Le perquisizioni contro il capo di gabinetto di Zelenskyy aprono una nuova fase politica nel mezzo del conflitto. Mentre i partner occidentali chiedono trasparenza e Mosca osserva da lontano, l’Ucraina affronta una doppia sfida: vincere sul fronte militare e resistere a un test interno di credibilità istituzionale.
Un allarme inatteso nel cuore del potere
La mattina del 28 novembre 2025 ha segnato una svolta imprevista nella già complessa situazione ucraina. Gli investigatori delle agenzie anticorruzione NABU e SAPO hanno fatto irruzione nella residenza privata di Andriy Yermak, il capo di gabinetto del presidente Zelenskyy e uno degli uomini più influenti del Paese. La notizia, confermata immediatamente da Reuters e rilanciata in poche ore dai principali giornali internazionali, è stata un fulmine politico in un momento in cui la leadership ucraina stava tentando di presentarsi compatta nel dialogo con Stati Uniti ed Europa sulle prospettive di un possibile piano di pace.
Yermak ha riconosciuto pubblicamente la perquisizione, dichiarando cooperazione piena. Ma la trasparenza iniziale non ha calmato il dibattito.
La domanda centrale riguarda la natura dell’indagine, che secondo fonti ufficiali rientra nel gigantesco caso Energoatom, lo scandalo da cento milioni di dollari che coinvolge appalti, contratti di fornitura e reti di intermediari sospettati di avere drenato fondi destinati al settore energetico e alla gestione delle emergenze infrastrutturali.La perquisizione a un livello così alto dello Stato è qualcosa che in Ucraina non accadeva da anni. E accade proprio ora, nel momento in cui Kyiv tenta di mostrare al mondo la propria maturità istituzionale.
La guerra come sfondo e amplificatore
Il contesto in cui esplode questo scandalo rende tutto ancora più delicato. Da un lato l’esercito ucraino combatte su un fronte vastissimo, con linee logistiche sotto pressione e continue richieste di aiuti a Stati Uniti ed Europa. Dall’altro la questione dei negoziati è tornata centrale, con il Guardian che ha riportato nuove dichiarazioni del Cremlino sulla possibilità di un cessate il fuoco solo in presenza di concessioni territoriali da parte di Kyiv.
In questo scenario complesso, l’Ucraina deve convincere gli alleati che gli enormi flussi finanziari inviati per sostenere la guerra e la ricostruzione non rischiano di evaporare nel sistema corruttivo ereditato da decenni di instabilità politica. È un compito gigantesco. E l’indagine su Energoatom, oltre a colpire simbolicamente la gestione del settore più strategico dell’economia ucraina, segnala che lo Stato è disposto a procedere anche contro i propri vertici.
Molti osservatori internazionali hanno letto questa operazione come un segno di forza istituzionale. Ma la forza, in tempi di guerra totale, è sempre fragile. Ciò che può essere visto come coraggio in Occidente rischia di diventare un fattore di destabilizzazione interna se non verrà gestito con rigore, trasparenza e continuità.
Il nodo Energoatom e la lunga scia dei sospetti
Lo scandalo Energoatom non nasce oggi. L’inchiesta, iniziata più di un anno fa e denominata Operation Midas, aveva già prodotto decine di perquisizioni, intercettazioni e accuse formali contro dirigenti e intermediari. Il quadro tracciato dagli inquirenti descrive un sistema parallelo che sfruttava le vulnerabilità del settore energetico in pieno conflitto. La guerra ha amplificato la fragilità della rete elettrica, obbligando lo Stato a correre per ottenere generatori, forniture e investimenti esteri.
Le emergenze logistiche e la necessità di risposte rapide hanno aperto enormi spazi ai corruttori.Secondo NABU, una parte consistente dei fondi destinati all’emergenza energetica sarebbe stata dirottata attraverso società di copertura, fornitori fantasma e contratti privi di reale giustificazione tecnica. La cifra citata, cento milioni di dollari, non è casuale. Rappresenta un simbolo drammatico di ciò che accade quando un Paese in guerra si trova a dover affrontare i propri punti deboli interni mentre fronteggia un nemico esterno.
Il coinvolgimento indiretto dell’ufficio presidenziale non è ancora provato. Al momento Yermak non risulta formalmente accusato, ma la perquisizione è un segnale che le agenzie vogliono andare fino in fondo, anche se questo significa toccare il cuore del potere politico.
Il significato politico della perquisizione
Che Kyiv avesse un problema di corruzione sistemica è noto da tempo. È una parte della storia dello Stato post sovietico. Ma la novità è che ora questa battaglia non può più essere rimandata. La perquisizione contro Yermak rappresenta un messaggio preciso rivolto a tre pubblici differenti.Il primo pubblico è interno. La società ucraina, provata dalla guerra e dalle difficoltà economiche, ha bisogno di vedere che le élite non sono intoccabili. L’ingiustizia interna, in un periodo di sacrifici enormi, sarebbe un veleno politico.
Il secondo pubblico è quello occidentale. Stati Uniti ed Europa chiedono trasparenza come condizione per continuare a sostenere il Paese. Senza progressi convincenti nella lotta alla corruzione, i flussi di aiuti rischiano di essere messi in discussione.Il terzo pubblico è Mosca, che osserva. Ogni fragilità istituzionale ucraina diventa materiale per la propaganda russa. Ogni segnale di pulizia interna può essere usato, al contrario, per mostrare che lo Stato ucraino è capace di mantenere l’ordine anche sotto attacco.
La reazione del governo e la battaglia per la credibilità
Zelenskyy ha sempre presentato la lotta alla corruzione come parte centrale della sua presidenza. Prima della guerra aveva lanciato campagne simboliche contro oligarchi e sistemi clientelari. Ora è chiamato a dimostrare che quel messaggio vale anche nei momenti più critici.
La perquisizione a uno dei suoi collaboratori più stretti potrebbe essere interpretata come un colpo politico devastante. Ma potrebbe anche trasformarsi in un segnale di forza, se gestita con equilibrio. L’importante è che non si trasformi in un braccio di ferro interno tra istituzioni anticorruzione e potere esecutivo.La credibilità dello Stato è in gioco. La trasparenza non è una questione morale, ma strategica. In un Paese che dipende dagli aiuti internazionali, la capacità di dimostrare rigore amministrativo vale quanto un successo militare.
Il peso internazionale della vicenda
La tempistica dell’operazione anticorruzione non passa inosservata. In questi stessi giorni Stati Uniti ed Europa hanno intensificato la pressione su Kyiv per valutare forme di compromesso diplomatico con Mosca. Il segnale inviato dal Cremlino, secondo cui un dialogo sarebbe possibile solo se l’Ucraina riconoscesse la perdita dei territori, ha riacceso un confronto internazionale assai teso.
In questo contesto, l’indagine su Yermak rischia di avere un impatto geopolitico indirettissimo ma reale. Gli alleati vogliono una leadership stabile e credibile, in grado di prendere decisioni difficili e di garantire una continuità istituzionale. Uno scandalo così sensibile potrebbe diventare un ostacolo ai negoziati o al contrario un incentivo a chiudere rapidamente le controversie interne.
La guerra e le riforme, in Ucraina, sono destinate a procedere insieme. Ed è proprio questa sovrapposizione che rende il momento presente straordinariamente delicato.
Che cosa rappresenta davvero questo scandalo
La perquisizione a Yermak è un punto di svolta. Non per ciò che accade oggi, ma per ciò che può accadere domani.Se l’indagine prosegue con trasparenza, indipendenza e rigore, l’Ucraina può rafforzare la propria immagine internazionale e la fiducia dei cittadini nel proprio Stato. Può dimostrare che lo Stato di diritto non si sospende neppure sotto i bombardamenti.Se invece l’inchiesta diventa uno strumento politico o se finisce soffocata dai giochi di potere, il danno sarà enorme. La percezione esterna potrebbe indebolirsi.
La coesione interna potrebbe frantumarsi. E il Paese si troverebbe a combattere due guerre insieme: una contro la Russia e una contro se stesso.Oggi l’Ucraina è nel mezzo di una fase decisiva. L’esito di questa inchiesta non riguarda solo Yermak o il governo. Riguarda la credibilità dello Stato, la sua capacità di modernizzarsi, la fiducia degli alleati e la possibilità di continuare a resistere non solo militarmente, ma politicamente e moralmente.
Nel suo intervento di fine novembre a Bishkek, il presidente russo rilancia la retorica, ormai ben nota, della resa territoriale come premessa di ogni trattato. Dietro la cortina diplomatica si muovono eserciti, interessi energetici e una partita geopolitica con l’Occidente tutta da giocare.
I segnali di apertura… con condizioni inaccettabili
Il 27 novembre 2025, durante un summit tra ex repubbliche sovietiche a Bishkek, Vladimir Putin ha dichiarato che il recente piano di pace elaborato dagli Stati Uniti con l’Ucraina potrebbe “formare la base di futuri accordi”. La frase, acquisita da fonti Reuters e ampiamente rilanciata dalla stampa internazionale, suona come un’apertura formale. Eppure la concessione nasconde un meccanismo di pressione: Putin ha chiarito che la cessazione delle ostilità è subordinata al ritiro immediato delle forze ucraine dai territori contestati.
Ha aggiunto che se Kyiv non accetterà questo passaggio, «la Russia realizzerà i suoi obiettivi con la forza». La leadership ucraina, e con essa molti governi europei, ha risposto con fermezza: nessuna concessione territoriale è considerata accettabile. Il presidente Volodymyr Zelenskyy ha ribadito che la sovranità nazionale e l’integrità dei confini restano non negoziabili.
La contraddizione è chiara: diplomazia e guerra scorrono parallele, in un flusso continuo di annunci politici e offensive sul terreno. Putin sembra puntare a diluire la linea del fronte con trattative che mantengano per la Russia il vantaggio della forza.
Europa e Stati Uniti sul filo: il piano riformulato e il veto del Cremlino
La bozza originale di 28 punti, elaborata sotto l’egida USA, prevedeva concessioni su territori contestati, limiti all’esercito ucraino e l’espulsione di ogni forza NATO futura. Quella versione aveva provocato allarme sia a Kyiv sia tra gli alleati europei. Dopo intense trattative, a Ginevra la proposta è stata ridiscussa: la nuova “peace framework” riduce il numero dei punti, corregge alcune richieste controverse e tenta di salvare la sovranità ucraina, introducendo garanzie di sicurezza e una revisione del compromesso territoriale.
Mosca, però, bolla la contro-proposta europea come “non costruttiva”, sostenendo che stravolge gli accordi su territorio e sicurezza. Il governo russo afferma che accetterà solo quanto contenuto nella bozza originaria o niente. Questo rifiuto esplicito mina qualsiasi speranza di mediazione multilaterale e spinge la diplomazia su un terreno fragile, dove il potenziale accordo resta legato a una resa ucraina di fatto. Un precedente pericoloso che potrebbe ridefinire il concetto europeo di sicurezza collettiva.
Dietro le dichiarazioni: la guerra continua sul campo
Le parole del Cremlino arrivano mentre sul terreno le forze russe alzano la pressione. L’avanzata nel Donbas e nelle regioni occupate mantiene il conflitto vivo nonostante i tentativi diplomatici. L’intreccio tra dichiarazioni pubbliche e mosse militari suggerisce una doppia strategia: offrire diplomaticamente una “via d’uscita”, ma conservare il vantaggio strategico con la presenza e l’espansione delle truppe.
Per l’Ucraina la situazione rimane critica: ogni concessione territoriale viene vista non solo come una perdita strategica, ma come una ferita irreversibile all’identità nazionale. E l’Occidente, diviso tra pragmatismo americano e riserva europea, mostra crepe che la diplomazia russa non manca di sfruttare.
Perché Putin rilancia ora: un calcolo geopolitico
Il tempismo non è casuale. Il presidente russo ha scelto la finestra di una diplomazia molto attiva, dopo il summit estivo ad Alaska, per riaffermare le pretese di Mosca in modo ufficiale. Dichiarare apertura e contemporaneamente imporre condizioni severe significa mantenere in mano due armi: la diplomazia e la guerra.
Nel contesto internazionale attuale, la Russia percepisce un interesse crescente degli USA a chiudere il conflitto, un’Europa esausta e un’Ucraina provata. Questo le regala un potere di negoziazione senza precedenti, perché può dettare i termini, trincerarsi dietro certi margini e stabilire le regole del gioco.Allo stesso tempo, Mosca cerca di presentarsi come garante della stabilità europea.
Offre, in cambio di riconoscimenti territoriali, garanzie che evitino un’escalation oltre i confini ucraini: un messaggio calibrato per l’Occidente, che rischia di essere attratto da un cessate il fuoco che riporti normalità e ripristini flussi economici. Così la Russia ridefinisce il concetto di pace: non come fine del conflitto, ma come trasformazione del conflitto in un ordine più favorevole agli interessi di Mosca.
Un bivio strategico per l’Europa e per l’Ucraina
L’Europa si trova allo specchio. Accettare un accordo che riconosca, anche in modo indiretto, i guadagni territoriali russi significa mettere in discussione la sicurezza collettiva, la credibilità della NATO, la tutela dei diritti di sovranità. Rifiutarlo rischia di prolungare una guerra che sta distruggendo vite, infrastrutture, tessuto sociale.Per l’Ucraina la posta in gioco non è solo strategica: è esistenziale. Ogni metro ceduto equivale a una ferita geopolitica e morale. La leadership di Kyiv lo sa, e ha già escluso compromessi territoriali che la farebbero precipitare nella delegittimazione interna.
Un accordo imposto da una parte significherebbe non una pace, ma un armistizio fragile, con una tensione sempre sotto la superficie. Ciò che serve, se serve, è una soluzione che contempli garanzie di sicurezza, tutela della sovranità e un disegno strategico europeo che non lasci spazio a revisioni future.
Conclusione parziale: la pace non basta, serve una strategia di sicurezza duratura
Le ultime dichiarazioni di Putin ridisegnano la post-guerra possibile, non come un ritorno al 1991, ma come un nuovo ordine imposto con la forza e ratificato con documenti. La partita così non è più solo tra Kiev e Mosca, ma tra la Russia e l’intero Occidente. Quindi questo fa si che le scelte europee fatte nei prossimi giorni definiranno si il confine ucraino, ma alla fine si sta parlando della tenuta stessa del sistema di sicurezza continentale.
Se l’accordo diventa possibile solo con una concessione alle condizioni russe, allora non è una pace ma si trasforma in uno strumento di resa. Se però l’Occidente alza il prezzo, con garanzie reali, presenza internazionale, deterrenza credibile, allora la proposta potrebbe essere altro, come l’inizio di un negoziato vero, nel quale la guerra perde senso e la sicurezza diventa una questione collettiva.
In gioco non c’è solo l’Ucraina. C’è un pezzo di futuro europeo.
L’inchiesta del Wall Street Journal sui fondi iraniani trasferiti a Hezbollah attraverso Dubai apre una finestra su una delle infrastrutture più sensibili della sicurezza globale: la rete finanziaria informale che permette all’Iran di aggirare sanzioni, sostenere i propri proxy militari e condizionare gli equilibri del Medio Oriente.
È difficile che un’inchiesta giornalistica riesca da sola a spostare il baricentro dell’analisi geopolitica, ma è ciò che sta accadendo con la rivelazione del Wall Street Journal secondo cui l’Iran avrebbe trasferito centinaia di milioni di dollari a Hezbollah passando attraverso Dubai e reti di cambio informali. È una notizia che va oltre il sensazionalismo e non riporta notizie ancora sconosciute ma rompe la narrativa ufficiale di apparente equilibrio nel Golfo, conferma sospetti già sollevati e mette in discussione la capacità degli Stati Uniti di contenere le reti finanziarie ostili. Dimostra sostanzialmente come la guerra contemporanea non sia un mosaico di conflitti separati, ma un’unica rete interconnessa comporta da pressioni politiche, militari, economiche e finanziarie.
Come, dove e perché adesso
Il punto non è stabilire se Teheran finanziasse Hezbollah perché questo è un dato strutturale da decenni. La notizia riguarda il “come”, il “dove” e il “perché adesso”. Il fatto che Dubai sia diventata uno snodo centrale nella finanza parallela dell’Iran non è solo sorprendente ma è qualcosa di strategicamente rivelatore e mostra la capacità di Teheran di muoversi con elasticità nella geografia economica del Golfo, sfruttando le vulnerabilità di un sistema globale costruito sulla rapidità delle transazioni, sulla deregolamentazione e sulla competizione tra hub finanziari per attrarre capitali.
Il WSJ descrive un meccanismo che si regge su una struttura estremamente agile, emergono infatti intermediari legati ai Pasdaran, compagnie di cambio, uffici di trasferimento fondi, società di import-export e, soprattutto, la Hawala, un sistema di transazione informale basato sulla fiducia e privo di tracciabilità bancaria. È un metodo antico, ma perfettamente adattabile al mondo digitale. Non ci sono bonifici, non ci sono controlli da parte della rete Swift, non ci sono dichiarazioni né protocolli antiriciclaggio. Solo un flusso di denaro che attraversa il Golfo senza lasciare impronte.
Reazione degli Emirati Arabi Uniti
La reazione degli Emirati Arabi Uniti è stata silenziosa ed è proprio questo silenzio a rendere il quadro ancora più significativo. Dubai non può permettersi di essere percepita come un facilitatore del finanziamento alle milizie, ma allo stesso tempo basa la sua forza economica sulla libertà dei movimenti finanziari, sulla discrezione bancaria, sul ruolo di piattaforma di intermediazione tra Asia, Europa e Africa. È un equilibrio fragile, che permette di attrarre investitori internazionali ma che espone gli Emirati a una penetrazione inevitabile di capitali opachi, legali o meno. La loro economia è progettata per essere un terminale globale, non un muro.
Il punto critico è proprio questo, ovvero che non c’è alcun bisogno di complicità dato che è la stessa struttura economica a rendere possibile il passaggio di fondi. Gli Emirati cercano da anni di rafforzare i controlli, ma ogni rafforzamento dei meccanismi di trasparenza è in tensione con l’attrattività del loro modello economico. È un equilibrio che non ha una soluzione semplice, e l’Iran questo lo sa perfettamente. Teheran ha modellato la sua strategia di guerra economica e di resistenza alle sanzioni non sulla forza militare, ma sulla capacità di sfruttare le intercapedini del sistema finanziario globale.
Per Hezbollah, questa rete è essenziale dato che il movimento libanese si trova nella fase più delicata degli ultimi dieci anni e ha subito perdite pesanti nello scontro con Israele, i suoi territori nel sud del Libano sono stati devastati, la sua base sociale è in crisi per il collasso economico nazionale e la crescente pressione diplomatica. Eppure rimane il proxy più sofisticato e strutturato dell’Iran. Nessuna milizia nella regione unisce capacità militare convenzionale, radicamento sociale, controllo territoriale e sofisticazione tecnologica come Hezbollah e per mantenere questa posizione, ha bisogno di liquidità costante.
Da questo punto di vista, l’inchiesta del WSJ non mostra solo un flusso di denaro: mostra una vera e propria strategia. Rivela che il regime iraniano sta accelerando il proprio sostegno, compensando la pressione internazionale con una rete di finanziamento più agile rispetto al passato. L’uso di Dubai, che non appare come un canale ovvio, è segno di adattamento, laddove le pressioni su Siria e Libano si intensificano, gli Emirati offrono una piazza che unisce efficienza logistica, densità finanziaria e opacità sufficiente.
La mancanza di conferme da parte dei media arabi e iraniani è coerente con la natura del sistema, nessun Paese dell’area può permettersi di commentare pubblicamente una vicenda che coinvolge sanzioni statunitensi, operazioni finanziarie sensibili e il principale attore militare non statale della regione. Hezbollah non commenta, il governo libanese tace, l’Iran continua la sua politica di negazione sistematica di ogni operazione di sostegno, mentre gli Emirati mantengono il loro approccio discreto, consapevoli dell’importanza di mostrarsi come alleati affidabili dell’Occidente e allo stesso tempo come piattaforma neutra per tutti.
La posizione degli Usa su Hezbollah e la vicinanza agli Emirati
La vera portata internazionale emerge però analizzando il ruolo degli Stati Uniti. Per Washington, l’inchiesta è più di un semplice campanello d’allarme perché a loro avviso è un’indicazione chiara dell’erosione progressiva della propria capacità di controllo finanziario nel Golfo. Gli Stati Uniti sanno che bloccare i flussi verso Hezbollah significa limitare il potere dell’Iran nel Levante, ridurre la capacità di Teheran di rispondere alle pressioni militari israeliane e soprattutto impedire una destabilizzazione permanente al confine nord di Israele. Ma sanno anche che la guerra finanziaria è molto più complessa di quella militare. La strategia americana degli ultimi anni è stata costruita su sanzioni, interdizioni bancarie, controlli sulle compagnie aeree e su misure punitive contro società di facciata e reti offshore.
Questa strategia ha colpito duramente l’economia iraniana, ma non l’ha fermata, dato che sono state trovate altre strade per poter continuare il loro operato.Il fatto che Teheran abbia trovato un corridoio efficace a Dubai indica un limite nella capacità di interdizione occidentale e ci segnala che la guerra economica è entrata in una nuova fase: quella in cui gli Stati non si limitano più a nascondere i propri flussi, ma li integrano in un’economia globale troppo complessa per essere controllata. In questo scenario, gli Stati Uniti saranno costretti a rivedere la propria strategia di contenimento, magari aumentando la pressione sugli Emirati, chiedendo maggiori controlli, o cercando di convincere Abu Dhabi a una collaborazione più stringente contro le reti iraniane.
Ma gli USA dovranno farlo con cautela, perché gli Emirati sono anche un partner strategico nella stabilità del Golfo, nel contenimento dello Yemen, nella presenza militare nel Mar Arabico e nelle politiche energetiche. Il quadro complessivo dimostra che la vicenda non è solo finanziaria, ma profondamente politica. Hezbollah resta un attore cardinale della strategia iraniana, e l’Iran resta un attore cardinale della competizione tra potenze. L’uso di Dubai come snodo finanziario non è un incidente, ma il risultato di un mondo in cui i confini tra economia lecita e rete informale sono sempre più labili. C’è una lezione più ampia da valutare che fa riflette su come le guerre moderne si combattono su reti, reti di droni, reti energetiche, reti diplomatiche, reti informatiche e reti finanziarie. È in queste reti che oggi si decide la stabilità del Medio Oriente.
L’assenza di reazioni ufficiali, come specificato poc’anzi, non deve essere letta come un segnale di debolezza, ma come la conferma che questa vicenda tocca uno dei nervi scoperti del sistema internazionale. I Paesi del Golfo non vogliono essere trascinati nel conflitto tra Iran e Stati Uniti, Teheran non vuole mostrare le carte che gli permettono di sopravvivere alle sanzioni e Hezbollah non intende esporre la sua dipendenza economica così come il Libano non può permettersi di aprire un fronte diplomatico ulteriore. Washington, infine, deve calibrare ogni dichiarazione per non alienare un partner indispensabile nel Golfo.
Questa storia ci dice che il Medio Oriente non può essere compreso attraverso la lente tradizionale degli schieramenti militari o dei negoziati diplomatici. Il potere passa attraverso i flussi invisibili: denaro, informazione, influenza. La forza di uno Stato o di un attore non statale dipende dalla capacità di muoversi nella zona grigia dei sistemi economici globali. L’Iran, da questo punto di vista, è uno dei maestri più abili. E Hezbollah, la sua emanazione più sofisticata, resta al centro di questa rete globale.
L’inchiesta del WSJ non chiude il cerchio ma lo apre. Mostra un mondo in cui gli attori regionali non agiscono più all’interno di confini nazionali, ma all’interno di un ecosistema globale di vulnerabilità e opportunità. E mostra un Occidente che fatica a comprendere quanto la finanza parallela sia diventata una delle colonne portanti della geopolitica contemporanea. È una storia che non parla solo del Medio Oriente, ma del nostro tempo. Una storia che continuerà finché esisterà la distanza tra il sistema finanziario legale e quello informale, finché le guerre resteranno a bassa intensità e finché le milizie continueranno a essere gli attori determinanti della politica internazionale.
Gli Stati Uniti rivedono le politiche migratorie dopo l’attacco che ha coinvolto membri della National Guard, sospendendo tutte le richieste di ingresso e visto per cittadini afghani.
Washington scossa dopo lo sparo che cambia tutto
Il 26 novembre 2025 un attentato in pieno centro Washington, a pochi isolati dalla residenza ufficiale della Casa Bianca, ha causato feriti gravi tra membri della United States National Guard impegnati in servizio nelle strade della capitale. Il sospettato, un cittadino afghano identificato come Rahmanullah Lakanwal, è stato rapidamente arrestato dalle forze dell’ordine. L’episodio ha generato immediatamente un’ondata di shock politico e mediatico, ma ha anche innescato un dibattito profondo sul rapporto tra immigrazione, sicurezza e politiche di accoglienza degli ultimi anni.
Nel caos delle prime ore, la dinamica dell’attacco è stata descritta come un’imboscata: il sospettato avrebbe aperto il fuoco contro due Guardie Nazionali, ferendole gravemente, prima di essere neutralizzato. Le circostanze restano sotto indagine: il movente non è stato ufficializzato, ma l’origine afghana del presunto aggressore e il contesto delle tensioni politiche in patria e all’estero hanno immediatamente indirizzato l’attenzione su questioni legate a immigrazione, vetting e sicurezza interna.
La reazione dell’amministrazione degli Stati Uniti è stata rapida e netta. Il presidente Donald J. Trump ha definito l’attacco un “atto di terrorismo” e ha chiesto una revisione completa di tutti gli immigrati afghani ammessi negli Stati Uniti durante la presidenza del suo predecessore. Ha indicato le politiche di immigrazione e asilo, in particolare il programma di evacuazione e accoglienza afghana, come una falla critica per la sicurezza nazionale.
Immediatamente dopo, la U.S. Citizenship and Immigration Services (USCIS) ha annunciato la sospensione indefinita di tutte le richieste di immigrazione provenienti da cittadini afghani, in attesa di una revisione delle procedure di vetting. Il provvedimento, drastico e senza precedenti, segna una svolta significativa nella politica migratoria americana, segnalando un cambio di priorità verso la sicurezza interna a scapito dell’accoglienza di rifugiati e richiedenti asilo provenienti dall’Afghanistan.
Parallelamente il governo ha autorizzato un dispiegamento aggiuntivo di truppe della Guardia Nazionale a Washington, incrementando la presenza militare nelle strade della capitale. L’obiettivo dichiarato è rafforzare la protezione delle istituzioni e garantire ordine e sicurezza, ma l’azione ha avuto immediatamente un effetto politicizzante: l’attacco è stato utilizzato come argomento centrale nella campagna per stringere le maglie sull’immigrazione.
Impatto sulle comunità afghane e rifugiati: paura, tensioni, incertezza
La decisione di sospendere ogni nuova richiesta di immigrazione da parte di afghani ha generato allarme tra le comunità di rifugiati, le ONG e attivisti per i diritti umani. Molti degli afghani che negli ultimi anni hanno trovato rifugio negli Stati Uniti, spesso in fuga da persecuzioni, conflitti o regime talebano, si trovano ora di fronte a un quadro sempre più incerto. Il messaggio istituzionale, duro e politicizzato, alimenta la sensazione di “colpa per associazione”: anche chi è regolarmente residente e controllato può vedere messa in discussione la propria presenza. Alcune voci di advocacy parlano esplicitamente di stigmatizzazione collettiva, pericolosa in un sistema costruito su criteri di nazionalità. Da parte degli attivisti per l’immigrazione e della comunità afghana negli USA, c’è chi denuncia che l’attacco, seppur grave e da condannare, non è ragione sufficiente per sospendere procedure d’asilo o immigrazione.
Ricordano che la stragrande maggioranza degli afghani evacuati con programmi degli anni precedenti (ad esempio l’operazione di accoglienza post-ritiro statunitense) era soggetta a controlli multipli, background check, screening biometrico, controlli di intelligence e antiterrorismo. Per loro, questa reazione rischia di essere generalizzante e di punire vittime di guerre e persecuzioni.
Una crisi politica annunciata: immigrazione e sicurezza nella nuova agenda USA
L’attacco e la reazione che ne è seguita sono al centro di un cambiamento profondo nella narrativa della sicurezza nazionale americana. La sospensione immediata delle richieste di immigrazione afghana non è un mero atto simbolico, ma un segnale che definisce priorità: il governo attuale considera la sicurezza interna e il controllo dei flussi migratori come elementi centrali della sua agenda, anche a costo di traumi per chi cerca rifugio.
Da un lato, questa decisione consolida un approccio securitario e restrittivo e dall’altro, apre la porta a una stretta generalizzata su asilo e immigrazione da aree in conflitto, non solo Afghanistan. Il precedente potrebbe essere usato come modello per altre politiche discriminatorie, rafforzando barriere legali e burocratiche per richiedenti asilo, rifugiati e migranti.
L’effetto sarà probabilmente un aumento dei respingimenti, una dilatazione dei tempi di attesa, un circolo di incertezza sociale per migliaia di persone che avevano riposto speranze negli Stati Uniti.
È probabile che questa linea resti centrale nel dibattito politico interno nell’imminente periodo. Le pressioni su Congressi e agenzie federali per rafforzare controlli, limitare ingressi, potenziare espulsioni, già espresse da parte dell’amministrazione, potrebbero concretizzarsi in leggi dure e normative restrittive.
Il nodo del vetting, le contraddizioni e le sfide
La giustificazione della sospensione data dall’amministrazione è la sicurezza nazionale. Tuttavia rimangono nodi critici. Primo: le autorità non hanno rilasciato una prova pubblica che colleghi sistematicamente il sospettato a reti terroristiche internazionali, per ora l’accusa è quella di un singolo attacco. Secondo: migliaia di afghani ammessi negli anni precedenti sono stati sottoposti a screening e controlli, spesso con esito regolare. La decisione collettiva, cioè sospendere ogni richiesta di immigrazione, appare dunque come una misura punitiva generalizzata, che travolge innocenti insieme a eventuali colpevoli.
C’è poi un elemento geopolitico da considerare ovvero che l’Afghanistan resta un teatro instabile, un luogo da cui migliaia di persone cercano salvezza. Rendere l’accesso ancora più difficile significa non solo negare diritti umanitari, ma chiudere un corridoio di protezione per chi ha davvero bisogno. In un momento in cui l’Europa e gli Stati Uniti dovrebbero discutere, con coerenza e responsabilità, politiche di rifugiati e asilo, la reazione di Washington potrebbe diventare un precedente per la restrizione sistematica sull’immigrazione internazionale.
Verso un nuovo equilibrio tra migrazioni, sicurezza e diritti o un giro di vite permanente?
A poche ore dall’attacco, le decisioni dell’amministrazione americana segnano l’inizio di una fase che potrebbe ridefinire per anni il rapporto tra Stati Uniti, migranti afghani e rifugiati. La sospensione dell’immigrazione afghana non è un atto temporaneo: prende la forma di una nuova linea strategica, basata sulla percezione che immigrazione e sicurezza siano oggi due facce della stessa minaccia.
Il risultato rischia di essere un’ulteriore erosione dei diritti di asilo, un rafforzamento dei meccanismi di esclusione e una stigmatizzazione permanente di intere comunità. Se per molti cittadini statunitensi la decisione rappresenta un segnale di protezione, per altri e per molte delle vittime della guerra in Afghanistan significa la chiusura di ogni speranza.In questo contesto l’Occidente, e in particolare gli Stati Uniti, si avvicinano a un bivio: scegliere tra un approccio securitario esplicito e restrittivo oppure ridefinire un equilibrio che contempli prevenzione, sicurezza e rispetto dei diritti umani.
Quel che è certo è che le conseguenze di queste scelte, sull’immigrazione, sulle comunità vulnerabili, sull’immagine internazionale di Washington, si faranno sentire per molto tempo.
Crisi istituzionale a Bissau: i militari rovesciano il presidente alla vigilia dell’annuncio dei risultati elettorali, chiudono le frontiere e impongono il coprifuoco.
L’alba di un rovesciamento annunciato
Il 26 novembre 2025 la Guinea-Bissau è tornata al centro della scena internazionale quando un gruppo di ufficiali dell’esercito si è presentato negli studi della televisione di Stato, la TGB, per annunciare di avere preso il potere. L’apparizione non è stata un semplice messaggio ma ha rappresentato l’atto finale di una crisi politica che da mesi ribolliva sotto traccia. Mentre nella capitale si muovevano blindati e si udivano raffiche di mitra vicino al palazzo presidenziale e alla sede della commissione elettorale, il Paese ha improvvisamente sospeso il proprio percorso democratico.
Il generale Denis N’Canha, indicato nelle fonti lusofone anche come Dinis Incanha, capo dell’Ufficio Militare della Presidenza, ha dichiarato in diretta che le forze armate assunsero «il pieno controllo» dello Stato, congelando il processo elettorale e imponendo la chiusura delle frontiere. Il coprifuoco è entrato immediatamente in vigore. L’annuncio ha trovato conferma poche ore dopo, quando l’ormai ex presidente Umaro Sissoco Embaló ha dichiarato pubblicamente di essere «stato deposto» e trattenuto dai militari. Le sue parole, rilanciate dalle maggiori agenzie internazionali, sono state l’indicatore di un ribaltamento già compiuto.
Da quel momento la Guinea-Bissau ha assistito a una silenziosa ma rapida ridefinizione del proprio organigramma istituzionale: l’esercito ha proclamato la nascita dell’Alto Comando Militare per la Restaurazione dell’Ordine Pubblico e della Sicurezza Nazionale, una struttura provvisoria che governerà fino a nuovo ordine. È un passaggio che, nella storia del Paese, ha pochi elementi di originalità. Ciò che rende questo episodio diverso dagli altri è la convergenza simultanea di fragilità istituzionali, tensioni elettorali e attività criminali radicate, che spiegano perché il colpo sia avvenuto proprio ora.
Un Paese sospeso tra elezioni contestate e istituzioni logorate
La tempistica del golpe non è casuale, dato che Il voto si era tenuto appena tre giorni prima, il 23 novembre, in un clima dove il confronto politico era diventato quasi un referendum sul futuro stesso delle istituzioni. Embaló aspirava a un secondo mandato, elemento insolitamente raro per un Paese segnato da decenni di governi brevi e instabili. Fernando Dias da Costa, principale sfidante, aveva invece capitalizzato sul crescente scontento verso un’amministrazione accusata di decisionismo, riforme unilaterali e mancato controllo del narcotraffico.
Molti osservatori regionali avevano già registrato segnali di tensione nei mesi precedenti. La missione di mediazione dell’ECOWAS aveva lasciato il Paese dopo minacce di espulsione da parte dello stesso Embaló, un episodio che aveva sollevato dubbi sulla capacità del governo di garantire un processo elettorale trasparente. Nel frattempo la crisi economica, la pressione sociale e la diffusione delle reti criminali legate al traffico internazionale di cocaina avevano consolidato il sospetto di una convergenza tra politica e settori opachi del potere economico e militare.
Su questo sfondo si è inserita l’accusa chiave avanzata dal generale N’Canha durante il proclama televisivo. Secondo il militare, sarebbe stato in atto un presunto «piano di destabilizzazione» che coinvolgeva figure politiche e un «noto boss della droga». Questa affermazione, per quanto priva di prove rese pubbliche, è stata sufficiente per giustificare l’intervento armato e rafforzare la narrativa dei militari come difensori dell’ordine e della sicurezza nazionale.
La reazione delle istituzioni internazionali non si è fatta attendere. L’Unione Africana e l’ECOWAS hanno diffuso comunicati di forte condanna, chiedendo il ripristino dell’autorità civile e la liberazione dei funzionari detenuti. Le dichiarazioni degli osservatori elettorali presenti in loco hanno inoltre mostrato inquietudine per le irregolarità e gli arresti di membri della commissione elettorale, episodi che rivelano quanto le dinamiche istituzionali fossero già compromesse prima dell’intervento armato.
Una fragilità strutturale radicata nella storia
Per comprendere perché un colpo di Stato possa ancora avvenire in Guinea-Bissau nel 2025, occorre guardare alle radici profonde della sua instabilità. Dall’indipendenza dal Portogallo nel 1974, il Paese ha vissuto una successione quasi ininterrotta di crisi politiche, conflitti armati, governi rovesciati, dissoluzioni parlamentari e interferenze dell’esercito nella vita pubblica. Questa ciclicità ha prodotto un sistema istituzionale in cui la distinzione tra potere civile e potere militare non si è mai consolidata pienamente.
Negli anni più recenti, inoltre, la Guinea-Bissau è diventata un nodo nevralgico del traffico di droga proveniente dall’America Latina e diretta verso l’Europa. La permeabilità delle istituzioni, compresi settori dell’esercito, ha favorito l’emersione di reti criminali capaci di incidere sulle dinamiche politiche. Il governo Embaló non è riuscito a contrastare questo fenomeno e diversi analisti internazionali indicano che il narcotraffico non ha accennato a diminuire durante il suo mandato, alimentando tensioni e competizioni interne senza che venisse adottata una strategia efficace di contenimento.
A ciò si aggiunge una geografia politica fragile, un’economia dipendente da un numero limitato di esportazioni, un’élite politica frammentata e rapporti di forza continuamente rinegoziati fra governo, opposizione e componenti militari. In un contesto simile, l’esercito è spesso percepito, sia dalla popolazione sia dagli attori internazionali, come un arbitro o un attore di ultima istanza, un ruolo che finisce per legittimare la sua ingerenza nella sfera politica.
Ciò che accade oggi non appare dunque come un’eccezione, ma come un sintomo della difficoltà storica del Paese di costruire un equilibrio duraturo tra stabilità, legalità e sovranità istituzionale.
Il giorno del golpe: sequenza degli eventi e percezione pubblica
Secondo le testimonianze raccolte da diversi media internazionali, nelle ore precedenti l’annuncio televisivo si erano uditi spari vicino alla residenza presidenziale e alla sede della commissione elettorale. Alcune strade erano state bloccate, altri quartieri isolati. La popolazione ha assistito a un’improvvisa presenza di militari e barricate, con il governo che appariva già paralizzato. Alcuni funzionari della sicurezza sono stati arrestati, così come membri della commissione incaricata di certificare i risultati elettorali.
Dopo l’annuncio del generale N’Canha, la situazione nelle strade è rimasta tesa ma relativamente stabile. La chiusura delle frontiere ha impedito spostamenti verso Senegal e Guinea Conakry, rafforzando la consapevolezza di trovarsi di fronte a un rovesciamento già pienamente consumato. Il coprifuoco ha confinato la popolazione nelle proprie abitazioni e ha ridotto la possibilità di mobilitazioni immediate da parte di sostenitori dell’ex presidente.
Le dichiarazioni di Embaló, diffuse poche ore dopo, hanno confermato il quadro di un governo ormai privato di ogni margine di azione. In un contesto dove da anni la normalità istituzionale è fragile, la rapidità del rovesciamento ha impedito qualsiasi spiraglio di mediazione interna. La crisi è diventata fin da subito una questione da gestire a livello regionale.
Gli effetti regionali e internazionali di una crisi prevedibile
La Guinea-Bissau non è un’isola politica. Le instabilità dell’Africa occidentale e del Sahel hanno attraversato gli ultimi anni con una sequenza di colpi di Stato in Mali, Niger e Burkina Faso, che hanno minato la tenuta delle istituzioni regionali e ridisegnato gli equilibri all’interno dell’ECOWAS. L’organizzazione si è trovata a intervenire ripetutamente, spesso senza ottenere risultati soddisfacenti nel ripristinare la governance civile.
In questa cornice, il golpe di Bissau rischia di diventare un altro tassello di una deriva sempre più allarmante. La pressione internazionale per un ritorno all’ordine democratico potrebbe scontrarsi con interessi interni divergenti, la presa del narcotraffico e l’ambiguità di alcuni settori dell’esercito. Le tensioni tra i governi della regione, già impegnati nel contenimento dell’instabilità saheliana, rendono il contesto ancora più complesso.
La popolazione della Guinea-Bissau resta in attesa. Le prospettive di un ritorno rapido alla normalità appaiono incerte. Il timore, condiviso da osservatori e analisti, è che il nuovo organo militare non fissi a breve un calendario trasparente per il ripristino dell’autorità civile. La storia recente insegna che i governi di transizione imposti dall’esercito possono durare anni, mentre la democrazia resta sospesa.
In un Paese dove la vita politica è spesso scandita da colpi di Stato, dissoluzioni parlamentari e interferenze del narcotraffico, la crisi odierna evidenzia quanto la Guinea-Bissau sia ancora lontana dall’aver consolidato le basi per una stabilità istituzionale duratura. E mentre l’attenzione internazionale si concentra sugli sviluppi immediati, il futuro del Paese sembra dipendere più che mai dal rapporto di forza tra i militari, la società civile e gli organismi regionali chiamati a vigilare su un ritorno all’ordine costituzionale.
L’evoluzione del Diritto Penale Sessuale e l’ancoraggio Italiano
L’approvazione recente di una proposta di legge da parte della Camera dei deputati italiana, incentrata sull’introduzione del requisito del “consenso libero e attuale” per la configurazione dei reati di violenza sessuale , segna una svolta storica per l’ordinamento penale nazionale. Tradizionalmente, la legge penale italiana, come quella di molti altri Paesi europei, definiva la violenza sessuale primariamente attraverso la prova dell’esercizio della forza, della minaccia o della costrizione da parte dell’aggressore. Il nuovo impianto normativo sposta radicalmente il focus dall’azione violenta dell’aggressore alla libertà di autodeterminazione sessuale della persona offesa e alla manifestazione positiva della sua volontà.
Questo cambiamento di paradigma proietta l’Italia in un movimento globale e in linea con le raccomandazioni internazionali. Il principio guida è che l’attività sessuale debba essere caratterizzata dalla manifestazione positiva di volontà. Questo recepimento, seppur parziale, si inserisce nel più ampio sforzo di allineare il diritto penale interno agli standard della Convenzione di Istanbul, la quale promuove l’idea fondamentale che qualsiasi atto sessuale non consensuale debba essere perseguito.
L’Imperativo Internazionale: la convenzione di Istanbul e l’UE
A livello europeo, il dibattito sul consenso è stato intenso, sebbene i risultati in termini di armonizzazione vincolante siano stati limitati. La Direttiva 2012/29/UE ha stabilito norme minime cruciali in materia di diritti, assistenza e protezione delle vittime di reato. Più recentemente, la Proposta di Direttiva sulla lotta alla violenza contro le donne ha evidenziato la drammatica diffusione della violenza sessuale, con statistiche che indicano come una donna su dieci nell’UE abbia riferito di esserne stata vittima.
Nonostante il chiaro impegno politico, l’Unione Europea si è scontrata con una notevole resistenza culturale e politica degli Stati membri nell’armonizzare la definizione di stupro basata sul consenso affermativo. Il Parlamento europeo aveva inizialmente proposto di definire il reato di aggressione sessuale (come atto non consensuale diverso dallo stupro) basandosi sul principio del consenso. Tuttavia, la direttiva adottata ha incluso solo definizioni a livello comunitario per reati specifici come la mutilazione genitale femminile e il matrimonio forzato, classificati come forme di sfruttamento sessuale delle donne. La mancata imposizione di una definizione paneuropea di stupro basata sul consenso è un segnale che l’adozione di tale modello non è semplicemente un atto tecnico-legislativo, ma una profonda sfida strutturale contro i sistemi penali tradizionali di tipo force-based predominanti nella maggior parte dei Paesi membri.
Tipologie di consenso nel diritto comparato
Il diritto penale comparato in materia di reati sessuali si articola attorno a due modelli principali:
Modello Tradizionale (Force-Based): Questo modello, ancora prevalente nella maggioranza degli Stati dell’UE , richiede che l’accusa provi oggettivamente l’uso di violenza, la minaccia o la coercizione. In questo schema, la passività o il silenzio della vittima sono spesso erroneamente interpretati come un consenso passivo, rendendo il sistema probatorio estremamente gravoso per la persona offesa, che deve dimostrare di aver opposto una resistenza significativa.
Modello del Consenso Affermativo (Consent-Based): Adottato da Paesi come Svezia e Spagna, richiede una manifestazione positiva, attiva, reversibile e specifica di volontà. L’iniziativa italiana, con il requisito del “consenso libero e attuale” , si muove in questa direzione, ponendo la mancanza di consenso al centro della fattispecie criminosa, indipendentemente dall’uso della forza.
Il Modello Svedese (2018): pioniere del consenso attivo
Il modello svedese, riformato nel 2018, rappresenta un riferimento cruciale in Europa per l’istituzione del consenso esplicito come elemento discriminante nella definizione dello stupro.
La Riforma Svedese: contesto e testo normativo
La legge svedese del 2018 ha stabilito in modo inequivocabile che qualsiasi attività sessuale compiuta in assenza di consenso esplicito costituisce stupro.6 La normativa ha superato il tradizionale requisito della forza, stabilendo che per la configurazione della violenza sessuale non è necessario l’uso di modalità violente o minacciose. Fino a quel momento, molte aggressioni sessuali non potevano essere perseguite come stupro se mancavano le caratteristiche di violenza, minaccia o costrizione.6
La Svezia, adottando questo principio, è diventata solamente il decimo stato in Europa a disancorare la definizione di stupro dalla forza fisica, con Amnesty International che ha definito la posizione predominante degli altri Stati membri come basata su una definizione “obsoleta”.5 Questo cambiamento legislativo è stato fortemente influenzato dalla pressione sociale e dalla campagna globale #MeToo.6
Giurisprudenza Svedese: la prova del non-consenso attivo
L’applicazione giudiziaria del modello svedese si concentra sulla valutazione della volontarietà e della libertà della partecipazione all’atto sessuale. La passività o il silenzio non sono mai sufficienti a stabilire il consenso valido. La giurisprudenza svedese è tenuta a indagare se la volontà della persona offesa sia stata manifestata in modo positivo e reversibile.
L’adozione del modello svedese ha avuto implicazioni dirette sul piano statistico, ampliando l’ambito del reato. I dati mostrano che circa un quinto degli stupri denunciati in Svezia riguarda atti sessuali che non implicano la penetrazione (vagina, ano o bocca). Questo dato dimostra che il passaggio da un sistema basato sulla forza a uno basato sul consenso ha permesso di classificare come stupro (la categoria di reato più grave) condotte che in precedenza sarebbero state relegate a reati minori o, in alcuni Paesi, non perseguite affatto. L’introduzione di un modello simile in Italia, che espanda la portata del reato includendo atti non penetrativi o non violenti, aumenterebbe l’efficacia protettiva del sistema penale, ma al contempo richiederebbe una notevole cautela nella comparazione statistica internazionale dei tassi di criminalità.
Sfide e classificazione dei reati contro i minori
Un ulteriore elemento di complessità nell’analisi del modello svedese riguarda la classificazione dei reati contro i minori. In Svezia, dove l’età del consenso è fissata a 15 anni, lo stupro minorile è incluso nelle statistiche generali di stupro. Questo approccio contrasta marcatamente con la prassi di molti altri Stati europei (dieci Paesi, tra cui Germania, Finlandia e Polonia) che escludono le attività sessuali con minori dalla definizione statistica di stupro.
La differenza di classificazione ha un impatto statistico indiscutibile. Ad esempio, in Svezia circa un terzo degli stupri denunciati tra il 2013 e il 2017 riguardava minori. La Germania, se avesse incluso nelle proprie statistiche di stupro gli atti che per la legge svedese rientrerebbero in tale categoria, avrebbe di fatto raddoppiato il numero di denunce. Questo evidenzia che la definizione legale del consenso (o la sua assenza per via dell’età) è un fattore determinante che influenza non solo la perseguibilità ma anche la percezione pubblica dell’incidenza della violenza sessuale in una nazione.
Il Modello Spagnolo (2022): riforma integrale e crisi giurisprudenziale
La Ley Orgánica 10/2022, universalmente nota come “Ley del solo sí es sí”, è l’esempio più ambizioso e al contempo problematico di riforma basata sul consenso in Europa. È stata concepita come una riforma integrale della libertà sessuale.
La Ley Orgánica 10/2022: la rivoluzione del reato unico
Il principio cardine della legge spagnola è che “solo sì significa sì”. Questo principio è stato tradotto in un’innovazione tecnica di vasta portata: l’eliminazione del reato di abuso sexual (atti sessuali senza consenso ma senza violenza o intimidazione) e la sua fusione in un’unica categoria denominata agresión sexual. In precedenza, l’agresión sexual richiedeva la prova della violenza o dell’intimidazione.
L’obiettivo normativo di questa unificazione era chiaro: garantire che l’attenzione processuale fosse concentrata esclusivamente sulla mancanza di consenso, indipendentemente dal fatto che l’aggressore avesse usato forza fisica o minaccia. La legge prevedeva inoltre misure complementari come l’aumento delle pene per lo stupro di gruppo e i reati sessuali che coinvolgono droghe, e l’elevazione di condotte come il catcalling a crimini.
La Falla Tecnica: la controversia sulle pene e la retroattività favorevole
Nonostante le intenzioni lodevoli, l’applicazione della Ley del solo sí es sí ha scatenato una grave crisi giurisprudenziale in Spagna. La riorganizzazione dei reati ha richiesto, come conseguenza tecnica, una revisione delle cornici edittali. Per poter inglobare il meno grave abuso sexual all’interno della più ampia categoria di agresión sexual senza incorrere in una sproporzione punitiva per le condotte meno violente, il legislatore ha abbassato il minimo edittale di pena per il reato unificato.
L’abbassamento dei minimi edittali ha innescato una conseguenza legale devastante e non prevista dal legislatore: l’applicazione del principio di retroattività della legge penale più favorevole (favor rei). Ciò ha permesso ai condannati per reati sessuali commessi prima dell’entrata in vigore della Legge 10/2022 di chiedere e ottenere la revisione delle loro sentenze sulla base dei nuovi, più bassi, minimi edittali. Ciò ha portato a centinaia di riduzioni di pena e, in alcuni casi, al rilascio anticipato di aggressori.
La dottrina ha criticato la riforma definendola espressione di “populismo punitivo”. La polemica è stata tale che il Primo Ministro spagnolo, Pedro Sánchez, ha dovuto scusarsi pubblicamente con le vittime di reati sessuali per le riduzioni di pena. La Relatrice Speciale delle Nazioni Unite sulla violenza contro le donne e le ragazze ha sottolineato che la legge era stata approvata con troppa fretta e che le sue conseguenze negative avrebbero potuto essere evitate con una migliore consultazione tecnica.
L’esperienza spagnola offre un monito fondamentale per l’Italia. La controversia strutturale dimostra che la fusione di reati che sono qualitativamente diversi (atti sessuali con e senza violenza o intimidazione) sotto un’unica categoria basata sul consenso, se accompagnata dalla revisione delle cornici edittali, può generare una crisi nel principio di proporzionalità della pena e, soprattutto, scatenare conseguenze catastrofiche di diritto intertemporale. Il legislatore italiano, nell’adottare il requisito del “consenso libero e attuale” , deve necessariamente evitare di alterare la struttura edittale in modo tale da favorire involontariamente la riduzione delle pene per i condannati preesistenti.
III.3. Misure Complementari: Riparazione e Prevenzione
Un aspetto positivo del modello spagnolo risiede nel suo approccio “integrale”. La legge non si limita al solo codice penale, ma introduce significative disposizioni di supporto per le vittime. Queste includono l’erogazione di aiuti economici per le vittime che si trovano sotto una soglia minima di reddito, l’accesso prioritario al patrimonio abitativo pubblico e il “diritto alla riparazione”, che prevede il risarcimento per la perdita di opportunità di lavoro e prestazioni sociali.
Inoltre, la Spagna ha riconosciuto che l’efficacia della legge penale dipende dalla sua applicazione culturale e pratica. Per questo sono stati introdotti specifici obblighi formativi per magistrati, appartenenti alle forze dell’ordine e personale della pubblica amministrazione, oltre alla promozione di campagne di sensibilizzazione.
L’Eterogeneità normativa e l’armonizzazione difficile
Nonostante i progressi compiuti da Svezia, Spagna e altri Paesi che hanno adottato il modello del consenso, l’approccio force-based rimane lo standard dominante nella maggioranza degli ordinamenti europei.5 Questa eterogeneità normativa comporta una grande disomogeneità nella classificazione e punizione degli atti sessuali non consensuali.
Questa frammentazione è ulteriormente complicata dalle differenze nelle definizioni legali dell’età del consenso, che costituiscono un punto di non ritorno per la validità del consenso stesso. Ad esempio, l’età del consenso varia da 14 anni in Germania e Austria, a 16 anni in Svizzera. Tali variazioni incidono direttamente sulle modalità con cui i reati contro i minori vengono classificati e, di conseguenza, su come vengono rappresentati nelle statistiche criminali europee.
La Questione Statistica e la Visibilità del Crimine
L’analisi comparata dimostra che la definizione di stupro e la classificazione degli atti sessuali hanno una relazione diretta con i dati criminali registrati. La decisione di molti Stati di escludere lo stupro minorile o gli atti sessuali non penetrativi dalla definizione di stupro (in contrasto con la Svezia) ha l’effetto di mascherare la reale incidenza della violenza sessuale nel Paese.
I Paesi che adottano una definizione di consenso affermativo tendono a registrare, almeno inizialmente, un aumento delle denunce di stupro. Questo fenomeno non è necessariamente indice di un aumento del crimine, ma riflette una maggiore fiducia riposta dalle vittime nel sistema giudiziario, sapendo che non saranno costrette a dimostrare la resistenza fisica. Inoltre, l’ampliamento della tipologia di condotte perseguibili contribuisce all’incremento dei dati statistici. Pertanto, l’adozione di riforme basate sul consenso ha una causalità statistica diretta, rendendo i crimini precedentemente invisibili o sottoclassificati pienamente evidenti, ma esigendo trasparenza nella disaggregazione dei dati per una corretta analisi.
La transizione probatoria e la prova del consenso assente
Il punto cruciale per l’efficacia del modello di consenso, sia in Svezia che in Spagna e ora in Italia, risiede nella valutazione giudiziale dell’assenza di consenso in situazioni che possono essere ambigue o complesse, soprattutto in presenza di dinamiche di vittimizzazione traumatica.
La riforma, che mira a “togliere alle vittime l’onere della prova” della resistenza, impone al giudice di abbandonare la ricerca della resistenza fisica oggettiva e di valutare invece attivamente la manifestazione della volontà del soggetto passivo. Sebbene la logica sia quella di proteggere l’autodeterminazione, l’assenza di consenso affermativo deve essere provata attraverso l’esame delle circostanze concrete.
Esiste il rischio, tuttavia, che se il sistema giudiziario non è sufficientemente preparato o se non si superano i pregiudizi culturali, il principio del consenso affermativo venga svuotato di significato. I giudici potrebbero, nella pratica, richiedere comunque la prova di un non-consenso esplicito (una negazione verbale chiara), trasformando il principio del consenso affermativo in un onere probatorio quasi altrettanto gravoso per la vittima in situazioni dove il trauma induce passività o freezing (paralisi psicologica). L’implementazione deve quindi concentrarsi sulla comprensione che l’inazione, il silenzio o la passività dovuta a paura non possono mai essere interpretati come consenso.
Necessità di formazione specialistica per gli operatori di giustizia
L’efficacia della legge sul consenso è direttamente proporzionale alla preparazione degli operatori coinvolti. La mera modifica del testo normativo è insufficiente se non è accompagnata da un profondo cambiamento culturale e professionale all’interno del sistema giudiziario.
La formazione specialistica deve essere obbligatoria e trasversale, coprendo non solo i principi del diritto penale comparato e le nuove definizioni di consenso, ma anche aspetti fondamentali come la psicologia del trauma e la comprensione del comportamento delle vittime in situazioni di aggressione. Le direttive europee, come la 2012/29/UE, sottolineano il diritto della vittima di comprendere e di essere compresa dal sistema di giustizia fin dal primo contatto.
L’esperienza spagnola ha dimostrato l’importanza di tale infrastruttura, introducendo obblighi formativi specifici per magistrati e forze dell’ordine. Senza un investimento infrastrutturale massiccio e immediato nella formazione giudiziaria e forense, la nuova legge italiana sul consenso rischia di rimanere una dichiarazione di intenti, incapace di incidere significativamente sui tassi di condanna o sulla percezione di giustizia da parte delle vittime.
Similitudini e differenze con i precedenti Internazionali
Con l’introduzione del concetto di “consenso libero e attuale” , l’Italia si allinea formalmente al modello di consenso affermativo adottato da Svezia e Spagna.
La Svezia offre un modello di successo nell’espansione della protezione penale a condotte prima trascurate, ponendo l’accento sulla manifestazione attiva della volontà. Tuttavia, l’esperienza della Spagna funge da cruciale lezione cautelativa: un’ambiziosa riforma incentrata sul consenso, se mal strutturata nelle sue conseguenze penali, può produrre effetti contrari, minando la fiducia nella giustizia attraverso la crisi delle pene.
Di seguito, si riassume il confronto tra i principali modelli europei:
Sintesi Comparativa dei Modelli di Consenso in Europa
Paese (Anno Riforma)
Modello di Consenso
Definizione Chiave
Struttura dei Reati Prima vs. Dopo
Principale Criticità Applicativa
Svezia (2018)
Affermativo Attivo
Consenso deve essere esplicito, manifestato nell’azione.
Stupro definito unicamente dall’assenza di consenso (eliminazione del requisito di forza).
Prova dell’assenza di consenso esplicito in contesti ambigui.
Spagna (2022)
Affermativo Integrale
“Solo Sí es Sí” (Ley Orgánica 10/2022).
Fusione di Abuso (senza forza) e Aggressione (con forza) in un unico reato di Agresión Sexual.
Revisione retroattiva delle pene a causa dell’abbassamento dei minimi edittali.
Italia (Recente Voto)
Consenso Libero e Attuale
Richiede libertà e attualità della volontà.
Mantenimento della struttura duale (al momento), con ridefinizione del concetto di consenso.
Interpretazione giudiziale di “libero e attuale” e necessità di formazione.
Maggioranza UE
Tradizionale (Force-Based)
Il reato dipende dalla dimostrazione di violenza, minaccia o coercizione.
Distinzione tra Stupro (con violenza) e Abuso (senza violenza).
Onere della prova gravante sulla resistenza della vittima.
Lezioni apprese dalla Spagna: la cautela nella ristrutturazione delle pene
La lezione più critica che l’Italia deve trarre dal caso spagnolo è relativa alla gestione dei limiti edittali. La causa della crisi della Ley del Solo Sí es Sí non è stato il principio del consenso in sé, ma la sua implementazione tecnica che ha portato alla riduzione dei minimi edittali per il reato unificato.
Se il legislatore italiano decidesse di seguire l’esempio spagnolo nell’unificazione delle fattispecie di reato (eliminando la distinzione tra atti con e senza violenza), è cruciale che vengano adottate misure eccezionali per garantire che i minimi edittali mantengano la severità per i reati pregressi commessi con violenza grave. Qualsiasi mancanza di rigore in questo passaggio può scatenare il principio di retroattività in bonam partem, minando la credibilità e l’efficacia della riforma. La differenziazione edittale, o l’introduzione di clausole transitorie, è un requisito imperativo per prevenire la revoca o la riduzione delle sentenze già emesse.
Raccomandazioni per l’implementazione e mitigazione dei rischi
Sulla base dell’analisi comparata e delle criticità emerse, si formulano le seguenti raccomandazioni per assicurare un’implementazione efficace della riforma italiana sul consenso:
Chiarificazione Giuridica del “Consenso Libero e Attuale”: La normativa e la giurisprudenza devono stabilire in modo inequivocabile che l’inazione, il silenzio, l’immobilità o la passività derivante da paura o shock traumatico (tonic immobility o freezing) non possono mai essere interpretati come consenso valido. La guida interpretativa deve concentrarsi sull’obbligo del soggetto attivo di accertare la volontà positiva del partner, anche in contesti non violenti.
Formazione Specialistica Sistemica: È indispensabile implementare immediatamente, in linea con le misure adottate dalla Spagna, programmi di formazione obbligatori e specialistici non solo per i magistrati, ma per tutto il personale di giustizia e le forze dell’ordine. Questa formazione deve includere i protocolli di gestione del trauma e l’adeguata applicazione del nuovo standard probatorio.
Supporto Olistico per le Vittime: L’efficacia della legge penale deve essere affiancata da un sistema di supporto sociale e riparativo, come previsto dalla legislazione spagnola. Ciò include il diritto all’assistenza specialistica, a sussidi economici e a misure di inserimento lavorativo per affrontare la perdita di opportunità subita dalle vittime.
La Tabella VI.2. riassume le sfide giurisprudenziali e le strategie di mitigazione basate sull’esperienza internazionale:
Sfide di Implementazione del Modello di Consenso: Lezioni dalla Spagna e Svezia
Sfida Giurisprudenziale
Esperienza Estera (Esempio)
Causa Effetto dell’Applicazione
Mitigazione Strategica per l’Italia
Ristrutturazione delle Pene e Retroattività
Spagna (Ley 10/2022).
L’unificazione dei reati e l’abbassamento dei minimi edittali portano alla riduzione retroattiva delle sentenze preesistenti.
Mantenere la differenziazione edittale per i casi con violenza grave o introdurre rigorose clausole transitorie per i minimi di pena.
Interpretazione del Non-Consenso Passivo
Svezia / Spagna.
I giudici cercano la negazione esplicita, non considerando la passività indotta dal trauma, svuotando il principio.
Formazione specialistica obbligatoria su psicologia del trauma e definizione legale di consenso in assenza di espressione di volontà.
Variazione Statistica e Percezione Pubblica
Svezia (Inclusione reati minori/non penetrativi).
Aumento dei tassi di stupro percepito, che può generare allarme sociale o distorcere la comparazione internazionale.
Trasparenza statistica e disaggregazione dei dati, separando chiaramente i reati secondo la gravità e le modalità.
Il passaggio italiano al modello di consenso è un passo necessario e in linea con gli standard di tutela della libertà sessuale. Il successo della riforma dipenderà, tuttavia, dalla capacità del sistema di apprendere e mitigare i complessi rischi emersi dall’applicazione dei modelli pionieristici in Europa, garantendo che la coerenza tecnica prevalga sulle spinte politiche.
Il presidente cinese Xi Jinping ha rilanciato con forza la questione di Taiwan in una recente telefonata con il suo omologo statunitense Donald Trump, dichiarando che il ritorno di Taiwan sotto il controllo di Pechino è parte integrante dell’ordine internazionale post-bellico.
La chiamata, avvenuta lunedì sera su iniziativa di Xi, secondo fonti di Taipei, arriva in un momento di tensioni crescenti attorno all’isola autogovernata, contesa dalla Cina e sostenuta informalmente dagli Stati Uniti.
Mentre Xi ribadiva che la riunificazione di Taiwan è un imperativo storico sancito dalla vittoria comune su fascismo e militarismo nella Seconda guerra mondiale, Trump lodava pubblicamente le relazioni sino-americane senza menzionare Taiwan, segnalando l’equilibrismo diplomatico che Washington è chiamata a esercitare di fronte alle ambizioni cinesi e alle preoccupazioni dei suoi alleati regionali.
Pechino: “Taiwan parte della Cina, sancito dalla Seconda guerra mondiale”
Nel colloquio telefonico Xi Jinping ha ribadito la posizione di principio di Pechino su Taiwan, che considera l’isola parte inalienabile del territorio nazionale, da ricongiungere alla madrepatria anche con la forza se necessario. Il leader cinese ha ricordato a Trump che Cina e Stati Uniti combatterono fianco a fianco contro il fascismo durante la Seconda guerra mondiale, e che oggi devono insieme “salvaguardare i frutti della vittoria” tra cui, agli occhi di Pechino, rientra il ritorno di Taiwan sotto la sovranità cinese.
Xi ha dunque inquadrato la questione di Taiwan nell’assetto internazionale emerso dal conflitto mondiale, citando dichiarazioni postbelliche come quelle del Cairo e di Potsdam che prevedevano la restituzione all’allora Repubblica di Cina dei territori occupati dal Giappone. “Taiwan è destinata a tornare alla Cina” è il messaggio che Xi ha voluto trasmettere, definendo tale prospettiva una componente essenziale dell’ordine mondiale del dopoguerra.
Secondo il resoconto della telefonata diffuso dal Ministero degli Esteri cinese, Trump avrebbe riconosciuto l’importanza cruciale che Taiwan riveste per la Cina continentale. “Gli Stati Uniti comprendono quanto la questione taiwanese sia vitale per la Cina”, avrebbe detto Trump a Xi, stando alla versione di Pechino. Non solo: sempre secondo la parte cinese, Trump avrebbe elogiato Xi definendolo “un grande leader” e ricordato con soddisfazione il loro recente incontro di persona a Busan, in Corea del Sud.
Proprio a margine di un vertice internazionale a Busan, poche settimane fa, i due presidenti si erano visti per la prima volta dal 2019, concordando una tregua nella logorante guerra commerciale sino-americana.
Nella telefonata Xi ha sottolineato come da quell’incontro i rapporti bilaterali abbiano preso “una traiettoria stabile e positiva, apprezzata da entrambe le nazioni e dalla comunità internazionale”. Trump, dal canto suo, ha definito “altamente proficuo” il faccia a faccia di Busan e ha incoraggiato a “mantenere lo slancio” nei nuovi accordi economici raggiunti.
Diplomazia nella tempesta: lo scontro con il Giappone
La tempistica del colloquio Xi-Trump non è casuale. La chiamata è avvenuta sullo sfondo di un’accesa disputa diplomatica tra Pechino e Tokyo innescata proprio dalla questione di Taiwan. Tutto è iniziato quando la nuova prima ministra giapponese, Sanae Takaichi, ha affermato in parlamento che un attacco cinese a Taiwan potrebbe configurare un’“situazione minacciando la sopravvivenza del Giappone”, una condizione che, secondo la dottrina giapponese, consentirebbe l’uso della forza militare in difesa dell’isola.
In altri termini, il Giappone ha lasciato intendere che potrebbe intervenire militarmente in aiuto di Taiwan se questa venisse invasa dalla Cina. La reazione di Pechino è stata furiosa e il governo cinese ha convocato l’ambasciatore giapponese, lanciato pesanti accuse di revanscismo e intrapreso ritorsioni economiche e diplomatiche contro il Giappone. Nel giro di due settimane, i media statali cinesi hanno martellato Tokyo con riferimenti alle atrocità giapponesi nella Seconda guerra mondiale, concerti di artisti giapponesi in Cina sono stati annullati e il turismo cinese verso il Giappone ha subito un brusco stop.
Pechino ha persino portato il caso alle Nazioni Unite con una lettera ufficiale, accusando Tokyo di minacciare un’“intervento armato” e avvertendo che la Cina “eserciterà risolutamente il proprio diritto all’autodifesa” se il Giappone dovesse oltrepassare quella linea rossa. Si tratta, secondo osservatori, della crisi diplomatica più grave tra Cina e Giappone degli ultimi anni.
Tokyo ha replicato con fermezza alle accuse cinesi. In una nota inviata alle Nazioni Unite in risposta alla lettera di Pechino, il governo giapponese ha definito “del tutto inaccettabili” le affermazioni cinesi e ha ribadito che l’impegno del Giappone per la pace rimane immutato. Allo stesso tempo, Takaichi e i suoi ministri hanno cercato di abbassare i toni, sottolineando che il Giappone “resta aperto al dialogo a tutti i livelli per allentare le tensioni” con la Cina. Nei fatti però Pechino, irritata dalla posizione giapponese, ha escluso qualsiasi incontro bilaterale di alto livello nel prossimo futuro: perfino un colloquio informale tra Takaichi e il premier cinese Li Qiang è stato cancellato a margine del recente G20 in Sudafrica.
Sul piano militare la situazione resta tesa: in questi giorni la Cina ha condotto esercitazioni navali e aeree vicino alle acque giapponesi, arrivando a far volare un drone militare tra l’isola giapponese di Yonaguni e la costa di Taiwan, manovra che ha costretto Tokyo a far decollare aerei da intercettazione. Inoltre, il governo giapponese ha annunciato il dispiegamento di batterie missilistiche aggiuntive proprio a Yonaguni (il punto del Giappone più vicino a Taiwan), mossa che la Cina ha definito un tentativo di “creare tensioni regionali e provocare uno scontro militare”.
Trump tra due fuochi: rassicurare Tokyo senza irritare Pechino
Durante una conversazione telefonica avvenuta martedì mattina, poche ore dopo il colloquio con Xi, Trump ha detto a Takaichi che i due sono “grandi amici” e che lei potrà “chiamarlo in qualsiasi momento” in caso di necessità. È stato lo stesso presidente USA a prendere l’iniziativa di contattare Tokyo, segnale che Washington intende calmare gli animi dell’alleato nipponico dopo aver dialogato con il rivale cinese.
Takaichi ha riferito ai media giapponesi di aver discusso con Trump proprio della sua conversazione con Xi e dello stato attuale delle relazioni USA-Cina, ricevendo dal presidente americano un briefing completo sui temi trattati. Nonostante le rassicurazioni private, molti a Tokyo hanno notato con preoccupazione il silenzio pubblico di Trump riguardo al duro scontro diplomatico in corso fra Giappone e Cina.
Nei suoi comunicati ufficiali e su Truth Social, il presidente statunitense si è infatti limitato a elogiare i progressi nei rapporti commerciali con Pechino, definendo “estremamente forti” le relazioni USA-Cina dopo la telefonata con Xi, senza mai citare Taiwan né menzionare il sostegno americano al Giappone nella disputa con Pechino. Questa reticenza ha alimentato timori a Tokyo e alcuni analisti ed ex diplomatici giapponesi avvertono da tempo che Trump potrebbe essere disposto a sacrificare Taiwan, o a mitigare l’appoggio USA ad essa, in cambio di accordi vantaggiosi con la Cina sul fronte commerciale.
“Non si può escludere che l’amministrazione Trump baratti la questione taiwanese per un accordo di commercio con Pechino”, ha scritto in un editoriale Seiko Mimaki, docente di politica estera statunitense all’Università Doshisha, evidenziando il rischio di incoraggiare l’assertività cinese.
Proprio gli accordi economici sono un capitolo cruciale, la tregua di Busan include l’impegno di Pechino a sospendere per un anno le restrizioni all’export di terre rare (minerali strategici di cui la Cina detiene quasi il monopolio mondiale) e ad aumentare gli acquisti di prodotti agricoli statunitensi, mentre gli USA ridurranno alcuni dazi sui beni cinesi. Trump è ansioso di rivendicare tali intese come successi della sua diplomazia economica, il che spiegherebbe la cautela nel non compromettere il dialogo con Xi alzando i toni sul dossier Taiwan.
Da parte ufficiale, il governo giapponese minimizza i dubbi sulla solidità del supporto americano. Il ministro degli Esteri Toshimitsu Motegi, incalzato dai giornalisti, ha osservato che “non è mai stato prassi che Casa Bianca o Dipartimento di Stato commentino pubblicamente ogni singola questione” e che quindi l’assenza di dichiarazioni di Trump sul caso specifico non deve essere sovrainterpretata.
Eppure, dietro le quinte, l’apparente prudenza di Trump verso Pechino ha spinto Tokyo a muoversi con cautela. Da un lato Takaichi non ha ritrattato la sua dichiarazione su Taiwan (nonostante la pressante richiesta cinese di una smentita ufficiale), dall’altro il suo governo ha manifestato apertura a canali di dialogo con la Cina per stemperare la crisi. “La stabilità delle relazioni sino-americane è estremamente importante per la comunità internazionale, Giappone compreso”, ha dichiarato il capo di Gabinetto nipponico Minoru Kihara, quasi a sottolineare che anche Tokyo auspica un disgelo tra Washington e Pechino.
In Giappone la telefonata Trump-Xi e la successiva chiamata di Trump a Takaichi sono state interpretate come segnali di un ruolo di mediatore che il presidente USA sta cercando di giocare: una sorta di bilanciere tra la fermezza invocata dagli alleati asiatici e la necessità di evitare un confronto diretto con la Cina.
Taipei: “Nessun ritorno, siamo già indipendenti”
Mentre le grandi potenze manovrano diplomaticamente, Taiwan, diretta interessata, respinge con fermezza l’idea di finire sotto il controllo di Pechino. “Per i 23 milioni di abitanti di Taiwan, un ‘ritorno’ alla Cina non è un’opzione praticabile”, ha dichiarato senza mezzi termini il premier taiwanese Cho Jung-tai. All’indomani della telefonata Xi-Trump, Cho ha ribadito davanti ai media di Taipei che la Repubblica di Cina (Taiwan) è “un Paese sovrano e indipendente” e che i taiwanesi sono determinati a decidere autonomamente il proprio futuro.
Parole che suonano come un monito sia per Pechino sia per Washington: Taiwan non accetterà mai di essere sacrificata come pedina nelle grandi manovre geopolitiche. L’attuale governo di Taipei, insediatosi dopo le elezioni del 2024, prosegue la linea di fermezza già tracciata dalla precedente amministrazione di Tsai Ing-wen, rifiutando il principio “un Paese, due sistemi” proposto dalla Cina e investendo invece sul rafforzamento delle proprie difese.
Negli ultimi anni, di pari passo con l’aumento delle incursioni di aerei e navi da guerra cinesi vicino all’isola, Taiwan ha incrementato il budget militare e cercato maggiore cooperazione internazionale, pur d’Enza mai proclamare un’indipendenza de jure che potrebbe scatenare l’ira di Pechino.
La reazione di Taipei alle parole di Xi è stata sostenuta pubblicamente anche dai partiti di opposizione, tradizionalmente più cauti verso la Cina. Il consenso politico interno sul mantenimento dello status quo – ovvero l’attuale autonomia di fatto di Taiwan – appare solido. La popolazione taiwanese, inoltre, mostra scarso interesse per l’unificazione con la Cina e i sondaggi registrano percentuali minime di favorevoli alla riunificazione, a fronte di una larga maggioranza che preferisce l’autogoverno, se non una dichiarazione d’indipendenza a tempo debito.
Anche per questo, dall’isola fanno notare come il riferimento di Xi alla “riunificazione come esito della Seconda guerra mondiale” sia storicamente forzato: Taiwan tornò alla Cina nazionalista nel 1945 dopo la sconfitta del Giappone, ma da allora, con l’eccezione di quattro anni sotto il Kuomintang, non è mai stata governata dalla Repubblica Popolare Cinese. Anzi, è stata quest’ultima a nascere nel 1949, mentre il governo cinese sconfitto si rifugiava proprio sull’isola.
Una complessità storica che spiega perché Taipei consideri priva di base legale la pretesa di Pechino di ereditare automaticamente la sovranità su Taiwan in virtù degli accordi post-bellici.
Gli Stati Uniti hanno avviato colloqui di pace segreti con la Russia ad Abu Dhabi nel tentativo di porre fine alla guerra in Ucraina, mentre sul terreno infuriano ancora i bombardamenti. Il segretario dell’Esercito USA Dan Driscoll, divenuto l’uomo di punta della nuova offensiva diplomatica di Washington, è arrivato di nascosto nella capitale degli Emirati Arabi per incontrare rappresentanti del Cremlino.
Un funzionario americano ha confermato a Reuters lo svolgimento di questi colloqui non annunciati, sebbene i dettagli siano coperti dalla massima discrezione. Non è noto chi sieda nella delegazione russa né se ai negoziati partecipi direttamente anche Kiev; fonti Financial Times indicano però che Driscoll dovrebbe vedere anche l’alto responsabile dell’intelligence militare ucraina Kirilo Budanov durante la permanenza ad Abu Dhabi.
Il formato esatto resta incerto – non è chiaro se le tre parti si riuniranno insieme o separatamente, ma l’obiettivo dichiarato da Washington è esplicito: discutere il processo di pace e “far avanzare rapidamente” i negoziati. Questi incontri segreti arrivano in un momento cruciale, a quasi quattro anni dall’invasione russa dell’Ucraina. Sul campo la guerra continua a mietere vittime ogni giorno e mentre i diplomatici confabulavano negli Emirati, un pesante bombardamento missilistico russo si abbatteva su Kiev, uccidendo almeno sei persone nella notte.
Le sirene antiaeree hanno risuonato nella capitale e migliaia di civili si sono rifugiati sottoterra, avvolti in cappotti pesanti per ripararsi dal gelo degli improvvisati bunker nei tunnel della metropolitana. Scene simili si ripetono ormai regolarmente, sottolineando la posta in gioco di queste trattative: ogni giorno in più senza un accordo di pace significa nuove devastazioni e perdite di vite umane in Ucraina.
E le ripercussioni sconfinano oltre i confini: proprio stamattina la Romania, paese Nato, ha dovuto far decollare caccia militari dopo che alcuni droni sospetti, presumibilmente russi, hanno violato il suo spazio aereo vicino al confine ucraino. L’escalation tecnologica della guerra, tra sciami di droni e piogge di missili, mantienealta la tensione anche sull’Europa orientale, alimentando l’urgenza di trovare una via d’uscita diplomatica al conflitto.
Il controverso piano di pace americano da 28 punti
Alla base dei colloqui di Abu Dhabi c’è un nuovo piano di pace elaborato dall’amministrazione Trump, una proposta in 28 punti emersa la scorsa settimana che ha colto di sorpresa Kiev, l’Europa e anche parte dello stesso governo statunitense. Washington ha infatti improvvisamente accelerato gli sforzi negoziali, dopo mesi di politiche oscillanti: ad agosto un vertice tra Donald Trump e Vladimir Putin, organizzato in gran fretta in Alaska, aveva allarmato gli alleati per il timore che gli Stati Uniti accettassero le richieste di Mosca, quell’incontro si concluse invece con una rinnovata pressione americana su Putin e nessun compromesso definitivo. Poche settimane più tardi, però, la Casa Bianca ha presentato un progetto di accordo che sembra recepire molti punti chiave delle domande russe.
Secondo varie fonti, il piano, inizialmente delineato in 28 punti, richiederebbe all’Ucraina di cedere ulteriori porzioni di territorio, accettare limiti alla propria capacità militare e impegnarsi a non entrare mai nella NATO. Condizioni di questo tenore, che Kiev ha sempre respinto in quanto equivalenti a una resa, hanno immediatamente sollevato allarme tra i sostenitori occidentali dell’Ucraina.
Di fatto, la bozza originaria del piano Trump rifletteva ampiamente le posizioni di Mosca: rinuncia all’adesione ucraina all’Alleanza Atlantica, ritiro delle truppe di Kiev dai territori del Donbass ancora sotto il loro controllo e riconoscimento dell’annessione russa de facto di Crimea e altre zone occupate nell’est. Non stupisce che il Cremlino abbia accolto positivamente l’iniziativa: lo stesso presidente Vladimir Putin ha dichiarato che questo schema americano potrebbe rappresentare “la base” per risolvere il conflitto.
Per il presidente ucraino Volodymyr Zelensky, invece, la situazione è delicatissima. Da un lato, l’offensiva diplomatica di Washington rischia di metterlo con le spalle al muro, in un momento in cui la sua posizione interna si è indebolita – di recente uno scandalo di corruzione ha travolto il suo governo portando alle dimissioni di due ministri chiave – e in cui sul fronte militare l’iniziativa è passata in parte alla Russia.
Dall’altro lato, Zelensky non può permettersi di apparire come un ostacolo alla pace: il logoramento della guerra erode il sostegno internazionale e la stessa popolazione ucraina, provata dai sacrifici, vuole intravedere una luce in fondo al tunnel. Il leader di Kiev teme tuttavia di essere forzato ad accettare un accordo scritto in larga misura a misura del Cremlino “calato dall’alto” da Washington, e ha più volte ribadito che non cederà mai alla Russia il futuro democratico e sovrano dell’Ucraina, nemmeno sotto pressione dagli alleati. In questa cornice, Zelensky si trova a dover bilanciare gratitudine e dipendenza verso il supporto occidentale con la necessità di non tradire gli obiettivi per cui il suo popolo sta combattendo.
Driscoll, l’emissario segreto di Trump: diplomazia d’assalto
Al centro di questo intricato sforzo di pace c’è Driscoll ha assunto un ruolo inedito per un alto dirigente del Pentagono, ovvero l’idea di impiegare un esponente militare di primo piano per condurre la missione diplomatica nasce, secondo il Wall Street Journal, dalla convinzione della Casa Bianca che Mosca possa essere più incline a fidarsi di un negoziatore in uniforme rispetto ai soliti canali politici. Trump avrebbe deciso di puntare proprio su Driscoll durante un colloquio privato con il suo vice presidente J.D. Vance, vecchio compagno di università di Driscoll, identificando in lui l’uomo giusto per un compito così delicato.
Prima di giungere ad Abu Dhabi per i colloqui segreti con i russi, Driscoll ha già visitato nelle scorse settimane le capitali direttamente coinvolte per preparare il terreno. La settimana scorsa era a Kiev alla testa di una delegazione del Pentagono, dove ha presentato al governo ucraino la prima bozza del piano di pace USA articolato in 28 punti. In quell’occasione il funzionario statunitense ha incontrato anche ambasciatori europei e funzionari occidentali, cercando di ottenere il loro appoggio a quella che ha definito “l’ora di finirla con questa m…”, parole crude, riferite alla guerra, che il Financial Times descrive come indicative di un atteggiamento impaziente e dal tono “nauseante” tenuto dal rappresentante americano.
Secondo fonti citate dal quotidiano britannico, Driscoll avrebbe insomma messo in chiaro con toni bruschi che Washington non intende mostrarsi troppo flessibile nei negoziati. Questo approccio deciso ha sollevato qualche perplessità tra gli alleati, ma riflette la volontà di Trump di accelerare i tempi: lo stesso Driscoll, durante gli incontri a Kiev, avrebbe annunciato che “è ora di farla finita con questa storia”, lasciando intendere che gli Stati Uniti considerano non più rinviabile una soluzione negoziata al conflitto.
Dopo la tappa in Ucraina, Driscoll ha partecipato lo scorso weekend a una serie di riunioni a Ginevra con rappresentanti di Kiev e dell’Unione Europea, nel tentativo di affinare e rendere più accettabile il piano di pace originario. Sia Washington che il governo ucraino hanno parlato di “progressi” al termine di questi colloqui.
In effetti, il documento iniziale in 28 punti è stato ridotto e parzialmente rimaneggiato: fonti informate riferiscono che, dopo le discussioni di Ginevra, la bozza è passata da 28 a 19 punti totali. Secondo il sito di informazione Politico, sono stati eliminati dal piano i capitoli più esplosivi sulle questioni territoriali, ad esempio la cessione del Donbass alla Russia, che verranno invece affrontati separatamente a livello politico tra i presidenti Trump e Zelensky. In altre parole, le concessioni sul territorio non saranno decise dai negoziatori tecnici, ma rimandate a un eventuale faccia a faccia finale tra i due leader.
La logica è evitare di imporre subito a Kiev rinunce che Zelensky non ha delegato a nessuno il potere di negoziare, specialmente per quanto riguarda sovranità e integrità territoriale. Il presidente ucraino, in un videomessaggio serale alla nazione, ha confermato che nella nuova bozza discussa a Ginevra “molti elementi corretti sono stati incorporati” rispetto alla versione iniziale.
Allo stesso tempo, ha ammesso che “le questioni più delicate” restano sul tavolo e intende affrontarle di persona con Donald Trump. Zelensky prevede un percorso ancora difficile verso un documento finale e ha sottolineato che nulla verrà firmato senza un ampio consenso interno e internazionale. Per ora, però, il processo negoziale USA-Ucraina sembra essere entrato in una fase di dialogo più costruttivo, pur mantenendo aperti i nodi fondamentali.
Le reazioni: cautela europea, attesa russa
Questa frenetica attività diplomatica parallela ha inevitabilmente innescato reazioni in tutte le capitali coinvolte. Il Cremlino, ufficialmente, mantiene il riserbo sui colloqui di Abu Dhabi: “Non abbiamo nulla da dire al momento, seguiamo e analizziamo le notizie dei media”, ha dichiarato il portavoce Dmitry Peskov, rifiutando di commentare le indiscrezioni sulla missione di Driscoll. Allo stesso tempo, Mosca lascia trapelare un cauto ottimismo verso la piega che sta prendendo l’iniziativa statunitense.
“Al momento l’unica cosa sostanziale è il progetto americano, il progetto di Trump” ha affermato Peskov, aggiungendo che potrebbe diventare “una base molto buona per i negoziati”. In altre parole, la leadership russa considera il piano di pace USA un punto di partenza valido – a patto, si intende, che risponda alle sue condizioni di sicurezza. Proprio su questo punto è intervenuto il ministro degli Esteri Sergej Lavrov, segnalando che Mosca attende ora dagli americani una proposta “intermedia” aggiornata, dopo le modifiche apportate su pressione europea e ucraina. Lavrov ha avvertito che sarà “una situazione completamente diversa” se le revisioni al piano non rispetteranno lo “spirito e la lettera” di quanto Putin e Trump avevano discusso durante il loro incontro in Alaska.
In sostanza, il messaggio russo è chiaro: il Cremlino era favorevole alla versione originaria in 28 punti, mentre eventuali concessioni fatte per compiacere Kiev o l’Europa potrebbero rimettere tutto in discussione.
Sul fronte opposto, gli alleati occidentali dell’Ucraina accolgono con favore ogni spiraglio di pace ma mettono in guardia da accordi al ribasso. Il presidente francese Emmanuel Macron, parlando in un’intervista radiofonica, ha definito l’iniziativa statunitense “un passo nella direzione giusta: la pace. Tuttavia, alcuni aspetti di quel piano meritano di essere discussi, negoziati, migliorati”. “Vogliamo la pace, ma non vogliamo una pace che sia una capitolazione” ha scandito Macron, sottolineando che spetta solo agli ucraini decidere quali concessioni territoriali sono pronti a fare.
Ciò che può sembrare accettabile per la Russia, ha aggiunto, non significa affatto che debba esserlo per l’Ucraina o per l’Europa. Da Parigi e dalle altre capitali UE emerge la linea di una pace giusta, non imposta unilateralmente dalle condizioni dell’aggressore. Anche Londra e Berlino condividono la posizione: l’integrità territoriale ucraina e la libertà di Kiev di determinare il proprio futuro non possono diventare merce di scambio. Su iniziativa di Francia e Regno Unito, è stato convocato un incontro virtuale della cosiddetta “coalizione dei volenterosi” – il gruppo di Paesi che sostiene l’Ucraina, comprendente le principali nazioni europee, proprio per discutere la proposta americana e concordare un approccio comune.
L’Europa insomma vuole essere parte attiva del processo di pace, ma vigila affinché la ricerca di una tregua non si traduca in un sacrificio inaccettabile per la sovranità ucraina. Parallelamente, gli alleati continuano a fornire aiuti militari e finanziari a Kiev per metterla nella posizione negoziale più forte possibile.Intanto, a Kiev, Zelensky cerca di compattare il fronte interno e mantenere la fiducia della popolazione.
Il presidente ucraino ha fatto sapere di aver avuto una conversazione “molto produttiva” con il premier britannico in pectore Sir Keir Starmer, riferendo che “vediamo molte prospettive che possono rendere reale il cammino verso la pace” e riconoscendo “solidi risultati dai colloqui di Ginevra, anche se molto lavoro resta ancora da fare”.
Dichiarazioni che lasciano intendere come Zelensky stia ottenendo sponde importanti in Occidente per migliorare il piano Trump senza farlo naufragare. La prospettiva che si delinea è quella di ulteriori intense consultazioni nei prossimi giorni: non si esclude che lo stesso Zelensky possa presto volare negli Stati Uniti per discutere faccia a faccia con Trump i termini finali dell’accordo, eventualità suggerita da alcune indiscrezioni secondo cui il leader ucraino potrebbe visitare Washington già entro la settimana per “siglare un patto di pace”. Mentre sul terreno si continua a combattere e morire, e missili e droni seminano distruzione da Kiev al Mar Nero, questi febbrili negoziati segreti rappresentano il tentativo più concreto finora di avvicinarsi alla fine della guerra.
Restano da colmare distanze significative: Kiev non intende sacrificare la propria indipendenza, Mosca vuole capitalizzare le conquiste territoriali ottenute, e gli Stati Uniti – dopo aver sostenuto l’Ucraina con massicci aiuti – ora premono per un risultato diplomatico che metta fine a un conflitto sempre più difficile da sostenere sul lungo periodo. La strada verso la pace è irta di ostacoli e compromessi dolorosi, ma la scelta di aprire un canale riservato ad Abu Dhabi indica che nessuna via viene trascurata.
Nelle stanze ovattate di un palazzo sul Golfo Persico, lontano dal fragore delle bombe, si sta decidendo se e come scrivere il capitolo conclusivo di una guerra che ha sconvolto l’Europa. Il mondo osserva con il fiato sospeso, diviso tra speranza e timore: una speranza che da questi colloqui possa scaturire finalmente il silenzio delle armi, e il timore che la pace ottenuta possa chiedere all’Ucraina un prezzo troppo alto.
I prossimi giorni saranno decisivi per capire se dalle parole si potrà davvero passare ai fatti, trasformando un fragile spiraglio in un percorso concreto verso la fine di uno dei conflitti più sanguinosi degli ultimi decenni.
Le urne di Campania, Puglia e Veneto hanno consegnato un verdetto che conferma le mappe politiche preesistenti ma offre numerosi spunti di riflessione per entrambi gli schieramenti. Il centrosinistra ha dominato nelle due grandi regioni meridionali con margini amplissimi, mentre il centrodestra ha mantenuto saldamente la roccaforte veneta grazie al traino di Luca Zaia e all’ascesa del giovane Alberto Stefani. Il risultato complessivo delle regionali autunnali si chiude quindi in parità: tre regioni al centrodestra (Veneto, Marche e Calabria) e tre al centrosinistra (Campania, Puglia e Toscana).
L’astensionismo è il vero vincitore
Il dato più preoccupante emerso da questa tornata elettorale riguarda l’affluenza alle urne, che ha toccato livelli storicamente bassi. Complessivamente, solo il 43,6% degli aventi diritto si è recato a votare, un crollo di circa 14 punti percentuali rispetto al 2020. In Puglia l’affluenza si è fermata al 41,8% contro il 56,4% di cinque anni fa, in Campania al 44,1% rispetto al 55,5%, mentre in Veneto, tradizionalmente terra ad alta mobilitazione politica, si è raggiunto appena il 44,6% contro il 61,2% delle precedenti consultazioni. Meno di un elettore su due ha scelto di esprimere la propria preferenza, un segnale che interroga profondamente l’intera classe politica italiana e che rischia di ridimensionare il valore politico dei risultati finali, rendendo più fragile la legittimazione degli eletti.
Campania: Roberto Fico chiude l’era De Luca
Roberto Fico
La Campania ha rappresentato il campo di battaglia più atteso di questa tornata elettorale. Roberto Fico, esponente storico del Movimento 5 Stelle ed ex presidente della Camera dei deputati, ha trionfato con il 60,7% dei consensi, doppiando letteralmente il suo avversario Edmondo Cirielli, candidato del centrodestra, fermo al 35,6%.
La vittoria del pentastellato segna la fine di un’epoca: dopo dieci anni consecutivi alla guida della regione, Vincenzo De Luca non ha potuto ripresentarsi a causa della sentenza della Corte Costituzionale che, lo scorso aprile, ha dichiarato incostituzionale la legge regionale campana che avrebbe permesso il terzo mandato consecutivo.
Fico, napoletano classe 1974, ha costruito la sua carriera politica interamente all’interno del Movimento 5 Stelle. Dai meetup di Beppe Grillo alle aule parlamentari, passando per la presidenza della Commissione di Vigilanza Rai e culminando nei cinque anni alla guida di Montecitorio (2018-2022), l’ex presidente della Camera rappresenta l’ala più moderata e istituzionale del movimento fondato dal comico genovese. La sua elezione a presidente della Camera nel 2018, quando arrivò al primo giorno a Montecitorio in autobus invece che in auto blu, rimane un’immagine simbolica della stagione politica pentastellata.
Il candidato sconfitto del centrodestra, Edmondo Cirielli, è invece un profilo di lungo corso della destra italiana. Generale di brigata dei Carabinieri in ausiliaria, laureato con lode in Giurisprudenza, Scienze Politiche e Scienze della Sicurezza, Cirielli vanta una carriera politica iniziata nel 1994 con il MSI-AN e proseguita poi nel Popolo della Libertà e infine in Fratelli d’Italia. Dal 2022 ricopre l’incarico di viceministro degli Affari Esteri nel governo Meloni, e proprio questa sua vicinanza alla premier era stata presentata come un valore aggiunto durante la campagna elettorale.
L’appoggio convinto di Giorgia Meloni non è però bastato a ribaltare i pronostici: la lista “Giorgia Meloni per Cirielli-FdI” ha ottenuto un deludente 11,8%, mentre Forza Italia si è attestata al 10,9% e la Lega al 5,5%.
Edmondo Cirielli
Durante la campagna elettorale, i due candidati si sono confrontati su temi cruciali come l’autonomia differenziata, la sanità regionale e la questione del condono edilizio. Fico ha attaccato duramente la riforma Calderoli, sostenendo che “crea disuguaglianze sul territorio e non aiuta il Sud“, mentre Cirielli ha replicato difendendo la norma costituzionale ma promettendo di non chiedere deleghe aggiuntive considerata la situazione debitoria della regione.
Il confronto televisivo su Sky TG24 ha evidenziato le differenze profonde tra i due candidati, con Fico che ha definito “un insulto all’intelligenza dei campani” la proposta di riapertura dei termini del condono edilizio avanzata dal centrodestra a ridosso del voto.
Puglia: Antonio Decaro conquista la regione con numeri record
In Puglia il risultato è stato ancora più netto. Antonio Decaro, eurodeputato del Partito Democratico e apprezzatissimo ex sindaco di Bari, ha ottenuto il 64,1% dei consensi, schiacciando l’imprenditore Luigi Lobuono, candidato del centrodestra, fermo al 35%.
Decaro succede a Michele Emiliano, che ha governato la regione per dieci anni e che, pur non potendosi ricandidare, ha lasciato un’eredità politica significativa.
Antonio Decaro
Il nuovo governatore pugliese rappresenta un profilo politico di grande solidità. Nato a Bari nel 1970, laureato in ingegneria civile al Politecnico del capoluogo pugliese, Decaro ha costruito la sua carriera politica partendo dall’assessorato alla mobilità nel 2004, passando per il Consiglio regionale, la Camera dei deputati, fino a diventare sindaco di Bari per due mandati consecutivi (2014-2024). Dal 2016 al 2024 ha presieduto l’ANCI, l’Associazione Nazionale dei Comuni Italiani, diventando uno dei volti più noti dell’amministrazione locale italiana.
Alle europee del 2024 ha ottenuto oltre mezzo milione di preferenze nel Sud Italia, un record che lo ha proiettato alla presidenza della Commissione Ambiente del Parlamento europeo.
Il Partito Democratico si è confermato primo partito in Puglia con il 25,9% dei consensi, guadagnando quasi 55 mila voti rispetto al 2020. Fratelli d’Italia, pur in crescita di sei punti percentuali rispetto alle precedenti regionali, si è fermato al 18,7%, seguito da Forza Italia al 9,1% e dalla Lega all’8%.
Il Movimento 5 Stelle, che nel 2020 correva da solo, ha ottenuto poco più del 7%, un dato inferiore alle aspettative ma che ha comunque contribuito alla vittoria del campo largo.
Veneto: l’onda lunga di Zaia travolge Fratelli d’Italia
Alberto Stefani
In Veneto la sfida non era sulla vittoria finale, mai in discussione, ma sul rapporto di forze interno al centrodestra.
Alberto Stefani, 33 anni, vicesegretario federale della Lega, ha trionfato con il 64,4% dei consensi, raccogliendo l’eredità di Luca Zaia che ha governato la regione per quindici anni consecutivi.
Lo sfidante del centrosinistra, l’ex sindaco di Treviso Giovanni Manildo, si è fermato al 28,9%, un risultato che però rappresenta quasi il doppio rispetto al 16% ottenuto dalla coalizione progressista nel 2020.
La vera storia di queste elezioni venete riguarda tuttavia le preferenze personali di Luca Zaia. Il governatore uscente, candidato come capolista della Lega in tutte le sette province venete dopo il mancato via libera alla creazione di una lista con il proprio nome, ha raccolto oltre 200 mila preferenze, un risultato definito “clamoroso” dal presidente del Consiglio regionale Roberto Ciambetti. Questo plebiscito personale ha permesso alla Lega di superare nettamente Fratelli d’Italia nel derby interno al centrodestra: il Carroccio ha ottenuto il 36,4% contro il 17,5% del partito di Meloni, un ribaltamento completo rispetto alle europee del 2024 quando FdI aveva raccolto il 37% e la Lega si era fermata al 16%.
Stefani rappresenta il volto giovane della Lega veneta. Nato a Camposampiero, in provincia di Padova, il 16 novembre 1992, si è iscritto al Carroccio a soli 15 anni, “fulminato” dall’idea del federalismo. A 20 anni è stato eletto consigliere comunale, a 25 è diventato il più giovane deputato della storia della Lega, a 26 ha vinto le elezioni a sindaco di Borgoricco. Laureato con lode in Giurisprudenza con una tesi in diritto canonico dedicata alla nonna Vittoria, sta proseguendo gli studi con un dottorato e pubblicazioni scientifiche. Appassionato di pittura a olio e tempera, ex giocatore di pallavolo, Stefani incarna un profilo di cattolicesimo moderato e radicamento territoriale che piace tanto a Salvini quanto all’ala zaiana del partito.
Il candidato del centrosinistra Giovanni Manildo, 56 anni, avvocato ed ex sindaco di Treviso dal 2013 al 2018, ha condotto una campagna elettorale durata oltre 120 giorni incentrata su sanità pubblica, lavoro, ambiente e opportunità per i giovani.
Giovanni Manildo
Nonostante la sconfitta ampiamente prevista, Manildo ha rivendicato il risultato: “Nel 2015 il centrosinistra era sceso al 22%, nel 2020 è crollato al 16%, oggi superiamo il 30%. È molto più di un numero: è la conferma che in Veneto c’è una parte del Paese che non si rassegna“.
Le reazioni politiche: Schlein esulta, Meloni si congratula
Le prime reazioni dei leader nazionali hanno fotografato lo stato d’animo dei rispettivi schieramenti.
Elly Schlein, segretaria del Partito Democratico, ha celebrato la vittoria con il mantra “Uniti non si vince, si stravince“, sottolineando come la linea “testardamente unitaria” sia stata premiata dagli elettori. “L’alternativa c’è ed è competitiva, il riscatto parte dal Sud e ci porterà a vincere insieme“, ha dichiarato la leader dem, aggiungendo che “la partita delle prossime politiche è apertissima”.
Giorgia Meloni ha invece scelto la strada della sportività istituzionale, congratulandosi con Stefani per “una vittoria frutto del lavoro, della credibilità e della serietà della nostra coalizione” e rivolgendo poi auguri anche a Decaro e Fico affinché “possano svolgere al meglio il loro mandato, nell’interesse dei cittadini”. Matteo Salvini ha esultato per il risultato veneto definendolo “oltre ogni previsione” e ha sottolineato come la Lega stia “crescendo con passo da Alpino“.
Dal centrosinistra è arrivata anche la stilettata di Matteo Renzi, che ha commentato: “I risultati di Campania e Puglia, dopo la Toscana, dicono che l’alternativa c’è, da casa riformista fino alla sinistra. E questa alternativa, quando è unita, vince“. Giuseppe Conte, leader del Movimento 5 Stelle, ha dedicato la vittoria campana a “chi non si è rivoltato dall’altra parte di fronte alle difficoltà di famiglie e imprese“
Il futuro politico tra legge elettorale e politiche 2027
Questi risultati aprono numerosi scenari per il futuro. Il centrosinistra ha dimostrato che la formula del campo largo, quando applicata con coerenza, produce vittorie schiaccianti, almeno al Sud. La sfida sarà replicare questo schema a livello nazionale in vista delle politiche del 2027. Per il centrodestra, invece, la lezione viene soprattutto dal Veneto, dove il radicamento territoriale della Lega e il carisma di figure come Zaia si sono rivelati decisivi per contenere l’avanzata di Fratelli d’Italia.
Il dato sull’astensionismo rimane però l’elefante nella stanza. Con meno della metà degli elettori che si recano alle urne, la legittimazione democratica dei vincitori risulta inevitabilmente indebolita. Come ha osservato Giovanni Manildo nel suo messaggio post-voto, “l’affluenza in calo ci preoccupa e dovrebbe interrogare tutta la politica“.
La partita per le prossime elezioni politiche è dunque aperta, con un centrosinistra galvanizzato dalla conferma che “il mito dell’imbattibilità di Giorgia Meloni finisce oggi“, come hanno ripetuto le opposizioni, e un centrodestra che dovrà riflettere sulla difficoltà di sfondare nelle regioni meridionali, nonostante l’impegno diretto della premier.
Il vero vincitore di questa tornata elettorale resta però l’astensionismo, sintomo di una disaffezione crescente che nessuno schieramento sembra in grado di invertire.
La bozza in 28 punti consegnata a Zelensky è chiarissima: Crimea, Donbass intero, Kherson e Zaporizhzhia congelati lungo la linea attuale restano alla Russia; Kiev rinuncia per sempre alla NATO, riduce drasticamente l’esercito, accetta una zona demilitarizzata e garanzie USA “à la carte” ma non l’Articolo 5.
In cambio, sanzioni revocate, beni russi congelati usati per ricostruire l’Ucraina e Mosca rientra nel salotto buono (G8, accordi nucleari, cooperazione energetica e tecnologica con Washington).Il messaggio geopolitico è brutale e cristallino: chi invade con la forza e resiste tre anni ottiene ciò che vuole. Punto. La Russia ha perso 600.000 uomini tra morti e feriti gravi (dati Intelligence USA e UK), ha speso oltre 200 miliardi di dollari, è stata isolata economicamente, ma alla fine tiene il 20% del territorio ucraino e blocca l’espansione NATO.
Ha vinto sul campo, anche se a un costo mostruoso.
Zelensky piange “perdita di dignità” perché sa che firmare significa ammettere la sconfitta militare e politica dopo aver giurato “nemmeno un centimetro”. Ma l’alternativa è perdere anche il sostegno USA: Trump ha già fatto capire che senza accordo i rubinetti si chiudono.
L’Europa da sola non regge più il peso (Germania in recessione, Francia che litiga sui missili, Polonia che teme di essere la prossima).
L’Occidente collettivo, dopo aver pompato 200 miliardi di aiuti e aver promesso “fino alla vittoria”, adesso scarica Kiev con un’alzata di spalle: “pace ora, a qualunque costo”.
L’ipocrisia è totale: per trent’anni abbiamo ripetuto “mai ricompensare l’aggressione”, poi arriva il primo aggressore che tiene duro e il principio svanisce.
La pace è sempre preferibile alla guerra, ma questa pace insegna una lezione pericolosa al mondo: se sei disposto a pagare in sangue e a resistere abbastanza a lungo, alla fine l’Occidente cede.
Taiwan, Moldavia, Paesi Baltici e chiunque altro stanno prendendo appunti. Il vincitore morale è Putin: ha dimostrato che la forza paga ancora.
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