.
La nuova app ESTA e l’evoluzione tecnologica del controllo
Il governo sta preparando un aggiornamento sostanziale anche dal punto di vista tecnico. L’intera procedura sarà spostata su una nuova applicazione mobile ufficiale, che secondo il documento federale potrebbe essere utilizzata da oltre quattordici milioni di persone ogni anno. L’obiettivo è integrare in un unico strumento la raccolta dei dati, la gestione delle autorizzazioni e l’eventuale condivisione delle informazioni con altri organismi federali incaricati della sicurezza nazionale.
La centralizzazione digitale consente un’analisi automatizzata molto più rapida e, soprattutto, permette all’algoritmo di valutare correlazioni e anomalie che emergono dai profili social dichiarati. Secondo diversi esperti citati nelle analisi internazionali, l’automatizzazione apre a nuovi interrogativi. La possibilità che la valutazione di rischio di un viaggiatore venga affidata a processi algoritmici, seppure supervisionati da personale umano, potrebbe generare risultati non trasparenti e difficili da contestare. Le organizzazioni per i diritti digitali temono che persone perfettamente innocenti possano essere respinte a causa di errori, omonimie o interpretazioni arbitrarie dei contenuti pubblicati online negli anni precedenti.
Le critiche degli avvocati e il rischio di autocensura
La reazione delle associazioni di avvocati per l’immigrazione è stata immediata. Secondo l’American Immigration Lawyers Association, la richiesta di cinque anni di cronologia social rappresenta un ostacolo significativo per chi desidera visitare gli Stati Uniti e potrebbe generare un forte effetto di deterrenza. Alcuni legali hanno spiegato che molte persone rinunceranno semplicemente a viaggiare perché non vogliono fornire informazioni così invasive o perché vivono in paesi dove l’espressione politica sui social può essere considerata sensibile e rischiosa.
Il problema della libertà di espressione è centrale. Gli utenti potrebbero iniziare a cancellare contenuti, modificare opinioni, evitare conversazioni pubbliche per paura che un commento frainteso possa compromettere il loro ingresso negli Stati Uniti.
Questo effetto di autocensura, già osservato in precedenti studi accademici sul controllo digitale dei migranti, rischia di alterare profondamente il rapporto tra individui e piattaforme digitali.
Gli Stati Uniti non sono soli: la tendenza globale alla raccolta dei dati
La decisione americana non è isolata. Negli ultimi anni, molte potenze mondiali hanno ampliato drasticamente gli strumenti di screening digitale dei viaggiatori. La Cina applica da tempo controlli sugli smartphone ai confini occidentali e utilizza sistemi di intelligenza artificiale per identificare contenuti ritenuti sensibili.
Paesi europei stanno discutendo norme che consentirebbero di verificare i profili social di chi richiede determinati permessi di ingresso, soprattutto dopo eventi terroristici o operazioni di disinformazione coordinate. La stessa Unione Europea sta sviluppando strumenti digitali avanzati per il proprio sistema di frontiera ETIAS, anche se con limiti meno invasivi rispetto a quelli annunciati dagli Stati Uniti.
L’aspetto decisivo è la crescente convergenza tra politica migratoria e politica tecnologica. Le frontiere si stanno trasformando in laboratori di sorveglianza digitale, dove la valutazione del rischio passa sempre più attraverso la raccolta massiva di dati e l’analisi preventiva del comportamento online.
Le implicazioni geopolitiche e il rapporto con gli alleati
La scelta americana interagisce con un contesto internazionale sensibile. Molti paesi del Visa Waiver Program sono alleati storici degli Stati Uniti, con rapporti economici e militari consolidati.
Una procedura più rigida potrebbe essere percepita come una mancanza di fiducia, soprattutto in un momento in cui la diplomazia occidentale cerca compattezza su dossier strategici globali. Alcuni osservatori sostengono che l’estensione del controllo digitale ai cittadini di paesi considerati sicuri potrebbe creare frizioni politiche e alimentare discussioni interne nei singoli governi europei. Gli Stati Uniti giustificano la misura come un adeguamento alle minacce ibride che caratterizzano il panorama contemporaneo.
L’amministrazione ritiene che attori statali ostili possano usare viaggiatori apparentemente innocui per operazioni di raccolta informazioni o influenza. In questa logica, la cronologia social diventa uno strumento per identificare legami nascosti, inclinazioni radicali o possibili indicatori di manipolazione politica.
La questione del consenso e il futuro della privacy globale
Il nodo finale riguarda la filosofia stessa del consenso. Per ottenere l’ingresso negli Stati Uniti, il viaggiatore dovrà dare il proprio consenso alla consegna dei dati e accettare che le informazioni possano essere condivise con altre agenzie federali. Tecnicamente si tratta di un consenso volontario, ma di fatto è un consenso obbligato, perché senza di esso l’ingresso verrebbe negato.
Molti studiosi sostengono che questa dinamica modifichi in modo radicale il concetto tradizionale di privacy, poiché trasferisce allo Stato un potere informativo abnorme rispetto alle reali necessità di sicurezza.
Non è chiaro quali garanzie saranno offerte ai viaggiatori in termini di conservazione dei dati, tempi di cancellazione e possibilità di revisione in caso di errore. Le organizzazioni per i diritti digitali chiedono maggiore trasparenza e un controllo indipendente sui criteri utilizzati per valutare i profili social.
Alcuni gruppi accademici hanno evidenziato che l’analisi automatizzata dei social media può produrre bias, amplificare discriminazioni o interpretare in modo errato espressioni culturali non immediatamente comprensibili agli operatori americani.
Un nuovo paradigma di frontiera digitale
Il dibattito internazionale è appena iniziato. La proposta statunitense dimostra che le frontiere del ventunesimo secolo non sono più fatte solo di passaporti e timbri, ma di dati digitali, tracce online e identità multiple che vivono dentro gli archivi delle piattaforme. La possibilità che cinque anni di vita social diventino un requisito per attraversare un confine apre scenari estremamente complessi per il diritto, la tecnologia, la politica estera e le libertà individuali.
I prossimi mesi diranno se questo modello diventerà la nuova norma globale o se emergerà una resistenza politica capace di limitarne l’estensione.
Tensione nel Pacifico a seguito di un volo congiunto tra Mosca e Pechino. Tokyo e Seul si allertano e la preoccupazione per eventuali escalation crescono assieme alla cooperazione tra Russia e Cina.
Un volo congiunto che cambia il clima del Pacifico
Una formazione mista di velivoli russi e cinesi ha ridefinito per alcune ore la percezione di sicurezza nell’Asia orientale. Per due capitali che vivono quotidianamente sulla linea di una tensione latente, Corea del Sud e Giappone, quella incursione coordinata ha rappresentato un campanello d’allarme difficile da ignorare.Secondo le autorità militari sudcoreane, nove aerei militari stranieri fra cui bombardieri, caccia e aerei da ricognizione sono entrati nella Zona di Identificazione della Difesa Aerea, la cosiddetta KADIZ.
La Cina ha confermato che si trattava di una delle sue pattuglie strategiche congiunte con la Russia, un programma avviato ormai da alcuni anni e diventato sempre più frequente da quando Mosca e Pechino hanno intensificato il loro coordinamento in materia di sicurezza.
L’ingresso nella KADIZ e la risposta di Seoul
Il comando di Seoul ha chiarito che l’ingresso degli aerei non ha violato lo spazio aereo sovrano, ma ogni incursione nella KADIZ senza comunicazioni preventive viene considerata un atto ostile, poiché mette alla prova la capacità di reazione della difesa sudcoreana.
La risposta è stata immediata. Caccia KF 16 e F 15K sono decollati in modalità di prontezza avanzata e hanno affiancato i velivoli russi e cinesi lungo la loro rotta fino a quando questi non hanno lasciato la zona.Il Ministero della Difesa sudcoreano ha dichiarato che le forze aeree hanno adottato tutte le misure necessarie a gestire una potenziale emergenza.
Fonti interne hanno sottolineato che la complessità della formazione straniera e la sua ampiezza non si vedevano da mesi, dettaglio che ha spinto gli analisti a valutare l’episodio come una possibile prova generale di capacità operative congiunte.
La sorveglianza giapponese e l’attivazione dei caccia
Quasi in parallelo, anche il Giappone ha innalzato il livello di allerta. Il Ministero della Difesa giapponese ha confermato che due bombardieri russi Tupolev 95 e due bombardieri cinesi H 6, scortati da diversi caccia, hanno sorvolato il Mar del Giappone e il Pacifico occidentale seguendo una rotta estremamente sensibile.
Questa rotta attraversa il corridoio aereo tra Okinawa e l’isola di Miyako, un punto strategico che coincide con alcune delle linee più cruciali per la sicurezza giapponese e per le attività statunitensi nella regione.Tokyo ha fatto decollare F 15 e F 2, che hanno monitorato attentamente la formazione straniera. Gli aerei russi e cinesi non hanno violato lo spazio aereo nipponico, tuttavia la vicinanza alle isole meridionali del Giappone ha suscitato una reazione politica immediata, con il governo che ha definito la missione una provocazione pianificata.
Perché questa operazione è diversa dalle precedenti
Negli ultimi anni la cooperazione russo cinese è aumentata in modo significativo. Le due potenze hanno intensificato manovre navali e aeree, esercitazioni congiunte e attività di sorveglianza su larga scala.
Tuttavia, quella pattuglia del 9 dicembre presenta caratteristiche particolari.In primo luogo, la presenza simultanea nelle due principali aree di allerta dell’Asia nordorientale, ovvero la penisola coreana e l’arco insulare giapponese, indica un livello di coordinamento più stretto rispetto al passato.In secondo luogo, il dispiegamento di bombardieri strategici capaci di trasportare armamenti ad alta potenza non è un dettaglio secondario.
L’utilizzo di velivoli come i Tupolev 95 e gli H 6 conferisce all’operazione una forte valenza simbolica e strategica.Infine, il tempismo. La missione si è svolta in un momento in cui Tokyo e Pechino stanno vivendo una fase di frizione diplomatica, mentre Seoul ha recentemente intensificato la cooperazione militare con gli Stati Uniti.
La posizione ufficiale di Pechino e il rafforzamento della cooperazione
Secondo la Cina, la pattuglia congiunta risponde a un piano già approvato mesi prima e rientra nel quadro della cooperazione strategica con la Russia, che negli ultimi anni si è intensificata in modo significativo. La collaborazione riguarda sistemi missilistici, addestramento congiunto, esercitazioni navali e ora una crescente attività aerea su tratte particolarmente sensibili per i paesi alleati degli Stati Uniti.
Pechino ha ribadito che le operazioni sono avvenute nello spazio aereo internazionale e che non costituiscono una minaccia diretta. Tuttavia, gli analisti militari non condividono del tutto questa interpretazione. Il sorvolo di bombardieri strategici, soprattutto modelli capaci di trasportare armamenti nucleari, è considerato da molti esperti come un segnale politico diretto ai governi di Seoul, Tokyo e Washington.
Un messaggio preciso agli Stati Uniti
La presenza contemporanea di velivoli russi e cinesi in due zone di massima attenzione strategica per gli Stati Uniti, ovvero la penisola coreana e l’arco insulare giapponese, viene interpretata come un messaggio mirato.Mentre Washington rafforza la cooperazione con Giappone, Corea del Sud e Filippine, Mosca e Pechino mostrano di poter coordinare operazioni militari complesse in uno degli scacchieri più importanti del mondo.
Gli esperti di sicurezza asiatici hanno evidenziato che la pattuglia congiunta cade in un momento di particolare tensione diplomatica. Tokyo aveva infatti accusato la Cina, pochi giorni prima, di aver agganciato con il radar di controllo del tiro un caccia giapponese, un atto considerato estremamente ostile. Pechino aveva smentito, affermando che era stato il Giappone a distorcere i fatti.
In questo contesto, l’arrivo simultaneo di bombardieri russi e cinesi ha aggravato il clima politico fra i due Paesi.
L’ombra delle rotte di Taipei e Guam
La traiettoria della pattuglia russo cinese ha sfiorato aree vicine alle rotte che conducono verso Taiwan e verso l’isola statunitense di Guam. Questo elemento alimenta il timore che le due potenze stiano valutando come mettere alla prova la risposta americana in caso di crisi nello Stretto di Taiwan.Secondo diversi analisti, la capacità di operare congiuntamente su lunghe distanze dimostra un livello di coordinamento che fino a pochi anni fa sembrava irraggiungibile. Ciò potrebbe avere implicazioni dirette per la dottrina militare statunitense nel Pacifico.
Una possibile nuova normalità? Cosa aspettarsi ora
Sebbene Corea del Sud e Giappone abbiano gestito l’incidente senza segnali di escalation immediata, resta il timore che episodi simili possano diventare ricorrenti.La Cina ha annunciato che le pattuglie congiunte con la Russia continueranno anche nel prossimo anno e che saranno ampliate a nuove aree operative.
Tokyo e Seoul si trovano quindi a dover affrontare una strategia russo cinese che mira a normalizzare la loro presenza militare nelle zone più delicate del Pacifico. Questo implica un aumento costante della tensione e una maggiore dipendenza dalla cooperazione con gli Stati Uniti.
Gli eventi di questi ultimi giorni rappresentano un nuovo capitolo nella competizione strategica che definisce l’Indo Pacifico contemporaneo. Gli analisti prevedono che Corea del Sud e Giappone aumenteranno il livello di sorveglianza aerea e rafforzeranno ulteriormente la loro cooperazione militare con Washington. Al tempo stesso, Russia e Cina sembrano intenzionate a dimostrare di essere in grado di aprire un secondo fronte geopolitico in un periodo in cui l’attenzione del mondo è concentrata su Europa e Medio Oriente.
La posta in gioco riguarda l’equilibrio di potere nel Pacifico e la capacità delle potenze regionali di prevenire una spirale di incidenti che potrebbe sfuggire al controllo.
Un conflitto radicato nella storia del confine, una tregua fragile patrocinata dagli Stati Uniti e una violenza riesplosa prima che potesse essere verificata.
Il ritorno improvviso della guerra
La notte che avrebbe dovuto confermare la stabilità raggiunta appena due mesi fa si è trasformata nel punto di rottura più grave dell’anno. L’esercito thailandese ha annunciato di aver condotto raid aerei contro posizioni cambogiane lungo la frontiera, dichiarando di aver risposto a colpi sparati da oltre il confine. Le autorità di Phnom Penh sostengono invece che l’attacco sia stato improvviso, immotivato e privo di qualsiasi provocazione precedente.
Nessuna fonte indipendente ha potuto verificare quale delle due versioni sia corretta, ma entrambe convergono su un punto essenziale. Il cessate il fuoco firmato a ottobre è stato infranto. Le informazioni disponibili, pur ancora soggette a conferma, delineano un inizio di bilancio drammatico.
Un soldato thailandese risulta ucciso e altri sono rimasti feriti, dato confermato da Bangkok e riportato da fonti internazionali, le quali riferiscono anche della morte di civili cambogiani, per ora però riguardo ai numeri è meglio usare prudenza. Le testimonianze emerse parlano di almeno quattro vittime, numero che però deve essere considerato provvisorio perché non esistono per ora verifiche indipendenti nei villaggi colpiti.
Migliaia di persone hanno lasciato le proprie case durante la notte mentre gli eserciti di entrambi i Paesi schierano truppe e mezzi lungo il confine.
Le radici storiche di una disputa mai risolta
Il conflitto odierno non nasce nel vuoto, la linea di frontiera tra Thailandia e Cambogia è uno dei lasciti più instabili dell’epoca coloniale e combina rivendicazioni sovrapposte, memorie storiche e decisioni territoriali che non hanno mai raggiunto un consenso condiviso. Il caso più noto, quello del tempio di Preah Vihear, divenne negli anni Sessanta un simbolo di contesa nazionale e ancora oggi rappresenta la prova più evidente della fragilità del confine.
Nonostante sentenze internazionali e accordi successivi, molte aree di demarcazione sono rimaste indefinite e le comunità locali vivono da decenni in una condizione di equilibrio precario. Durante l’estate il conflitto era riesploso con intensità significativa. Gli scontri avevano provocato morti e feriti e costretto centinaia di migliaia di civili a lasciare le proprie abitazioni. La pressione internazionale aveva portato le parti a negoziare un cessate il fuoco che, almeno sulla carta, avrebbe dovuto ridurre il rischio di un nuovo ciclo di violenze.
Le tensioni però non si erano mai realmente attenuate. Bangkok aveva accusato Phnom Penh di aver piazzato mine in zone di confine, accusa rigettata dal governo cambogiano. Dall’altra parte, Phnom Penh aveva denunciato continui movimenti di truppe thailandesi nella stessa area. Nessuna di queste contestazioni è mai stata verificata da osservatori indipendenti, anche perché l’accordo firmato a ottobre non prevedeva una missione di monitoraggio sul campo.
La tregua patrocinata dagli Stati Uniti
L’intesa di fine ottobre era stata presentata come uno dei risultati diplomatici più rilevanti della regione. Washington aveva sostenuto il negoziato, attribuendosi un ruolo chiave nella sua conclusione e proponendolo come esempio di stabilizzazione ottenuta attraverso pressione diplomatica e mediazione indiretta. La tregua venne accolta con favore dall’ASEAN e dalle principali potenze extra regionali.
Lo spazio compreso tra le province frontaliere sembrava avviarsi verso una fase di calma relativa. I limiti della tregua erano però evidenti già nella sua struttura. Non esisteva un meccanismo di verifica indipendente, non era stato dispiegato personale internazionale e nessuna delle questioni sostanziali, dalla delimitazione dei confini alla gestione della sicurezza locale, era stata affrontata con un accordo vincolante.
Il cessate il fuoco si reggeva quindi su un equilibrio politico che richiedeva fiducia reciprocamente sostenuta, un elemento che mancava da entrambe le parti.
Le versioni contrastanti dell’escalation
La notte dello scontro ha riportato le dinamiche del confine in una zona di opacità informativa. Bangkok sostiene che l’aviazione abbia colpito esclusivamente infrastrutture militari cambogiane ritenute responsabili degli spari che avrebbero causato la morte del soldato thailandese. Phnom Penh afferma che siano state colpite aree civili e che l’attacco sia avvenuto senza preavviso.
Le due ricostruzioni sono incompatibili, le fonti internazionali riferiscono i fatti sulla base delle versioni ufficiali, ma precisano che non esiste al momento una verifica indipendente della dinamica. Il numero delle vittime e l’identità degli obiettivi colpiti rimangono dunque dati provvisori.
La situazione sul terreno è resa ancora più complessa dall’assenza di giornalisti nella zona immediatamente colpita. Le testimonianze locali raccolte dai media cambogiani e thailandesi sono frammentarie, difficili da confermare e spesso influenzate dalle circostanze drammatiche dell’evacuazione.
Il significato regionale della crisi
L’escalation tra Thailandia e Cambogia arriva in un momento in cui il Sud Est asiatico tenta di stabilizzare il proprio quadro di sicurezza. L’ASEAN aveva definito la tregua di ottobre un modello di cooperazione interna capace di ridurre la tensione tra due Stati membri. Il suo crollo riapre una questione che la regione non è riuscita a gestire e che potrebbe richiedere una presenza diplomatica più incisiva per evitare un conflitto prolungato. Anche le potenze esterne osservano con attenzione. La Cambogia mantiene un legame stretto con la Cina. La Thailandia resta un partner strategico degli Stati Uniti. Le due potenze preferiscono non intervenire direttamente, ma comprendono che una nuova spirale di violenza lungo il confine rischia di destabilizzare un’area cruciale per la competizione geopolitica nel quadrante indo pacifico.
Una tregua dissolta in poche ore
L’accordo che avrebbe dovuto contenere il conflitto non ha retto alla prima crisi. La mancanza di un sistema di verifica, la sfiducia reciproca e la fragilità politica delle due leadership hanno prodotto un contesto in cui un singolo incidente è stato sufficiente a riaccendere la violenza. La situazione rimane incerta. I numeri delle vittime sono ancora in evoluzione. Le autorità dei due Paesi continuano a fornire versioni opposte.
Nessun osservatore indipendente ha ancora potuto verificare in modo diretto quanto accaduto. La certezza, per ora, è solo una. Il confine thailandese cambogiano è tornato nel punto più alto di instabilità degli ultimi mesi.
Popolazione in allarme e timore di una dura riaccensione del conflitto
La riapertura del conflitto sta producendo conseguenze immediate per le comunità di confine, che tornano a confrontarsi con una situazione di incertezza già vissuta in passato. Gli ordini di evacuazione hanno interrotto la normalità quotidiana in aree rurali dove le famiglie dipendono da attività agricole e da scambi locali che richiedono continuità.
Le persone che si spostano lo fanno spesso in condizioni difficili, con risorse limitate e con la consapevolezza che il ritorno nelle proprie abitazioni non è garantito. L’interruzione dei collegamenti interni e la sospensione dei servizi essenziali incidono sul tessuto economico e sociale di territori già esposti a vulnerabilità strutturali. L’impatto si riflette anche sulla percezione della sicurezza. Le comunità che vivono lungo la frontiera hanno sperimentato negli anni una successione di tensioni e fasi di confronto armato.
Il riaccendersi degli scontri conferma la fragilità del contesto e riporta in primo piano il timore di un’instabilità prolungata. Le autorità locali cercano di gestire la situazione con gli strumenti disponibili, ma l’assenza di un quadro stabile rende complessa l’organizzazione di percorsi di protezione e di assistenza. Il quadro umanitario rimane in evoluzione e richiede un monitoraggio continuo.
Le informazioni diffuse finora non permettono ancora di definire un bilancio preciso dell’impatto sulle popolazioni coinvolte, ma mostrano chiaramente che la cessazione della tregua ha effetti diretti sulla vita delle persone che risiedono nelle zone contese. Finché non sarà possibile ristabilire un meccanismo affidabile di sicurezza, la popolazione resterà esposta a una situazione che può mutare rapidamente e che continua a mettere alla prova la resilienza delle comunità di frontiera.
La Russia ha respinto nella notte tra il 6 e il 7 dicembre 2025 quella che le autorità di Mosca ha definito una delle più massicce offensive con droni ucraini degli ultimi mesi. Secondo il bollettino ufficiale del Ministero della Difesa russo, i sistemi di difesa aerea hanno intercettato e distrutto 77 velivoli senza pilota di tipo aereo su sette diverse regioni del paese, in un attacco che ha coinvolto un’area geografica estremamente estesa, dalla regione di Saratov fino alla Crimea annessa.
Un attacco concentrato sul Volga e il sud della Russia
L’intensità dell’offensiva notturna emerge chiaramente dalla distribuzione geografica degli abbattimenti. La regione di Saratov ha registrato il maggior numero di intercettazioni con 42 droni neutralizzati , un dato che sottolinea come questa zona del Volga sia stata il bersaglio principale dell’operazione ucraina. I residenti della città di Saratov e della vicina Engels hanno riferito di aver udito numerose esplosioni durante la notte, con testimonianze che parlano di almeno cinque o sette forti detonazioni che hanno fatto tremare le pareti delle abitazioni. Le autorità locali hanno attivato l’allarme aereo intorno all’una di notte, e l’aeroporto “Gagarin” di Saratov ha sospeso i voli a partire dalle 02:46 ora locale, con le restrizioni mantenute fino alle prime ore del mattino.
La scelta di concentrare l’attacco su Saratov non è casuale. Nella città di Engels si trova una base aerea strategica che ospita bombardieri strategici Tu-160 e Tu-95MS , velivoli utilizzati dalla Russia per attacchi a lungo raggio contro l’Ucraina. Fonti locali hanno inoltre riferito di un possibile incendio presso un deposito petrolifero a Engels, sebbene le autorità russe non abbiano confermato ufficialmente questa informazione.
Dopo Saratov, la regione di Rostov ha subito il secondo attacco più significativo con 12 droni intercettati nei distretti di Kamensk, Chertkovskij e Sholokhov. In quest’ultima zona, un pilone della linea elettrica è stato danneggiato alla periferia del villaggio di Kolundayevskij, lasciando circa 250 residenti senza elettricità. Il governatore della regione, Yuri Slyusar, ha assicurato che non ci sono vittime statali e che i lavori di ripristino sarebbero iniziati durante le ore diurne.
La Crimea annessa dalla Russia è stata teatro dell’intercettazione di 10 droni . La penisola continua ad essere un obiettivo frequente delle operazioni ucraine, data la sua importanza strategica come base per attacchi missilistici e con droni contro l’Ucraina, oltre che per le operazioni navali nel Mar Nero. Nonostante l’allarme aereo che ha interessato Sebastopoli dalle 01:59 alle 02:11, il traffico automobilistico sul ponte di Crimea non è stato interrotto durante la notte.
Altre regioni sotto attacco
L’offensiva ha toccato anche altre zone strategiche della Russia meridionale e centrale. Nella regione di Volgograd sono stati neutralizzati nove droni, mentre la regione di Belgorod, che confina direttamente con l’Ucraina e subisce attacchi quasi quotidiani, ha visto l’abbattimento di due velivoli senza pilota. La vicinanza geografica di Belgorod al fronte non è un bersaglio ricorrente, con infrastrutture energetiche e militari regolarmente sotto tiro.
Particolarmente significativa è stata l’intercettazione di un drone nella Repubblica Cecena, un’area situata a notevole distanza dal fronte ucraino. Questa non è la prima volta che la Cecenia viene colpita da attacchi con droni ucraini. All’inizio di dicembre, i droni ucraini avevano già colpito un edificio dell’FSB nel distretto di Achkhoy-Martanovsky e il grattacielo Grozny-City nella capitale cecena, danneggiando gravemente diversi piani dell’edificio. Il leader ceceno Ramzan Kadyrov aveva promesso rappresaglie dopo questi attacchi, e fonti russe hanno successivamente collegato il massiccio attacco russo contro l’Ucraina del 5-6 dicembre, che ha coinvolto oltre 650 droni e 51 missili, come una risposta anche all’attacco su Grozny.
Infine, un drone è stato abbattuto nella regione di Astrachan , situata lungo il Volga inferiore, dimostrando la capacità ucraina di colpire obiettivi anche a notevole distanza dalla linea del fronte.
La strategia ucraina dietro gli attacchi in profondità
L’offensiva notturna si inserisce in una più ampia strategia ucraina volta a colpire l’infrastruttura energetica e militare russa in profondità nel territorio nemico. Negli ultimi mesi, l’Ucraina ha intensificato gli attacchi con droni a lungo raggio contro raffinerie petrolifere, depositi di carburante e oleodotti russi , con l’obiettivo di ridurre i ricavi dalle esportazioni di petrolio che Mosca utilizza per finanziare lo sforzo bellico. Nel corso del 2025, i droni ucraini hanno colpito almeno 17 importanti raffinerie russe, causando carenze di benzina in diverse regioni del paese e una rilasciata del 17,1% delle esportazioni di prodotti petroliferi nel mese di settembre rispetto ad agosto.
La raffineria di Saratov, in particolare, è stata oggetto di attacchi ripetuti durante l’autunno del 2025, con colpi confermati a settembre, ottobre e novembre. L’impianto produce oltre 20 diversi prodotti petroliferi, tra cui benzina, diesel, olio combustibile e bitume, e nel 2023 ha lavorato circa 4,8 milioni di tonnellate di petrolio greggio. La sua posizione a circa 600 chilometri dalla linea del fronte e 150 chilometri dal confine con il Kazakistan ne fa un obiettivo strategicamente rilevante ma tecnicamente impegnativo da raggiungere.
Parallelamente agli attacchi contro le infrastrutture energetiche, le forze ucraine hanno colpito anche basi aeree, fabbriche di difesa e depositi logistici nel territorio russo . A fine novembre, video diffusi sui social media mostravano droni che colpivano la fabbrica VNI Progress nella Repubblica di Chuvashia, specializzata in elettronica e sistemi di guerra elettronica, e un’area nella zona economica speciale di Alabuga, nota per la produzione di componenti automobilistici per veicoli militari russi. Un altro attacco ha danneggiato gravemente lo stabilimento aeronautico Beriev a Taganrog, nella regione di Rostov, potenzialmente paralizzando un bombardiere strategico russo.
La risposta russa e il contesto del conflitto
L’attacco notturno ucraino del 6-7 dicembre si è verificato nelle stesse ore in cui la Russia stessa lanciava una delle offensive aeree più massicce degli ultimi mesi contro l’Ucraina . Secondo le forze aeree ucraine, Mosca ha impiegato 653 droni e 51 missili in un attacco su larga scala che ha colpito principalmente infrastrutture energetiche e ferroviarie in otto regioni ucraine, causando blackout diffusi e costringendo le centrali nucleari a ridurre la produzione. Le forze di difesa ucraine hanno dichiarato di aver intercettato 585 droni e 30 missili, ma 29 siti sono stati colpiti, con almeno otto persone rimaste ferite.
Il Ministero della Difesa russo ha affermato che l’attacco contro l’Ucraina è stato condotto in risposta a presunti attacchi ucraini contro siti civili in territorio russo, utilizzando armi ad alta precisione a lungo raggio, inclusi missili ipersonici Kinzhal. L’obiettivo dichiarato erano le strutture del complesso militare-industriale ucraino, le infrastrutture energetiche che le supportano e le strutture portuali utilizzate per scopi militari.
La notte del 6-7 dicembre non è stata un caso isolato. Secondo il Ministero della Difesa russo, solo due giorni prima, nella notte tra il 5 e il 6 dicembre, le difese aeree russe avevano già intercettato 116 droni ucraini su territorio russo . E nella settimana precedente al 5 dicembre, le autorità russe hanno dichiarato di aver abbattuto complessivamente 1.120 droni ucraini, un numero che testimonia l’intensità crescente della guerra aerea tra i due paesi.
Impatto sulle infrastrutture civili e misure di sicurezza
L’offensiva notturna ha avuto ripercussioni immediate sulle operazioni civili in diverse regioni russe. Otto aeroporti hanno temporaneamente sospeso i voli durante la notte : Volgograd, Saratov, Vladikavkaz, Grozny, Magas, Naltschik, Orenburg e Orsk. Le restrizioni sono state gradualmente revocate nel corso della mattinata, con l’aeroporto di Saratov che ha ripreso le operazioni alle 05:56 ora di Mosca, mentre gli altri scali hanno riaperto alle 08:19. Il governatore dell’Ossezia del Nord, Sergei Menyailo, aveva segnalato l’attivazione del piano “Tappeto” nello spazio aereo della città di Mozdok, una procedura standard che comporta la chiusura dello spazio aereo e la sospensione di tutte le operazioni di volo per garantire la sicurezza.
I residenti di diverse regioni hanno ricevuto messaggi SMS dal Sistema di Allarme di Emergenza russo (RSCHS) che avvisavano di una possibile minaccia da droni. Nella regione di Saratov, i primi avvisi sono arrivati alle 04:07 del mattino, seguiti da un secondo messaggio alle 05:27. I messaggi di revoca della minaccia sono stati inviati alle 07:11 e nuovamente alle 09:07, a dimostrazione della durata prolungata dell’operazione di difesa aerea.
Le conseguenze strategiche e il quadro più ampio
Questo scambio di attacchi aerei su vasta scala si inserisce in un momento delicato per il conflitto russo-ucraino. Gli attacchi sono avvenuti mentre erano in corso colloqui tra funzionari statunitensi e ucraini volti ad individuare un quadro di sicurezza per l’Ucraina post-bellica. Le due parti hanno dichiarato di aver fatto progressi su un possibile accordo di sicurezza, ma hanno anche sottolineato che qualsiasi “reale progresso verso un accordo” dipenderà dalla “disponibilità della Russia a mostrare un serio impegno per un passo a lungo termine”.
L’intensificazione degli attacchi da entrambe le parti suggerisce un tentativo di migliorare le rispettive posizioni negoziali attraverso dimostrazioni di forza militare. La capacità ucraina di condurre attacchi con droni a distanze sempre maggiori all’interno del territorio russo rappresenta un importante strumento di pressione su Mosca, dimostrando che nessuna area della Russia può considerarsi completamente al sicuro. I droni ucraini, in particolare il modello Liutyi, hanno dimostrato una gitata operativa che supera i 1.000 chilometri dichiarati ufficiali, con colpi confermati fino a 2.000 chilometri all’interno del territorio russo.
Dal canto suo, la Russia continua a sferrare attacchi massicci contro l’infrastruttura energetica ucraina , cercando di privare i civili di accesso al riscaldamento, all’elettricità e all’acqua corrente per il quarto inverno consecutivo, in quella che i funzionari ucraini si sono lanciati una strategia di “militarizzazione del freddo”. Gli attacchi russi del 5-6 dicembre hanno colpito impianti di generazione, distribuzione e trasmissione elettrica nelle regioni di Kiev, Chernihiv, Leopoli, Odessa, Zaporizhzhia, Dnipropetrovsk, Mykolaiv e Kharkiv, causando interruzioni di corrente diffusa e costringendo le centrali nucleari ucraine a ridurre la loro capacità di generazione elettrica.
Le dichiarazioni ufficiali e la propaganda
Le autorità russe raramente rivelano l’intera portata dei danni causa dagli attacchi aerei ucraini e quasi mai riconoscono attacchi contro siti militari. La narrazione ufficiale tende a minimizzare l’impatto degli attacchi ucraini, spesso attribuendo i danni a “detriti di droni abbattuti” piuttosto che ad impatti diretti. Questa strategia comunicativa è volta a mantenere l’immagine di una difesa aerea efficiente e a limitare l’impatto psicologico sulla popolazione civile.
Tuttavia, le testimonianze dei residenti locali e le informazioni diffuse attraverso canali Telegram indipendenti spesso dipingono un quadro più complesso, con segnalazioni di esplosioni, incendi e danni a infrastrutture civili che non sempre coincidono con le versioni ufficiali. La discrepanza tra comunicazioni ufficiali e resoconti sul campo rende difficile una valutazione accurata dell’efficacia reale degli attacchi ucraini e delle capacità difensive russe.
L’escalation degli attacchi con droni rappresenta una caratteristica sempre più dominante del conflitto russo-ucraino, trasformandolo in una guerra tecnologica dove la capacità di colpire obiettivi strategici in profondità nel territorio nemico diventa determinante quanto il controllo della linea del fronte. Mentre entrambe le parti continuano a sviluppare e impiegare sistemi di droni sempre più sofisticati, la popolazione civile di entrambi i paesi si trova a dover affrontare le conseguenze di questa nuova dimensione della guerra moderna, caratterizzata da attacchi notturni, allarmi aerei frequenti e la costante minaccia di interruzioni ai servizi essenziali. La notte del 6-7 dicembre 2025 rappresenta semplicemente l’ultimo capitolo di questa escalation, ma difficilmente sarà l’ultimo.
Un modello ibrido che non ripristina la coscrizione, ma costruisce un sistema di mobilitazione permanente. Berlino inaugura una nuova fase strategica, ridistribuisce il peso della difesa in Europa e mette in discussione decenni di cultura pacifista.
Una legge che segna la fine di un’epoca
Quando il Bundestag ha approvato oggi la nuova legge sul servizio militare, nessun deputato ha potuto davvero fingere che si trattasse di un semplice aggiornamento amministrativo. Il voto segna invece una cesura storica. La Germania, dal 2011 priva di una leva obbligatoria e convinta di poter delegare sicurezza e deterrenza alla NATO e al proprio peso economico, ammette ora che quell’intero paradigma non è più sostenibile.
La riforma non reintroduce formalmente la coscrizione, ma la sfiora, la evoca e la prepara. Impone ai giovani maschi la registrazione obbligatoria e, in prospettiva, visite mediche che costruiranno un archivio nazionale di idoneità militare. L’arruolamento resta volontario, ma lo Stato ne circonda il perimetro con incentivi e meccanismi di selezione che rendono la distinzione tra “volontariato” e “obbligo” sempre più sottile. Questo modello ibrido ha un nome preciso nella terminologia militare tedesca: un sistema di mobilitazione su necessità. È un concetto che la Germania non utilizzava più da un quarto di secolo e che oggi ritorna come elemento centrale della sua dottrina strategica.
Il ritorno della strategia nella politica tedesca
La legge nasce da un presupposto: la Germania non può più permettersi un esercito sottodimensionato. Con circa 180.000 effettivi attivi, la Bundeswehr non è in grado di assumere il ruolo centrale che Berlino si è impegnata a ricoprire all’interno della NATO e dell’Unione Europea.
Il ministro della Difesa Boris Pistorius ha esplicitato questa necessità con un linguaggio insolitamente diretto per la politica tedesca. Ha parlato di “un mondo che non aspetta”, di un’Europa che dipende dalla “capacità della Germania di proteggere il proprio territorio e contribuire a quello dei partner”, di un’epoca in cui l’impreparazione non è più un’opzione.
L’ambizione è chiara: trasformare la Bundeswehr nella principale forza convenzionale del continente, capace di affiancare le potenze nucleari europee e sostenere un eventuale conflitto ad alta intensità per un periodo prolungato. È un cambiamento radicale non solo per l’apparato militare, ma per la cultura politica tedesca, dove la memoria del militarismo novecentesco ha per decenni limitato qualsiasi tentativo di ampliamento degli organici.
La spinta delle crisi europee
La riforma non arriva in un vuoto geopolitico, è il prodotto diretto dell’accelerazione di instabilità che ha colpito l’Europa negli ultimi quattro anni. La guerra in Ucraina, il deterioramento delle relazioni con la Russia, la pressione su rotte marittime critiche e il rischio, più volte evocato dai servizi di intelligence, che conflitti regionali possano estendersi oltre i confini attuali, hanno messo Berlino davanti a una realtà: la pace non è più garantita dal semplice equilibrio economico. Parallelamente, la Germania si trova in un continente dove diversi vicini stanno già ampliando la loro capacità militare.
I Paesi baltici hanno adottato modelli di coscrizione attiva. La Finlandia mantiene una forza di riserva enorme, perfettamente addestrata e integrata. La Polonia, oggi tra le potenze militari europee emergenti, punta a diventare la forza armata convenzionale più grande dell’UE. In questo scenario, la Germania non può più essere la potenza economica che delega la guerra agli altri. La riforma votata oggi è una risposta diretta alla percezione di vulnerabilità che attraversa la società tedesca dopo la Zeitenwende, il “cambiamento epocale” annunciato dal cancelliere Olaf Scholz nel 2022 e rimasto finora incompiuto sul piano pratico.
Registrazioni obbligatorie e volontariato espanso: il modello del nuovo servizio
Il cuore della legge consiste in un sistema che distingue tra obblighi di registrazione e servizio volontario.
Tutti i maschi diciottenni dovranno registrarsi e compilare un questionario nazionale che valuterà idoneità fisica, competenze, motivazione e attitudini. Le donne potranno partecipare, ma solo su base volontaria. Dal 2027, una quota di questi giovani dovrà sottoporsi a visite mediche obbligatorie. Non equivale a essere arruolati, ma rappresenta un passo verso un archivio demografico-militare che la Germania non possedeva più da anni. L’arruolamento vero e proprio resta volontario.
Ma il governo ha previsto un pacchetto di incentivi finanziari e sociali che mira a trasformare il servizio in un percorso competitivo: stipendi più elevati, accesso facilitato ad alloggi agevolati, riconoscimento per studi universitari e carriere pubbliche, programmi di formazione e certificazione.
Questo ecosistema crea una dinamica nuova: il servizio militare diventa una delle opzioni più appetibili per giovani che affrontano un mercato del lavoro complesso, un costo della vita crescente e un sistema educativo sotto pressione.
La controversa “leva in caso di necessità”
Il punto più discusso della legge, sia in Parlamento sia nell’opinione pubblica, è la clausola sulla Bedarfswehrpflicht: la possibilità che, qualora gli obiettivi di reclutamento non vengano raggiunti, il Parlamento possa votare una reintroduzione della leva obbligatoria. Non è una mobilitazione automatica né un meccanismo nascosto ma una scelta politica esplicita che richiede una nuova legge e un nuovo voto.
La sola presenza di questa clausola ha riaperto un dibattito che sembrava chiuso da più di dieci anni. Molti giovani percepiscono la riforma come una leva silenziosa, un sistema che costruisce tutto ciò che serve per un’eventuale coscrizione, lasciando aperta la porta alla sua riattivazione.
La società tedesca tra sostegno e inquietudine
La riforma divide profondamente l’opinione pubblica. Una parte della popolazione riconosce la necessità di rafforzare la difesa nazionale, convinta che la Germania debba assumersi un ruolo proporzionato alla sua potenza economica. Ma una parte altrettanto consistente teme che la riforma rappresenti un passo verso un militarismo che il Paese ha faticato decenni a superare. Le manifestazioni studentesche davanti al Bundestag, le proteste coordinate sui social e la mobilitazione di associazioni civiche raccontano un disagio generazionale: un’inquietudine verso uno Stato che torna a chiedere ai giovani il corpo, non soltanto il consenso fiscale.
Il conflittoculturale sarà probabilmente uno degli elementi determinanti del futuro della legge, la cui applicazione dipenderà anche dalla capacità del governo di trasformare la narrativa difensiva in un progetto civile condiviso.
Un segnale alla NATO e una sfida all’Europa
Sul piano internazionale, la riforma è stata osservata con grande attenzione. La NATO ha accolto positivamente il passo tedesco, interpretandolo come un segnale che Berlino è finalmente disposta a trasformare la sua potenza economica in contributo militare reale.
L’Unione Europea, però, guarda con sentimenti più ambivalenti. Una Germania dotata di forze armate più imponenti potrebbe riequilibrare l’assetto difensivo europeo, ma rischia anche di creare nuove tensioni politiche, soprattutto in una fase in cui molti partner temono il predominio tedesco nelle politiche industriali, energetiche e ora militari. È palese che la Germania non vuole più essere soltanto un motore economico. Vuole essere un attore strategico con peso militare e capacità autonoma.
Un futuro che dipende dalla partecipazione dei giovani
La grande domanda resta aperta: il sistema funzionerà? Tutto dipenderà dalla risposta dei giovani tedeschi. Senza una quota significativa di volontari, la riforma rischia di trasformarsi in un contenitore vuoto o, nel peggiore dei casi, nel preludio a una reintroduzione forzata della coscrizione.
Berlino si trova nel mezzo di una trasformazione profonda, la legge approvata oggi definisce un nuovo rapporto tra Stato e cittadino, tra individuo e difesa collettiva. È una legge che non ricostruisce il passato, ma inaugura un futuro in cui la pace non è più considerata scontata. E proprio per questo, nel silenzio della plenaria del Bundestag, la riforma del 2025 ha il sapore di uno spartiacque.
Energia scontata, armi strategiche, valute alternative: il ventitreesimo vertice India Russia mostra i limiti dell’isolamento di Mosca e la nuova autonomia di Nuova Delhi.
Il convoglio blindato che ha attraversato le strade ordinate di Lutyens’ Delhi non portava soltanto il presidente di una potenza sotto sanzioni. Portava la dimostrazione plastica che l’isolamento di Mosca ha un confine preciso: quello del Sud globale. L’abbraccio pubblico tra Narendra Modi e Vladimir Putin alla Hyderabad House ha mandato un messaggio che a Washington e nelle capitali europee viene letto con crescente inquietudine.Per l’Occidente è la fotografia di una crepa nel fronte delle sanzioni. Per Nuova Delhi è la conferma di una linea: l’India non si farà trascinare in blocchi contrapposti, ma userà ogni margine di manovra per difendere crescita economica, sicurezza energetica e equilibrio militare con Cina e Pakistan. Per Mosca è un successo simbolico e pratico: un partner di peso che continua a comprare petrolio, armi e tecnologia in piena guerra e nonostante le minacce di ritorsioni economiche.
Il petrolio scontato come ancora di salvezza indiana
Il cuore del vertice è stato l’energia. Dall’inizio della guerra in Ucraina, l’India è diventata uno dei principali acquirenti di greggio russo. Oggi una quota rilevante delle importazioni petrolifere indiane arriva da Mosca a prezzi scontati rispetto ai benchmark internazionali. A Nuova Delhi la narrativa ufficiale è chiara, comprare greggio russo a basso costo serve a tenere sotto controllo l’inflazione in un paese di oltre un miliardo e quattrocento milioni di abitanti, dove il prezzo del carburante si traduce immediatamente in consenso o malcontento politico.
Allo stesso tempo, affermano i diplomatici indiani, questa scelta evita ulteriori shock sui mercati energetici globali che colpirebbero anche le economie occidentali. Ma dietro lo slogan della “stabilità globale” si nasconde una questione tecnica decisiva. Il commercio bilaterale ha toccato una cifra record, vicina ai settanta miliardi di dollari. La quasi totalità è rappresentata da esportazioni russe verso l’India, mentre l’export indiano verso la Russia rimane relativamente modesto. Nelle banche indiane si è accumulata così una montagna di rupie riconducibili a soggetti russi che Mosca fatica a spendere o convertire a causa della limitata convertibilità internazionale della valuta indiana.
La trappola della rupia e l’architettura finanziaria parallela
Il vertice ha affrontato proprio questo nodo. Le due delegazioni hanno discusso una via d’uscita che non passi né dal dollaro né dai circuiti tradizionali di pagamento. L’idea che emerge è quella di trasformare la “trappola della rupia” in leva strategica: usare i fondi accumulati non per ulteriori importazioni, ma per investimenti diretti sul suolo indiano. Si parla di partecipazioni russe in infrastrutture portuali, cantieri navali civili, logistica, energia e in una quota selezionata del mercato finanziario indiano.
È un modello che mescola compensazione commerciale e investimento produttivo, aggirando gli ostacoli delle sanzioni sul sistema bancario russo. In parallelo, continua a svilupparsi l’uso di valute di paesi terzi per alcune transazioni, in particolare valute del Golfo, come strumento di intermediazione. Il messaggio politico è chiaro. Se l’accesso al sistema finanziario centrato sul dollaro diventa un’arma, India e Russia rispondono costruendo un’architettura di pagamenti e investimenti parzialmente separata, in cui le risorse energetiche si scambiano con capacità industriali e asset locali. Non è ancora un sistema alternativo compiuto, ma è un laboratorio reale di de dollarizzazione applicata agli scambi fra grandi economie.
Difesa e co-produzione: la dipendenza che diventa patto industriale
Il secondo pilastro del vertice riguarda la difesa. La struttura delle forze armate indiane resta fortemente legata alla tecnologia russa e sovietica. Una larga parte dei caccia, dei carri armati e dei sistemi di difesa aerea in servizio in India si basa su piattaforme progettate e prodotte a Mosca. Per questo una rottura netta con la Russia non è tecnicamente possibile nel breve periodo. Significherebbe immobilizzare flotte aeree e mezzi corazzati lungo frontiere altamente sensibili con la Cina sull’Himalaya e con il Pakistan lungo il confine occidentale. A Nuova Delhi, Modi ha chiesto e ottenuto rassicurazioni sulle consegne dei sistemi di difesa aerea S 400, che avevano subito ritardi significativi a causa delle priorità belliche russe. Allo stesso tempo, la parte indiana ha spinto con forza per ampliare la co produzione: dall’impianto già operativo che assembla fucili d’assalto russi sul territorio indiano, fino alla produzione locale di pezzi di ricambio per i caccia di fabbricazione russa e per i carri principali in dotazione all’esercito. Questa evoluzione ha due effetti.
Da un lato consente alla Russia di mantenere un grande mercato senza dover gestire integralmente logistica e manutenzione dall’interno del proprio territorio. Dall’altro permette all’India di ridurre la propria vulnerabilità a eventuali blocchi futuri, acquisendo capacità industriali e margine di autonomia decisionale nel ciclo di vita dei propri sistemi d’arma.
Cosa ne pensa il mondo: consensi silenziosi, irritazione esplicita
Intorno all’asse Nuova Delhi Mosca le reazioni sono divergenti, negli Stati Uniti ad esempio il vertice viene osservato con sospetto e irritazione. L’amministrazione ha fatto filtrare messaggi di forte preoccupazione per il ruolo delle raffinerie indiane, accusate di importare greggio russo, trasformarlo in prodotti raffinati e rivenderlo sui mercati internazionali. Sullo sfondo c’è la minaccia di dazi su settori chiave dell’export indiano se Nuova Delhi non dovesse mostrare una riduzione della sua dipendenza energetica da Mosca o un maggiore allineamento alla politica di pressione sulle entrate russe.
In Europa prevale un disagio meno rumoroso ma profondo. Per molte capitali, l’India è partner necessario su clima, tecnologia e Indopacifico, ma al tempo stesso contribuisce a mantenere in vita la capacità finanziaria e militare di Mosca. La visita di Putin, con tutti gli onori dovuti a un capo di stato, viene letta come un segnale che il “fronte democratico” contro l’aggressione russa in Ucraina è molto più frastagliato di quanto suggeriscano i comunicati ufficiali. Nel Sud globale il quadro è ancora diverso.
In parte del mondo africano e latinoamericano il vertice viene visto come la conferma che esiste spazio per relazioni multiple, anche quando l’Occidente definisce un paese come paria. India e Russia vengono osservate come due attori che cercano di massimizzare i propri interessi sfruttando le fratture dell’ordine internazionale, con una logica che a molte capitali del Sud appare familiare.
La scommessa di modi: autonomia strategica o equilibrio instabile
Per Modi, la posta in gioco va oltre le ventiquattr’ore di un vertice. L’India rivendica da anni il principio di “autonomia strategica”, rifiutando di essere incasellata in alleanze rigide. Da un lato, Nuova Delhi partecipa con convinzione ai formati che la avvicinano agli Stati Uniti e ai loro alleati, in particolare nel quadrilatero indo pacifico e nella cooperazione tecnologica avanzata. Dall’altro mantiene relazioni dense con Mosca, che è al tempo stesso storico fornitore di armi, partner energetico e attore chiave nei meccanismi di cooperazione tra economie emergenti. Il vertice con Putin codifica questa linea in modo esplicito.
L’India comunica di non voler essere trattata come semplice alleato junior di alcuna potenza, né occidentale né eurasiatica. Vuole essere un polo in sé, con la libertà di stringere accordi energetici e militari con chi ritiene utile, pur continuando a dialogare con Washington su sicurezza marittima, tecnologia digitale e contrasto alla Cina. Il rischio è evidente.
Se le pressioni statunitensi dovessero trasformarsi in misure concrete, come dazi su prodotto finito o restrizioni alla cooperazione tecnologica, la crescita indiana potrebbe incontrare ostacoli significativi proprio nel momento in cui il paese punta a consolidare il suo ruolo di hub manifatturiero alternativo alla Cina.
Perché il vertice di nuova delhi conta oltre india e Russia
L’incontro di Nuova Delhi non chiude nessuna guerra, non firma trattati storici, non annuncia alleanze formali. Eppure è uno degli appuntamenti più rivelatori del 2025.Mostra che l’uso sistematico di sanzioni finanziarie e commerciali ha limiti strutturali quando si scontra con gli interessi vitali di grandi economie non occidentali. Indica che il tentativo di recidere i legami tra Mosca e il resto del mondo funziona solo in parte. Evidenzia che una potenza intermedia come l’India può trasformare la propria posizione in un vantaggio negoziale con tutti gli attori in campo, accettando un livello di ambiguità che per l’Occidente è sempre più difficile tollerare.
In ultima analisi, il vertice Modi Putin restituisce l’immagine di un sistema internazionale dove nessuna capitale può più dare per scontata la fedeltà di un partner. Ogni relazione, anche quella apparentemente più solida, è soggetta a rinegoziazioni continue, dettate da energia, demografia, sicurezza e tecnologia. In questo mosaico in movimento, Nuova Delhi ha scelto di non farsi trascinare, ma di guidare il proprio percorso, anche a costo di irritare più di una capitale occidentale.
Mosca, per ora, ne è il principale beneficiario. L’esito di lungo periodo di questa scommessa, invece, è ancora tutto da scrivere.
Il video integrale del 2 settembre, mostrato ai comitati del Congresso, riapre la frattura morale, già al centro della cronaca, sul programma di uccisioni mirate contro presunti narcotrafficanti. Mentre lo sdegno cresce, l’amministrazione Trump annuncia un altro attacco nel Pacifico. La linea rossa del diritto internazionale sembra ormai superata e non si tratta più solo di Washington e Caracas ma di diritto internazionale e di presa di posizione che potrebbe sconfinare in ripercussioni pericolose.
La scena è meno di un minuto, si vedono due uomini, a torso nudo, aggrappati allo scafo rovesciato di una piccola imbarcazione. Nessun motore funzionante, nessuna arma visibile, nessuna possibilità di manovra o fuga, ma anzi acqua alle ginocchia e fumo sullo sfondo. Secondo una parte dei legislatori che hanno visionato il filmato integrale dell’attacco del 2 settembre, mostrato a porte chiuse dal comando militare, quei due uomini erano hors de combat, cioè incapaci di combattere, e dunque protetti dalle norme più basilari del diritto internazionale applicabile sia in guerra sia in qualsiasi operazione armata extraterritoriale condotta da uno Stato.
Eppure, pochi secondi dopo, il video mostra un altro missile che colpisce ciò che resta dell’imbarcazione e quando il fumo si dirada, non rimane nulla, né i superstiti né il relitto. La visione integrale del filmato, promessa da settimane ma resa disponibile solo ai comitati intelligence e difesa, ha provocato quella che un deputato democratico ha definito “una delle cose più inquietanti mai viste in anni di servizio pubblico”. Mentre cresce lo sdegno assieme al malumore e perplessità generale per la possibilità che siano state violate norme essenziali sul trattamento dei sopravvissuti, il Pentagono ha annunciato un nuovo attacco, questa volta nell’Oceano Pacifico orientale, che ha ucciso altri quattro uomini.
Lo ha fatto il giorno stesso in cui il Congresso cercava di comprendere se il precedente attacco rappresentasse una tragedia o un crimine. L’amministrazione non sembra intenzionata a rallentare.
Un’altra esplosione, un altro video, un altro comunicato militare
Il nuovo attacco, confermato dal comando meridionale, è stato presentato con la stessa formula: la barca colpita sarebbe stata “operata da un’organizzazione terroristica designata” e “caricata di narcotici”. Il video diffuso mostra una piccola imbarcazione in movimento, poi una deflagrazione improvvisa, una colonna di fumo, e infine i resti in fiamme. Con questa operazione, il numero totale delle uccisioni dall’inizio della campagna, iniziata a settembre, sale ad almeno 87 persone, distribuite tra Caraibi e Pacifico.
La dottrina dell’amministrazione è chiara: le reti di narcotraffico sono considerate “forze ostili” e dunque legittimi bersagli militari.La comunità giuridica internazionale, però, non è d’accordo. Molti esperti ricordano che:non esiste alcun armed conflict legalmente riconosciuto tra gli Stati Uniti e i presunti narcotrafficanti,nessuna autorizzazione all’uso della forza è stata approvata dal Congresso, la nozione di “narco-terrorismo” non crea automaticamente uno status di combattente, il principio hors de combat rende illecito colpire chi è ferito, incapace di reagire o naufrago.
E il video del 2 settembre sembra mostrare proprio questo: due naufraghi, non due combattenti.
Il momento di rottura: il video che divide Washington
La rivelazione non sta tanto nell’attacco in sé, già contestato da settembre, ma nella dinamica interna alla capitale americana. Il video è stato mostrato per la prima volta integralmente ai leader e le reazioni sono state immediatamente riprese quasi in tempo reale dalla stampa locale. Un deputato democratico lo ha definito “la prova che gli Stati Uniti hanno attaccato sopravvissuti naufraghi”. Un senatore repubblicano ha invece sostenuto che le immagini mostrerebbero “due uomini che tentano di rovesciare la barca per restare in combattimento”.
Due interpretazioni incompatibili. Due letture politicamente determinanti. Eppure giuristi indipendenti lo hanno chiarito, anche se gli uomini fossero stati combattenti, nel momento in cui sono naufraghi e incapaci di difendersi, diventano automaticamente hors de combat. Colpirli, in tale condizione, “è manifestamente illegale”. Lo hanno detto ex consiglieri legali del Dipartimento di Stato e professori di diritto internazionale. Lo hanno detto anche esperti di operazioni militari: persino nei conflitti più duri, un naufrago non può essere considerato un bersaglio.
Il Pentagono, tuttavia, insiste: “nebbia della guerra”, “assenza di certezza in tempo reale”, “minaccia potenziale di rinforzi ostili”. Ma l’espressione “nebbia della guerra” non cancella la norma; semmai la conferma. Perché la regola nasce proprio per proteggere chi, in quello stato di vulnerabilità, non può più nemmeno essere considerato un combattente.
La spaccatura politica: un’America divisa tra giustificazione e orrore
Le reazioni nel Congresso sono state l’istantanea più nitida della crisi morale in atto.Da una parte, chi sostiene che la campagna sia necessaria per fermare il flusso di droghe verso il territorio americano.Dall’altra, chi vede una deriva verso una militarizzazione extragiudiziale, mai autorizzata, mai deliberata, mai discussa apertamente.
Un deputato ha dichiarato che, dopo aver visto il video, “qualunque cittadino americano riconoscerebbe un attacco contro naufraghi inermi”.Un senatore repubblicano ha invece insistito che i sopravvissuti erano ancora “una minaccia attiva”. Eppure, la stessa amministrazione ha ammesso di non essere certa della presenza di narcotici né dell’effettivo status degli uomini a bordo. Non è stata fornita alcuna prova pubblica che le imbarcazioni fossero collegate a organizzazioni terroristiche.
Né è stato chiarito perché gli Stati Uniti, che per decenni hanno intercettato e arrestato presunti trafficanti in mare, improvvisamente abbiano scelto la dottrina dello strike letale immediato. Questa è la questione centrale per molti analisti perché l’America ha rinunciato a catturare, raccogliere prove, processare? Perché ha scelto la via delle esecuzioni militari extraterritoriali?
L’ombra del Venezuela: una campagna che si espande
Il nuovo attacco arriva in un contesto altamente infiammabile, nelle ultime settimane gli Stati Uniti hanno dispiegato la più grande portaerei del pianeta, posizionato F-35 e migliaia di militari nel Mar dei Caraibi, intensificato le missioni di sorveglianza, minacciato esplicitamente attacchi “sul territorio” venezuelano. Il Presidente venezuelano accusa Washington di voler “fabbricare una giustificazione militare”.Le truppe venezuelane sono state mobilitate lungo la costa.La popolazione è divisa tra paura e speranza di un possibile cambiamento politico. I sondaggi interni mostrano un dato cruciale dove emerge che la maggioranza dei venezuelani non vuole un intervento militare straniero. Ma una minoranza significativa vede l’escalation americana come una possibile via d’uscita dalla stagnazione politica. Questo rende il quadro ancora più pericoloso. Una campagna militare basata su una dottrina contestata si innesta su una regione già saturata di tensione economica, migrazioni, sanzioni, collasso infrastrutturale. L’escalation rischia di diventare autopropulsiva.
La questione centrale: può uno Stato dichiarare guerra al crimine?
Il cuore del dibattito, arrivati a questo punto, non riguarda solo la legalità dei singoli attacchi ma la dottrina complessiva. L’amministrazione sostiene che si tratta di una guerra contro “organizzazioni narcoterroristiche” e che quindi valgono le regole d’ingaggio del diritto bellico. I giuristi replicano che non si può dichiarare guerra a un reato, non si può trasformare un traffico illecito in un conflitto armato, non si può considerare un sospetto trafficante un combattente, non si possono colpire naufraghi, non si può eliminare il requisito del processo e della prova.
Il principio hors de combat è, in questo senso, una litmus test, un confine invalicabile. Un limite morale prima ancora che giuridico, non è propriamente una norma tecnica ma rientra nel principio del diritto internazionale e si tratta del punto in cui l’umanità, anche nel conflitto, decide di non oltrepassare se stessa. E se il filmato mostrato ai legislatori statunitensi immortalasse davvero un attacco contro naufraghi incapaci di reagire, l’intero impianto dell’ amministrazione Trump potrebbe risentire questa volta in maniera seria.
La reazione internazionale: silenzi, preoccupazioni, prime condanne
L’ attenzione su questa vicenda è alta e le opinioni discordanti stanno occupando la stampa di tutto il mondo. Tra le organizzazioni per i diritti umani, i segnali sono chiari e evidenziano un potenziale omicidio extragiudiziale, possibile violazione del diritto umanitario, rischio di precedente operativo pericolosissimo. Perché se uno Stato può annunciare unilateralmente che è “in guerra” contro il traffico di droga, e dunque può eliminare sospetti trafficanti in mare aperto senza arresto né prove, allora cosa impedisce ad altri Stati di fare lo stesso?
Cosa impedisce l’uso della forza contro “criminalità interna”? Cosa impedisce l’eliminazione di sospetti, senza processo, ovunque nel mondo? Gli esperti avvertono: la linea rossa si sta spostando.
L’impasse morale: una democrazia può accettare ciò che ha visto?
Mentre il Pentagono difende la campagna, e mentre la Casa Bianca insiste sulla necessità di “proteggere il popolo americano”, l’effetto maggiore non si misura all’estero, ma dentro gli Stati Uniti. Perché la domanda che ora attraversa Washington è di quelle che una democrazia teme più di tutte: se i cittadini vedessero l’intero video, lo accetterebbero?Uno dei legislatori che lo ha visionato ha detto: “Qualunque americano riconoscerebbe un attacco contro naufraghi.” Questa frase contiene il vero conflitto, non tra Washington e Caracas, non tra legislatori repubblicani e democratici. Non tra giuristi e militari. Il vero conflitto è tra ciò che una democrazia dice di essere e ciò che una democrazia fa fuori dai propri confini.
La conclusione che nessuno può evitare Il principio hors de combat perché non è un tecnicismo da cui ci si può svincolare velocemente ma è la misura minima della nostra umanità condivisa, del peso morale che si dà alla vita altrui e soprattutto un auto stop per non trasformarci in qualcosa che si combatte da sempre. È ciò che separa una operazione militare da una esecuzione. È ciò che distingue un conflitto armato da una caccia all’uomo. Finché gli Stati Uniti non affronteranno apertamente la domanda centrale, abbiamo ucciso naufraghi? Ogni nuovo attacco, ogni nuova esplosione, ogni nuovo video diffuso, sarà solo un tassello in una storia più grande: quella di una potenza che rischia di smarrire i propri limiti proprio mentre cerca di affermare la propria forza. E la storia insegna che nessuna democrazia può permetterselo a lungo.
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