17 Settembre 2025
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Hebron, la svolta degli sceicchi: “Emirato autonomo e pace con Israele”

Nelle ultime settimane, un’iniziativa senza precedenti ha scosso le fondamenta del conflitto israelo-palestinese, portando alla ribalta la città di Hebron e i suoi leader tribali. Influenti sceicchi, guidati da Wadee’ al-Jaabari, hanno firmato una lettera storica indirizzata al ministro dell’Economia israeliano Nir Barkat, proponendo la creazione di un nuovo Emirato di Hebron, indipendente dall’Autorità Palestinese e pronto a riconoscere Israele come Stato nazionale del popolo ebraico. Questa proposta rappresenta una svolta radicale rispetto alle posizioni tradizionali palestinesi e apre scenari inediti per la pace in Medio Oriente.

La lettera, frutto di mesi di incontri riservati tra i leader tribali di Hebron e il ministro Barkat, segna un distacco netto dalla narrativa della leadership palestinese storica. Gli sceicchi, tra cui spicca il nome di Jaabari, capo del clan più potente della città, dichiarano apertamente: “Vogliamo cooperazione con Israele. Vogliamo la convivenza”. Parole che, pronunciate nella tenda cerimoniale di Hebron, assumono un peso simbolico enorme, considerando il ruolo di questa città nella storia e nell’attualità del conflitto.

La proposta degli sceicchi prevede che Hebron si separi dall’Autorità Palestinese, istituisca un proprio emirato autonomo e aderisca agli Accordi di Abramo, il processo di normalizzazione tra Israele e diversi Paesi arabi. In cambio, Israele dovrebbe riconoscere l’Emirato di Hebron come rappresentante ufficiale degli arabi residenti nel distretto. L’elemento rivoluzionario di questa iniziativa risiede nel riconoscimento esplicito di Israele come Stato ebraico, un passo che va ben oltre qualsiasi posizione assunta finora dall’Autorità Palestinese.

Gli sceicchi motivano la loro scelta con una critica feroce all’Autorità Palestinese e agli Accordi di Oslo, definiti “distruttivi e superati”. Secondo loro, l’Autorità ha perso ogni legittimità tra la popolazione locale, fallendo nel garantire stabilità, sviluppo e sicurezza. La lettera sottolinea come la vecchia leadership abbia portato solo “danno, morte, disastro economico e distruzione”, lasciando campo libero a corruzione e inefficienza.

La proposta contiene anche elementi pratici immediati: gli sceicchi chiedono che Israele consenta l’ingresso nel proprio territorio a un primo contingente di lavoratori provenienti da Hebron, con la prospettiva di aumentare progressivamente questo numero fino a decine di migliaia. Questa apertura economica rappresenterebbe una boccata d’ossigeno per una città che soffre da anni la crisi economica e l’isolamento politico.

Il ministro Barkat ha accolto con favore la proposta, definendola un “passo storico” che potrebbe ridefinire la diplomazia regionale. Da tempo, Barkat ha ospitato più di una dozzina di incontri con Jaabari e gli altri sceicchi, segno della serietà e della profondità delle trattative in corso. Il fatto che questi incontri si siano svolti spesso nella casa privata del ministro a Gerusalemme testimonia la delicatezza e la portata dell’iniziativa.

Non mancano però le resistenze, sia dal lato israeliano che da quello palestinese. All’interno della società palestinese, la proposta viene vista da molti come un tradimento della causa nazionale e un tentativo di indebolire ulteriormente l’unità del popolo palestinese. Alcuni degli sceicchi firmatari hanno preferito rimanere anonimi per motivi di sicurezza, consapevoli dei rischi personali e politici che comporta una simile presa di posizione. D’altra parte, anche in Israele non tutti sono pronti ad accogliere una soluzione che, pur offrendo un’alternativa alla stagnazione attuale, rischia di creare nuovi equilibri difficili da gestire.

Il contesto internazionale contribuisce a rendere questa iniziativa ancora più significativa. Dopo l’autunno del 2023, la possibilità di una soluzione a due Stati appare più lontana che mai. L’attacco di Hamas e la successiva reazione israeliana hanno radicalizzato le posizioni e reso quasi impossibile la ripresa di negoziati tradizionali. In questo scenario, la proposta degli sceicchi di Hebron si presenta come un tentativo pragmatico di superare l’impasse, offrendo una via alternativa basata su accordi locali, riconoscimento reciproco e sviluppo economico.

La città di Hebron, con la sua storia millenaria e il suo valore simbolico per entrambe le comunità, si candida così a diventare laboratorio di una nuova forma di convivenza. La scelta di puntare su un emirato locale, guidato da leader tribali e religiosi radicati nella società, rappresenta il ritorno a una forma di governance tradizionale, in netta contrapposizione con la burocrazia centralizzata e spesso percepita come distante dell’Autorità Palestinese.

Gli osservatori internazionali guardano con attenzione a questa evoluzione. Se la proposta dovesse trovare seguito, potrebbe aprire la strada a soluzioni simili in altre aree della Cisgiordania, ridefinendo completamente le coordinate del conflitto e della pace in Medio Oriente. Il fatto che la lettera degli sceicchi sia stata indirizzata direttamente a un ministro israeliano e non ai vertici dell’Autorità Palestinese è già di per sé un segnale di rottura profonda con il passato.

Il documento sottolinea anche la volontà di rinunciare a ogni forma di terrorismo, impegnandosi a garantire la sicurezza sia degli abitanti arabi che di quelli israeliani. Questa promessa di pace e stabilità è uno degli elementi più innovativi e potenzialmente dirompenti dell’intera iniziativa.

Nonostante le difficoltà e le incognite, la determinazione degli sceicchi di Hebron sembra incrollabile. “Siamo pronti per la pace. Vogliamo andare avanti”, recita la lettera. Una frase che, in un contesto segnato da decenni di conflitto e sfiducia reciproca, suona quasi rivoluzionaria. La proposta dell’Emirato di Hebron non è solo un gesto simbolico, ma un tentativo concreto di costruire un futuro diverso, fondato sul riconoscimento reciproco, la cooperazione economica e il rispetto delle identità.

Resta ora da vedere quale sarà la risposta delle autorità israeliane e della comunità internazionale. Il premier Netanyahu, destinatario ultimo della lettera, si trova di fronte a una scelta che potrebbe cambiare il corso della storia regionale. Se accolta, l’iniziativa degli sceicchi di Hebron potrebbe segnare l’inizio di una nuova stagione di dialogo e speranza per una terra troppo a lungo segnata da divisioni e violenza.

Genova, rivoluzione nei vicoli: la nuova era dei vigili urbani accende il dibattito politico

Genova si prepara a vivere una trasformazione senza precedenti nella gestione della sicurezza del suo centro storico. A partire da domani, una riforma destinata a cambiare profondamente il ruolo della polizia locale nei vicoli entrerà ufficialmente in vigore, portando con sé non solo nuove modalità operative, ma anche un acceso confronto politico che ha già infiammato il dibattito cittadino.

La riforma, fortemente voluta dall’amministrazione comunale, nasce dall’esigenza di rispondere alle criticità che da anni segnano la vita quotidiana nei vicoli genovesi. Questa parte della città, ricca di storia e fascino, è spesso teatro di episodi di microcriminalità, degrado e tensioni sociali, che negli ultimi tempi hanno richiesto un ripensamento radicale delle strategie di presidio e controllo del territorio. L’obiettivo dichiarato è quello di restituire ai residenti e ai visitatori un senso di sicurezza reale e percepita, attraverso una presenza più capillare e incisiva della polizia locale.

Non si tratta di semplici aggiustamenti organizzativi, ma di un vero e proprio cambio di paradigma. La nuova impostazione prevede che i vigili urbani non siano più relegati al solo ruolo di controllori del traffico o di garanti delle regole amministrative, ma diventino attori protagonisti nella prevenzione e nel contrasto dei fenomeni di illegalità diffusa. Il loro compito sarà quello di presidiare attivamente i vicoli, instaurando un rapporto diretto e costante con la cittadinanza, ascoltando le segnalazioni, intervenendo tempestivamente in caso di necessità e collaborando a stretto contatto con le altre forze dell’ordine.

La riforma, tuttavia, non ha mancato di suscitare polemiche e divisioni all’interno del Consiglio comunale. I rappresentanti delle opposizioni, in particolare quelli di Vince Genova e della Lega, hanno espresso forti perplessità sulla reale efficacia del nuovo modello, accusando l’amministrazione di aver agito in modo unilaterale e senza un adeguato coinvolgimento delle parti sociali. Secondo i critici, la riorganizzazione rischia di tradursi in un semplice spostamento delle responsabilità, senza affrontare alla radice le cause profonde del disagio che affligge il centro storico.

L’assessora alla Sicurezza, Arianna Viscogliosi, ha risposto con fermezza alle accuse, sottolineando come la polizia locale continuerà a operare con la stessa professionalità e dedizione di sempre, ma con strumenti e competenze rinnovate. Viscogliosi ha ribadito che il nuovo assetto non comporterà alcuna riduzione delle risorse destinate al presidio dei vicoli, ma anzi consentirà di ottimizzare l’impiego degli agenti, valorizzando le loro specificità e favorendo la formazione continua. L’assessora ha inoltre evidenziato l’importanza di un approccio integrato, che veda la polizia locale agire in sinergia con i servizi sociali, le associazioni di quartiere e le istituzioni scolastiche, per costruire una rete di prevenzione e supporto capace di intervenire non solo sull’emergenza, ma anche sulle cause strutturali dell’insicurezza urbana.

Uno degli aspetti più innovativi della riforma riguarda la ridefinizione dei compiti e delle responsabilità degli agenti nei confronti delle fasce più vulnerabili della popolazione. Nei vicoli di Genova vivono infatti molte persone anziane, famiglie in difficoltà, giovani a rischio di emarginazione. La presenza costante dei vigili urbani, secondo l’amministrazione, rappresenterà un punto di riferimento fondamentale per queste categorie, che potranno contare su un interlocutore diretto e facilmente raggiungibile in caso di bisogno.

La riforma introduce anche nuove tecnologie e strumenti operativi, come l’utilizzo di bodycam, sistemi di videosorveglianza avanzati e piattaforme digitali per la raccolta e la gestione delle segnalazioni. Questi strumenti, secondo i promotori, permetteranno di monitorare in tempo reale la situazione nei vicoli, garantendo interventi rapidi e mirati e una maggiore trasparenza nell’operato degli agenti. Non mancano però le voci critiche che sollevano dubbi sulla tutela della privacy e sull’effettiva capacità delle nuove tecnologie di risolvere i problemi più complessi della sicurezza urbana.

Il dibattito si è acceso anche sul fronte sindacale. Alcuni rappresentanti dei vigili urbani hanno espresso preoccupazione per l’aumento dei carichi di lavoro e per la necessità di una formazione adeguata alle nuove mansioni. Chiedono garanzie sul rispetto dei diritti dei lavoratori e sulla sicurezza degli operatori, soprattutto in un contesto difficile come quello dei vicoli, dove non sono rari episodi di aggressioni e minacce. L’amministrazione ha assicurato che saranno previsti corsi di aggiornamento specifici e che verranno adottate tutte le misure necessarie per tutelare l’incolumità degli agenti.

La città, intanto, osserva con attenzione l’evolversi della situazione. Molti residenti accolgono con favore la prospettiva di una maggiore presenza della polizia locale, nella speranza che possa contribuire a ridurre il degrado e a restituire vivibilità al centro storico. Altri, invece, temono che la riforma possa tradursi in un eccesso di controllo e in una limitazione delle libertà individuali, soprattutto per quanto riguarda la gestione degli spazi pubblici e delle attività commerciali.

Il centro storico di Genova è un microcosmo complesso, dove si intrecciano storie di integrazione e conflitto, tradizione e innovazione, ricchezza e povertà. La sfida che attende la polizia locale non è solo quella di garantire l’ordine pubblico, ma anche di saper interpretare le esigenze di una comunità in continua trasformazione, capace di accogliere e valorizzare le diversità.

La riforma rappresenta dunque un banco di prova cruciale per l’intera amministrazione comunale, che dovrà dimostrare di saper coniugare sicurezza e inclusione, fermezza e dialogo, innovazione e rispetto delle tradizioni. Il successo o il fallimento di questa svolta dipenderà dalla capacità di ascoltare le istanze dei cittadini, di coinvolgere tutti gli attori sociali e di adattare le strategie operative alle specificità di un territorio unico nel suo genere.

Nei prossimi mesi sarà fondamentale monitorare attentamente gli effetti della riforma, raccogliere dati oggettivi sull’andamento della criminalità e della percezione di sicurezza, e correggere eventuali criticità con tempestività e trasparenza. Solo così sarà possibile costruire una città più sicura, accogliente e vivibile per tutti, senza sacrificare la libertà e la vitalità che da sempre caratterizzano i vicoli di Genova.

BRICS in crisi: l’assenza di Putin e Xi Jinping scuote il vertice di Rio

Il vertice BRICS del 2025, ospitato a Rio de Janeiro, si è aperto in un clima di incertezza e tensione, segnato dall’assenza clamorosa dei leader di due delle sue nazioni fondatrici e più influenti: Vladimir Putin e Xi Jinping. Questa doppia defezione, che arriva in un momento cruciale per l’organizzazione, ha sollevato interrogativi profondi sul futuro e sulla reale coesione del blocco, mettendo in discussione la sua capacità di rappresentare un’alternativa credibile all’ordine economico e politico occidentale.

L’assenza di Xi Jinping, per la prima volta in dodici anni di vertici BRICS, è stata ufficialmente giustificata da un “conflitto di agenda”. Tuttavia, la scelta di inviare il premier Li Qiang al suo posto è stata letta dagli osservatori come un segnale di raffreddamento dell’interesse cinese verso il gruppo. La Cina, che negli ultimi anni aveva assunto un ruolo di traino all’interno dei BRICS, sembra ora voler ricalibrare le proprie priorità diplomatiche, forse anche alla luce delle crescenti tensioni commerciali con gli Stati Uniti e delle difficoltà interne legate alla gestione della propria economia e della stabilità politica.

Per quanto riguarda la Russia, la situazione è ancora più delicata. Vladimir Putin, destinatario di un mandato di arresto internazionale emesso dalla Corte Penale Internazionale per il suo coinvolgimento nell’invasione dell’Ucraina, ha scelto di non recarsi in Brasile, paese firmatario dello Statuto di Roma e quindi obbligato ad agire in caso di sua presenza fisica. La decisione di Putin di partecipare solo tramite collegamento video è stata interpretata come un tentativo di evitare imbarazzi diplomatici sia per sé che per il paese ospitante, ma anche come un segnale della crescente marginalizzazione della Russia sulla scena internazionale.

Queste assenze non sono solo simboliche, ma rappresentano una frattura profonda all’interno del gruppo. I BRICS, nati nel 2009 come piattaforma di cooperazione tra economie emergenti – Brasile, Russia, India, Cina e Sudafrica – hanno progressivamente ampliato la propria base, accogliendo nuovi membri come Indonesia, Iran, Egitto, Etiopia, Arabia Saudita ed Emirati Arabi Uniti. Tuttavia, questa espansione, invece di rafforzare la coesione, sembra aver accentuato le divergenze interne. I nuovi membri, infatti, presentano livelli di sviluppo economico molto diversi e rapporti spesso ambigui con l’Occidente, rendendo difficile la definizione di una linea politica comune.

La rapida crescita numerica del gruppo ha eroso la sua identità originaria di “alternativa ideologica al capitalismo occidentale”. Se inizialmente i BRICS si proponevano come un blocco compatto in grado di sfidare la supremazia delle economie avanzate e di promuovere un nuovo ordine multipolare, oggi la loro eterogeneità rischia di trasformarli in un semplice forum di consultazione, privo di reale capacità di incidere sulle dinamiche globali. Questa percezione è rafforzata dalle preoccupazioni espresse da alcuni membri storici, come Brasile, Sudafrica e India, che temono di vedere diluita la propria influenza all’interno di un gruppo sempre più vasto e frammentato.

Il vertice di Rio si svolge inoltre in un contesto internazionale particolarmente complesso. Le tensioni commerciali con gli Stati Uniti, acuite dalle nuove tariffe annunciate dall’amministrazione Trump, rappresentano una sfida diretta per molti paesi BRICS, in particolare per la Cina. Allo stesso tempo, la guerra in Ucraina e le recenti azioni militari statunitensi contro siti nucleari iraniani hanno contribuito a polarizzare ulteriormente il quadro geopolitico, rendendo ancora più difficile per il gruppo presentarsi come un attore unitario e credibile sulla scena mondiale.

La scelta di Xi Jinping di non partecipare al vertice priva la Cina di un’occasione preziosa per rafforzare la propria immagine di leader alternativo agli Stati Uniti. Pechino, che negli ultimi anni aveva investito molto nella costruzione di una leadership globale, soprattutto nei confronti dei paesi del Sud del mondo, rischia ora di vedere compromessa la propria strategia di soft power. L’assenza di Xi è stata interpretata da molti analisti come il segnale di una fase di ripiegamento tattico, forse dettata dalla necessità di concentrarsi su questioni interne o di evitare un’esposizione eccessiva in un momento di particolare vulnerabilità internazionale.

Anche la Russia, pur mantenendo una presenza virtuale, appare sempre più isolata. Il mandato di arresto internazionale nei confronti di Putin limita fortemente la sua libertà di movimento e la sua capacità di partecipare attivamente ai grandi consessi internazionali. Questa situazione, unita alle sanzioni occidentali e alla prosecuzione del conflitto in Ucraina, contribuisce a ridimensionare il ruolo di Mosca all’interno dei BRICS e a rafforzare la percezione di un gruppo in crisi di identità e di leadership.

La discussione sull’espansione del gruppo e sulla sua futura direzione strategica è al centro del vertice di Rio. Se da un lato l’ingresso di nuovi membri offre l’opportunità di ampliare la sfera d’influenza dei BRICS e di rafforzare la cooperazione Sud-Sud, dall’altro rischia di accentuare le divisioni interne e di rendere ancora più difficile la definizione di obiettivi condivisi. La presenza di paesi con interessi spesso divergenti e con rapporti ambivalenti con l’Occidente complica ulteriormente il quadro, alimentando il sospetto che l’espansione sia più il frutto di una ricerca di visibilità che di una reale volontà di costruire un’alternativa sistemica.

Il vertice di Rio rappresenta dunque un banco di prova decisivo per il futuro dei BRICS. La capacità del gruppo di superare le attuali difficoltà e di rilanciare la propria agenda dipenderà dalla volontà dei suoi membri di trovare un nuovo equilibrio tra espansione e coesione, tra ambizione globale e pragmatismo politico. In questo senso, la leadership del Brasile, che quest’anno detiene la presidenza di turno, sarà fondamentale per cercare di ricomporre le fratture interne e di rilanciare il progetto originario di cooperazione tra economie emergenti.

Nonostante le difficoltà, i BRICS continuano a rappresentare una fetta significativa dell’economia mondiale. Con circa la metà della popolazione globale e oltre il 41% del PIL mondiale a parità di potere d’acquisto, il gruppo mantiene un potenziale di influenza notevole, soprattutto se riuscirà a superare le attuali divisioni e a presentarsi come un interlocutore credibile nei grandi dossier globali, dalla riforma della governance internazionale alla promozione di un nuovo ordine economico più inclusivo e multipolare.

La sfida principale per i BRICS sarà quella di dimostrare di essere qualcosa di più di un semplice club di potenze emergenti. Solo attraverso una maggiore coesione interna, una visione strategica condivisa e la capacità di adattarsi alle nuove dinamiche globali il gruppo potrà aspirare a giocare un ruolo da protagonista nel mondo che verrà. L’assenza dei leader di Russia e Cina al vertice di Rio, tuttavia, rappresenta un campanello d’allarme che non può essere ignorato: il rischio è che il gruppo perda progressivamente rilevanza, trasformandosi in un’arena di confronto sterile e priva di reale impatto sulle grandi questioni internazionali.

Elon Musk contro Trump: fonda l’America Party

Elon Musk, l’uomo più ricco del mondo e figura centrale dell’innovazione tecnologica globale, ha annunciato la creazione di un nuovo partito politico negli Stati Uniti, denominato “America Party”. La notizia, diffusa attraverso il suo social network X, arriva a poche settimane da una clamorosa rottura con l’ex presidente Donald Trump, segnando un nuovo capitolo nella già turbolenta relazione tra i due e, più in generale, nel panorama politico americano.

L’annuncio di Musk non è stato un semplice comunicato, ma il culmine di una serie di eventi che hanno visto il magnate passare da sostenitore e finanziatore di Trump a suo critico aperto. Durante la campagna elettorale del 2024, Musk aveva infatti sostenuto Trump con un contributo economico considerevole, una cifra che aveva contribuito in modo significativo al tentativo dell’ex presidente di riconquistare la Casa Bianca. In seguito alla vittoria di Trump, Musk era stato nominato a capo di un importante dipartimento governativo, incaricato di individuare tagli di bilancio a livello federale, un ruolo che gli aveva conferito grande visibilità e potere all’interno dell’amministrazione.

Tuttavia, la collaborazione tra i due si è incrinata rapidamente. La rottura è avvenuta in modo pubblico e plateale nel maggio 2025, quando Musk ha lasciato l’amministrazione criticando apertamente le politiche fiscali e di spesa del presidente. Il punto di maggiore attrito è stato rappresentato da una legge finanziaria, definita da Trump la sua “big, beautiful bill”, approvata a fatica dal Congresso e firmata poco dopo. Questa legge, che prevede ingenti spese e tagli fiscali, è stata duramente contestata da Musk, che ne ha sottolineato il potenziale impatto negativo sul deficit federale, stimato in un aumento considerevole nel prossimo decennio.

La tensione tra Musk e Trump si è riversata anche sui social media, dove il fondatore di Tesla e SpaceX ha lanciato un sondaggio tra gli utenti di X, chiedendo se fosse necessario un nuovo partito politico negli Stati Uniti. Il risultato del sondaggio, secondo Musk, ha evidenziato una chiara domanda di cambiamento e di superamento del tradizionale sistema bipartitico americano. Nel suo annuncio ufficiale, Musk ha dichiarato: “Quando si tratta di sprecare il nostro potenziale, non viviamo in una democrazia, ma in un sistema a due partiti. Oggi nasce l’America Party per restituirvi la vostra libertà”.

Nonostante l’enfasi dell’annuncio, restano molte incertezze sulla reale esistenza e struttura del nuovo partito. Al momento della comunicazione, non risultavano documenti ufficiali di registrazione presso la Federal Election Commission, né dettagli sulla leadership o sull’organizzazione interna. Questo aspetto ha sollevato dubbi tra gli osservatori politici, che si interrogano sulla concretezza dell’iniziativa e sulle reali intenzioni di Musk. Alcuni analisti ritengono che si tratti di una mossa strategica per mantenere alta l’attenzione mediatica e rafforzare la propria influenza politica, mentre altri ipotizzano che Musk possa davvero ambire a costruire una nuova forza capace di rompere il duopolio di Democratici e Repubblicani.

Il contesto in cui nasce l’America Party è quello di una profonda insoddisfazione nei confronti della politica tradizionale. Negli ultimi anni, la polarizzazione e la crescente distanza tra cittadini e istituzioni hanno alimentato il desiderio di alternative credibili. Musk, con la sua immagine di imprenditore visionario e outsider, sembra voler intercettare questo sentimento, proponendosi come catalizzatore di un cambiamento radicale. La sua retorica, incentrata sulla libertà individuale e sulla lotta agli sprechi, trova terreno fertile in una società sempre più disillusa dalle promesse non mantenute dei partiti storici.

La vicenda assume contorni ancora più significativi se si considera il ruolo che Musk ha avuto negli ultimi anni nella politica e nell’economia americana. Oltre al sostegno finanziario a Trump, il magnate ha spesso influenzato il dibattito pubblico con le sue dichiarazioni e iniziative, spaziando dalla tecnologia all’energia, dalla colonizzazione di Marte alla libertà di espressione online. La sua capacità di mobilitare milioni di follower e di orientare l’opinione pubblica lo rende una figura atipica, capace di muoversi con disinvoltura tra il mondo degli affari e quello della politica.

L’annuncio dell’America Party rappresenta quindi un ulteriore passo nella trasformazione di Musk da imprenditore a leader politico. Se da un lato la sua iniziativa potrebbe rivelarsi un semplice esercizio di visibilità, dall’altro non si può sottovalutare il potenziale impatto di una sua discesa in campo più strutturata. La storia americana è ricca di tentativi di terze forze politiche, quasi sempre falliti di fronte alla solidità del sistema bipartitico. Tuttavia, la combinazione di risorse economiche, capacità comunicativa e carisma personale di Musk potrebbe rappresentare un’eccezione, soprattutto in un’epoca di grande fluidità e incertezza.

Resta da vedere se l’America Party riuscirà a superare le difficoltà organizzative e legali che hanno storicamente ostacolato la nascita di nuovi soggetti politici negli Stati Uniti. La registrazione presso la Federal Election Commission, la definizione di un programma chiaro e la costruzione di una rete territoriale sono passaggi obbligati per chiunque voglia competere seriamente a livello nazionale. In assenza di questi elementi, il rischio è che l’iniziativa di Musk si esaurisca rapidamente, lasciando spazio a nuove polemiche e speculazioni.

Nel frattempo, la reazione del mondo politico e dei media è stata di grande attenzione, ma anche di scetticismo. Molti si chiedono se Musk sia davvero intenzionato a sfidare l’establishment o se stia semplicemente cercando di rafforzare la propria posizione negoziale nei confronti dei partiti tradizionali. Altri sottolineano come la sua figura, pur essendo molto popolare in alcuni ambienti, sia anche divisiva e suscettibile di critiche, soprattutto per le sue posizioni spesso controverse su temi come la regolamentazione delle tecnologie, la tassazione delle grandi imprese e la gestione dei dati personali.

La nascita dell’America Party segna un momento di svolta nella carriera pubblica di Elon Musk e, potenzialmente, nella storia politica degli Stati Uniti. Se l’iniziativa avrà successo o meno dipenderà da molti fattori, tra cui la capacità di Musk di trasformare il consenso virtuale in organizzazione reale, di attrarre alleati credibili e di proporre soluzioni concrete ai problemi del paese. In ogni caso, la sua mossa conferma la crescente intersezione tra tecnologia, economia e politica, e apre nuovi scenari in un’America sempre più alla ricerca di risposte e di leader capaci di interpretare le sfide del presente e del futuro.

Kyiv sotto assedio: la notte più lunga tra bombe, paura e diplomazia bloccata

Nella notte tra il 3 e il 4 luglio 2025, Kyiv è stata teatro di uno degli attacchi aerei più devastanti dall’inizio della guerra, segnando un nuovo, drammatico capitolo nel conflitto tra Russia e Ucraina. La capitale ucraina è stata colpita da una pioggia di droni e missili, in un’operazione che ha coinvolto centinaia di ordigni, tra cui droni e missili, secondo quanto riportato dall’aeronautica ucraina. L’attacco, che ha avuto come principale obiettivo proprio Kyiv, ha lasciato dietro di sé una scia di distruzione e terrore, con morti e numerosi feriti, alcuni dei quali in condizioni gravi.

Le sirene antiaeree hanno risuonato per ore consecutive, costringendo migliaia di residenti a rifugiarsi nei tunnel della metropolitana e nei rifugi sotterranei. Il rumore incessante dei droni Shahed, il crepitio delle esplosioni e il fuoco delle mitragliatrici antiaeree hanno scandito una notte di paura e incertezza. I soccorritori hanno lavorato senza sosta per domare gli incendi scoppiati in diversi quartieri della città, mentre i detriti degli ordigni abbattuti si sono sparsi in decine di punti diversi, danneggiando gravemente edifici residenziali, scuole, strutture sanitarie, linee ferroviarie e altre infrastrutture civili.

Il sindaco di Kyiv, Vitali Klitschko, ha confermato che tra i feriti vi sono anche bambini e donne incinte. Una giovane donna incinta di otto mesi ha raccontato di essersi trasferita a Kyiv da Pokrovsk, nel Donetsk, solo un mese fa, e di non aver mai sentito esplosioni così potenti nemmeno nella sua città d’origine, già duramente colpita dalla guerra. Molti residenti hanno descritto la notte come un incubo ad occhi aperti, con le luci che si spegnevano improvvisamente e i vetri delle finestre che andavano in frantumi sotto la pressione delle onde d’urto. “Il nostro intero edificio tremava”, ha dichiarato una testimone, mentre un’altra ha raccontato di aver visto il fumo delle esplosioni invadere anche i quartieri più lontani dal centro.

L’attacco è avvenuto poche ore dopo una telefonata tra il presidente russo Vladimir Putin e il presidente statunitense Donald Trump. Durante la conversazione, durata circa un’ora, Trump ha espresso la sua frustrazione per la mancanza di progressi verso una soluzione diplomatica del conflitto, mentre Putin ha ribadito la determinazione della Russia a perseguire i propri obiettivi in Ucraina, nonostante le pressioni internazionali per un cessate il fuoco. Secondo fonti del Cremlino, Putin ha sottolineato che Mosca non intende arretrare rispetto alle sue “cause profonde” del conflitto, tra cui la volontà di impedire l’ingresso dell’Ucraina nella NATO e di proteggere le comunità russofone nel paese. Trump, dal canto suo, ha dichiarato di non aver ottenuto alcun risultato concreto dal colloquio, definendo Putin “ostinato” e affermando che il leader russo “vuole solo continuare a uccidere”.

La tempistica dell’attacco non è passata inosservata: il presidente ucraino Volodymyr Zelensky ha sottolineato come le prime ondate di raid siano iniziate quasi in contemporanea con la diffusione delle notizie sulla telefonata tra Trump e Putin. Zelensky ha definito l’operazione russa “una delle più grandi e ciniche mai viste”, accusando Mosca di voler dimostrare, ancora una volta, la propria intenzione di non porre fine alla guerra e al terrore. Il presidente ucraino ha anche rivelato di aver avuto, a sua volta, una conversazione telefonica con Trump subito dopo l’attacco, definendola “molto importante e utile” per discutere delle necessità di difesa aerea e della produzione congiunta di droni.

L’attacco ha avuto ripercussioni anche sul piano diplomatico e militare. Negli stessi giorni, gli Stati Uniti hanno annunciato la sospensione di alcune forniture di armi all’Ucraina, tra cui missili Patriot e munizioni di precisione, a causa dell’esaurimento delle scorte nei magazzini americani. Questa decisione ha suscitato preoccupazione a Kyiv, che si trova ora a dover fronteggiare una delle più gravi offensive russe con risorse sempre più limitate. Trump ha lasciato intendere che gli Stati Uniti potrebbero valutare l’invio di nuovi sistemi di difesa aerea, ma al momento non sono stati presi impegni concreti. Nel frattempo, la Russia ha intensificato la propria campagna di bombardamenti, colpendo non solo la capitale ma anche altre città ucraine, e giustificando le proprie azioni come risposta a presunti “atti terroristici” del regime di Kyiv.

Le immagini che arrivano da Kyiv sono drammatiche: palazzi sventrati, finestre esplose, automobili carbonizzate e strade invase dai detriti. I vigili del fuoco, con le tute gialle, si muovono tra le macerie cercando di domare le fiamme e salvare chi è rimasto intrappolato. In alcuni quartieri, l’aria è diventata irrespirabile a causa dei prodotti di combustione, tanto che le autorità hanno invitato i cittadini a chiudere le finestre e a non uscire di casa se non strettamente necessario. Le scuole e le strutture sanitarie colpite hanno dovuto sospendere le attività, mentre i trasporti pubblici sono stati interrotti in diverse zone della città.

La comunità internazionale ha reagito con fermezza, condannando l’attacco e rinnovando l’appello a un cessate il fuoco immediato. Il ministro degli Esteri polacco ha riferito che anche la sezione consolare dell’ambasciata di Varsavia a Kyiv è stata danneggiata dai bombardamenti, sottolineando la gravità della situazione e la necessità di rafforzare le difese aeree ucraine. L’Unione Europea e la NATO hanno ribadito il loro sostegno a Kyiv, ma la sospensione delle forniture militari statunitensi rischia di lasciare l’Ucraina ancora più esposta agli attacchi russi nei prossimi mesi.

Sul fronte interno, la popolazione ucraina mostra una resilienza straordinaria, ma la stanchezza e la paura sono palpabili. Molti cittadini si interrogano sul futuro, temendo che la guerra possa ancora durare a lungo e che la pressione militare russa sia destinata ad aumentare. Le autorità locali hanno rafforzato le misure di sicurezza e intensificato le campagne di informazione per preparare la popolazione a eventuali nuovi attacchi. Nel frattempo, le squadre di soccorso continuano a lavorare senza sosta per ripristinare i servizi essenziali e assistere le vittime.

L’attacco del 4 luglio rappresenta un punto di svolta nella guerra, sia per la sua portata che per il contesto politico in cui è avvenuto. La telefonata tra Trump e Putin, seguita dall’escalation militare russa, evidenzia la complessità del quadro internazionale e la difficoltà di trovare una soluzione diplomatica al conflitto. Mentre Mosca ribadisce la propria volontà di non arretrare, Kyiv si trova a dover resistere con risorse sempre più scarse e il sostegno occidentale che appare meno solido rispetto al passato. La popolazione civile, ancora una volta, paga il prezzo più alto di una guerra che sembra lontana dalla conclusione.

Trump: Israele accetta tregua di 60 giorni, ora la palla passa a Hamas

Israele ha accettato le condizioni per una tregua di 60 giorni nella Striscia di Gaza. L’annuncio, arrivato martedì sera dal presidente Donald Trump, segna un nuovo punto di svolta nei tentativi diplomatici per fermare il conflitto che da tempo insanguina il Medio Oriente. “Israele ha dato il via libera alle condizioni necessarie per finalizzare la tregua. Lavoreremo con tutte le parti per porre fine alla guerra”, ha dichiarato Trump sui social, aggiungendo un monito diretto a Hamas: “Spero, per il bene del Medio Oriente, che Hamas accetti questo accordo, perché non ci saranno offerte migliori – la situazione potrà solo peggiorare”.

L’accordo, che secondo Trump rappresenta la sua “migliore e ultima offerta”, sarà trasmesso a Hamas tramite i mediatori di Qatar ed Egitto, che da mesi lavorano per facilitare una soluzione diplomatica. La tregua temporanea, se accettata, dovrebbe aprire la strada a negoziati più ampi per una cessazione definitiva delle ostilità e per il rilascio degli ostaggi ancora nelle mani di Hamas.

Pressioni crescenti su Netanyahu e Hamas

L’annuncio arriva alla vigilia di un incontro ad alta tensione tra Trump e il premier israeliano Benjamin Netanyahu, previsto per lunedì alla Casa Bianca. Il presidente americano, che nelle ultime settimane ha intensificato la pressione su Israele e Hamas, ha dichiarato di voler essere “molto fermo” con Netanyahu sulla necessità di porre fine al conflitto. Anche Netanyahu, secondo fonti israeliane, avrebbe recentemente dato priorità al ritorno degli ostaggi rispetto agli altri obiettivi di guerra, segnale di una possibile apertura verso la tregua.

Nonostante l’ottimismo di Trump, restano forti dubbi sull’effettiva disponibilità di Hamas ad accettare l’accordo. In passato, il gruppo palestinese ha respinto proposte che prevedevano solo una sospensione temporanea dei combattimenti senza garanzie per il ritiro totale delle truppe israeliane e la fine definitiva della guerra. Israele, dal canto suo, continua a esigere la resa, il disarmo e l’esilio dei leader di Hamas, condizioni che il movimento considera inaccettabili.

Il contesto: una guerra senza fine

La guerra tra Israele e Hamas è iniziata dopo un attacco che ha causato numerose vittime israeliane. Da allora, la risposta militare di Israele ha devastato Gaza, con decine di migliaia di palestinesi uccisi secondo le autorità locali. Dopo una breve tregua a inizio anno, i combattimenti sono ripresi e ogni tentativo di mediazione si è infranto sulle richieste inconciliabili delle parti.

Le famiglie degli ostaggi e la pressione dell’opinione pubblica

Nel frattempo, le famiglie degli ostaggi israeliani continuano a manifestare e a chiedere al governo di accettare qualsiasi accordo che possa riportare a casa i loro cari, anche a costo di porre fine alla guerra. Alcuni parenti hanno annunciato l’intenzione di recarsi a Washington durante la visita di Netanyahu per fare pressione direttamente sui leader coinvolti.

La proposta di tregua arriva in un momento di profonda incertezza per Netanyahu, stretto tra le richieste degli alleati di governo più oltranzisti, che minacciano di far cadere l’esecutivo in caso di concessioni a Hamas, e la crescente stanchezza dell’opinione pubblica israeliana. Anche sul fronte internazionale, la pressione per una soluzione diplomatica è ai massimi livelli, con Stati Uniti, Qatar ed Egitto impegnati a evitare una nuova escalation che potrebbe coinvolgere anche Iran, Hezbollah e altri attori regionali.

L’annuncio di Trump rappresenta una rara finestra di opportunità diplomatica, ma il successo della tregua dipenderà dalla capacità delle parti di superare le reciproche diffidenze e di mettere da parte le condizioni massimaliste. La prossima settimana, con la visita di Netanyahu a Washington e la risposta attesa da Hamas, potrebbe essere decisiva per il futuro della regione.

La conferenza di Roma sull’Ucraina: Meloni rilancia l’impegno “sempre con Kiev”

Roma si appresta a ospitare una conferenza internazionale di alto profilo sul futuro dell’Ucraina, fortemente voluta dal governo guidato dalla presidente del Consiglio Giorgia Meloni. L’evento, annunciato da tempo e ora in fase avanzata di organizzazione, si svolge in un momento cruciale del conflitto, con l’avanzata delle forze russe su alcuni fronti e crescenti difficoltà per Kiev nel mantenere la resistenza, nonostante il costante supporto occidentale.

Sono attesi rappresentanti da tutto il mondo, con l’obiettivo di fare il punto sulla situazione e delineare nuove strategie di sostegno all’Ucraina, concentrandosi sia sullo stato della guerra sia sulle questioni economiche e commerciali, come quella dei dazi. La conferenza rappresenta anche un’occasione per riaffermare il continuo appoggio italiano a Kiev, sia sul piano militare che su quello della ricostruzione e dell’integrazione europea.

Nel promuovere l’iniziativa, Meloni ha voluto lanciare un messaggio inequivocabile: “Sempre con Kiev”, sottolineando la ferma volontà dell’Italia di continuare a sostenere l’Ucraina. Il governo italiano si conferma così un pilastro del fronte occidentale, non solo per gli aiuti militari, ma anche per l’assistenza umanitaria e l’impegno nella ricostruzione postbellica.

L’Italia, grazie al dialogo con gli Stati Uniti e l’Unione Europea, si propone come attore chiave nella mediazione e nel coordinamento degli sforzi internazionali. Recentemente, Meloni ha incontrato a Washington il presidente americano Donald Trump, con il quale ha discusso di dazi, sicurezza europea e ruolo dell’Italia nella ricostruzione dell’Ucraina. Trump ha espresso fiducia nella possibilità di un accordo commerciale con l’UE e ha sottolineato la “very special relationship” tra i due leader, evidenziando la volontà di collaborare per la fine della guerra.

La questione dei dazi commerciali resta uno dei temi più delicati nelle trattative tra Stati Uniti e Unione Europea. L’Italia, con la sua forte vocazione industriale ed esportatrice, è particolarmente sensibile a questa problematica, che rischia di incidere sulle relazioni transatlantiche e sulla coesione interna dell’UE. La conferenza di Roma potrebbe rappresentare un’occasione per affrontare anche questo aspetto, cercando soluzioni condivise che non compromettano il sostegno all’Ucraina.

Sul fronte militare, la situazione resta critica. L’avanzata russa e la crescente stanchezza delle forze ucraine pongono interrogativi sulla capacità di Kiev di resistere a lungo senza un supporto costante da parte degli alleati. Al tempo stesso, la comunità internazionale sta lavorando per favorire un cessate il fuoco e una pace duratura, come dimostrano i recenti incontri tra leader ucraini, statunitensi e rappresentanti del Vaticano a Roma.

La presidente della Commissione europea, Ursula von der Leyen, ha sottolineato l’importanza di una settimana cruciale per i negoziati e la necessità di un accordo duraturo, ribadendo la volontà comune di porre fine alla guerra.

La conferenza di Roma si configura dunque come un momento centrale per ridefinire la strategia occidentale nei confronti dell’Ucraina, con l’Italia in prima fila nel sostenere Kiev e nel promuovere la pace. L’impegno di Meloni e del governo italiano si conferma su più fronti: militare, economico, umanitario e diplomatico, con l’obiettivo di garantire un futuro stabile e sicuro per l’Ucraina e per l’Europa.

La guerra segreta della Cia e degli Stati Uniti in Ucraina

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La guerra in Ucraina ha molte sfaccettature. Non basta pensare ad un aggredito, il popolo ucraino e un aggressore, la Russia. Non serve capire chi ha sbagliato, o forse chi ha sbagliato per primo, si può guardare anche solamente la realtà: la dura e lucida guerra tra due nazioni.

Già, due nazioni. Siamo sicuri che sia proprio così? Ovviamente no. E la prova ce lo dà questo articolo. Non è di chi scrive, ma dei giornalisti del New York Times. Abbiamo letto l’originale, tradotto e condensato alcune parti per renderlo molto più facile da leggere e da capire.
Di cosa parla? Della guerra per procura degli Stati Uniti contro la Russia.

Se poi vogliamo vederla in modo più etico, l’aiuto degli Stati Uniti in una guerra tra un colosso, la Russia e una nazione fiera ma piccola, l’Ucraina.

Ma come sappiamo tutti, l’etica, in guerra, non ha posto. In fondo all’articolo trovate il link al lunghissimo originale del Nyt.

Traduzione e adattamento di Alessandro Trizio

Il segreto dell’alleanza tra Ucraina e Occidente, tra strategie militari e missioni clandestine

In una mattina di primavera, a due mesi dall’entrata delle truppe d’invasione di Vladimir Putin in Ucraina, un convoglio di auto non contrassegnate si è fermato in un angolo di una strada di Kiev, caricando due uomini in abiti civili di mezza età . Il convoglio composto da commando britannici in uniforme e pesantemente armati ha poi percorso 640 chilometri fino al confine polacco, attraversato agevolmente grazie a passaporti diplomatici, per raggiungere l’aeroporto di Rzeszów-Jasionka. Lì un aereo cargo C-130 attendeva pronto con i motori accesi per decollare alla volta della Clay Kaserne di Wiesbaden, quartier generale dell’esercito americano in Europa e Africa.

A bordo, due generali ucraini di alto rango, fra cui il tenente generale Mykhaylo Zabrodskyi, invitato a contribuire alla creazione di quello che sarebbe divenuto uno dei segreti più gelosamente custoditi della guerra: una partnership di intelligence, strategia, pianificazione e tecnologia destinata a cambiare le sorti del conflitto. Questa struttura avrebbe permesso all’amministrazione Biden di sostenere l’esercito ucraino e di contrapporsi, senza rischi di escalation, alle forze russe.

Tale alleanza ha operato in un crescendo di operazioni clandestine, pianificazioni condivise e uno scambio costante di informazioni. Dalla fornitura di artiglieria M777 e sistemi missilistici HIMARS allo sviluppo di droni marittimi, la collaborazione tra Stati Uniti, Paesi NATO e Ucraina si è rivelata cruciale nel respingere gli assalti russi, come nel caso dell’affondamento dell’incrociatore Moskva o nel contrasto alle offensive terrestri a Kharkiv e Cherson. Eppure, secondo le ricostruzioni degli stessi protagonisti, non sono mancati momenti di attrito, diffidenza e visioni strategiche divergenti.

I primi passi della partnership: da Kiev a Wiesbaden

Tutto è iniziato quando il generale Zabrodskyi è stato condotto all’Auditorium Tony Bass della guarnigione di Wiesbaden. Un ambiente che fino a poco tempo prima ospitava gare di tiro di scout e concerti di bande militari, ora trasformato in un fitto dedalo di cubicoli con ufficiali di varie nazioni. Qui si coordinavano le prime spedizioni occidentali di artiglieria pesante in Ucraina, tra cui i temuti M777 e i preziosi proiettili da 155 mm.

Ricevuto dal tenente generale Christopher T. Donahue, comandante del 18° corpo aviotrasportato, Zabrodskyi si è sentito proporre un patto: unire le competenze sul campo degli ucraini alle avanzate capacità d’intelligence e di pianificazione dell’esercito statunitense e dei suoi alleati. “Ho detto al comandante in capo che avevamo trovato il nostro partner”, ricorda lo stesso Zabrodskyi, rimasto colpito dalla leadership di Donahue.

Nonostante le diffidenze iniziali dovute anche ai tentennamenti occidentali del 2014 e delle limitazioni imposte dalla Casa Bianca nella condivisione di informazioni sensibili, gli ucraini scoprirono rapidamente i vantaggi di ricevere dati di intelligence precisi e in tempo reale. Grazie a questi, le forze di Kiev riuscirono a neutralizzare un radar russo “Zoopark” (Si tratta di un radar attivo mobile a scansione elettronica) e a sventare un tentativo di attraversamento fluviale vicino a Sievierodonetsk. Era solo l’inizio della convergenza fra l’analisi strategica occidentale e l’audacia operativa ucraina.

La sfida degli M777 e l’evoluzione verso gli HIMARS

Se i primi aiuti militari erano stati limitati a sistemi antiaerei, anticarro e droni, con l’avanzare del conflitto divenne necessario un cambio di passo. Gli Stati Uniti decisero di inviare obici M777 e munizioni a lungo raggio, permettendo agli ucraini di reggere l’urto russo nel Donbass e di frenare le avanzate sul fronte meridionale.

Malgrado la freddezza iniziale per il timore di innescare un’escalation internazionale, gli Stati Uniti acconsentirono a fornire poi i sistemi missilistici ad alta mobilità (HIMARS), con una gittata di circa 80 chilometri e testate di precisione. A Wiesbaden, il generale Donahue e i suoi uomini iniziarono a trasmettere “punti di interesse”, ovvero coordinate di obiettivi russi estrapolate dall’intelligence americana, che gli artiglieri ucraini avrebbero colpito con fermezza. Il successo fu immediato: le forze russe, sorprese, subirono durissimi colpi al morale e perdite crescenti.

Due offensive, un dubbio: Kherson e Kharkiv

In quel momento, le forze di Kiev apparivano in grado di passare all’offensiva. Dopo un periodo di pianificazione tra ucraini e Task Force Dragon (così era stata ribattezzata la squadra guidata dal generale Donahue), si decise di sferrare un colpo a sud, verso Kherson, e di lanciare un’azione più contenuta a est, nella zona di Kharkiv.

I due assalti avrebbero dovuti scaglionare nel tempo. Ma la decisione del presidente Volodymyr Zelensky di anticipare l’operazione meridionale, con la speranza di mostrare risultati concreti prima di un importante vertice internazionale, portò paradossalmente a un’evoluzione fulminea a est, dove la resistenza russa collassò inaspettatamente. Le forze di Kharkiv avanzarono così a tappe forzate, mentre a sud il comando ucraino esitava nel colpire i russi in ritirata sulla riva occidentale del Dnipro.

Gli attriti e l’incertezza su come sfruttare il vantaggio rallentarono i progressi: alcuni comandanti preferivano un approccio più cauto, altri invocavano l’audacia. Intanto, le trincee difensive scavate dall’esercito russo si moltiplicavano, arginando l’eventuale avanzata ucraina verso la Crimea.

Il peso delle rivalità interne e la cautela occidentale

L’alleanza era solida, eppure non priva di incrinature. Sul fronte ucraino, rivalità personali emergevano tra i generali Valery Zaluzhny e Oleksandr Syrsky, in competizione per leadership e risorse (come i preziosi sistemi HIMARS) . Alcune scelte, come il dispendioso assalto a Bakhmut, finirono per depotenziare il grande sforzo offensivo a sud, trasformando quella che avrebbe potuto essere un’avanzata decisiva in un nuovo stallo.

Dal lato americano, vigevano restrizioni e linee rosse dettate da Washington. L’amministrazione Biden temeva che un coinvolgimento troppo profondo, o attacchi diretti su obiettivi “sensibili” in territorio russo, potesse scatenare una reazione ancora più estrema di Putin. Perciò, all’inizio, era proibito segnalare con precisione obiettivi in Crimea o fornire coordinate che permettessero di colpire dentro i confini russi. Tuttavia, col passare dei mesi e l’intensificarsi della guerra, tali limitazioni furono progressivamente allentate.

I droni e la flotta del Mar Nero: l’escalation nel Mar d’Azov

Un esempio di questa evoluzione fu la serie di attacchi contro la flotta russa del Mar Nero a Sebastopoli, in Crimea. Inizialmente, la Casa Bianca aveva vietato di aiutare direttamente un’azione in territori che Mosca considerava parte della Federazione. Ma i timori degli alleati lasciarono gradualmente spazio all’urgenza di colpire basi, navi e sottomarini russi che continuavano a lanciare missili contro l’Ucraina.

Con il placet americano e britannico, la marina ucraina, sostenuta dalla CIA, sviluppò una flotta di droni marittimi in grado di superare i sistemi di difesa russi. Parallelamente, il Pentagono allargò la condivisione d’intelligence, inviando “punti di interesse” per colpire con razzi di precisione obiettivi sensibili, come depositi di munizioni o centri di comando russi.

Le linee rosse si spostano: Crimea, Russia e nuovi scenari

Se in precedenza era impensabile toccare il ponte sullo Stretto di Kerch, simbolo dell’annessione della Crimea, ora il clima era cambiato. L’amministrazione Biden diede il via libera a un piano congiunto fra esercito ucraino, CIA e Regno Unito per provare a far collassare il ponte con missili ATACMS e droni marittimi. Il risultato, però, non fu quello sperato: il ponte subì danni riparabili, lasciando l’amaro in bocca a chi sperava in un colpo simbolico a Putin.

Allo stesso tempo, i generali americani riconsiderarono la possibilità di sostenere azioni anche sul suolo russo, specialmente quando i sistemi di artiglieria di Mosca minacciavano dal confine regioni ucraine densamente popolate come Kharkiv. Si iniziò così a parlare di un’“area operativa” oltrefrontiera, in cui gli ucraini avrebbero potuto colpire con armi e intelligence occidentali obiettivi russi, rovesciando un altro tabù che all’inizio del conflitto sembrava invalicabile.

Uno dei successi più eclatanti della campagna ucraina, l’affondamento dell’incrociatore Moskva, nave ammiraglia della flotta russa nel Mar Nero, segnò un punto di svolta. 

La Moskva era la nave ammiraglia della Flotta russa del Mar Nero. Gli ucraini la affondarono.

L’affondamento fu un trionfo clamoroso, una dimostrazione dell’abilità ucraina e dell’inettitudine russa. Ma l’episodio rifletteva anche la disgregazione delle relazioni ucraino-americane nelle prime settimane di guerra.

Gli americani provarono rabbia perché gli ucraini non avevano dato alcun preavviso; sorpresa perché l’Ucraina possedeva missili in grado di raggiungere la nave; e panico perché l’amministrazione Biden non aveva avuto intenzione di consentire agli ucraini di attaccare un simbolo così potente della potenza russa.

Gli ucraini aggredirono la nave sfruttando anche informazioni ricavate dalle comunicazioni con la marina statunitense, pur senza avvisare gli americani dell’imminente attacco. 

Nel corso dei mesi, il coordinamento sul campo si è fatto talmente stretto che alcuni ufficiali europei hanno definito gli occidentali “parte integrante della catena di morte”. Con la mappa degli obiettivi condivisi a Wiesbaden e la tecnologia delle forze NATO, le artiglierie ucraine hanno potuto infliggere perdite elevatissime all’esercito russo. Eppure, ogni successo incrementava anche il rischio di oltrepassare quella linea rossa che Mosca aveva tracciato, e che comprendeva la minaccia nucleare.

Le offensive mancate e l’incubo dell’escalation

La grande controffensiva del 2023 mirava, nei progetti originari di Kiev, a riconquistare in breve tempo territori chiave come Melitopol, spezzando il collegamento terrestre con la Crimea. Ma le rivalità interne ai vertici militari, la pressione politica di Zelensky per ottenere risultati rapidi, la mancanza di coordinamento con gli Stati Uniti e l’eccessiva attenzione su Bakhmut, teatro di una battaglia logorante, finirono per rallentare e poi arenare la controffensiva. La partnership ha operato all’ombra del più profondo timore geopolitico: che Putin potesse considerarla una violazione di una linea rossa dell’impegno militare e dare seguito alle sue minacce nucleari. La storia della partnership mostra quanto gli americani e i loro alleati siano talvolta arrivati ​​vicini a quella linea rossa, come eventi sempre più disastrosi li abbiano costretti, alcuni hanno detto troppo lentamente, a spingerla su un terreno più pericoloso e come abbiano attentamente elaborato protocolli per rimanere al sicuro.

L’amministrazione Biden ha ripetutamente autorizzato operazioni clandestine che in precedenza aveva proibito. Consiglieri militari americani sono stati inviati a Kiev e in seguito autorizzati ad avvicinarsi ai luoghi dei combattimenti. Ufficiali militari e della CIA a Wiesbaden hanno contribuito a pianificare e sostenere una campagna di attacchi ucraini nella Crimea annessa alla Russia. Infine, l’esercito e poi la CIA hanno ricevuto il via libera per consentire attacchi mirati nelle profondità della Russia stessa.

Per certi versi, l’Ucraina è stata, in un contesto più ampio, una rivincita in una lunga storia di guerre per procura tra Stati Uniti e Russia: in Vietnam negli anni ’60, in Afghanistan negli anni ’80, in Siria tre decenni dopo.

Fu anche un grande esperimento di guerra, che non solo avrebbe aiutato gli ucraini, ma avrebbe anche ricompensato gli americani con lezioni da trarre per qualsiasi guerra futura.

Dall’altra parte, la Casa Bianca temeva costantemente che l’avanzare ucraino verso la Crimea potesse spingere Putin a considerare l’uso di armi nucleari tattiche. Ciò portò a contrattazioni continue su quali sistemi e munizioni consentire, su quali aree fosse lecito colpire e con quali modalità di targeting.

Dal 2024 in poi: nuove operazioni, nuove tensioni

Con il passare del tempo, la partnership ha prodotto risultati militari impressionanti, ma anche tensioni crescenti. Le trincee russe si moltiplicavano, e nuovi fronti si aprivano. Episodi come l’incursione del generale Syrsky oltre il confine russo a Kursk, inizialmente all’oscuro degli americani, hanno sollevato questioni sulla fiducia e sul rischio di escalation. Per gli americani, lo svolgimento dell’incursione rappresentò una grave violazione della fiducia. Non solo gli ucraini li avevano tenuti ancora una volta all’oscuro; avevano segretamente oltrepassato un limite concordato, portando equipaggiamento fornito dalla coalizione nel territorio russo compreso nell’area operativa, violando le regole stabilite al momento della sua creazione.

La cooperazione era stata istituita per prevenire un disastro umanitario non perché gli ucraini potessero approfittarne per impadronirsi del suolo russo. Gli americani avrebbero potuto staccare la spina alle operazioni. Eppure sapevano che farlo, ha spiegato un funzionario dell’amministrazione, “avrebbe potuto portare a una catastrofe”: i soldati ucraini a Kursk sarebbero morti senza la protezione dei razzi HIMARS e dell’intelligence statunitense.

Kursk, conclusero gli americani, era la vittoria a cui Zelensky aveva accennato fin dall’inizio. Era anche la prova dei suoi calcoli: parlava ancora di vittoria totale. Ma uno degli obiettivi dell’operazione, spiegò agli americani, era la leva finanziaria: catturare e mantenere il territorio russo che avrebbe potuto essere scambiato con quello ucraino nei futuri negoziati.

Nel frattempo, l’amministrazione Biden, sebbene inizialmente riluttante, ha autorizzato operazioni sempre più audaci, come la campagna denominata “Lunar Hail” per indebolire la presenza militare russa in Crimea. Si è persino discusso dell’opportunità di colpire obiettivi in profondità nella Federazione Russa, in particolare depositi di munizioni e centri logistici ritenuti cruciali per sostenere l’esercito invasore.

Un conflitto appeso a un filo geopolitico

Oggi l’alleanza tra l’Ucraina e l’Occidente, rappresentata simbolicamente dalla “Task Force Dragon” a Wiesbaden, appare come un laboratorio di guerra moderno, in cui si fondono tecnologia d’avanguardia, intelligence internazionale e il coraggio di un Paese invaso che combatte per la propria sopravvivenza.

In questa lotta, non esiste un punto di equilibrio stabile. Dalle audaci sortite con droni marittimi ai sistemi di difesa Patriot, dalle operazioni sotterranee della CIA alle divergenze fra generali sul campo, la partnership ha resistito tra successi e scetticismi. Resta da vedere se l’Ucraina riuscirà a trasformare questa collaborazione, forgiata in emergenza e imperniata sull’urgenza di un’“arma segreta”, in una vittoria duratura sul campo e, soprattutto, in una pace sostenibile.

I russi avevano compiuto progressi lenti ma costanti contro le forze ucraine ormai ridotte a est. Stavano anche riconquistando parte del territorio a Kursk, fino a riprenderlo completamente. Certo, le perdite russe erano aumentate vertiginosamente, raggiungendo tra le 1.000 e le 1.500 unità al giorno. Ma continuavano ad avanzare.

Nel primo anno di guerra, con l’aiuto di Wiesbaden, gli ucraini avevano preso il sopravvento, riconquistando più della metà del territorio perso dopo l’invasione del 2022. Ora, si stavano battendo per minuscole zolle di terra a est e a Kursk, ma continuavano a retrocedere.

La nuova situazione determinata dalla presenza alla Casa Bianca di Donald Trump porta tutto lo sforzo fatto ad un solo risultato: la Russia avrà le terre che voleva fin dall’inizio. Un accordo pare ormai fatto, le continue “alleanze” tecnico politiche tra Putin e Trump sembrano accertarlo. E la domanda diventa sempre più imponente, sempre più pressante: a cosa è servita la guerra?

E’ una domanda che ci si pone ormai da sempre dopo guerre devastanti che portano poi a risultati che si potevano forse ottenere in altro modo. Ma questo altro modo, la diplomazia, non viene mai ascoltato, sembra essere sempre una richiesta assurda perché non si può permettere a nessuno di oltrepassare la linea e di accaparrarsi terre non sue. Ci vuole la guerra perché capisca che non può farlo.

Ma alla fine, le terre rimangono comunque all’invasore.

Originalehttps://www.nytimes.com/interactive/2025/03/29/world/europe/us-ukraine-military-war-wiesbaden.html 

Germania verso il riarmo: spesa militare senza precedenti e debito in crescita

La Germania si prepara a una svolta storica nella sua politica di difesa, destinata a cambiare profondamente il ruolo del Paese non solo sul piano militare ma anche in ambito economico. Dopo anni di rigore finanziario e di attenzione alla riduzione del debito, il governo federale ha approvato un piano che prevede una spesa militare mai vista prima, aumentando in modo significativo gli stanziamenti per la difesa. L’obiettivo è superare i nuovi standard richiesti dall’alleanza NATO e posizionare la Germania tra i principali protagonisti del riarmo in Europa.

Un cambio di passo epocale

Il cambiamento è stato reso possibile grazie a una riforma costituzionale che ha allentato i vincoli sul debito, consentendo prestiti straordinari per spese militari e infrastrutturali. Secondo le previsioni, nei prossimi anni la Germania emetterà una quantità ingente di debito per finanziare queste voci strategiche. Il debito netto salirà sensibilmente rispetto agli anni precedenti e potrebbe raggiungere livelli mai visti nel prossimo decennio, se i deficit dovessero rimanere fuori controllo.

Il governo, guidato dal cancelliere, difende la scelta come necessaria per rispondere alla minaccia proveniente dall’Est e consolidare il ruolo di Berlino come principale sostenitore dell’Ucraina, soprattutto di fronte a una possibile riduzione degli aiuti americani. Il piano include stanziamenti annuali per Kiev e un potenziamento dell’esercito tedesco, che dovrebbe aumentare sensibilmente i propri effettivi nei prossimi anni.

Non mancano però le critiche. Alcuni membri della coalizione di governo hanno messo in discussione la rapidità e l’entità dell’aumento della spesa militare, mentre i Verdi accusano l’esecutivo di eludere le regole di bilancio. Il fondo speciale creato dopo l’invasione russa dell’Ucraina verrà esaurito entro pochi anni, lasciando spazio a nuovi debiti per sostenere la crescita della difesa.

Una Germania più forte, ma con nuove sfide

Da decenni la Germania ha mantenuto una politica di bassa spesa militare e di stretta selettività nelle esportazioni di armamenti, tanto che la prontezza dell’esercito si è progressivamente ridotta. Oggi la Bundeswehr si posiziona al secondo posto in Europa, ma l’obiettivo è quello di diventare la forza militare più preparata del continente, come ha dichiarato il cancelliere al Parlamento.

Ma c’è un altro elemento da considerare: la percezione dell’opinione pubblica. Secondo i sondaggi, i cittadini tedeschi ritengono le forze armate ancora insufficientemente preparate e dotate per affrontare una minaccia dall’Est. La sfida, dunque, non è solo finanziaria ma anche culturale e organizzativa.

La scelta della Germania di puntare su un riarmo massiccio e su un indebitamento senza precedenti rappresenta una rottura con il passato recente. Il rischio è che il debito possa sfuggire di mano, soprattutto se la crescita economica non dovesse tenere il passo. Tuttavia, per Berlino questa è un’occasione imperdibile per rilanciare la propria economia e assumere un ruolo di leadership nella sicurezza europea, in un contesto geopolitico sempre più incerto.

Droni europei: l’intelligenza artificiale guida la rivoluzione tecnologica

L’Europa sta vivendo una vera e propria rivoluzione nel settore dei droni militari, dove l’intelligenza artificiale e le tecnologie avanzate stanno ridefinendo il modo di concepire la sorveglianza e il combattimento. L’esperienza maturata sui campi di battaglia, come quello ucraino, ha reso chiaro quanto sia fondamentale dotare i droni di capacità autonome grazie all’integrazione di nuovi software e sistemi di navigazione.

Nuove tecnologie a bordo

La nuova generazione di droni europei si affida sempre più all’intelligenza artificiale per la navigazione autonoma, il riconoscimento di bersagli e la pianificazione delle missioni. Questi sistemi sono in grado di elaborare grandi quantità di dati provenienti da sensori di ultima generazione, come telecamere ad alta risoluzione, sensori termici e radar miniaturizzati. Grazie all’AI, i droni possono distinguere tra persone, veicoli e altri oggetti, evitare ostacoli in autonomia e adattare le traiettorie di volo in base alle condizioni ambientali o alle minacce rilevate.

Un aspetto cruciale riguarda la resilienza dei sistemi di navigazione: i droni moderni integrano sia la tecnologia satellitare che la navigazione visiva, che consente loro di operare anche in zone dove il segnale satellitare è assente o disturbato. La miniaturizzazione dei sensori e la loro integrazione con l’intelligenza artificiale migliorano la mappatura del terreno e il riconoscimento degli ostacoli, rendendo i droni più sicuri e affidabili anche in contesti complessi.

La sicurezza delle operazioni viene ulteriormente rafforzata da tecnologie che impediscono ai droni di entrare in aree sensibili e da sistemi anti-drone, che integrano radar a corto raggio e dispositivi per neutralizzare minacce aeree. Tutti i droni europei sono inoltre soggetti a normative che garantiscono la tracciabilità e il controllo su tutte le operazioni aeree.

Verso l’autonomia e lo sciame

Un altro aspetto chiave della nuova generazione di droni è la capacità di operare in “sciame”, cioè in gruppi coordinati che possono svolgere missioni complesse con una supervisione umana minima. Questo approccio è supportato da piattaforme di comando e controllo basate sull’intelligenza artificiale, che permettono di pianificare e gestire missioni simultanee con numerosi droni.

L’Unione Europea sta investendo risorse significative per raggiungere l’autonomia strategica nel settore dei sistemi militari autonomi, con progetti che coinvolgono diversi Paesi membri. L’obiettivo è sviluppare droni capaci di raccogliere dati, monitorare vaste aree e supportare le operazioni militari con un elevato grado di autonomia e sicurezza.

La convergenza tra droni, intelligenza artificiale, telecomunicazioni di nuova generazione e manifattura avanzata sta aprendo nuove applicazioni e guidando la crescita del mercato. Restano però alcune sfide importanti, come la necessità di dati affidabili per l’addestramento degli algoritmi, la capacità di elaborazione a bordo e la sicurezza informatica. Nonostante queste difficoltà, l’Europa si sta confermando come uno dei principali attori globali nell’innovazione dei droni militari e civili, pronta a sfruttare le opportunità offerte dalle nuove tecnologie per rafforzare la propria sicurezza e competitività.