12 Novembre 2025
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Gaza. Israele inizia l’operazione di terra I carri di Gedeone

Nelle prime ore di sabato 17 maggio 2025, i residenti di Deir al Balah, città nel cuore della Striscia di Gaza, hanno udito raffiche di armi automatiche risuonare tra le strade. Il fragore degli spari è arrivato poche ore dopo l’annuncio ufficiale dell’esercito israeliano: le truppe si stanno preparando per un’avanzata su larga scala nel territorio, con l’obiettivo di espandere il controllo militare, acquisire nuove aree e spostare ulteriormente la popolazione civile. Un’ondata di tensione ha attraversato la regione, mentre i mediatori internazionali, tra cui rappresentanti dell’amministrazione Trump, tentavano invano di negoziare una tregua temporanea.

Il contesto di un conflitto

Il conflitto tra Israele e Hamas, iniziato il 7 ottobre 2023 con l’assalto di militanti palestinesi nel sud di Israele, che causò circa 1.200 morti e 250 ostaggi, prosegue ormai da oltre 18 mesi. Nonostante le operazioni militari israeliane abbiano provocato, secondo le autorità sanitarie di Gaza, più di 50.000 vittime (senza distinzione tra civili e combattenti), Hamas non è stato sconfitto e almeno 58 ostaggi rimangono ancora nelle mani del gruppo. La strategia israeliana, basata su bombardamenti aerei, incursioni terrestri e un blocco totale degli aiuti umanitari imposto da marzo, non ha prodotto i risultati attesi. Anzi, ha aggravato la crisi umanitaria: due milioni di palestinesi affrontano carestie, mancanza di medicinali e condizioni igieniche disperate, come sottolineato dal presidente Trump in una dichiarazione recente.

La mobilitazione e le incognite strategiche

L’annuncio della mobilitazione delle truppe israeliane arriva dopo mesi di stallo. Sebbene l’esercito abbia già occupato porzioni significative di Gaza, la nuova fase sembra puntare a un’espansione territoriale senza precedenti. Fonti militari israeliane parlano di “preparativi per un’operazione decisiva”, ma i dettagli rimangono vaghi. Non è chiaro, ad esempio, se gli scontri a Deir al Balah siano parte di un’offensiva organizzata o di azioni localizzate. Quel che è certo è che il premier Benjamin Netanyahu intende aumentare la pressione su Hamas, costringendolo a cedere sulle richieste di liberazione degli ostaggi e smilitarizzazione.

L’operazione, denominata “Carri di Gedeone”, trae ispirazione dall’episodio biblico in cui il condottiero ebraico sconfisse i Midianiti con mezzi limitati. L’espressione «i carri di Gedeone», non compare nel testo ebraico. Bibbia alla mano, Gedeone non schierò affatto carri da guerra, simbolo di potenza militare: al contrario, la narrazione insiste sull’assenza di mezzi bellici sofisticati proprio per sottolineare l’intervento miracoloso di Dio, oggi la locuzione riemerge ogni tanto nel linguaggio giornalistico o militare per indicare un contingente ristretto ma decisivo.

Secondo i piani dell’IDF, decine di carri armati e migliaia di riservisti – molti già provati da 18 mesi di combattimenti – verranno schierati per conquistare interi quartieri strategici, spostando forzatamente i civili verso il sud della Striscia. Il ministro della Sicurezza nazionale Itamar Ben Gvir, esponente dell’estrema destra, ha dichiarato senza mezzi termini: «Dobbiamo entrare a Gaza con tutte le nostre forze, finire l’opera: occupare, conquistare il territorio e schiacciare il nemico».

La crisi umanitaria e il blocco degli aiuti

Mentre i carri armati si riposizionano, la popolazione civile paga il prezzo più alto. Il blocco imposto da Israele ha ridotto al minimo gli approvvigionamenti di cibo, acqua e medicine, creando una situazione definita “strumento di sterminio” da Human Rights Watch. Decine di migliaia di famiglie vivono tra le macerie delle abitazioni distrutte, senza accesso a servizi essenziali. Il venerdì precedente alla mobilitazione, almeno 115 persone sono morte in raid aerei, aggiungendosi a un bilancio già insostenibile. L’Alto Commissario ONU per i Diritti Umani, Volker Turk, ha accusato Israele di perseguire una “pulizia etnica” attraverso lo sfollamento forzato e la negazione degli aiuti.

Nonostante gli appelli delle Nazioni Unite, che hanno ribadito di essere pronte a gestire gli aiuti con «imparzialità e neutralità», il governo israeliano insiste nel limitare l’accesso agli operatori umanitari. Tom Fletcher, sottosegretario ONU, ha denunciato: «Abbiamo un piano pronto, ma non ci permettono di agire». Intanto l’amministrazione Trump sta valutando un controverso piano per trasferire fino a un milione di palestinesi dalla Striscia di Gaza alla Libia, sebbene i dettagli rimangano nebulosi.

Mediazioni fallite e prospettive future

I tentativi di mediazione, guidati dagli Stati Uniti, non hanno finora prodotto accordi. Hamas insiste che non rilascerà gli ostaggi senza un cessate il fuoco permanente e il ritiro completo delle truppe israeliane da Gaza. Israele, dal canto suo, rifiuta qualsiasi trattativa fino alla resa incondizionata del gruppo. I colloqui di Doha sono naufragati nell’amarezza.

Negli ultimi giorni un attacco aereo israeliano ha preso di mira Khan Younis, nel sud di Gaza, nel tentativo di eliminare Muhammad Sinwar, uno dei leader più influenti di Hamas ancora in libertà. Pare ormai accertata la morte del leader di Hamas.

La mobilitazione delle truppe israeliane segna una nuova, pericolosa fase in un conflitto che sembra destinato a prolungarsi. Con migliaia di riservisti richiamati e un’offensiva terrestre imminente, la comunità internazionale teme un’escalation senza ritorno. Tuttavia, senza una strategia politica che affronti le cause profonde dello scontro, dall’occupazione israeliana alla divisione tra fazioni palestinesi, qualsiasi vittoria militare rischia di essere effimera.

Il Washington Institute, think tank vicino alla lobby israeliana negli USA, ha avvertito che un’occupazione prolungata di Gaza potrebbe innescare una guerriglia infinita, rafforzando paradossalmente la resistenza palestinese. Come ha osservato un diplomatico europeo: «Le armi possono conquistare territorio, ma non costruire la pace». Intanto, a Gaza, il rumore delle armi continua.

Ucraina: la Russia lancia attacco di droni più massiccio mai eseguito

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Nella notte tra il 17 e il 18 maggio 2025, l’Ucraina ha vissuto uno dei momenti più cupi dall’inizio dell’invasione russa. In sole nove ore, il Paese è stato bersagliato da 273 droni, un numero che segna un nuovo record dall’inizio della guerra. L’attacco, diretto principalmente contro le regioni di Kyiv, Dnipropetrovsk e Donetsk, ha causato la morte di una giovane donna nel distretto di Obukhiv, il ferimento di almeno tre civili – tra cui un bambino di quattro anni – e la distruzione di infrastrutture civili. Non è solo il bilancio umano a far riflettere, ma il significato politico e militare di quest’azione, arrivata a meno di 48 ore dal fallimento dei primi colloqui di pace diretti tra Russia e Ucraina dopo tre anni di guerra.

I negoziati, tenutisi a Istanbul il 16 maggio, si sono rivelati un tentativo fragile e probabilmente prematuro di avvicinare due posizioni ancora inconciliabili. Durati appena 100 minuti, gli incontri si sono conclusi con un accordo sullo scambio di prigionieri – 1.000 per parte – ma nessun passo avanti su un cessate il fuoco. Le richieste russe, tra cui l’abbandono da parte di Kyiv delle ambizioni NATO e la cessione dei territori occupati, sono state bollate come «inaccettabili» dal governo ucraino. Una risposta netta, che ha chiarito quanto la distanza tra le due parti resti siderale.

Il giorno successivo ai colloqui, un drone russo ha colpito un minibus nella regione di Sumy, uccidendo nove civili. L’attacco, che il presidente Zelensky ha definito «deliberato», è stato il preludio a un’escalation ancora più brutale. Poche ore dopo, centinaia di droni si sono alzati in volo contro l’Ucraina, in quella che molti osservatori internazionali interpretano come una mossa ritorsiva da parte del Cremlino, decisa a rafforzare la propria posizione negoziale sul campo prima del previsto scambio di prigionieri.

L’offensiva ha impegnato i sistemi di difesa aerea ucraini per tutta la notte. Gli allarmi antiaerei hanno suonato ininterrottamente fino alle 9 del mattino del 18 maggio, testimoniando l’intensità e la durata dell’attacco. Dei 273 droni, 88 sono stati abbattuti e altri 128 sono andati fuori rotta. Ma quelli che hanno raggiunto l’obiettivo hanno lasciato un segno profondo. A Obukhiv, a sud della capitale, esplosioni e frammenti hanno raso al suolo edifici residenziali e colpito anche strutture civili nel centro di Kyiv.

Il governatore della regione, Mykola Kalashnik, ha confermato il decesso di una donna colpita dai detriti. Il Centro ucraino per la lotta alla disinformazione, per bocca di Andriy Kovalenko, ha denunciato l’utilizzo sistematico della guerra da parte russa come strumento di pressione durante i negoziati, sottolineando come l’attacco sia parte di una strategia ben precisa: intimidire, fiaccare, forzare concessioni con la violenza.

L’uso massiccio di droni, molti dei quali kamikaze e a basso costo, riflette una tattica russa studiata per logorare lentamente ma inesorabilmente la capacità difensiva ucraina. I sistemi di difesa forniti dall’Occidente sono efficaci ma costosi, e non possono essere ovunque. Saturare i cieli con ondate di droni significa mettere sotto stress le batterie anti-aeree e aprire varchi nelle difese. È una guerra d’attrito tecnologica e psicologica che sta cambiando il volto del conflitto.

Zelensky ha reagito chiedendo un inasprimento delle sanzioni internazionali contro la Russia. Ha ribadito che la pressione economica è uno degli ultimi strumenti rimasti alla comunità internazionale per fermare le uccisioni. Mentre le immagini delle macerie a Kyiv e delle vittime a Sumy fanno il giro del mondo, la Casa Bianca ha annunciato un’iniziativa diplomatica: l’ex presidente Donald Trump parlerà separatamente con Zelensky e Putin lunedì 19 maggio, nel tentativo di riattivare un dialogo tra le parti.

Il tempismo dell’attacco non è casuale. I droni sono stati lanciati subito dopo i colloqui falliti, in una sorta di messaggio armato che cancella ogni spazio per illusioni. La Russia non sembra interessata a negoziare da una posizione di parità. Vuole trattare solo quando l’Ucraina sarà stremata, militarmente o economicamente. Kyiv, al contrario, continua a insistere sulla necessità di un dialogo fondato sul diritto internazionale e sul rispetto dell’integrità territoriale. Nessuna concessione sui territori occupati, nessun passo indietro sulle alleanze occidentali. È una linea dura, ma coerente con l’idea di sovranità che il popolo ucraino sta difendendo con le armi.

Il quadro che si delinea è quello di una guerra entrata in una fase di pericoloso stallo, in cui ogni azione militare rischia di far deragliare definitivamente i pochi margini di trattativa rimasti. Con oltre il 20% del territorio ucraino ancora sotto occupazione russa e milioni di cittadini sfollati, le prospettive di pace sembrano ancora lontane. Gli esperti militari vedono due scenari possibili all’orizzonte: un’escalation ulteriore, con attacchi su larga scala per influenzare lo scambio di prigionieri e guadagnare vantaggi strategici, oppure un consolidamento difensivo da parte ucraina, in attesa di nuovi rifornimenti militari da parte della NATO.

In entrambi i casi, la richiesta di Kyiv rimane la stessa: garanzie di sicurezza vincolanti da parte della comunità internazionale. Senza questo elemento, ogni trattativa rischia di trasformarsi in una tregua apparente, preludio a nuove ostilità. La sfida non è solo militare, ma politica. È la definizione stessa dell’ordine europeo e del concetto di sovranità a essere in gioco.

L’attacco del 18 maggio non è solo un episodio bellico. È il simbolo di un conflitto che ha ormai assunto una dimensione totale, in cui le battaglie si combattono sul campo, nei cieli, nei palazzi del potere e nei media internazionali. Una guerra che non può essere congelata con un compromesso qualsiasi, ma solo risolta attraverso un equilibrio che riconosca i diritti di chi è stato aggredito e punisca chi ha violato le regole fondamentali della convivenza tra Stati.

Finché questo equilibrio non verrà raggiunto, gli attacchi continueranno. I droni voleranno ancora sopra le città ucraine. E il mondo resterà con il fiato sospeso, in attesa di capire quale sarà la prossima mossa.

Silvia Sardone e Vannacci vice di Salvini

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La Lega consolida la sua squadra dirigente con l’ingresso di Silvia Sardone e Roberto Vannacci tra i vicesegretari, accanto ai riconfermati Alberto Stefani e Claudio Durigon. La decisione, ratificata ieri dal Consiglio federale convocato da Matteo Salvini a Montecitorio, segna un ulteriore passo nella trasformazione del partito, sempre più orientato verso posizioni sovraniste.

Le nuove nomine e il cambio statutario

L’ascesa di Vannacci, ex generale dei paracadutisti e autore del controverso saggio Il mondo al contrario, è stata resa possibile da una modifica statutaria approvata durante il congresso di Firenze dello scorso aprile. Il nuovo regolamento ha eliminato il requisito dei 10 anni di iscrizione per accedere alla carica di vice, permettendo così l’ingresso di chi ha ricevuto la tessera solo pochi mesi fa. Una mossa interpretata come un tentativo di “blindare” il generale, evitando la nascita di un movimento personale alternativo.

Silvia Sardone, eurodeputata e consigliera comunale a Milano con un passato in Forza Italia, diventa invece la prima donna a ricoprire questo ruolo nella storia del Carroccio. «Un onore e una responsabilità», ha commentato, sottolineando l’impegno per «combattere le sfide in Italia e Europa».

L’uscita di scena di Andrea Crippa dalla segreteria non ha generato tensioni pubbliche. Salvini ha garantito per lui un «ruolo rilevante», definendolo «fondamentale» per il partito14. Tuttavia, qualche malumore è emerso dall’ala più legata alle origini autonomiste: il governatore veneto Luca Zaia ha ribadito che la Lega resta «geneticamente» ancorata alla rappresentanza delle «identità territoriali».

Vannacci non ha usato mezzi termini nel delineare la rotta: «Siamo l’unico vero partito sovranista, non ci pieghiamo agli inciuci». Un’affermazione che suona come una sfida a Fratelli d’Italia, mentre la Lega punta a radunare il suo elettorato con il prossimo raduno di Pontida, fissato per il 21 settembre.

Nel frattempo, il partito conferma l’impegno sulla pace fiscale, definita «obiettivo irrinunciabile» dal ministro Giorgetti durante il Consiglio federale. L’obiettivo dichiarato è tutelare i contribuenti in buona fede, mantenendo però «zero tolleranza per i grandi evasori».

L’antropomorfizzazione dell’intelligenza artificiale: fenomeno, implicazioni e rischi

Gli esseri umani hanno una naturale tendenza ad attribuire caratteristiche, emozioni e intenzioni umane a entità non umane, incluse le tecnologie di intelligenza artificiale. Questo fenomeno, noto come antropomorfizzazione, influisce profondamente sul modo in cui interagiamo con i sistemi di AI. La ricerca dimostra che l’antropomorfizzazione dell’AI può manifestarsi in vari gradi, dalla semplice cortesia all’attribuzione di capacità cognitive complesse. Questo fenomeno ha radici storiche che risalgono ai primi esperimenti di intelligenza artificiale, in particolare con ELIZA negli anni ’60, e continua ad essere rilevante oggi con chatbot avanzati e assistenti virtuali. Le implicazioni di questa tendenza sollevano importanti questioni riguardo alla fiducia eccessiva nei sistemi AI, alla possibile manipolazione degli utenti e alla comprensione distorta delle reali capacità di questi sistemi.

L’effetto ELIZA

L’antropomorfizzazione dell’intelligenza artificiale ha radici profonde che affondano fin dagli albori dell’informatica. Un esempio emblematico risale al 1966, quando Joseph Weizenbaum, ricercatore del MIT, sviluppò ELIZA, un programma oggi considerato il primo chatbot della storia. ELIZA era progettata per simulare un terapeuta rogeriano, ossia uno psicoterapeuta ispirato all’approccio umanistico di Carl Rogers. Questo tipo di terapeuta si basa su tre principi fondamentali: ascolto empatico, accettazione incondizionata e autenticità, evitando giudizi o interpretazioni e lasciando che sia la persona a guidare il dialogo.

ELIZA imitava questo stile limitandosi a riflettere le frasi degli utenti sotto forma di domande, una tecnica che dava l’impressione di ascolto e comprensione, pur basandosi su semplici regole di corrispondenza tra parole chiave e risposte predefinite. Nonostante la sua estrema semplicità, il programma riuscì a suscitare in molti utenti l’illusione di una vera interazione empatica, segnando un momento cruciale nella storia dell’interfaccia uomo-macchina e nel modo in cui attribuiamo qualità umane alle tecnologie artificiali.

Ciò che sorprese lo stesso Weizenbaum fu la reazione delle persone che interagivano con ELIZA: “Non avevo realizzato… che esposizioni estremamente brevi a un programma informatico relativamente semplice potessero indurre un potente pensiero delirante in persone del tutto normali“. Questo fenomeno è diventato noto come “effetto ELIZA”, che descrive la tendenza delle persone ad attribuire comprensione umana ai computer basandosi esclusivamente su comportamenti superficiali.

L’effetto ELIZA evidenzia come le persone proiettino inconsciamente qualità umane sui sistemi tecnologici, anche quando sono consapevoli della natura meccanica di tali sistemi. Gli utenti che interagivano con ELIZA spesso si sentivano compresi e supportati, rivelando informazioni personali ed emotive, credendo che il programma stesse rispondendo in modo riflessivo, mentre in realtà seguiva semplicemente schemi predefiniti senza alcuna vera comprensione.

I gradi e le dimensioni dell’antropomorfizzazione

La ricerca contemporanea ha identificato diversi livelli di antropomorfizzazione nelle interazioni umane con l’intelligenza artificiale. Secondo studi recenti, esistono quattro gradi principali di antropomorfizzazione dell’AI:

  1. Cortesia (FriendlyBot): Includere espressioni come “per favore” e “grazie” nelle richieste all’AI. Questo comportamento rappresenta un riconoscimento superficiale dell’entità simulata, simile a come ci si riferisce a un cane usando pronomi umani come “lui” invece di “esso”.
  2. Rinforzo (KudosBot): Una forma più avanzata di interazione in cui gli utenti offrono feedback per guidare il comportamento dell’AI, come dire “Buon lavoro!” con la speranza che l’AI faccia più spesso ciò per cui viene lodata.
  3. Gioco di ruolo (CosplayBot): In questo livello, gli utenti chiedono all’AI di assumere persone specifiche, come uno chef pasticcere parigino, per migliorare la qualità e la rilevanza delle risposte.
  4. Compagnia: Il livello più profondo di antropomorfizzazione, dove gli utenti sviluppano un senso di connessione emotiva con l’AI1.

Questi gradi non sono mutuamente esclusivi e variano in termini di connessione emotiva e funzionalità. La ricerca mostra che i comportamenti antropomorfici hanno sia un ruolo funzionale (gli utenti presumono che l’AI funzionerà meglio) sia un ruolo di connessione, volto a creare un’esperienza più piacevole.

Le motivazioni psicologiche dell’antropomorfizzazione

Le persone antropomorfizzano l’intelligenza artificiale per diverse ragioni psicologiche fondamentali. Secondo Epley, Waytz e Cacioppo (2007), la tendenza ad antropomorfizzare agenti non umani è determinata principalmente da tre fattori, due dei quali sono particolarmente rilevanti: la motivazione sociale e la motivazione di efficacia.

La motivazione sociale si riferisce al desiderio umano di connessione sociale. Le persone che si sentono sole (motivazione sociale) sono più propense ad antropomorfizzare entità non umane, inclusi animali domestici. Questo fenomeno è stato documentato in uno studio che ha mostrato come le persone con disposizione alla solitudine tendessero maggiormente all’antropomorfizzazione.

La motivazione di efficacia riguarda invece il bisogno di comprendere, prevedere e controllare l’ambiente. Le persone che hanno un forte bisogno di controllo sono più propense ad antropomorfizzare animali e oggetti apparentemente imprevedibili. Questo comportamento serve come meccanismo cognitivo che aiuta a dare un senso al comportamento di entità che altrimenti sembrano caotiche o incomprensibili.

L’antropomorfizzazione serve quindi come “ponte cognitivo”, aiutando gli utenti a comprendere l’AI attraverso metafore umane. Attribuendo qualità umane all’AI, gli utenti possono interagire con sistemi complessi in modi che sembrano più intuitivi e meno intimidatori.

L’antropomorfizzazione dell’intelligenza artificiale ha importanti implicazioni per la progettazione, l’uso e la percezione dei sistemi AI. Queste implicazioni possono essere sia positive che negative.

Effetti sulla fiducia e sull’interazione

La ricerca ha dimostrato che la fiducia in un robot sociale con caratteristiche fisiche antropomorfe differisce sia dalla fiducia in un agente AI che dalla fiducia in un essere umano. In uno studio sperimentale, è emerso che la fiducia nel robot sociale si collocava in una posizione intermedia tra quella in un agente AI e quella in un essere umano. Questo suggerisce che manipolare le caratteristiche antropomorfe potrebbe aiutare gli utenti a calibrare in modo appropriato la fiducia in un agente.

L’antropomorfizzazione gioca un ruolo complesso nel plasmare l’attuale valutazione dell’AI. Le caratteristiche umanoidi sono note per influenzare positivamente le percezioni di calore e competenza, che a loro volta influenzano l’accettazione da parte degli utenti e l’intenzione di continuare a utilizzare i sistemi AI. Tuttavia, questa tendenza può distorcere il giudizio, portando a una fiducia mal riposta nelle capacità dell’AI, alla manipolazione da parte di sistemi progettati per sfruttare il ragionamento antropomorfico e a valutazioni errate dello status morale dell’AI.

Rischi etici e pratici

L’antropomorfizzazione può oscurare i rischi esistenziali dell’AI avanzata creando quello che alcuni ricercatori chiamano “lo specchio antropomorfico” una potente lente cognitiva e culturale che riflette la nostra psicologia, le nostre limitazioni e i nostri valori quando cerchiamo di immaginare l’intelligenza artificiale super intelligente (ASI). Questo specchio ostacola la nostra capacità di concepire forme di intelligenza fondamentalmente diverse con obiettivi e modalità operative non umane.

L’antropomorfizzazione può anche ostacolare la ricerca e lo sviluppo sulla sicurezza, orientando sottilmente le priorità di ricerca lontano dalle questioni di sicurezza più critiche. Inoltre, può portare a richieste premature di diritti o status per l’AI basate su una sofisticata imitazione piuttosto che sulla reale natura sottostante dell’AI, o allo sviluppo di una fiducia mal riposta molto prima, o persino in assenza, dell’emergere di una genuina intelligenza o sensibilità simile a quella umana.

Oltre il paradigma antropomorfico

Alcuni ricercatori suggeriscono che pensare oltre il paradigma antropomorfico potrebbe apportare benefici significativi alla ricerca sull’AI. L’antropomorfismo, o l’attribuzione di tratti umani alla tecnologia, è una risposta automatica e inconscia che si verifica anche in persone con competenze tecniche avanzate.

L’analisi di centinaia di migliaia di articoli di ricerca in informatica dell’ultimo decennio ha rivelato prove empiriche della prevalenza e della crescita della terminologia antropomorfica nella ricerca sui modelli linguistici di grandi dimensioni (LLM). Questa terminologia riflette concettualizzazioni antropomorfiche più profonde che influenzano il modo in cui pensiamo e conduciamo la ricerca sugli LLM.

Sfidare queste concettualizzazioni antropomorfiche potrebbe aprire nuove vie per comprendere e migliorare gli LLM oltre le analogie umane. Ad esempio, i ricercatori hanno identificato e analizzato cinque presupposti antropomorfici fondamentali che plasmano metodologie prominenti nell’intero ciclo di sviluppo degli LLM, dall’assunzione che i modelli debbano usare il linguaggio naturale per i compiti di ragionamento all’assunzione che le capacità del modello debbano essere valutate attraverso benchmark incentrati sull’uomo.

La ricerca dimostra che questo fenomeno è guidato da motivazioni psicologiche fondamentali e si manifesta in vari gradi, dalla semplice cortesia alla percezione di connessione emotiva profonda. Mentre l’antropomorfizzazione può facilitare l’interazione uomo-macchina rendendo i sistemi AI più accessibili e intuitivi, porta con sé anche rischi significativi, tra cui fiducia mal riposta, valutazioni errate delle capacità dell’AI e possibili distorsioni nella ricerca e nello sviluppo dell’AI.

Per il futuro, è fondamentale trovare un equilibrio tra lo sfruttamento dei benefici dell’antropomorfizzazione e la mitigazione dei suoi rischi. Ciò potrebbe richiedere lo sviluppo di nuovi quadri concettuali che ci permettano di pensare all’AI in termini non antropomorfici, consentendoci di apprezzare meglio la sua natura unica e le sue capacità senza le limitazioni imposte dal paradigma antropomorfico.

Stati Uniti e Cina, nuovi accordi sui dazi

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In una svolta attesa dai mercati globali, Stati Uniti e Cina hanno raggiunto un accordo temporaneo per ridurre reciprocamente le tariffe doganali, alleggerendo una guerra commerciale che durava da sette anni e minacciava di innescare una recessione mondiale. L’intesa, definita “storica” dal Segretario al Tesoro americano Scott Bessent, prevede un taglio immediato dei dazi del 115% su entrambi i fronti, con effetti a partire da mercoledì 14 maggio.

I numeri dell’accordo

Secondo i dettagli resi noti a Ginevra, dove i negoziatori si sono incontrati per due giorni, Washington abbatterà le tariffe aggiuntive imposte ad aprile 2025 dal 145% al 30% su beni cinesi per un valore di 200 miliardi di dollari, mantenendo un dazio base del 10% ereditato da precedenti amministrazioni. Pechino, dal canto suo, ridurrà i propri dazi dal 125% al 10% su prodotti statunitensi equivalenti, incluso grano, carne bovina e componenti elettronici. La tregua durerà 90 giorni, durante i quali le parti valuteranno l’impatto economico e negozieranno ulteriori alleggerimenti.

Abbiamo rappresentato entrambi i nostri interessi nazionali con successo”, ha dichiarato Bessent nel briefing congiunto con il rappresentante commerciale Jamieson Greer. “Nessuno dei due Paesi vuole un disaccoppiamento: i dazi elevati equivalgono a un embargo, e non è questa la direzione”. Il segretario ha inoltre annunciato l’istituzione di un forum permanente di consultazione, con incontri bisettimanali alternati tra USA, Cina e Paesi terzi come Singapore, per gestire le dispute commerciali.

La notizia ha scatenato un’ondata di ottimismo sui mercati finanziari. Il dollaro si è rafforzato dello 0,8% contro lo yen e l’euro, mentre i futures sull’indice S&P 500 sono saliti dell’1,4%, trascinati dai titoli tech e industriali. In Europa, le azioni di Maersk sono schizzate del 12%, dopo che la compagnia danese aveva lamentato un crollo del 40% nei volumi di container transatlantici a causa della guerra commerciale5. Anche i colossi del lusso LVMH e Kering hanno registrato rialzi superiori al 6%, specchio delle aspettative su una ripresa degli acquisti cinesi.

“Il risultato supera le attese: prevedevo un taglio al 50%”, ha commentato Zhiwei Zhang, capoeconomista di Pinpoint Asset Management a Hong Kong. “Ora gli investitori temono meno le interruzioni delle catene di approvvigionamento, almeno nel breve termine”. Tuttavia, gli analisti avvertono che le tariffe residue del 10% continueranno a gravare su settori strategici come semiconduttori, acciaio e farmaci, con un deficit commerciale USA-Cina ancora fermo a 295 miliardi di dollari.

Il retroscena: dal “Liberation Day” alla tregua lampo

L’accordo arriva dopo mesi di escalation culminati lo scorso aprile con il cosiddetto “Liberation Day”, quando il presidente Donald Trump aveva imposto dazi del 145% sul 60% delle importazioni cinesi, definendolo “un regalo agli operai americani”. Una mossa che aveva spinto Pechino a bloccare le esportazioni di terre rare essenziali per l’industria bellica statunitense e ad alzare al 125% i dazi su 300 prodotti USA, dal grano del Midwest ai Boeing.

Secondo fonti vicine ai negoziati, la svolta è maturata grazie alla mediazione informale della Svizzera, che ha ospitato gli incontri nella residenza privata dell’ambasciatore elvetico all’ONU, affacciata sul lago di Ginevra. “Il setting ha favorito un dialogo costruttivo”, ha riconosciuto Bessent, sottolineando il tono “amichevole ma fermo” dei colloqui.

Le ombre sul futuro: dal fentanyl alla competizione tecnologica

Nonostante i progressi, restano nodi irrisolti. Il rappresentante commerciale Greer ha confermato che le trattative sul contrasto al traffico di fentanyl, una delle giustificazioni iniziali di Trump per i dazi, proseguiranno su un binario separato, senza garanzie immediate. Intanto, Pechino ha già avvertito: “Se non ci saranno ulteriori progressi entro agosto, le tariffe torneranno ai livelli precedenti”.

C’è poi la questione della guerra tecnologica. L’accordo non menziona le restrizioni USA sulle esportazioni di chip avanzati verso la Cina, né i sussidi cinesi alle aziende di energia rinnovabile, considerati “pratiche sleali” da Washington. “Questa è una tregua, non una pace”, sintetizza Rebecca Strauss del Council on Foreign Relations. “Il conflitto strategico resta intatto, e con esso i rischi di nuove escalation”.

Prossimi appuntamenti: luglio 2025 come banco di prova

I negoziatori si incontreranno di nuovo entro fine luglio per valutare l’efficacia dell’accordo. Nel frattempo, l’attenzione si sposta sul voto di midterm statunitense di novembre, dove Trump punta a capitalizzare il successo della tregua per riconquistare il Congresso. Ma per milioni di imprese e lavoratori colpiti dai dazi, il vero test arriverà il 14 agosto, quando scadrà la finestra dei 90 giorni. In caso di fallimento, le tariffe torneranno ai massimi storici, riaccendendo lo spettro della recessione globale.

Trump appoggia Putin, creando attriti con gli alleati europei


Il presidente statunitense Donald Trump ha sostenuto l’invito del leader russo Vladimir Putin a intavolare trattative dirette con l’Ucraina in Turchia, contraddicendo di fatto l’impegno assunto appena 24 ore prima con i partner europei. La mossa rischia di minare la coesione occidentale sulla crisi in corso, mentre Mosca continua a rifiutare un cessate il fuoco immediato.

Poco prima, i leader di Gran Bretagna, Francia, Germania e Polonia si erano riuniti a Kyiv con il presidente ucraino Volodymyr Zelensky, concordando sulla necessità di chiedere alla Russia un cessazione delle ostilità di 30 giorni a partire da lunedì 12 maggio, pena l’inasprimento delle sanzioni. Trump aveva inizialmente appoggiato la posizione europea, definita “un segnale di unità”.

Tuttavia, domenica pomeriggio, in un post su Truth Social, il presidente Usa ha cambiato rotta: “Putin vuole parlare, Zelensky dovrebbe accettare subito. Pensate alle vite salvate!”. Poche ore dopo, Putin ha ribadito la disponibilità a incontrare il collega ucraino “senza precondizioni” a Istanbul giovedì 15 maggio.

Zelensky ha reagito con cautela: “Aspettiamo ancora il cessate il fuoco da lunedì, ma se Putin viene in Turchia, ci sarò”, ha scritto su X, sottolineando che Kyiv non rinuncia alla richiesta di una tregua preliminare. Fonti della presidenza ucraina hanno espresso scetticismo sulle reali intenzioni del Cremlino, ricordando che Mosca insiste nel voler includere nei negoziati le annessioni territoriali del 2022.

L’Europa ha reagito con freddezza alla svolta di Trump. Il portavoce dell’Eliseo ha definito “incoerente” la posizione americana, mentre Berlino ha ribadito che “senza cessate il fuoco, qualsiasi trattativa è prematura”. Intanto, nella notte tra domenica e lunedì, i bombardamenti russi hanno colpito un treno merci a Donetsk, ferendo il macchinista, mentre Kyiv denuncia “attacchi con droni su infrastrutture civili”.

La prossima settimana si preannuncia cruciale: Zelensky attenderà Putin a Istanbul giovedì, ma l’Ucraina ha già avvertito che abbandonerà i colloqui se Mosca violerà la tregua eventualmente concordata.

India e Pakistan sull’orlo del baratro: la notte in cui il Kashmir tremò

La notte tra il 6 e il 7 maggio 2025 ha segnato un punto di non ritorno nello storico conflitto tra India e Pakistan. Quello che è iniziato come uno scontro aereo nei cieli del Kashmir si è rapidamente trasformato in una crisi internazionale, riaccendendo paure sopite da decenni in una regione dove due potenze nucleari continuano a fronteggiarsi. Alle 23:47, i radar delle forze aeree di entrambi i paesi hanno iniziato a riempirsi di punti luminosi: 112 caccia, tra indiani e pakistani, si sono affrontati in un duello tecnologico durato oltre quattro ore, il più ampio dai tempi della Seconda Guerra Mondiale. Un evento che ha messo in luce non solo le capacità militari delle due nazioni, ma anche la fragilità di un equilibrio geopolitico sempre più precario.

Dalle montagne del Kashmir alla soglia dell’abisso

Tutto ha avuto inizio con l’attentato di Pahalgam, il 22 aprile, quando un commando armato ha ucciso 26 turisti, tra cui 14 cittadini cinesi. L’India ha puntato immediatamente il dito contro il Pakistan, accusandolo di fornire supporto logistico al gruppo Jaish-e-Mohammed, mentre Islamabad ha respinto le accuse definendole “una montatura per giustificare aggressioni future”. La tensione è salita alle stelle il 6 maggio, quando Nuova Delhi ha lanciato l’operazione “Sindoor”, un raid aereo contro presunti campi terroristici nella città pakistana di Kotli. Fonti indiane parlano di decine di miliziani neutralizzati, ma immagini satellitari diffuse da un drone turco hanno mostrato invece vittime civili, fornendo al Pakistan il pretesto per una risposta militare.

Quella che sarebbe potuta rimanere una scaramuccia di confine si è trasformata in uno scontro epocale grazie all’impiego di tecnologia avanzata. I caccia pakistani J-10C, di fabbricazione cinese, hanno ingaggiato i Rafale indiani a distanze superiori ai 150 chilometri, utilizzando missili PL-15 lanciati oltre la linea dell’orizzonte. Dal lato indiano, droni esca SWITCH hanno creato falsi bersagli, permettendo ai piloti di avvicinarsi abbastanza da lanciare i temibili meteor missile. Tra le nuvole del Kashmir, si è combattuta una partita a scacchi fatta di radar, algoritmi e segnali elettronici, dove ogni mossa poteva significare la distruzione di un aereo da 80 milioni di dollari.

Nelle ore successive allo scontro, il Pakistan ha rivendicato l’abbattimento di cinque caccia indiani, tra cui tre Rafale, mostrando video a infrarossi che ritraevano esplosioni in volo. Tuttavia, analisti indipendenti hanno notato incongruenze: due dei filmati diffusi dall’esercito pakistano corrispondevano a immagini di esercitazioni militari del 2023. L’India, da parte sua, ha mantenuto un silenzio ufficiale, limitandosi a pubblicare foto satellitari di un J-10C in fiamme vicino alla base di Skardu. L’unica certezza viene dai frammenti di un Rafale pakistano, identificato dal numero di serie PK-RA78, recuperati da una squadra francese sotto l’egida delle Nazioni Unite.

La propaganda ha giocato un ruolo cruciale nel alimentare la crisi. Sui social media pakistani, hashtag come #SteelWall e #InvincibleArmy hanno dominato le tendenze, mentre in India i media hanno esaltato la “supremazia tecnologica” dei Rafale. Dietro questa cortina fumogena, però, i militari di entrambi gli schieramenti si preparavano al passo successivo. Già nella mattinata del 10 maggio, razzi guidati indiani hanno colpito postazioni pakistane a Bhimber, uccidendo cinque soldati. La risposta è arrivata poche ore dopo con uno sciame di droni kamikaze che hanno sfondato le difese antiaeree di Jammu, dimostrando come la escalation stesse ormai seguendo una logica implacabile.

Gli spettatori invisibili

In questo pericoloso balletto, la Cina rappresenta l’elefante nella stanza. Pechino, principale fornitore di armi al Pakistan, ha mantenuto un silenzio calcolato, limitandosi a dichiarazioni generiche sulla “necessità di moderazione”. Eppure, secondo rapporti del Center for Strategic and International Studies, sette piloti cinesi in congedo temporaneo erano ai comandi dei J-10C durante lo scontro. Non solo: 48 ore prima dell’attacco, un cargo Y-20 dell’aeronautica cinese aveva consegnato a Rawalpindi una partita di lanciatori missilistici HQ-9B. Sul web cinese, intanto, l’entusiasmo popolare per le presunte vittorie pakistane ha raggiunto picchi inediti, con milioni di utenti che celebravano l’alleato come un baluardo contro l’“espansionismo indiano”.

L’Occidente, dal canto suo, appare diviso e incerto. Gli Stati Uniti hanno tentato di mediare, ma la proposta del Segretario alla Difesa Lloyd Austin si è scontrata con l’opposizione del Congresso, che chiede sanzioni contro il Pakistan per i suoi legami con i talebani afghani. In Europa, la Francia ha bloccato la consegna di otto Rafale all’India, temendo che possano essere utilizzati in operazioni offensive, mentre Germania e Italia hanno lanciato un piano di pace immediatamente boicottato da paesi come Polonia e Ungheria.

L’incubo nucleare

Quello che tiene svegli gli analisti militari, però, non sono i droni o i caccia di ultima generazione, ma i fantasmi del 1945. India e Pakistan possiedono complessivamente oltre 300 testate nucleari, con missili in grado di colpire le rispettive capitali in meno di dieci minuti. Il generale pakistano Pervez Musharraf, in un’intervista esclusiva, ha ricordato come già nel 2002 esistesse un piano per l’uso tattico di armi atomiche contro formazioni corazzate. “Quel piano – ha avvertito – non è mai stato cestinato. È lì, in qualche cassaforte, e potrebbe diventare realtà in poche ore”.

Mentre scriviamo, otto satelliti spia sorvolano il Kashmir, inviando dati in tempo reale a Washington, Mosca e Tel Aviv. Nei bunker di Nuova Delhi e Islamabad, leader politici e militari studiano mappe operative, consapevoli che ogni decisione potrebbe innescare una catena irreversibile. Il mondo trattiene il fiato, ricordando che in questa parte d’Asia, più che altrove, la differenza tra un incidente e un olocausto dipende dalla freddezza di un uomo davanti a uno schermo radar.

Vertice a Kiev: i leader europei chiedono a Putin una tregua di 30 giorni

In una dimostrazione di unità senza precedenti, i leader di Francia, Germania, Regno Unito e Polonia si sono recati sabato a Kiev per incontrare il presidente ucraino Volodymyr Zelensky, a poche ore dalla parata della Vittoria organizzata da Vladimir Putin a Mosca.

L’obiettivo: sostenere l’Ucraina e rilanciare la proposta, condivisa con gli Stati Uniti, di un cessate il fuoco totale e incondizionato di 30 giorni, preludio a negoziati di pace “giusta e duratura”. All’arrivo del treno speciale, ribattezzato “Bravery Express”, i leader – Emmanuel Macron, Friedrich Merz, Keir Starmer e Donald Tusk – sono stati accolti da un messaggio di benvenuto e hanno reso omaggio ai caduti ucraini in un memoriale nel centro della capitale.

“Insieme agli Stati Uniti chiediamo alla Russia di concordare un cessate il fuoco completo e incondizionato di 30 giorni”, hanno dichiarato in una nota congiunta, sottolineando che, in caso di rifiuto da parte di Mosca, sono pronte nuove sanzioni coordinate tra Europa e Stati Uniti.La visita si svolge in un contesto diplomatico estremamente incerto, con la guerra che prosegue da oltre tre anni. Il presidente americano Donald Trump, che ha invertito molte delle politiche del suo predecessore, spinge per una rapida soluzione negoziale e ha ribadito la necessità di una tregua immediata, minacciando sanzioni ancora più dure contro la Russia in caso di mancati progressi.

Il Cremlino, dal canto suo, si è detto disposto a valutare la proposta ma ha posto come condizione la cessazione degli aiuti militari occidentali a Kiev. “Altrimenti sarebbe solo un vantaggio per l’Ucraina”, ha dichiarato il portavoce Dmitry Peskov. Zelensky ha ribadito che l’Ucraina è pronta ad accettare la tregua e ha illustrato un piano d’azione in quattro punti, che prevede tra l’altro il rafforzamento delle difese ucraine e l’inasprimento delle sanzioni in caso di diniego russo. Parallelamente, i leader europei hanno espresso sostegno alla creazione di un tribunale speciale per perseguire i crimini di aggressione commessi dalla leadership russa, mentre la presidente della Commissione Europea Ursula von der Leyen ha ribadito la necessità di mantenere alta la pressione su Mosca.

La missione a Kiev arriva all’indomani della parata del 9 maggio a Mosca, dove Putin ha accolto il presidente cinese Xi Jinping e altri alleati, in un chiaro messaggio di sfida alle percezioni di isolamento internazionale della Russia. Zelensky ha definito l’evento “una parata di bile e menzogne”, mentre sul terreno, nonostante la dichiarazione di tregua russa dall’8 al 10 maggio, i combattimenti sono proseguiti senza sosta secondo testimonianze raccolte vicino al fronte.

Il vertice di Kiev rappresenta dunque un nuovo tentativo occidentale di imprimere una svolta al conflitto, facendo leva su una pressione diplomatica e sanzionatoria coordinata, in attesa di una risposta definitiva da Mosca.

Vicepresidente Vicario del CONI e Sindaco Metropolitano a confronto

Nel dibattito politico genovese si è recentemente inserita una riflessione interessante, nata da una dichiarazione della candidata sindaca del centrosinistra Silvia Salis: “Sono stata vicepresidente vicario del CONI, quindi so come si gestisce la politica e gli enti, e ora metterò la mia esperienza al servizio della città di Genova”. Una frase che merita attenzione.

In che modo, infatti, l’esperienza maturata all’interno del Comitato Olimpico Nazionale Italiano può preparare una figura politica alla guida di una città metropolitana? Quali sono le analogie e quali, soprattutto, le differenze tra questi due ruoli pubblici?

Nel complesso sistema istituzionale italiano, il Vicepresidente Vicario del CONI e il Sindaco Metropolitano incarnano due visioni molto diverse di amministrazione. Il primo è un dirigente interno a un ente nazionale con funzioni tecniche e regolative nel settore dello sport. Il secondo è una figura politica con un mandato popolare, responsabile della gestione di un vasto territorio e delle politiche che lo riguardano. Analizzare queste due figure significa quindi mettere a confronto non solo due incarichi, ma due modelli di governance.

Il CONI è un ente pubblico non economico, con competenze nazionali legate allo sviluppo e alla promozione dello sport. Il suo Vicepresidente Vicario non è eletto dai cittadini, bensì dalla Giunta Nazionale del CONI. Il suo ruolo principale è quello di sostituire il Presidente in caso di assenza o impedimento, e di collaborare alla gestione ordinaria, in particolare nella supervisione dei comitati regionali. Il suo lavoro è interno, tecnico e inserito in una struttura verticale regolata da norme statutarie.

Ben diversa è la figura del Sindaco Metropolitano. In Italia, il sindaco del comune capoluogo assume automaticamente anche la guida della città metropolitana. Non si tratta di una nomina tecnica, ma di un ruolo politico che comporta ampie responsabilità: mobilità urbana, urbanistica, ambiente, sviluppo economico, servizi pubblici. Il sindaco è chiamato a rispondere ai cittadini, a mediare tra comuni del territorio metropolitano, a interpretare e attuare le esigenze collettive.

Una differenza fondamentale riguarda i poteri. Il Vicepresidente Vicario del CONI opera entro limiti definiti e con margini di manovra ridotti. Non ha poteri decisionali autonomi, ma agisce per delega, secondo direttive interne e sotto il coordinamento del Presidente. Si muove all’interno di un quadro amministrativo in cui l’iniziativa personale è subordinata alle regole dell’ente.

Il Sindaco Metropolitano, al contrario, è il vertice di un organismo politico-amministrativo. Presiede il consiglio metropolitano e la conferenza metropolitana, coordina gli uffici e può adottare provvedimenti urgenti, nominare delegati, proporre e attuare politiche pubbliche. Ha dunque pieni poteri esecutivi e un ruolo di indirizzo strategico che tocca direttamente la vita dei cittadini.

Anche la natura delle competenze è diversa. Il vicepresidente vicario si occupa di attuare le politiche sportive definite a livello centrale: approva bilanci, coordina le attività regionali, partecipa alla realizzazione dei programmi. Il suo contributo è prezioso, ma è incanalato in un sistema organizzativo chiuso, dove il contatto con i cittadini è indiretto o nullo.

Il sindaco metropolitano, invece, è immerso in una dimensione pubblica e politica. Ogni sua scelta ha impatto immediato sulla qualità della vita dei cittadini: trasporti, gestione dei rifiuti, piani regolatori, opere pubbliche, transizione ecologica. La sua legittimazione politica deriva da un’elezione popolare, da un programma condiviso e da una responsabilità diretta nei confronti della collettività.

Il legame con il territorio, d’altra parte, segna una distanza evidente. Il vicepresidente del CONI non ha un rapporto organico con una comunità locale. Il sindaco metropolitano, invece, agisce costantemente all’interno di una rete di comuni, enti, associazioni, cittadini. Il suo operato è esposto, osservato, criticato e valutato in modo continuativo.

Si potrebbe dire, in sintesi, che le due figure incarnano due forme opposte di leadership. Il Vicepresidente Vicario del CONI rappresenta una leadership tecnica, gerarchica, settoriale. Il Sindaco Metropolitano è invece un leader politico e istituzionale, investito del compito di guidare una comunità complessa e articolata.

Questo non vuol dire che l’esperienza nel CONI sia irrilevante. Al contrario: può fornire competenze organizzative, sensibilità istituzionale, visione strategica. Ma è importante comprendere che si tratta di esperienze appartenenti a campi distinti. La gestione dello sport a livello nazionale e la guida di un territorio metropolitano richiedono strumenti, approcci e responsabilità profondamente diversi.

Per questo è legittimo, anzi necessario, interrogarsi su quanto e come una funzione tecnica all’interno di un ente regolatore possa tradursi in capacità politica e amministrativa locale. Governare un sistema sportivo, per quanto articolato, non equivale a gestire trasporti pubblici, crisi abitative, piani ambientali o sviluppo urbano.

Conoscere le differenze tra questi due ruoli permette anche di comprendere meglio come si distribuiscono le responsabilità nel nostro ordinamento. Da un lato, enti nazionali con funzioni specialistiche; dall’altro, amministrazioni locali con poteri trasversali e diretti. Due piani diversi, entrambi fondamentali, ma non sovrapponibili.

Alla luce di tutto ciò, la domanda iniziale resta aperta: quanto può pesare l’esperienza da Vicepresidente Vicario del CONI nella sfida, ben più complessa, di governare una città metropolitana? La risposta non può che dipendere dalla capacità del candidato o della candidata di tradurre un bagaglio tecnico in visione politica, ascolto della cittadinanza, gestione delle emergenze e costruzione di un futuro condiviso.

In politica, più che i titoli, contano la capacità di mediazione, la concretezza nelle scelte, il radicamento nel territorio. E soprattutto la consapevolezza delle sfide che attendono chi guida un ente locale in un tempo in cui la fiducia dei cittadini è un bene sempre più fragile.

OpenAI mantiene il controllo non profit dopo pressioni esterne

La società di intelligenza artificiale modifica i piani di ristrutturazione, cedendo alle critiche di ricercatori e autorità statali

OpenAI ha annunciato un cambio di rotta nella sua strategia di ristrutturazione aziendale, decidendo di mantenere il controllo della divisione non profit nonostante i piani iniziali di adottare un modello più orientato al profitto. La svolta arriva dopo pressioni da parte di ricercatori di spicco nel campo dell’IA e interventi degli uffici dei procuratori generali di California e Delaware.

In una lettera inviata ai dipendenti e agli stakeholder lunedì, il CEO Sam Altman ha spiegato che la società trasformerà la sua sussidiaria a scopo di lucro in una Public Benefit Corporation (PBC), ma il controllo rimarrà saldamente nelle mani dell’ente non profit originario. Il presidente di OpenAI ha ribadito che la struttura fondativa “continuerà a supervisionare e dirigere le operazioni”.

La decisione segna un parziale dietrofront rispetto al piano annunciato a dicembre 2024, che prevedeva uno spostamento del potere operativo verso la PBC, relegando il non profit a un ruolo di supervisione marginale. I critici, tra cui ex dipendenti e accademici, avevano denunciato il rischio di indebolire i meccanismi di governance, come l’indipendenza del consiglio e i limiti ai rendimenti degli investitori.

Cosa cambia nella struttura finanziaria

Uno degli aspetti più controversi riguarda l’abbandono del modello “capped-profit”, introdotto nel 2019 per bilanciare gli interessi commerciali con la missione di sviluppare un’intelligenza artificiale generale (AGI) sicura e benefica. Altman ha giustificato la scelta affermando che il vecchio sistema “avrebbe ostacolato la crescita in un mondo con molte aziende AGI competitive”. La nuova struttura prevede l’assegnazione di azioni a tutti i soggetti coinvolti, semplificando il modello ma eliminando i tetti ai profitti.

Per garantire che il non profit mantenga il controllo, OpenAI ha previsto che quest’ultimo diventi un azionista di maggioranza nella PBC, con quote supportate da consulenti finanziari indipendenti. “Man mano che la PBC cresce, aumenteranno anche le risorse del non profit”, ha aggiunto Altman, sottolineando come ciò rafforzi la capacità di perseguire la missione originale.

Le critiche rimangono aperte

Nonostante le modifiche, alcuni osservatori restano scettici. Un’ex consulente etica di OpenAI e organizzatrice della lettera aperta ai procuratori generali ha evidenziato due nodi irrisolti: la mancanza di chiarezza sulla subordinazione legale degli obiettivi commerciali alla missione benefica e l’incertezza sulla proprietà delle future tecnologie sviluppate. “Le dichiarazioni del 2019 erano esplicite sulla priorità della missione, queste no”, ha commentato.

La questione potrebbe avere ripercussioni anche sulla causa legale intentata da un cofondatore di OpenAI, che accusa la società di aver tradito i suoi impegni non profit orientandosi verso logiche di mercato. Finora, né il cofondatore né il suo team legale hanno commentato la nuova strategia.

La ristrutturazione riflette la tensione costante tra l’esigenza di capitali per competere in un settore ad alta intensità di risorse e la necessità di preservare la fiducia pubblica. OpenAI sostiene che il nuovo modello permetterà di “attrarre investimenti senza sacrificare la governance”, ma alcuni avvertono che, senza garanzie legali, il rischio di deriva commerciale persiste.

Intanto, il dibattito sul ruolo delle organizzazioni non profit nell’IA continua: mentre alcuni vedono nella decisione di OpenAI un precedente positivo, altri temono che l’influenza di giganti tecnologici citati tra i partner del dialogo possa comunque orientare le scelte strategiche.

La vicenda dimostra quanto sia complesso conciliare etica e business nell’era dell’IA avanzata. OpenAI cerca di navigare queste acque proponendo un ibrido inedito, ma le critiche evidenziano i limiti degli aggiustamenti strutturali senza un quadro normativo chiaro. La sfida ora è trasformare le promesse in meccanismi operativi trasparenti, soprattutto in vista dell’obiettivo AGI che rimane, almeno sulla carta, al centro della missione.