11 Novembre 2025
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Attacco di Israele all’Iran: una notte di fuoco che rischia di cambiare il Medio Oriente

Alle prime luci di venerdì 13 giugno 2025, il Medio Oriente si è svegliato alle prese con una delle crisi più gravi degli ultimi decenni. Israele ha portato a termine un’operazione militare su vasta scala contro l’Iran, colpendo decine di obiettivi strategici nel cuore del Paese persiano. L’attacco, denominato “Operation Rising Lion”, è stato definito dal governo di Gerusalemme come un intervento preventivo necessario per bloccare lo sviluppo di armi nucleari da parte di Teheran. Le esplosioni hanno squarciato la notte a Teheran, Isfahan, Khondab e Khorramabad, mentre il mondo si interroga sulle conseguenze di una mossa che rischia di innescare una spirale di violenza senza precedenti.

Il racconto della notte si snoda tra sirene di allarme, ordini di evacuazione e una tensione palpabile che si respirava già da giorni nelle capitali mediorientali. Secondo fonti israeliane, oltre 200 aerei da guerra hanno sganciato più di 330 munizioni su circa 100 obiettivi, tra cui impianti nucleari, installazioni militari e residenze di alti ufficiali e scienziati iraniani. Il Mossad, il servizio segreto israeliano, avrebbe condotto anche operazioni di sabotaggio contro le difese aeree e l’infrastruttura missilistica del nemico, rendendo ancor più difficile la risposta iraniana. L’obiettivo dichiarato era quello di impedire all’Iran di produrre fino a 15 testate nucleari in pochi giorni, una minaccia che secondo l’intelligence israeliana sarebbe stata imminente.

A Teheran, la popolazione si è svegliata nel caos. Le esplosioni hanno colpito diversi quartieri residenziali, oltre a basi militari e centri di comando strategici. Tra le vittime di rilievo, il comandante dei Guardiani della Rivoluzione, Hossein Salami, e il capo di stato maggiore delle Forze Armate, Mohammad Bagheri, entrambi uccisi negli attacchi.

Anche Gholamali Rashid, comandante del Quartier Generale Khatam al-Anbiya, e Fereydoon Abbasi, ex capo dell’Organizzazione per l’Energia Atomica iraniana, sono morti negli scontri. Non è stato risparmiato neppure il mondo accademico: Mohammad Mehdi Tehranchi, fisico nucleare e presidente dell’Università Azad, è rimasto ucciso. Ali Shamkhani, ex capo del Consiglio Supremo di Sicurezza Nazionale e consigliere del leader supremo, sarebbe stato gravemente ferito, anche se alcune fonti riportano la sua morte.

La reazione del leader supremo iraniano, Ali Khamenei, non si è fatta attendere. In un messaggio trasmesso dalle televisioni di Stato, Khamenei ha promesso una “punizione amara e dolorosa” a Israele, definendo l’attacco un atto di aggressione che non resterà impunito. Le forze armate iraniane sono state messe in stato di massima allerta e si attende una rappresaglia con missili e droni. Nel frattempo, le strade di Teheran sono state presidiate da unità militari e paramilitari, mentre la popolazione è stata esortata a rimanere in casa.

Israele, dal canto suo, ha reagito con una chiusura totale delle frontiere. Il Primo Ministro Benjamin Netanyahu ha dichiarato che l’operazione continuerà “per tutti i giorni necessari” per eliminare la minaccia nucleare iraniana. Lo Stato ebraico è stato messo in stato di emergenza nazionale, con sirene di allarme attivate in tutto il territorio e la chiusura dell’aeroporto Ben Gurion di Tel Aviv. Le scuole sono state chiuse e i cittadini sono stati invitati a restare in casa, mentre le forze armate israeliane sono schierate lungo i confini in attesa di una possibile risposta iraniana.

La comunità internazionale ha reagito con preoccupazione. Gli Stati Uniti hanno chiarito di non essere coinvolti nell’attacco e hanno esortato tutte le parti a evitare un’ulteriore escalation. Numerosi Paesi, tra cui Francia, Germania e Regno Unito, hanno espresso preoccupazione per il rischio di una guerra su larga scala e hanno chiesto la de-escalation. L’ONU ha convocato una riunione d’urgenza del Consiglio di Sicurezza, mentre i mercati finanziari hanno registrato un crollo delle borse asiatiche ed europee.

La notizia dell’attacco ha dominato i notiziari di tutto il mondo, con agenzie di stampa e reti televisive che hanno trasmesso immagini di esplosioni, edifici in fiamme e ambulanze che sfrecciavano per le strade di Teheran. I social media sono stati inondati di video e testimonianze di cittadini iraniani, che raccontavano il panico e la paura di quella notte. Molti hanno espresso rabbia e incredulità, chiedendo giustizia e una risposta decisa da parte del governo.

Il conflitto tra Israele e Iran non è una novità. Da anni i due Paesi si fronteggiano in una guerra fredda fatta di attacchi cibernetici, sabotaggi e operazioni segrete. Ma l’attacco di oggi rappresenta un salto di qualità, con una escalation militare che non ha precedenti negli ultimi decenni. Le tensioni erano già alte da mesi, dopo che l’Iran aveva annunciato di aver raggiunto un livello avanzato nello sviluppo di armi nucleari. Israele, da sempre contrario al programma nucleare iraniano, aveva minacciato più volte un intervento militare se la comunità internazionale non avesse assunto una posizione più dura.

La questione nucleare iraniana è al centro delle preoccupazioni della diplomazia mondiale da anni. Nonostante gli accordi internazionali e le pressioni delle Nazioni Unite, Teheran ha continuato a sviluppare il proprio programma atomico, sostenendo che si tratta di un diritto sovrano e che le sue attività sono esclusivamente pacifiche. Israele e molti Paesi occidentali, però, non hanno mai creduto a queste rassicurazioni e hanno ripetutamente denunciato il rischio di un Iran nucleare. L’attacco di oggi sembra essere la risposta più netta a queste preoccupazioni, ma rischia di aprire una nuova fase di instabilità nel Medio Oriente.

Le conseguenze dell’operazione israeliana sono ancora difficili da valutare. Da un lato, l’Iran potrebbe decidere di rispondere con un attacco su larga scala, scatenando una guerra regionale che coinvolgerebbe anche gli alleati di entrambe le parti. Dall’altro, la comunità internazionale potrebbe intervenire con sanzioni o pressioni diplomatiche per evitare che la situazione degeneri. Intanto, la popolazione civile di entrambi i Paesi si trova a pagare il prezzo più alto, con morti, feriti e un clima di paura che si diffonde rapidamente.

La notizia dell’attacco ha avuto ripercussioni immediate anche sui mercati internazionali. Le borse asiatiche hanno registrato un crollo dei titoli energetici e tecnologici, mentre il prezzo del petrolio è salito alle stelle. Gli investitori temono che un conflitto su larga scala nel Golfo Persico possa interrompere le forniture di greggio e destabilizzare l’economia globale. Anche le compagnie aeree hanno annunciato la sospensione dei voli verso Israele e Iran, mentre molti Paesi hanno invitato i propri cittadini a lasciare la regione.

In Israele, la tensione è palpabile. Le strade di Tel Aviv e Gerusalemme sono quasi deserte, mentre le autorità hanno rafforzato i controlli di sicurezza in tutti i punti nevralgici del Paese. I cittadini sono stati esortati a restare vigili e a seguire le indicazioni delle forze dell’ordine. Molti israeliani hanno espresso solidarietà alle vittime degli attacchi in Iran, ma anche preoccupazione per una possibile escalation che potrebbe coinvolgere direttamente il loro Paese.

In Iran, la situazione è ancora più drammatica. Oltre alle vittime civili e militari, il Paese si trova a dover affrontare una crisi sanitaria e logistica. Gli ospedali di Teheran sono stati invasi da feriti, mentre le autorità hanno dichiarato lo stato di emergenza in diverse province. Le comunicazioni sono state parzialmente interrotte e molti cittadini hanno difficoltà a contattare i propri cari. Le scuole e le università sono state chiuse, mentre le forze di sicurezza pattugliano le strade per evitare disordini.

La reazione internazionale è stata immediata. L’ONU ha convocato una riunione d’urgenza del Consiglio di Sicurezza, mentre i leader mondiali hanno espresso preoccupazione per il rischio di una guerra su larga scala. Il Segretario Generale delle Nazioni Unite ha chiesto a tutte le parti di mostrare moderazione e di evitare ulteriori azioni che possano aggravare la situazione. Anche l’Unione Europea ha condannato l’attacco israeliano, pur riconoscendo la legittima preoccupazione di Israele per la sicurezza nazionale.

La situazione è resa ancora più complessa dalle alleanze regionali. L’Iran può contare sul sostegno di gruppi armati come Hezbollah in Libano e gli Houthi in Yemen, che potrebbero essere coinvolti in una risposta militare contro Israele. Dall’altra parte, Israele gode dell’appoggio degli Stati Uniti e di molti Paesi occidentali, anche se questa volta Washington ha chiarito di non essere coinvolta nell’attacco. La posizione degli Stati Uniti è cruciale: una loro eventuale partecipazione diretta potrebbe trasformare il conflitto in una guerra globale.

Intanto, la diplomazia si muove freneticamente dietro le quinte. Numerosi Paesi hanno avviato contatti bilaterali per cercare di mediare tra le parti e evitare un’ulteriore escalation. La Turchia, la Russia e la Cina hanno espresso preoccupazione per la situazione e hanno offerto la propria mediazione. Anche i Paesi del Golfo, tradizionalmente ostili all’Iran, si sono mostrati cauti, temendo che una guerra regionale possa destabilizzare l’intera area.

La notizia dell’attacco ha sollevato anche interrogativi sul futuro del processo di pace in Medio Oriente. Con la crescente tensione tra Israele e Iran, la possibilità di una soluzione diplomatica al conflitto israelo-palestinese sembra ancora più lontana. I gruppi palestinesi, che da anni guardano all’Iran come a un alleato strategico, potrebbero essere tentati di approfittare della situazione per intensificare la propria azione contro Israele.

Il racconto di questa notte di fuoco non può limitarsi alle cifre e ai nomi dei leader uccisi. Dietro ogni numero c’è una storia, una famiglia, un futuro che rischia di essere cancellato. La cronaca giornalistica ha il dovere di raccontare anche questo, di dare voce a chi non ha voce e di ricordare che la guerra non è mai una soluzione, ma solo una tragedia senza vincitori.

Referendum. Crollo dell’affluenza

Il referendum abrogativo dell’8 e 9 giugno 2025 si è chiuso con un esito chiaro: il quorum non è stato raggiunto e, di fatto, nessuno dei cinque quesiti su lavoro e cittadinanza avrà effetto. L’affluenza si è attestata intorno al 30%, ben al di sotto della soglia del 50% più uno necessaria per la validità della consultazione. In particolare, il dato più alto di partecipazione si è registrato in Toscana, mentre il Trentino-Alto Adige è stato il fanalino di coda.

Dai risultati parziali emerge che il “Sì” ha prevalso largamente sui quattro quesiti sul lavoro, superando l’80% dei voti espressi, mentre per il quesito sulla cittadinanza,  che proponeva di ridurre da 10 a 5 anni il tempo necessario agli stranieri per richiedere la cittadinanza italiana, il “Sì” si è fermato intorno al 60-65%. Uno scarto significativo che riflette una diversa percezione da parte degli elettori rispetto ai temi del lavoro e dell’integrazione.

Le reazioni dei proponenti

Maurizio Landini, segretario generale della Cgil e principale promotore dei referendum, ha ammesso la sconfitta, ma ha sottolineato che l’obiettivo era quello di riportare al centro i diritti e le condizioni lavorative. “Il nostro obiettivo era raggiungere il quorum per cambiare le leggi, questo obiettivo non l’abbiamo raggiunto. Oggi non è una giornata di vittoria. Ma oltre 14 milioni di persone hanno votato: un numero importante, un punto di partenza. Non abbiamo nessuna intenzione di cambiare la nostra strategia”, ha dichiarato Landini.

Pina Picierno, eurodeputata Pd e vicepresidente dell’Eurocamera, ha definito il risultato “una sconfitta profonda, seria, evitabile. Purtroppo un regalo enorme a Giorgia Meloni e alle destre. Ora serve maturità, serietà e ascolto, evitando acrobazie assolutorie sui numeri”.

Le reazioni del No

La maggioranza di governo e i partiti di centrodestra hanno accolto con soddisfazione l’esito del referendum. Giovanbattista Fazzolari, sottosegretario alla Presidenza del Consiglio, ha dichiarato: “Le opposizioni hanno voluto trasformare i 5 referendum in un referendum sul governo Meloni. Il responso appare molto chiaro: il governo ne esce ulteriormente rafforzato e la sinistra ulteriormente indebolita”. Anche il ministro dell’ambiente Gilberto Pichetto Fratin ha sottolineato che “anche il non voto era una scelta di voto, perché io credo che i quesiti sono stati bocciati dalla maggioranza degli italiani”.

Sui social di Fratelli d’Italia è apparso un messaggio netto: “Avete perso: gli italiani vi hanno fatto cadere”. Il senatore Michele Barcaiuolo (FdI) ha aggiunto: “Il dato che emerge dal quesito sulla cittadinanza è politicamente impietoso e certifica il fallimento totale della proposta della sinistra. Gli italiani lo hanno ribadito con chiarezza: la cittadinanza non è un regalo, ma un traguardo che si conquista”.

I temi posti dai referendum restano aperti, ma il confronto politico si sposta ora su altri terreni.

Nomine portuali: il punto sulle scelte del governo Meloni

Il governo Meloni si trova in questi giorni al centro di una delicata e controversa partita sulle nomine dei presidenti delle Autorità di Sistema Portuale (AdSP) italiane. Dopo mesi di stallo e tensioni interne alla maggioranza, la questione è diventata urgente per il settore portuale e logistico nazionale, che chiede a gran voce una governance stabile e competente per affrontare le sfide infrastrutturali e di mercato.

Le procedure di nomina si sono sbloccate solo parzialmente, con alcuni nomi già proposti dal Ministero delle Infrastrutture e dei Trasporti e in attesa di ratifica parlamentare o del via libera definitivo delle Regioni:

  • Antonio Gurrieri (AdSP Mare Adriatico Orientale – Trieste e Monfalcone)
  • Francesco Benevolo (AdSP Adriatico Centro Settentrionale – Ravenna)
  • Francesco Mastro (AdSP Mare Adriatico Meridionale – Bari, Brindisi, Barletta, Manfredonia, Monopoli, Termoli)
  • Giovanni Gugliotti (AdSP Mare Ionio – Taranto)
  • Davide Gariglio (AdSP Mar Tirreno Settentrionale – Livorno, Capraia, Piombino, Portoferraio, Rio Marina, Cavo)
  • Matteo Paroli (AdSP Mar Ligure Occidentale – Genova e Savona)

Alcune di queste nomine hanno già ricevuto il parere favorevole delle Regioni di riferimento, come nel caso di Mastro e Gariglio, mentre altre sono ancora bloccate da trattative politiche e audizioni parlamentari.

Le cause dello stallo: scontri politici e spartizione tra partiti

Il ritardo nelle nomine è dovuto principalmente a un braccio di ferro interno alla maggioranza di governo, in particolare tra Fratelli d’Italia e Lega, che puntano a “mettere la bandierina” sui porti più strategici. La situazione è ulteriormente complicata da:

  • Inchieste giudiziarie (come quella sul porto di Genova), che hanno imposto maggiore cautela nelle scelte.
  • Necessità di allineare le scadenze dei presidenti in carica, per procedere a un rinnovo complessivo e non frammentato.
  • Accuse di spartizione politica e mancanza di competenze specifiche nei candidati, con alcuni nomi considerati troppo vicini a vecchie gestioni o a logiche di partito, e altri che rischiano di non rispettare i requisiti anagrafici previsti dalla legge.

Le principali associazioni del cluster marittimo-portuale (Alis, Ancip, Assiterminal, Assologistica, Confitarma, Federagenti, Uniport) hanno inviato un appello urgente al governo e al ministro Salvini affinché si proceda rapidamente alle nomine, sottolineando come la mancanza di presidenti effettivi stia rallentando opere infrastrutturali e la gestione dei porti.

Per sbloccare la situazione, si valuta la nomina temporanea dei candidati come commissari straordinari, in attesa della ratifica parlamentare.

Le polemiche sulle scelte e il rischio di “resa politica”

Le scelte del governo sono finite nel mirino di stampa e opposizione, che denunciano una “svendita” della governance portuale a logiche di spartizione partitica e la presenza di candidati senza esperienza manageriale portuale o addirittura in conflitto con i limiti di età previsti6. In particolare, viene criticata la conferma o la candidatura di figure considerate troppo legate al passato o a logiche di partito, sia di centrosinistra che di centrodestra.

Esempi di nomine contestate

Porto/AdSPCandidatoCriticità evidenziate
Genova/Savona (Mar Ligure Occ.)Matteo ParoliEsperienza manageriale diretta contestata
Livorno (Mar Tirreno Sett.)Davide GariglioVicinanza a PD, competenze logistiche dubbie
Bari (Adriatico Meridionale)Francesco MastroNomina politica, vicino a Emiliano
Ravenna (Adriatico Centro Sett.)Francesco BenevoloBurocrate ministeriale, critico col centrodestra
Trieste (Adriatico Orientale)Antonio GurrieriLegato a vecchie gestioni di centrosinistra
Napoli/CivitavecchiaAnnunziata/PetriRischio superamento limiti di età

Il dossier nomine portuali rappresenta una delle principali criticità politiche e gestionali per il governo Meloni in queste settimane. La scelta dei nuovi presidenti delle Autorità di Sistema Portuale è bloccata da scontri interni alla maggioranza, accuse di spartizione e timori legati a inchieste giudiziarie. Il settore chiede una rapida soluzione per garantire la piena operatività dei porti, mentre il governo valuta soluzioni-ponte in attesa di un difficile compromesso politico.

Putin, Trump e il Papa: la pace in Ucraina resta lontana

Negli ultimi giorni, il conflitto in Ucraina ha visto un nuovo sviluppo diplomatico di rilievo: Vladimir Putin ha avuto colloqui telefonici sia con il presidente statunitense Donald Trump sia con Papa Leone XIV. Tuttavia, dalle dichiarazioni dei protagonisti emerge chiaramente che una soluzione di pace immediata resta, al momento, fuori portata.

Il colloquio tra Putin e Trump

La telefonata tra Putin e Trump, durata circa un’ora e un quarto, ha avuto come tema centrale l’attacco ucraino alle basi aeree russe che ospitavano bombardieri strategici, avvenuto lo scorso fine settimana. Trump, attraverso un messaggio su Truth Social, ha definito la conversazione “buona”, ma ha sottolineato che non produrrà una pace immediata. I due leader hanno discusso non solo degli attacchi agli aerei russi, ma anche di altre azioni militari compiute da entrambe le parti.

Putin, dal canto suo, ha ribadito la volontà della Russia di rispondere agli attacchi ucraini, mentre Trump ha riconosciuto che la situazione resta estremamente complessa e che il dialogo, per quanto utile, non ha portato a risultati concreti sul fronte del cessate il fuoco.

Il ruolo del Papa e la diplomazia

Parallelamente, Putin ha avuto un primo dialogo con Papa Leone XIV dall’elezione del pontefice. Il presidente russo si è dichiarato favorevole a una soluzione diplomatica del conflitto, ma ha accusato il regime di Kiev di degenerare in un’organizzazione terroristica. Il Papa, pur auspicando una soluzione pacifica, non sembra aver ottenuto aperture significative da Mosca.

Sul fronte ucraino, il presidente Volodymyr Zelensky ha accusato la Russia di utilizzare i colloqui solo per guadagnare tempo ed evitare nuove sanzioni internazionali. Secondo Kiev, Mosca non sarebbe realmente interessata a un cessate il fuoco e starebbe manipolando i negoziati per i propri interessi strategici.

Nel frattempo, la situazione militare resta tesa: l’Ucraina ha rivendicato l’abbattimento di numerosi droni russi e la Gran Bretagna ha annunciato un nuovo pacchetto di aiuti militari, con la fornitura di 100.000 droni entro il 2026. Sul piano diplomatico, Istanbul continuerà a essere la sede dei colloqui tra Russia e Ucraina, anche se la delegazione ucraina accusa Mosca di temporeggiare e di non voler realmente negoziare.

Un piccolo segnale di distensione arriva dall’annuncio di uno scambio di 500 prigionieri per parte previsto per il fine settimana, ma il clima generale resta di profonda sfiducia reciproca e di preparazione a nuovi scontri.

“È stata una buona conversazione, ma non produrrà una pace immediata”, ha dichiarato Trump dopo la telefonata con Putin.

Nonostante i recenti tentativi di dialogo ad alto livello, la guerra in Ucraina sembra destinata a proseguire ancora a lungo. Le posizioni restano distanti: la Russia insiste su una risposta militare agli attacchi ucraini, mentre Kiev chiede un vero cessate il fuoco e il rafforzamento delle sanzioni. La diplomazia internazionale, compresa quella vaticana, fatica a trovare spazi di manovra concreti. La pace, almeno per ora, resta un obiettivo lontano e incerto.

L’Ucraina attacca in territorio russo. Morti e feriti tra i civili

Il fumo acre dei detriti bruciati avvolge ancora l’aria, mentre i riflettori dei soccorritori illuminano a intermittenza la scena di un disastro annunciato. Nella notte tra sabato e domenica, due ponti sono esplosi in altrettante regioni russe al confine con l’Ucraina, trascinando nella morte almeno sette persone e ferendone decine. Mentre il governo di Mosca accusa Kiev di “terrorismo”, e i media di Stato parlano di un attacco coordinato, il conflitto entra in una nuova fase: quella dello scontro asimmetrico, lontano dalle trincee del Donbas, ma vicino alle case di civili inermi.

La strage del treno passeggeri: “Ho visto i vagoni sollevarsi in aria”

Tutto è iniziato alle 22:50 di sabato, quando il ponte stradale sulla ferrovia Bryansk-Klimov è crollato esattamente nel momento in cui un treno passeggeri, diretto a Mosca, transitava. L’esplosione, descritta dai sopravvissuti come “un boato che ha spento la luce delle stelle”, ha scagliato tonnellate di calcestruzzo sui vagoni, deragliandone sette su dodici. “Eravamo seduti vicino al finestrino quando il soffitto si è piegato su di noi”, racconta Irina Sokolova, 34 anni, ricoverata con una frattura al bacino. “La gente urlava, i bambini piangevano. Ho visto il vagone davanti al nostro sollevarsi in aria come un fiammifero”.

Il bilancio è crudele: sette morti, tra cui il macchinista Sergey Volkov, 58 anni, padre di tre figli, e sessantanove feriti, tre dei quali bambini. Uno di loro, un ragazzino di nove anni, lotta tra la vita e la morte nel reparto di terapia intensiva dell’ospedale regionale. Le operazioni di soccorso, coordinate da 180 uomini tra vigili del fuoco e volontari, sono continuate fino all’alba, con i cani da ricerca che guaivano tra le lamiere contorte. Il governatore Alexander Bogomaz, in una conferenza stampa convocata alle 3:17 di notte, ha parlato senza mezzi termini di “atto criminale”, promettendo “una risposta adeguata”.

Kursk, l’incubo si ripete: “Sembrava il fronte, ma eravamo a casa”

Mentre Bryansk piangeva i suoi morti, un secondo boato ha squarciato l’alba nella regione di Kursk, 250 chilometri più a est. Qui, alle 5:30 di domenica mattina, un ponte ferroviario strategico, lo stesso già colpito da un’incursione ucraina nell’agosto 2024, è crollato sotto il peso di un’esplosione che ha investito un treno merci. La locomotiva, carica di materiale edile, ha urtato i detriti della struttura, prendendo fuoco e costringendo l’equipaggio a un’evacuazione disperata. “Le fiamme salivano alte venti metri”, testimonia un ferroviere anonimo, ancora sotto shock. “Sembrava di essere al fronte, invece eravamo a casa nostra”.

Le autorità, pur evitando di confermare ulteriori vittime, hanno classificato l’episodio come “sabotaggio deliberato”. Svetlana Petrenko, portavoce del Comitato Investigativo russo, ha dichiarato a Reuters che “entrambi gli attentati presentano firme tecniche simili”, lasciando intendere un’unica regia. Intanto, canali Telegram vicini all’FSB, come Baza e SHOT, hanno iniziato a diffondere video di presunti “sabotatori ucraini” catturati nelle foreste di Bryansk, sebbene nessuna prova ufficiale sia stata fornita.

Il retroscena geopolitico: infrastrutture nel mirino, diplomazia in stallo

I due attentati arrivano in un momento delicatissimo per gli equilibri del conflitto. Le regioni di Bryansk, Kursk e Belgorod, da mesi nel mirino di droni e artiglieria ucraina, sono diventate il simbolo della vulnerabilità russa lontano dal fronte. Solo la scorsa settimana, un attacco a un deposito di carburante a Sudzha aveva causato un blackout energetico in tre distretti, mentre il Cremlino accusava la NATO di fornire “istruzioni per colpire il cuore della Russia”.

Kiev, dal canto suo, non ha rivendicato gli attacchi, ma ha denunciato un raid aereo russo su Kyiv avvenuto poche ore dopo i crolli. “Sono due facce della stessa medaglia: la guerra si sta spostando sulle città, sulle linee ferroviarie, sui ponti”, spiega Mikhail Troitskiy, analista del Carnegie Center raggiunto telefonicamente. “È una strategia della tensione che mira a logorare il morale della popolazione e a destabilizzare le reti logistiche”.

Non a caso, il ponte di Bryansk faceva parte della M13, arteria cruciale per i rifornimenti militari verso il fronte di Luhansk. La sua distruzione ha creato un cratere di quindici metri, rendendo impossibile il transito per almeno sei mesi, secondo le stime degli ingegneri inviati sul posto.

Soccorritori tra le macerie: “Abbiamo lavorato con le barelle nel fango”

A Bryansk, i sopravvissuti sono stati trasportati in ospedali sovraffollati, mentre la scuola di Vygonichi si è trasformata in un rifugio temporaneo per famiglie sfollate. “Abbiamo utilizzato le aule come dormitori”, racconta Olga Ivanova, direttrice dell’istituto. “I bambini disegnavano sui banchi per calmarsi, mentre fuori continuavano a passare le ambulanze”.

Nikolai Zaitsev, capo delle operazioni di soccorso, descrive una notte di incubo: “Il terreno era instabile, pioveva, e dovevamo muoverci con cautela per non innescare ulteriori crolli. Abbiamo estratto un uomo da sotto un masso usando le mani, perché le macchine non potevano avvicinarsi”. A Kursk, intanto, i danni hanno avuto ripercussioni immediate sul traffico merci, già paralizzato da mesi di blocchi e controlli militari.

Reazioni internazionali: Trump minaccia sanzioni, il Cremlino invoca trattative

La comunità internazionale ha reagito con apprensione. Il presidente statunitense Donald Trump, in una dichiarazione rilasciata da Mar-a-Lago, ha esortato Mosca e Kiev a “sedersi al tavolo prima che sia troppo tardi”, minacciando sanzioni “senza precedenti” contro la Russia in caso di escalation. La Casa Bianca, tuttavia, non ha fornito dettagli sulle possibili misure, alimentando scetticismo tra gli osservatori.

Il Cremlino, dal canto suo, ha proposto un nuovo round di colloqui a Istanbul per lunedì 3 giugno, ma l’Ucraina ha posto condizioni preliminari, tra cui la presenza di mediatori neutrali e garanzie sulla trasparenza delle trattative. “Siamo pronti a dialogare, ma non a costo di cedimenti territoriali”, ha ribadito il portavoce presidenziale ucraino, Serhiy Nykyforov.

Mentre il sole del primo giugno illumina le macerie dei ponti, la domanda che attanaglia i residenti di Bryansk e Kursk è semplice: quanto ancora durerà questo incubo? Per Alexander, un insegnante in pensione che abita a trecento metri dal ponte crollato, la risposta è amara: “Nel 2022 pensavamo sarebbe finita in due mesi. Oggi non sappiamo più cosa aspettarci. La guerra è entrata nelle nostre case, e nessuno sembra in grado di fermarla”.

Con le trattative in stallo, le infrastrutture nel mirino e il costo umano che continua a salire, il conflitto russo-ucraino sembra aver trovato una nuova, tragica normalità: quella di una guerra senza fronti, senza vincitori, e senza fine all’orizzonte.

Gaza: il terzo hub non regge l’assalto della popolazione

Il gruppo privato Gaza Humanitarian Foundation (GHF), sostenuto dagli Stati Uniti e con il benestare di Israele, ha inaugurato giovedì un terzo centro di distribuzione nella Striscia e promette di aprirne altri nelle prossime settimane. L’afflusso di migliaia di palestinesi in cerca di viveri ha però messo subito a dura prova il nuovo sistema, il cui debutto, martedì, era precipitato in scene di panico: le recinzioni sono state abbattute, le guardie private costrette alla fuga e tutto ciò che poteva essere portato via – tubi, lamiere, persino il filo spinato – è sparito fra la folla.

Da allora la fondazione dichiara di aver servito poco più di 1,8 milioni di pasti, ma le critiche non si placano. Le Nazioni Unite e diverse ONG bollano l’iniziativa come insufficiente e mal concepita, incapace di colmare il vuoto lasciato dalle undici settimane di blocco imposto da Israele sugli aiuti diretti a Gaza.

Tra chi si è fatto largo fino agli hub c’è Wessam Khader, 25 anni, padre di un bimbo di tre: «La fame mi ha costretto ad andarci; da settimane non avevamo farina né altro», racconta da Rafah. Da martedì è in fila ogni giorno, ma solo il primo è riuscito a ottenere un pacchetto da 3 kg con farina, sardine in scatola, sale, noodles, biscotti e marmellata.

Al suo arrivo, le promesse israeliane di identificare e tenere lontani i sospetti affiliati a Hamas sembravano già crollate sotto la pressione della massa. «Nessuno mi ha chiesto documenti, non c’erano varchi elettronici: tutto era finito schiacciato», dice.

GHF sostiene di aspettarsi reazioni simili da una «popolazione in stato di angoscia». L’ONU replica che il volume di aiuti resta distante anni luce dai fabbisogni: prima della guerra servivano 500-600 camion al giorno, mentre ora l’afflusso è «equivalente a una scialuppa dopo il naufragio», usando le parole dell’inviata Onu per il Medio Oriente Sigrid Kaag.

Per i residenti del Nord di Gaza, isolati dai punti di distribuzione del sud, anche queste briciole restano un miraggio. «Vediamo i video della gente che riceve qualcosa, ma a noi dicono che nessun camion può passare», spiega Ghada Zaki, 52 anni, madre di sette figli a Gaza City.

Mentre migliaia di persone cercano cibo, i raid aerei israeliani proseguono. Giovedì, secondo i medici locali, almeno 45 palestinesi sono morti, 23 dei quali colpiti nel campo di Bureij, nel centro della Striscia. L’esercito israeliano rivendica «decine di obiettivi» neutralizzati – depositi d’armi, postazioni di cecchini, tunnel. Il ministero dell’Interno guidato da Hamas riferisce che diversi agenti di polizia sono rimasti uccisi durante un’operazione contro saccheggiatori a Gaza City.

Diplomazia in stallo

Nel frattempo crescono le speculazioni su un possibile cessate il fuoco: l’inviato speciale di Donald Trump, Steve Witkoff, ha rivelato che la Casa Bianca sta lavorando a una bozza di accordo che Hamas afferma di “esaminare”. Restano però gli stessi scogli che hanno fatto naufragare i negoziati di marzo: Israele pretende il disarmo e lo smantellamento totale di Hamas, oltre alla liberazione dei 58 ostaggi tuttora prigionieri; Hamas rifiuta di consegnare le armi e chiede il ritiro delle truppe israeliane.

La pressione internazionale su Tel Aviv aumenta: persino Paesi europei finora prudenti chiedono la fine del conflitto e un massiccio piano di soccorso.

Una guerra che devasta

Israele ha lanciato l’offensiva dopo l’attacco del 7 ottobre 2023, costato la vita a circa 1.200 israeliani e culminato nel rapimento di 251 persone portate a Gaza. Da allora, secondo il ministero della Sanità locale, l’operazione militare ha ucciso oltre 54.000 palestinesi e ridotto la Striscia in macerie.

Mentre il terzo hub di GHF si apre fra le macerie e il frastuono delle bombe, resta intatta la domanda centrale: basteranno nuovi punti di distribuzione a placare la fame di oltre due milioni di persone o servirà, prima di tutto, far tacere le armi?

Poltrone ballerine in Regione: Bucci agita il centrodestra

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L’idea, per ora, è poco più di un sussurro nato nelle ore della sconfitta a Palazzo Tursi, ma basta a far tremare gli equilibri della coalizione che governa la Liguria. Nei corridoi del centrodestra circola la tentazione di rimettere mano all’accordo siglato dopo le regionali: quando la giunta passerà da sette a nove componenti — ipotesi al momento appesa a un provvedimento del governo — i due nuovi assessorati non finirebbero più uno alla Lega e uno a Forza Italia. Il governatore Marco Bucci starebbe infatti valutando di dirottare la casella “azzurra” su un nome che azzurro non è: Pietro Piciocchi, ex sindaco reggente e candidato sconfitto da Silvia Salis.

Stoccate e veleni

Bucci, raccontano fonti interne, non avrebbe risparmiato frecciate a Fratelli d’Italia e a Forza Italia per il tiepido sostegno offerto a Piciocchi in campagna elettorale. La replica dei meloniani è arrivata per bocca del coordinatore regionale Matteo Rosso: «Meglio evitare lo scaricabarile, altrimenti rischiamo ripercussioni in Regione». Lega e Fratelli d’Italia, insomma, alzano le barricate.

Il Carroccio, forte di 1.443 voti in più rispetto alle regionali 2024, rivendica di aver «fatto il proprio dovere», come ha sottolineato il viceministro Edoardo Rixi: ringraziamenti a Piciocchi, auguri a Salis e un avvertimento implicito al resto della coalizione. Non a caso la casella leghista (destinata ad Alessio Piana) resta al sicuro.

Forza Italia sotto accusa

Diversa la situazione per Forza Italia, ferma al 3,78 % alle comunali: troppo poco per convincere Bucci a mantenere la promessa fatta ad Angelo Vaccarezza, designato a entrare in giunta regionale. Il rischio, ora, è di vedere il posto consegnato proprio a Piciocchi, da otto anni braccio destro del governatore a Palazzo Tursi.

Resta l’incognita: il diretto interessato, reduce da anni di lavoro senza tregua e da una campagna elettorale logorante, non ha ancora deciso se restare in consiglio comunale, tornare alla professione o accettare l’eventuale offerta di Bucci.

Intanto, nei gruppi WhatsApp di partito gira un foglio excel che scarica la colpa del tracollo sul “civismo” targato Bucci-Piciocchi: i partiti tradizionali sono saliti dal 22,26 % del 2022 al 25,32 % di oggi (+3,06 %), mentre le due civiche e l’ex Lista Toti sono crollate dal 32,93 % al 18,51 % (-14,42 %). Dati che Bucci contesta, rivendicando su Facebook la solidità di Orgoglio Genova e celebrando i tre eletti Ilaria Cavo, Vincenzo Falcone e Lorenzo Pellerano.

Una cosa è certa: nel centrodestra ligure il dopo-Tursi è solo all’inizio, e il vero duello — più che con l’opposizione — si gioca dentro la stessa maggioranza.

Salis. Quote rosa a Genova stavolta servono a salvare gli uomini

Secondo la legge Delrio (art. 1, l. 56/2014) — che fissa al 40 % la soglia minima per ciascun sesso nelle giunte dei Comuni sopra i 3.000 abitanti — la neo-sindaca dovrà nominare almeno cinque uomini. Il paradosso, a Genova, è che la norma nata per favorire la presenza femminile finirebbe per “salvare” quella maschile.

Il rebus AVS

L’altro nodo riguarda Alleanza Verdi Sinistra, forte del 7% dei voti: avrebbe puntato a tre assessorati ma ne otterrà due. In lizza l’architetta del paesaggio Francesca Coppola (terza con 700 preferenze, ideale per l’Urbanistica) e Francesca Ghio, la più votata di lista (oltre 1.500) ma senza delega definita. Portarle entrambe è complicato: entrano in competizione con Emilio Robotti, avvocato vicino a Sinistra Italiana e in pole per la Sicurezza, utile anche a bilanciare le quote di genere. Sullo sfondo Lorenzo Garzarelli, secondo per preferenze, reclama spazio.

Le caselle quasi certe

Fra i nomi dati per sicuri compaiono:

  1. Tiziana Beghin (M5S)
  2. Cristina Lodi (Italia Viva)
  3. la segretaria regionale di Azione
  4. Arianna Viscogliosi e Filippo Bruzzone (Linea Condivisa)

In bilico la regista Laura Sicignano, candidata non eletta ma sponsorizzata per la Cultura.

Il capitolo Pd

Con il 30 % dei consensi e 14 seggi, il Partito Democratico rivendica almeno sei incarichi.

  • Claudio Villa destinato alla presidenza del Consiglio comunale
  • Alessandro Terrile vicesindaco in pectore
  • assessorati probabili per Rita Bruzzone e Massimo Ferrante

Restano due poltrone, almeno una femminile. In ballo Vittoria Canessa e Monica Russo; ma per salvare l’equilibrio di genere il Pd potrebbe virare su un altro profilo maschile. Tra le opzioni:

  • un ripensamento di Davide Patrone, primatista di preferenze
  • un tecnico esterno, il docente Maurizio Conti
  • la suggestione Federico Romeo, ex presidente di municipio e consigliere regionale

Un Pd quasi tutto al maschile riaprirebbe lo spiraglio per includere sia Coppola sia Ghio (e sacrificare Robotti). Più remota l’ipotesi di escludere Filippo Bruzzone a favore di Sicignano.

Autonomia energetica Ue a portata di mano, così rafforziamo il mercato unico

L’Unione Europea può affrancarsi del tutto dalle forniture energetiche russe e consolidare il proprio mercato interno. Ne è convinto il vicepresidente esecutivo della Commissione, Raffaele Fitto, intervenuto ieri a un incontro all’Università Cattolica.

«Prima della guerra importavamo dalla Russia circa la metà del carbone e una quota rilevante di petrolio e gas; oggi quelle percentuali si sono drasticamente ridotte e dobbiamo spingerci oltre», ha dichiarato il commissario, indicando nell’“autonomia strategica energetica” la condizione essenziale per «rafforzare il mercato unico e dargli una prospettiva di lungo periodo».

Fitto ha poi toccato il tema dei dazi, definendo «vicino» un accordo politico sull’azzeramento progressivo delle tariffe: «Siamo partiti dal 100 per cento, poi è arrivata una proroga, quindi il taglio al 50 per cento e un’ulteriore proroga. Ora ci sono tutte le condizioni per chiudere».

Il vicepresidente ha rivendicato l’«attivismo europeo» sul fronte commerciale, citando il recente via libera all’intesa con il Mercosur e i negoziati avviati in Asia centrale e Sudafrica. «La Commissione sta lavorando per dare maggiore forza al mercato unico e, per la prima volta, dispone di un commissario alla semplificazione: un segnale forte alle imprese», ha concluso.

Violazione di TeleMessage. Rubati dati sensibili del governo Usa

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Un grave episodio di cybersecurity ha scosso gli Stati Uniti, rivelando come un hacker sia riuscito a violare i sistemi di TeleMessage, un’applicazione di messaggistica utilizzata da funzionari governativi, tra cui l’ex consigliere per la sicurezza nazionale di Donald Trump, Mike Waltz. Secondo un’indagine esclusiva di Reuters, l’intrusione ha compromesso le comunicazioni di decine di rappresentanti delle istituzioni, sollevando interrogativi sulla protezione dei dati sensibili all’interno dell’amministrazione Trump. L’attacco, avvenuto tra marzo e aprile 2025, ha permesso al criminale informatico di accedere a messaggi, documenti riservati e persino coordinate operative di agenzie federali, esponendo potenziali vulnerabilità nei protocolli di sicurezza adottati da enti pubblici.

La raccolta di dati trapelati, analizzata da Reuters in collaborazione con Distributed Dial (un’organizzazione senza scopo di lucro che archivia documenti hackerati), ha identificato oltre 60 account governativi collegati a TeleMessage. Tra le vittime figurano team di soccorso della FEMA (Federal Emergency Management Agency), agenti della dogana, diplomatici, un membro dello staff della Casa Bianca e persino personale del Secret Service. I messaggi intercettati includono discussioni su operazioni antiterrorismo, dettagli logistici per missioni all’estero e scambi confidenziali tra funzionari durante crisi internazionali. Fonti del Dipartimento della Sicurezza Interna hanno confermato che almeno 12 conversazioni compromesse contenevano informazioni classificate come “Segreto” o “Top Secret”.

L’hacker, identificato con lo pseudonimo “ShadowGlitch”, ha sfruttato una falla nel sistema di autenticazione a due fattori di TeleMessage, riuscendo a replicare i codici di verifica inviati via SMS. Questa tecnica, nota come “SIM swapping”, gli ha permesso di bypassare i controlli di sicurezza e accedere agli account senza lasciare tracce immediate. Secondo analisti di cybersecurity intervistati da Reuters, l’attacco è stato particolarmente sofisticato: l’intruso ha utilizzato server proxy situati in Bulgaria e Kazakhstan per mascherare la propria ubicazione, rendendo difficile il tracciamento da parte delle autorità statunitensi.

Le implicazioni della violazione sono amplificate dal ruolo centrale di TeleMessage nelle comunicazioni dell’amministrazione Trump. Durante il mandato presidenziale, l’app era stata adottata da diversi collaboratori della Casa Bianca per evitare i controlli sui dispositivi ufficiali, una pratica già criticata da esperti di sicurezza. Mike Waltz, ora membro del Congresso, aveva continuato a utilizzare il servizio per coordinarsi con ex colleghi, ignorando gli avvertimenti della Cybersecurity and Infrastructure Security Agency (CISA) sulle app di messaggistica non certificate.

La reazione delle istituzioni non si è fatta attendere. Il Dipartimento di Giustizia ha avviato un’indagine federale, mentre la CISA ha emesso un’allerta nazionale invitando tutte le agenzie governative a verificare l’integrità dei propri sistemi. TeleMessage, da parte sua, ha rilasciato una dichiarazione in cui assicura di aver “patched” la vulnerabilità e di collaborare con le autorità. Tuttavia, fonti interne all’FBI hanno rivelato a Reuters che l’azienda non aveva aggiornato i propri protocolli di encryption dal 2022, nonostante ripetute sollecitazioni.

Il caso riaccende il dibattito sulla regolamentazione delle tecnologie utilizzate dal governo. Come sottolineato da un rapporto del Government Accountability Office del 2024, almeno il 40% delle app adottate da funzionari federali non supera gli standard di sicurezza minimi richiesti. L’episodio di TeleMessage potrebbe spingere il Congresso a legiferare per imporre verifiche obbligatorie, ma nel frattempo, la fuoriuscita di dati rischia di avere conseguenze geopolitiche. Alcuni messaggi compromessi, infatti, riguardavano negoziati segreti con alleati NATO sulla crisi ucraina, informazioni che potrebbero essere finite in mano a potenze straniere.

Mentre le autorità lavorano per contenere i danni, rimangono aperte domande cruciali: quanti altri strumenti di comunicazione usati dal governo presentano falle simili? E quali garanzie possono offrire le istituzioni per prevenire futuri attacchi? Quel che è certo è che questa violazione segna un punto di svolta nella consapevolezza dei rischi legati alla cybersecurity, costringendo gli Stati Uniti a fare i conti con una realtà sempre più esposta alle minacce del mondo digitale.