18 Novembre 2025
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Le Terre Rare al centro della guerra commerciale tra Stati Uniti e Cina

Le tensioni tra Washington e Pechino hanno raggiunto un nuovo picco critico con l’annuncio da parte della Cina di ulteriori restrizioni sull’esportazione delle terre rare, minerali strategici essenziali per la produzione di tecnologie avanzate, armamenti militari e dispositivi elettronici. Quello che sembrava un fragile accordo commerciale raggiunto nei mesi precedenti rischia ora di crollare completamente, con entrambe le potenze che si accusano reciprocamente di aver violato gli impegni presi e di aver innescato una pericolosa escalation proprio a poche settimane da un incontro cruciale tra il presidente americano Donald Trump e il leader cinese Xi Jinping.​

La cina espande i controlli: dodici elementi su diciassette sotto restrizione

La Repubblica Popolare Cinese ha ampliato drasticamente il proprio controllo sulle esportazioni di elementi delle terre rare attraverso l’Annuncio numero 61 del 2025, pubblicato dal Ministero del Commercio cinese. Le nuove regole, che entreranno in vigore in due fasi l’8 novembre e il 1° dicembre 2025, aggiungono cinque nuovi elementi alla lista delle sostanze sottoposte a restrizioni: olmio, erbio, tulio, europio e itterbio. Questi si vanno ad aggiungere ai sette già inclusi ad aprile scorso, portando il totale degli elementi controllati a dodici su diciassette che compongono la famiglia completa delle terre rare.​

La portata di queste misure va ben oltre il semplice controllo delle materie prime. Le nuove normative richiedono che le aziende straniere ottengano una licenza di esportazione dal governo cinese anche per prodotti che contengono appena lo 0,1% di elementi delle terre rare di origine cinese. Questo significa che un’automobile costruita negli Stati Uniti e venduta in Messico richiederebbe l’approvazione di Pechino prima della vendita, a causa dei chip presenti nel veicolo che potrebbero contenere tracce di materiali cinesi. Le restrizioni si estendono anche alle tecnologie di raffinazione e alle attrezzature di produzione utilizzate per estrarre, fondere, separare e riciclare questi minerali strategici.​

Il “bazooka” di pechino: le accuse dell’amministrazione Trump

Il rappresentante commerciale degli Stati Uniti Jamieson Greer ha definito le nuove limitazioni cinesi come “un atto di coercizione economica sull’intera economia globale” e “una presa di potere sulla catena di approvvigionamento globale”. Durante una conferenza stampa congiunta con il Segretario al Tesoro Scott Bessent, Greer ha avvertito che le ripercussioni potrebbero estendersi a vari settori, inclusi beni di consumo e automobili in tutto il mondo. Le dichiarazioni di Bessent sono state ancora più forti: “Hanno puntato un bazooka contro le catene di approvvigionamento e la base industriale dell’intero mondo libero”, ha affermato il Segretario al Tesoro, aggiungendo che “la Cina è un’economia a comando e controllo, ma non comanderanno né controlleranno noi”.​

L’amministrazione Trump ha reagito minacciando di reintrodurre tariffe al 100% su tutte le importazioni cinesi a partire dal 1° novembre, raddoppiando di fatto l’aliquota tariffaria complessiva che arriverebbe intorno al 130%. Trump ha descritto le azioni cinesi come “straordinariamente aggressive” e ha persino ventilato la possibilità di cancellare l’incontro programmato con Xi Jinping durante il vertice della Cooperazione Economica Asia-Pacifico (APEC) che si terrà in Corea del Sud tra il 29 ottobre e il 1° novembre. Tuttavia, Bessent ha mantenuto un tono più cauto, affermando che l’incontro tra i due leader è ancora previsto e che “abbiamo avuto comunicazioni sostanziali con i cinesi negli ultimi giorni”.​

La dipendenza americana: il 90% della raffinazione mondiale in mani cinesi

La dipendenza americana dalla Cina per le terre rare è drammaticamente evidente nei numeri. La Cina controlla circa il 70% dell’estrazione mineraria globale di terre rare e oltre il 90% della capacità di raffinazione mondiale, secondo l’Agenzia Internazionale per l’Energia. Gli Stati Uniti importano circa il 70% dei propri composti e metalli di terre rare dalla Cina, secondo il Geological Survey americano. Questi elementi sono fondamentali per una vasta gamma di tecnologie militari statunitensi, inclusi i caccia F-35, i sottomarini delle classi Virginia e Columbia, i droni Predator, i missili Tomahawk, i sistemi radar e le bombe intelligenti di precisione.​

Jeremy Siegel, professore emerito di finanza all’Università della Pennsylvania, ha espresso frustrazione durante un’intervista alla CNBC: “È scandaloso che non possediamo una riserva strategica di terre rare e che permettiamo alla Cina di monopolizzare il 90% del processo di raffinazione. Dove eravamo?”. L’assenza di capacità di lavorazione domestica per le terre rare pesanti, particolarmente critiche per applicazioni militari e tecnologiche avanzate, rappresenta una vulnerabilità strategica significativa per gli Stati Uniti.​

La risposta cinese alle critiche americane è stata altrettanto decisa. Durante una conferenza stampa del Ministero del Commercio, una portavoce ha chiarito che “finché le terre rare sono destinate ad applicazioni civili, le esportazioni riceveranno l’approvazione”. Ha inoltre sottolineato che le nuove regole rappresentano “un’azione valida per proteggere i nostri diritti” e che l’obiettivo è “impedire l’esportazione illegale di materiali di terre rare che potrebbero potenzialmente essere utilizzati nella creazione di armi di distruzione di massa”. La funzionaria ha accusato gli Stati Uniti di aver distorto significativamente i fatti e le azioni intraprese dalla Cina, esacerbando incomprensioni e incitando allarme.​

Pechino ha anche respinto le accuse americane sostenendo di aver informato Washington prima dell’annuncio del nuovo sistema di licenze e che le proprie regole sono in linea con le pratiche adottate da altre grandi economie. La Cina ha collegato l’escalation retorica all’espansione inattesa da parte del Dipartimento del Commercio americano della “Entity List” alla fine di settembre, che ora include aziende cinesi e non solo che tentano di aggirare le restrizioni all’esportazione di apparecchiature per la produzione di chip e altre tecnologie avanzate.​

Settori a rischio: difesa, semiconduttori e veicoli elettrici nel mirino

Analisti ed esperti vedono le mosse cinesi come una risposta logica e proporzionata alle azioni di Trump, piuttosto che una nuova strategia per ottenere leva nei negoziati futuri. Paul Triolo, specialista di Cina e tecnologia presso la società di consulenza Albright Stonebridge, ha osservato che l’attuale escalation ricorda il deterioramento delle relazioni bilaterali visto a maggio, aggiungendo che “ci siamo avvicinati al bordo di un abisso” e notando che la posta in gioco è ancora più alta ora.​

L’amministrazione Trump sta lavorando per costruire una catena di approvvigionamento domestica per ridurre la dipendenza dalla Cina. A luglio, il Dipartimento della Difesa ha siglato un accordo storico con MP Materials, la più grande società mineraria di terre rare degli Stati Uniti, che gestisce la miniera di Mountain Pass in California, l’unica miniera di terre rare pienamente operativa nel paese. L’accordo multimiliardario comprende investimenti azionari, garanzie sui prezzi e contratti di acquisto a lungo termine, con il Dipartimento della Difesa destinato a diventare il maggiore azionista della società.​

Nel dettaglio, il Pentagono ha garantito un prezzo minimo di 110 dollari per chilogrammo di produzione di neodimio e praseodimio per i prossimi dieci anni, quasi il doppio del prezzo di mercato prevalente in Cina. L’accordo prevede anche un impegno decennale per l’acquisto di magneti e include un investimento di 400 milioni di dollari in nuove azioni emesse dalla società. MP Materials costruirà un nuovo impianto di produzione di magneti, denominato “10X Facility”, che si prevede inizierà la messa in servizio nel 2028 e porterà la capacità totale di produzione di magneti di terre rare degli Stati Uniti a circa 10.000 tonnellate metriche.​

James Litinsky, fondatore e CEO di MP Materials, ha dichiarato che “questa iniziativa segna un’azione decisiva da parte dell’amministrazione Trump per accelerare l’indipendenza della catena di approvvigionamento americana”. L’azienda ha anche registrato una produzione trimestrale di concentrato di terre rare aumentata di quasi il 45%, raggiungendo 13.145 tonnellate metriche, mentre la produzione di ossido di neodimio-praseodimio è aumentata di quasi il 120%, totalizzando 597 tonnellate metriche nel secondo trimestre del 2025. Le azioni di MP Materials sono schizzate del 509,4% quest’anno, beneficiando dei rinnovati riflettori sulle terre rare in mezzo all’escalation delle tensioni.​

Tuttavia, costruire una capacità di lavorazione domestica per le terre rare negli Stati Uniti richiederà probabilmente un decennio o più, anche con tariffe che inclinano il campo di gioco a favore della produzione americana. La lavorazione delle terre rare su larga scala richiede intervento governativo per garantire sia accordi di acquisto che finanziamenti di base a causa della sua complessità tecnica e della mancanza di prezzi trasparenti. Esistono 17 elementi delle terre rare, che si combinano in modi diversi in ciascun deposito, e gli impianti pilota per elaborare i processi chimici per separarli non si traducono automaticamente in un’operazione su vasta scala.​

Gli esperti avvertono che le restrizioni cinesi potrebbero avere ripercussioni globali significative. Ryan Kiggins, professore di scienze all’Università dell’Oklahoma Centrale, ha osservato che “le terre rare sono centrali in questa lotta: sono vitali per armamenti avanzati, veicoli elettrici e la transizione verso l’energia sostenibile, industrie che caratterizzano il potere nel 21° secolo”. Le restrizioni colpiscono una vasta porzione dell’economia statunitense e globale, poiché le terre rare sono fondamentali per la produzione di chip per computer necessari per molti prodotti come smartphone e sistemi di intelligenza artificiale, magneti per alimentare droni, robot e automobili.​

Il rischio del disaccoppiamento: verso due catene di approvvigionamento parallele

I settori della difesa, dei semiconduttori e dei veicoli elettrici sono quelli che probabilmente subiranno il colpo più duro, secondo Garcia Herrero, analista presso la banca d’investimento francese Natixis. Le principali aziende della difesa, Apple, Nvidia, Tesla, Ford e General Motors sono particolarmente vulnerabili. Le nuove regole cinesi prendono di mira elementi delle terre rare critici per le applicazioni di difesa e chip semiconduttori, estendendosi a olmio, erbio, tulio, europio e itterbio. Questo annuncio ha fatto seguito ai controlli imposti sui materiali magnetici al neodimio ad aprile 2025, che hanno causato il panico nell’industria automobilistica e hanno portato Ford a chiudere temporaneamente alcuni dei suoi stabilimenti di produzione.​

Bessent ha indicato che gli Stati Uniti si aspettano di ottenere un sostegno sostanziale dagli europei, dall’India e dalle democrazie asiatiche per contrastare le mosse di Pechino. Durante le riunioni annuali del Fondo Monetario Internazionale e della Banca Mondiale a Washington, i funzionari americani hanno incontrato omologhi di vari paesi per coordinare una risposta collettiva. I ministri delle finanze del Gruppo dei Sette discuteranno una risposta congiunta per scoraggiare le mosse previste dalla Cina per controllare la fornitura globale di terre rare.​

Tuttavia, l’ironia della situazione non è sfuggita agli analisti: mentre Washington chiede aiuto con una mano, con l’altra mantiene tariffe elevate proprio sui paesi da cui cerca sostegno. Gli Stati Uniti hanno imposto una tariffa del 50% sull’India anche mentre chiama Nuova Delhi un partner nella sicurezza delle catene di approvvigionamento. L’India, dal canto suo, ha riserve limitate di terre rare e affronta i propri ostacoli produttivi.​

Le prospettive per l’incontro Trump-Xi in Corea del Sud rimangono incerte. Il presidente sudcoreano Lee Jae Myung ospiterà i leader dell’APEC il 31 ottobre e il 1° novembre nella città costiera sudorientale di Gyeongju. Trump dovrebbe arrivare il 29 ottobre per una visita di uno o due giorni, mentre Xi dovrebbe visitare la Corea del Sud il 30 ottobre. Seul sta coordinando separatamente con Pechino per finalizzare i dettagli della visita del presidente cinese, che non si recava in Corea del Sud dal 2014.​

Sia Bessent che Greer hanno espresso un cauto ottimismo sul fatto che Pechino possa riconsiderare e tornare ai negoziati. “Prevediamo che non procederanno con i controlli e che possiamo tornare alla nostra posizione precedente di una settimana fa”, ha dichiarato Greer, “dove avevamo aliquote tariffarie concordate e il flusso di magneti di terre rare che avevamo stabilito”. Bessent ha anche suggerito che l’attuale pausa tariffaria di 90 giorni tra Stati Uniti e Cina potrebbe essere prolungata, sebbene abbia affermato che le discussioni su questa estensione non avverranno prima che i leader si incontrino in Corea del Sud.​

Le restrizioni si ritorceranno su Xi?

Tuttavia, alcuni esperti ritengono che le restrizioni cinesi sulle terre rare potrebbero ritorcersi contro Xi. Secondo analisti, Pechino potrebbe aver esteso eccessivamente la propria leva sulle terre rare, rischiando di perdere il controllo su quella che sta emergendo come la catena di approvvigionamento più cruciale del 21° secolo. Le azioni della Cina stanno accelerando gli sforzi occidentali per sviluppare alternative, con investimenti record che affluiscono nelle catene di approvvigionamento strategiche di terre rare occidentali nel 2025. Il 2025 è destinato a essere un punto di svolta, poiché un anno di tariffe e guerre commerciali spinge investimenti record nella fornitura strategica occidentale di terre rare.​

Il futuro potrebbe essere caratterizzato da sistemi paralleli di raffinazione e approvvigionamento per le terre rare e le tecnologie associate, mentre Stati Uniti e Cina si allontanano ulteriormente. Tobin Marcus, analista di Wolfe Research, ha indicato che “se le regole dovessero essere applicate rigorosamente a tempo indeterminato, sarebbero dirompenti non solo per gli Stati Uniti, ma a livello globale”. Le terre rare sono anche essenziali per i settori dei semiconduttori e automobilistico, e le restrizioni potrebbero potenzialmente fermare l’impennata globale dell’intelligenza artificiale, che si basa su questi chip per l’addestramento.​

Mentre la retorica tra le due superpotenze continua a intensificarsi, gli osservatori rimangono concentrati sulle prossime settimane come momento critico per determinare se la relazione commerciale tra Stati Uniti e Cina può essere salvata o se il mondo si sta muovendo verso un disaccoppiamento più profondo delle due maggiori economie globali. La posta in gioco non potrebbe essere più alta: le terre rare rappresentano non solo una questione economica, ma una componente fondamentale della sicurezza nazionale, della supremazia tecnologica e del potere geopolitico nel ventunesimo secolo.

Gaza. Hamas uccide palestinesi in strada

Negli ultimi giorni, il fragile equilibrio nella Striscia di Gaza ha mostrato quanto il cessate il fuoco fra Israele e Hamas sia solo una tregua sottile, sostenuta più da necessità geopolitiche che da un reale mutamento delle dinamiche di potere.

Hamas, nonostante le devastazioni subite e la perdita di buona parte delle sue infrastrutture, sta tentando con forza di riaffermarsi come unica autorità legittima nel territorio, colpendo duramente le milizie rivali e i clan armati che negli ultimi mesi hanno sfruttato il vuoto di potere per consolidare il proprio controllo su intere aree urbane.

Le vie di Gaza City e Khan Yunis, dove fino a poche settimane fa regnavano le bande armate in una drammatica frammentazione sociale, vedono ora la presenza di pattuglie di Hamas, uomini in divisa che cercano di ristabilire un ordine apparente. Questa riaffermazione di forza è un messaggio politico oltre che militare: Hamas vuole dimostrare di essere ancora il centro di gravità della governance palestinese, nonostante le pressioni internazionali affinché si ritiri dal potere e consenta la creazione di un’amministrazione transitoria sotto supervisione esterna.

Hamas non vuole perdere Gaza

Il cessate il fuoco, frutto della mediazione di Stati Uniti, Qatar, Egitto e Turchia, ha posto sul tavolo condizioni molto chiare: il disarmo progressivo di Hamas e il trasferimento della gestione del territorio a un’entità amministrativa internazionale, accompagnata da un piano di ricostruzione in più fasi. Ma Hamas ha resistito, dichiarando che non può “disarmare mentre Gaza è ancora instabile e soggetta a continue infiltrazioni”. Israele, dal canto suo, conserva il controllo militare di diverse zone della Striscia e osserva con preoccupazione l’evolversi della situazione. Il primo ministro Benjamin Netanyahu ha più volte ribadito che “la guerra finirà solo quando Hamas sarà completamente smantellata”.

Sul terreno la realtà è molto più complessa: dopo due anni di bombardamenti, occupazioni parziali e carestia, il tessuto sociale della Striscia è frantumato. Clan come i Doghmush, gli Abu Shabab e gli al-Mujaida si sono armati, hanno creato checkpoint autonomi e si sono imposti in questi anni come nuovi centri di potere locale. Alcuni di questi gruppi hanno avuto nei mesi scorsi un sostegno indiretto da parte di Israele, che li ha considerati un possibile contrappeso a Hamas. Ma questa strategia, avvertono gli analisti, rischia di riprodurre dinamiche già viste in Afghanistan negli anni Ottanta, quando le potenze esterne alimentarono milizie locali che in seguito si rivoltarono contro chi le aveva sostenute.

Le violenze tra Hamas e i clan non si sono fermate con la tregua. Nel quartiere di Sabra, a Gaza City, gli scontri con la potente famiglia Doghmush hanno causato almeno 27 morti, tra cui otto membri di Hamas, mentre nella zona di Khan Yunis il raid contro il clan al-Mujaida ha lasciato sul campo decine di vittime.

Questi episodi rivelano la difficoltà del movimento islamista nel riprendere un controllo capillare del territorio e nel garantire la sicurezza interna. Le stesse fonti palestinesi riconoscono che la proliferazione di armi leggere e la totale assenza di un’autorità civile efficace rendono ogni tentativo di stabilizzazione un’impresa quasi impossibile.

Trump appoggia il regolamento di conti

Donald Trump, oggi presidente degli Stati Uniti e principale mediatore del cessate il fuoco, ha commentato la repressione interna di Hamas in termini sorprendentemente diretti, affermando che il gruppo “ha eliminato alcune gang pericolose” e che questo “non lo preoccupa affatto”. Tuttavia, ha precisato che gli Stati Uniti sono pronti a intervenire “rapidamente e con forza” nel caso Hamas rifiuti di disarmarsi, lasciando intendere che Washington non intende consentire una rinascita militare del movimento.

Fonti diplomatiche vicine alle delegazioni arabe coinvolte nei colloqui hanno spiegato che la Casa Bianca punta a consolidare una forma di amministrazione neutrale, composta da tecnocrati palestinesi ma supervisionata da un’alleanza internazionale guidata dagli Stati Uniti.

Nel frattempo, all’interno di Gaza cresce un sentimento ambivalente fra la popolazione civile. Alcuni cittadini vedono nel ritorno delle pattuglie di Hamas una garanzia minima di sicurezza dopo mesi di anarchia, mentre altri denunciano la brutalità delle operazioni di “ripulitura” della milizia islamista, accusata di esecuzioni sommarie e arresti arbitrari. Le famiglie delle vittime parlano di incursioni notturne, sparizioni e torture, segnali di un clima di paura che ricorda gli anni più bui del controllo totalitario di Hamas.

A questo si aggiunge una crisi umanitaria ancora devastante. Secondo organizzazioni internazionali, oltre l’80% della popolazione di Gaza vive oggi senza accesso stabile all’acqua potabile, e le infrastrutture sanitarie restano paralizzate: solo un terzo degli ospedali è operativo. Le tensioni tra le diverse fazioni palestinesi rendono inoltre difficoltosa la distribuzione equa degli aiuti, spesso confiscati dai gruppi armati per rafforzare la propria influenza.

La lotta è per il potere non per la libertà

Tra i clan più attivi dopo il cessate il fuoco figura anche quello di Abu Shabab, operativo nel sud della Striscia, che ha istituito posti di blocco e imposto “tasse di passaggio” a convogli umanitari, tra cui veicoli delle Nazioni Unite e della Croce Rossa. Secondo fonti locali, l’esercito israeliano, pur consapevole di queste attività, avrebbe evitato di intervenire, probabilmente per non rischiare nuovi scontri e per favorire la pressione interna su Hamas.

Questa tolleranza, tuttavia, ha alimentato la percezione che Tel Aviv stia lasciando fare ai gruppi palestinesi, per non incorrere in nuovi scontri armati, una strategia che molti pensano sia un “consiglio” di Trump.

Mentre le cancellerie occidentali guardano con crescente incertezza al futuro politico della Striscia, Hamas tenta di dimostrare la propria capacità di governare. I portavoce del movimento affermano di voler “garantire la sicurezza e la stabilità, in vista di un’amministrazione condivisa con altri attori palestinesi”.

Tuttavia, sul terreno, le armi parlano più delle parole. Ogni quartiere di Gaza racconta una storia diversa: a nord prevale ancora la legge dei clan, a sud si combattono guerre private per il controllo degli aiuti, al centro Hamas tenta di imporre la sua disciplina. L’immagine di un potere frammentato è oggi il riflesso del fallimento collettivo di tutte le parti coinvolte, incapaci di offrire ai palestinesi un orizzonte politico chiaro.

Gli analisti della regione concordano sul fatto che la tregua mediata dagli Stati Uniti potrà durare solo se si interverrà su due fronti contemporaneamente: la ricostruzione materiale del territorio e la ricostruzione istituzionale della governance. In assenza di una forza politica condivisa e legittimata, Gaza rischia di scivolare in una condizione di “somalizzazione”, dove il potere si disperde tra fazioni locali, signori della guerra e interessi esterni.

Le prospettive per una stabilità duratura, dunque, restano incerte, e gli occhi del mondo tornano a puntarsi su una terra dove il confine tra guerra e pace è sempre più sottile e dove il cessate il fuoco non coincide con la fine della violenza, ma solo con il suo mutare di forma.

Shahed 136: il drone kamikaze che ha rivoluzionato il conflitto globale

La guerra in Ucraina ha portato sotto i riflettori una nuova categoria di armamenti, vera protagonista dei massicci attacchi alle infrastrutture: il drone iraniano HESA Shahed 136, conosciuto anche come Geran-2 in Russia. Sviluppato dalla HESA in collaborazione con la Shahed Aviation Industries, questo sistema rappresenta uno degli esempi più avanzati di munizioni vaganti, spesso definite “droni kamikaze” o “suicide drone”. Progettato per la distruzione di obiettivi statici a lungo raggio, il Shahed 136 ha ridisegnato la logica degli attacchi a distanza, soprattutto per ciò che riguarda il rapporto tra costi e efficacia militare.

Ciò che distingue il Shahed 136 dagli altri droni da combattimento non sta tanto nel livello tecnologico assoluto, quanto nella sua filosofia di design: il focus è stato posto su affidabilità, facilità di fabbricazione e basso costo, fattori che ne consentono non solo la produzione in massa, ma anche l’impiego in sciami per saturare le difese avversarie. Il suo valore produttivo si aggira attorno agli 20/50.000 dollari per unità, una cifra irrisoria se confrontata con il costo esorbitante dei missili intercettatori impiegati per abbatterlo, spesso superiori a un milione di dollari ciascuno. Questa asimmetria economica permette a chi lo impiega di logorare le risorse nemiche, rendendo insostenibile la difesa tradizionale contro attacchi su ampia scala.​

Nel concreto, lo Shahed 136 si presenta come un velivolo con ala delta e propulsore a spinta posteriore, alimentato da un motore a combustione interna, derivato da tecnologie tedesche riadattate. È lungo 3,5 metri, ha un’apertura alare di circa 2,5 metri e pesa tra i 200 e i 250 chilogrammi. Il sistema di lancio è semplice ma efficace: cinque droni possono essere schierati simultaneamente tramite appositi rack mobili, consentendo una distribuzione efficiente anche da veicoli. Poco dopo il lancio, un booster viene separato, lasciando che il motore a pistone mantenga la propulsione per l’intero percorso.​

Shahed 136 Rack

Le prestazioni operative del Shahed 136 sono notevoli: può raggiungere una velocità compresa tra i 185 e i 200 km/h e vanta un’autonomia tra i 2.000 e i 2.500 km. Questo significa che può colpire obiettivi ben oltre le linee del fronte e spesso eludere le barriere radar grazie alla sua ridotta superficie riflettente e alla traiettoria di volo radente. La rumorosità del motore lo ha reso noto tra la popolazione ucraina come “flying moped” (ciclomotore volante), testimonianza del suo impatto psicologico oltre che materiale. Il payload, tipicamente costituito da una testata esplosiva di 40-50 kg, è sufficiente a devastare infrastrutture energetiche, depositi di carburante e centri di comando.​

La semplicità delle sue componenti interne, spesso provenienti dal mondo commerciale, ha permesso all’Iran di aggirare le tensioni derivanti dalle sanzioni internazionali: nella sua elettronica sono state individuate parti occidentali di uso civile, un segno dell’astuzia ingegneristica impiegata per sostituire tecnologie militari vietate. Questo “inganno” ha spesso alimentato dibattiti etici e legali sulla proliferazione di armi autonome, poco controllabili e potenzialmente impiegabili contro civili. L’efficacia nel targeting statico è tale da aver causato danni ingenti alle reti energetiche ucraine, privando intere città di luce e riscaldamento in pieno inverno. Al tempo stesso, le limitazioni del drone sono evidenti nel contesto delle operazioni tattiche “dinamiche”: la velocità moderata e la mancanza di manovrabilità lo rendono inadatto a colpire bersagli mobili o ad agire in ambienti saturi di difese elettroniche avanzate.​

Recentemente, sono state realizzate versioni modificate della Shahed 136 da parte degli ingegneri russi, capaci di adattarsi meglio alle esigenze del conflitto in Ucraina. Queste varianti integrano aggiornamenti nel sistema di guida e targeting, permettendo attacchi anche contro posizioni difensive avanzate. Il drone, tra l’altro, ha dimostrato di possedere una certa resistenza agli sforzi di guerra elettronica, benché sia vulnerabile ai disturbi e jamming. Gli ucraini stanno affinando le contromisure, ma la massa degli attacchi Shahed mette comunque a dura prova le capacità di risposta, costringendo le forze difensive a impiegare risorse costose.​

Shahed 136 elica

Sul fronte tecnico, Iran e altri paesi stanno spingendo sugli sviluppi futuri della piattaforma, con ricerche orientate verso sistemi propulsivi ibridi, motori a fuel cell o l’integrazione di materiali avanzati. Queste innovazioni puntano ad aumentare ulteriormente l’autonomia, la silenziosità e la resistenza ai disturbi radar, con l’obiettivo di rendere il drone ancora più difficile da intercettare pur mantenendo un costo contenuto. L’integrazione dell’intelligenza artificiale nei sistemi di volo è un orizzonte già esplorato, in grado di adattare le rotte in tempo reale sulla base delle minacce o delle caratteristiche di ciascuna missione.​

La strategia iraniana si basa sull’asimmetria: l’introduzione di armi economiche e facilmente replicabili permette di proiettare potenza su scala regionale e globale, rendendo obsoleti i paradigmi di deterrenza tradizionali. Il Shahed 136 è stato esportato e impiegato attivamente da proxy come gli Houthi nello Yemen, e la sua “replica” è ormai oggetto di interesse e studio negli Stati Uniti e presso diversi paesi occidentali, segno che il drone iraniano rappresenta un modello per l’innovazione bellica internazionale.​

Le implicazioni legali sono ancora oggetto di dibattito. La facilità con cui può essere impiegato contro obiettivi civili ha portato alcune leadership, come quella ucraina, a definirlo un’arma terroristica. La comunità internazionale è chiamata a riflettere sul futuro dei sistemi di arma autonomi e sulle normative necessarie a limitarne gli effetti collaterali e la dispersione.​

L’ecosistema del Shahed 136 viene completato dalla presenza di numerose varianti e piattaforme sorelle, come il Shahed 131 e il Shahed 238, oltre agli aggiornamenti russi (Geran-2), che differiscono per peso, autonomia e capacità di carico. Il continuo perfezionamento di questi sistemi, nonché la loro adozione da parte di attori non statali, sta innescando una “corsa alla replica” in tutto il mondo, trasformando il Shahed in un vero punto di riferimento per la guerra del futuro.​

Scheda tecnica dello Shahed 136

Shahed 136 scheda tecnica

Per arricchire il quadro sullo Shahed 136, è fondamentale approfondire le sue caratteristiche tecniche. La cellula del drone si basa su una configurazione ad ala delta con due derive alle estremità, una soluzione che assicura stabilità e semplicità costruttiva. La fusoliera è realizzata principalmente con materiali compositi leggeri come fibra di carbonio e strutture a nido d’ape, favorendo sia la robustezza sia la leggerezza, oltre a minimizzare la traccia radar. L’intero sistema pesa circa 200 kg, con una lunghezza di 3,5 metri e un’apertura alare di 2,5 metri.

Il motore è un elemento singolare dello Shahed 136: parliamo di un motore a pistoni quattro cilindri MD-550 da circa 37-50 cavalli, una versione prodotta in Iran e Cina derivata da tecnologia tedesca Limbach ottenuta tramite reverse engineering. Funziona con una semplice elica a due pale in configurazione “pusher”, cioè posizionata posteriormente per spingere il velivolo anziché trainarlo. Questo contribuisce al caratteristico rumore che lo ha reso riconoscibile sul campo, ma garantisce anche una buona efficienza grazie al basso consumo di carburante e all’elevata energia specifica della benzina rispetto alle batterie moderne.

Il decollo avviene tramite lancio assistito da razzi RATO, che vengono separati subito dopo pochi secondi di volo, lasciando al motore a combustione interna la propulsione principale. La versatilità del sistema di lancio consente la preparazione e il dispiegamento rapido da veicoli mobili, inclusi camion civili, rendendo i lanci difficili da prevedere o neutralizzare. Inoltre, la capacità di lanciare fino a cinque droni in sequenza rafforza il concetto di saturazione delle difese avversarie.

Dal punto di vista dell’avionica, lo Shahed 136 impiega un sistema di navigazione elementare ma efficace: si basa su un’accoppiata di guida inerziale e GPS commerciale, integrando correzioni via GLONASS, con possibilità di ricevere aggiornamenti sulla posizione tramite moduli di comunicazione 4G o SIM satellitari. Numerose analisi di rottami hanno evidenziato la presenza di componenti elettronici di origine occidentale come chip prodotti da Texas Instruments, Altera e Microchip Technology oltre che pompe del carburante e convertitori di tensione provenienti dall’Europa o dalla Cina. Il drone può quindi essere pre-programmato per raggiungere in autonomia un bersaglio statico, ma esistono versioni dotate di sensori aggiuntivi per l’attacco a bersagli mobili, come dimostrato dagli impieghi nel Golfo di Oman contro navi in movimento.

Shahed 136 rottami

La testata bellica è collocata frontalmente e pesa tra i 30 e i 50 kg, con esplosivo ad alto potenziale solitamente a frammentazione. Le varianti disponibili includono configurazioni anti-personale, anti-infrastruttura o per la neutralizzazione di radar. Il drone è in grado di volare tra i 60 e i 4.000 metri di altitudine, una caratteristica che lo rende estremamente versatile per missioni a bassa quota per eludere la maggior parte dei sistemi radar.

Una delle innovazioni più discusse per il futuro è l’integrazione di propulsori ibridi e intelligenza artificiale, con l’obiettivo di aumentare ulteriormente la sopravvivenza e la precisione, riducendo la rumorosità e aumentando l’autonomia. Materiali innovativi, gestione intelligente dei flussi e tecnologie fuel cell rappresentano le frontiere in via di esplorazione per rendere droni come il Shahed 136 ancora più avanzati e difficili da contrastare.

Le specifiche tecniche nel dettaglio includono:

  • Motore: Mado MD-550, quattro cilindri, 37-50 CV (derivato Limbach L550E)
  • Propulsione: Elica bipala “pusher”, posteriore
  • Peso: Circa 200-250 kg (payload 30-50 kg di esplosivo)
  • Dimensioni: Lunghezza 3,5 m – apertura alare 2,5 m
  • Velocità di crociera: 185-200 km/h
  • Autonomia operativa: 2.000-2.500 km
  • Quota di servizio: 60-4.000 m
  • Sistema di guida: INS + GPS/GLONASS commerciale, possibilità di ricezione segnali via GSM/SAT

La combinazione di semplicità, modularità e adattabilità elettronica fa dello Shahed 136 un prodotto bellico unico nel suo genere, in grado di rappresentare una minaccia rilevante per sistemi difensivi tradizionali e scenario in rapida evoluzione.

Venti anni di guerra in Afghanistan. Tra obiettivi mancati e ritorni di fiamma

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La guerra in Afghanistan iniziata il 7 ottobre 2001 come risposta agli attentati dell’11 settembre fu presentata come una campagna rapida per distruggere Al-Qaida, rovesciare il regime talebano che la ospitava e impedire che il paese tornasse a essere un santuario del terrorismo.

Venti anni dopo, nell’agosto 2021, i talebani entravano a Kabul quasi senza combattere e restauravano l’Emirato Islamico, mentre le ultime truppe statunitensi e NATO lasciavano il paese. In mezzo, una sequenza di operazioni militari, insurrezioni, accordi politici e fallimenti istituzionali ha prodotto un bilancio umano e strategico pesantissimo.

Secondo stime riconosciute, il conflitto ha ucciso circa 176 mila persone, inclusi oltre 46 mila civili, e ha generato milioni di rifugiati e sfollati interni, pur registrando periodi di miglioramento in ambito sanitario, educativo e di diritti femminili che non hanno retto all’ultimo collasso statuale del 2021.

L’operazione Enduring Freedom prese forma con una combinazione di bombardamenti aerei mirati, supporto alle milizie dell’Alleanza del Nord e l’impiego di forze speciali. La caduta di Mazar-i Sharif il 9 novembre 2001 e l’abbandono di Kabul da parte dei talebani pochi giorni dopo sembrarono confermare la validità della strategia di abbattere il regime con mezzi relativamente contenuti.

La resa di Kunduz, la fuga del mullah Omar da Kandahar il 7 dicembre e la campagna sulle grotte di Tora Bora completarono la prima fase, benché la mancata cattura di Osama bin Laden alimentasse già allora dubbi sulla tenuta dell’impianto antiterrorismo a lungo termine. In quel primo scorcio di guerra, gli USA e il Regno Unito rivendicarono l’attenzione esclusiva a obiettivi militari e lanci di aiuti umanitari dall’aria; ma le vittime civili, l’effetto dei bombardamenti e le prime accuse di violazioni misero presto in discussione la narrativa di una guerra “pulita” e chirurgica.

Le origini immediate dell’intervento si radicarono nelle relazioni tra Al-Qaida e il regime talebano, consolidatesi dal 1996 con la creazione di campi di addestramento, e nella sequenza di ultimatum lanciati dall’amministrazione Bush dopo l’11 settembre. Le risoluzioni del Consiglio di Sicurezza dell’ONU contro il terrorismo, insieme al riconoscimento dell’Afghanistan quale minaccia alla pace e sicurezza internazionale, furono interpretate da molti come un quadro di legittimità, seppure con margini controversi.

Una parte della dottrina giuridica riconobbe il diritto di legittima difesa, un’altra evidenziò l’assenza di uno Stato aggressore in senso classico. Eppure, il consenso internazionale sulla presenza della coalizione, la creazione dell’ISAF e il mancato isolamento diplomatico dell’operazione consolidarono la cornice politico-istituzionale del conflitto.

Dal 2002 in avanti, il baricentro operativo si spostò da una guerra di rovesciamento del regime a un conflitto controinsurrezionale. Nelle montagne di Shahi-Kot si riorganizzarono nuclei di Al-Qaida e talebani, dando vita a una fase di guerriglia transfrontaliera che sfruttò le aree tribali del Pakistan.

Gli attacchi con razzi, imboscate, ordigni improvvisati e il consolidamento delle retrovie in regioni impervie resero evidente che il “dopoguerra breve” non sarebbe mai arrivato, mentre la ricostruzione dello Stato afghano si scontrava con limiti strutturali, divisioni etniche e una corruzione endemica.

Con l’ingresso pieno della NATO nel 2006 e l’ampliamento dell’ISAF, la campagna cambiò scala. Operazioni come Medusa, Achille e le offensive nel distretto di Helmand riflettevano uno sforzo alleato crescente, con truppe britanniche, canadesi, olandesi e di altri paesi, accanto al dispositivo statunitense. Seguirono la surge annunciata da Barack Obama nel 2009 e, nel 2015, la transizione da ISAF a Sostegno Risoluto, con meno truppe e missione focalizzata sull’addestramento e il supporto. In parallelo, il sistema talebano divenne più fluido, resiliente e territoriale, alimentato anche dai proventi dell’oppio, mentre la governance afghana faticava a legittimarsi agli occhi delle comunità e a garantire sicurezza di base.

Il bilancio umano rimane tra i capitoli più dolorosi. Le stime citano circa 176 mila vittime complessive, con oltre 46 mila civili uccisi e fasi, come il 2011, in cui ai talebani fu attribuita la responsabilità per la grande maggioranza dei decessi civili. La guerra vide inoltre episodi documentati di crimini e violazioni: dai massacri e attentati indiscriminati dei talebani alle uccisioni illegali e alle torture imputate a forze afghane e a reparti occidentali, con inchieste che hanno coinvolto anche la Corte Penale Internazionale.

L’impatto sociale oscillò: nei periodi di più intensa presenza internazionale crebbero aspettativa di vita, scolarizzazione femminile, accesso all’acqua e rappresentanza parlamentare delle donne; ma la fragilità istituzionale rese questi progressi vulnerabili, fino al brusco arretramento imposto dal ritorno talebano.

Sul piano economico-finanziario, i costi furono enormi. Le stime aggregate indicano una spesa complessiva di centinaia di miliardi di dollari, con la quota statunitense preponderante e contributi significativi di Regno Unito, Germania, Italia e altri alleati. Le sole politiche di contrasto al narcotraffico costarono miliardi, senza riuscire a invertire strutturalmente la dipendenza rurale dal papavero da oppio. La resilienza dell’economia dell’oppio — fino a coprire la gran parte dell’offerta mondiale — segnò uno degli scacchi strategici più netti della coalizione e del governo di Kabul.

Il punto di svolta politico fu l’Accordo di Doha del 29 febbraio 2020, che fissò il ritiro statunitense entro 14 mesi a fronte di impegni talebani sul contrasto al terrorismo e sul dialogo intra-afghano. Le liberazioni di prigionieri e la riduzione della presenza militare internazionale prepararono la fase finale.

A maggio 2021 prese avvio il ritiro delle ultime truppe USA e NATO; l’effetto domino nelle province fu rapidissimo, con cadute in sequenza nel Nord e una capitolazione della sicurezza governativa che sorprese per velocità e ampiezza. Il 15 agosto i talebani entrarono a Kabul; il presidente Ashraf Ghani fuggì, e il 19 agosto fu proclamata la restaurazione dell’Emirato Islamico. Le ultime settimane furono segnate dall’evacuazione caotica all’aeroporto e da attentati che mostrarono il ritorno della minaccia jihadista in un ambiente di collasso istituzionale.

Il giudizio storico sul ventennio afghano mescola elementi contrastanti. Da un lato, l’eliminazione di Osama bin Laden nel 2011 e l’assenza, per anni, di un santuario indisturbato di Al-Qaida in Afghanistan furono risultati operativi non marginali. Dall’altro, la mancata costruzione di uno Stato legittimo e autosufficiente, la dipendenza dalla presenza militare straniera e la resilienza politico-militare dei talebani hanno eroso il senso degli obiettivi dichiarati.

Sotto il profilo del diritto internazionale, il dibattito sulla legittimità originaria dell’intervento non ha impedito un ampio sostegno multilaterale nei fatti; ma l’uscita precipitosamente gestita e la resa del terreno a un attore già responsabile di violazioni sistematiche dei diritti umani hanno inciso sull’immagine internazionale dell’Occidente e sulla percezione della coerenza strategica delle sue campagne. L’opinione pubblica nei paesi coinvolti è passata dal sostegno iniziale, molto alto nel 2001, a un crescente scetticismo sul prolungamento della missione e sull’utilità di restare, fino al sostegno maggioritario per il ritiro in diverse democrazie occidentali.

Nel quadro regionale, il ruolo del Pakistan è stato determinante e ambiguo. Le aree tribali transfrontaliere hanno funzionato da retroterra operativo per talebani e affiliati, complicando la logica controinsurrezionale. Allo stesso tempo, Islamabad ha coltivato legami di influenza in Afghanistan per ragioni di sicurezza strategica verso l’India, alimentando una dinamica che ha ostacolato una soluzione afgano-centrica.

Anche l’Iran ha esercitato nel tempo forme di influenza pragmatica, mentre Russia e Cina hanno valutato con attenzione il rischio di spillover jihadista e le opportunità economiche connesse alla stabilità, senza impegnarsi militarmente come l’Occidente. La caduta di Kabul ha ridisegnato gli equilibri regionali, ponendo nuove domande sulla gestione dei flussi migratori, sul narcotraffico e sulla prevenzione di nuovi hub del terrorismo internazionale.

Resta il dato che sintetizza l’intera vicenda: una guerra iniziata per negare spazio operativo al terrorismo e per sostituire un regime teocratico con uno Stato funzionante si è conclusa con il ritorno di quel regime e con istituzioni collassate, mentre milioni di afghani sono ripiombati nell’incertezza e in molte aree nella paura. È una lezione strategica che interroga dottrine militari, strumenti di nation-building e capacità di leggere il terreno sociale oltre il momento cinetico.

Le finestre di progresso registrate tra il 2002 e il 2020 — dall’istruzione femminile all’assistenza sanitaria, dalla crescita urbana all’apertura mediatica — mostrano che una società diversa era possibile, ma non sostenibile senza sicurezza, inclusione politica e lotta efficace alla corruzione. La storia del conflitto afghano dal 2001 al 2021 costringe oggi a ripensare tempi, strumenti e obiettivi di ogni intervento esterno in contesti statali fragili, dove legittimità interna e resilienza socioeconomica contano almeno quanto il successo militare tattico.

Il gelo sul 38º parallelo: storie e ombre della guerra di Corea

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La Guerra di Corea rappresenta uno degli eventi più drammatici e paradigmatici della storia contemporanea, capace di influenzare sia gli equilibri mondiali che le vite di milioni di persone.

Definita come il conflitto combattuto nella penisola coreana tra il 1950 e il 1953, questa guerra viene ricordata soprattutto per aver segnato un pericoloso punto di escalation della guerra fredda, portando il mondo sull’orlo di un conflitto nucleare globale e lasciando sul campo circa 2.800.000 vittime tra morti, feriti e dispersi, metà delle quali civili. La scintilla che accese le ostilità scaturì dall’invasione della Corea del Sud da parte dell’esercito della Corea del Nord comunista e dalla successiva risposta militare dell’ONU guidata dagli Stati Uniti, decisi a impedire la caduta del Sud nelle mani dell’ideologia comunista.

Il coinvolgimento internazionale fu immediato e vasto, in quanto la posta in gioco andava ben oltre i confini della penisola. La divisione del territorio coreano lungo il 38º parallelo, decisa dopo la sconfitta del Giappone nel 1945, aveva lasciato due presidi inconciliabili: al Nord un regime filosovietico con Kim Il-sung, al Sud un governo nazionalista filostatunitense capeggiato da Syngman Rhee.

Le tensioni, alimentate da una lunga storia di occupazione giapponese e da mutue accuse di provocazioni e repressioni, sfociarono presto in una guerra non dichiarata fatta di rappresaglie, imboscate e violenze interne tra le due parti, ma fu solo il 25 giugno 1950 che la situazione precipitò. In quel giorno, la Corea del Nord lanciò un attacco a sorpresa attraversando il 38º parallelo con un esercito notevolmente superiore, sia per numeri che per equipaggiamento militare, cogliendo impreparata la Corea del Sud e le forze americane dislocate nella regione. Questo attacco segnò il vero inizio della guerra e costrinse la comunità internazionale a una rapida mobilitazione.

La risposta delle Nazioni Unite fu rapida grazie all’assenza, in seno al Consiglio di Sicurezza, del rappresentante sovietico, che protestava per l’esclusione della Cina comunista dalle deliberazioni dell’ONU. Iniziò così la formazione di una coalizione composta da 18 stati, capeggiata dagli Stati Uniti, che si schierò al fianco del Sud con il compito di respingere le truppe del Nord e ripristinare la situazione precedente all’invasione. La coalizione, però, dovette affrontare subito alcune delle offensive più devastanti della guerra: le truppe nordcoreane, grazie a un’organizzazione meticolosa e alla superiorità dei mezzi forniti da Mosca, avanzarono rapidamente, conquistando Seul in pochi giorni e costringendo gli alleati a ripiegare sulle difese del cosiddetto “perimetro di Busan”. Qui, nei pressi dell’omonima città portuale, le forze sudcoreane, americane e della coalizione riuscirono infine a rallentare e poi fermare l’impeto dell’avanzata nemica, ma solo dopo settimane di sanguinose battaglie e immensi sacrifici umani.

Fu a questo punto che si verificò uno degli episodi strategici più celebri della guerra: lo sbarco di Incheon. Sotto il comando del generale Douglas MacArthur, le forze della coalizione organizzarono un’imponente operazione anfibia che colse completamente di sorpresa le forze nordcoreane, tagliando loro le linee di rifornimento e permettendo agli alleati di risalire rapidamente verso il 38º parallelo e oltre.

La guerra sembrava volgere a favore del Sud, ma l’intervento massiccio della Cina comunista, che inviò nell’arco di pochissimi mesi centinaia di migliaia di soldati “volontari”, cambiò nuovamente le sorti del conflitto. Questo ingresso allargò il fronte, ampliò la portata delle operazioni militari e complicò irrimediabilmente la situazione strategica sul terreno.

La tensione fra Cina e Unione Sovietica cominciò a farsi sentire anche sul piano politico. Le ragioni dell’impegno cinese in Corea furono oggetto di interpretazioni discordanti, ma appare ormai chiaro che, oltre a evitare il rischio di una Corea unificata filostatunitense ai propri confini, Pechino intendeva affermare la propria autonomia e leadership nel campo comunista, contrapponendosi all’egemonia di Mosca. L’intervento cinese portò a un drammatico capovolgimento delle sorti del conflitto, provocando il ripiegamento degli eserciti delle Nazioni Unite e il ritorno delle linee di combattimento attorno al 38º parallelo, dove la guerra si tramutò nuovamente in una lunga serie di battaglie di posizione.

Sul fronte interno, la guerra di Corea accentuò profondi contrasti anche tra le forze in campo. Negli Stati Uniti, l’amministrazione Truman si trovò a gestire forti dissidi interni, culminati nella destituzione del generale MacArthur, il quale, insoddisfatto delle strategie adottate e sostenitore dell’uso delle armi nucleari contro la Cina, rappresentava ormai un elemento di rischio per la stabilità internazionale.

In Unione Sovietica, per contro, le divergenze di vedute col governo cinese portarono a una crescente diffidenza reciproca destinata ad avere ripercussioni durature sugli equilibri del blocco comunista. Sul campo, nel frattempo, si moltiplicarono crimini e brutalità: la popolazione coreana fu costretta a subire indicibili sofferenze, con decine di migliaia di massacri, deportazioni e atti di inumana violenza compiuti da entrambe le parti. Il conflitto coreano si guadagnò perciò la tragica fama di “guerra dimenticata” in Occidente, sebbene le sue conseguenze siano rimaste profondamente radicate nella memoria collettiva dei popoli coinvolti.

L’armistizio firmato a Panmunjeom nel luglio 1953 pose ufficialmente fine alle ostilità, ma non portò mai a una pace duratura. La penisola coreana restò divisa lungo il 38º parallelo, custodita da un’ininterrotta presenza militare e da una tensione che, ancora oggi, si riflette nei rapporti tra le due Coree e nel delicatissimo equilibrio internazionale nell’Asia orientale. Le cicatrici della guerra sono ancora ben visibili sia nelle società coreane, profondamente segnate da traumi individuali e collettivi, sia nella costante instabilità della regione, teatro di frequenti provocazioni militari, incidenti di confine e crisi politiche. L’impatto della guerra di Corea va ben oltre la dimensione militare: essa ha lasciato un’impronta indelebile sul piano geopolitico, culturale e umano.

Chiunque oggi osservi la penisola coreana non può che ravvisare nella linea di demarcazione, presidiata da postazioni fortificate e sormontata dal filo spinato, il simbolo di un conflitto sospeso, di una pace incompiuta e di divisioni che continuano a plasmare le scelte dei popoli coinvolti. La Corea del Nord, divenuta uno degli stati più isolati e autoritari del pianeta, rappresenta forse uno degli ultimi retaggi della guerra fredda ancora pienamente efficaci, mentre la Corea del Sud, trasformatasi in una potenza economica avanzata, convive da decenni con la costante minaccia di un ritorno alle armi.

La memoria della guerra di Corea è dunque essenziale per comprendere non solo la storia del XX secolo, ma anche le dinamiche di potere e le tensioni che ancora oggi agitano lo scenario internazionale. Le lezioni di quella tragedia, purtroppo, restano di bruciante attualità e il ricordo di quei terribili anni continua a rappresentare un monito contro i pericoli della violenza ideologica e della divisione politica. La guerra di Corea ha segnato l’inizio di una nuova era, in cui la pace, raggiunta a prezzo altissimo, rimane fragile e le ferite del conflitto attendono ancora una vera riconciliazione.

Migliaia di reperti archeologici di Gaza salvati dai bombardamenti grazie a una missione d’emergenza

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Il salvataggio improvviso di migliaia di reperti archeologici palestinesi dalla distruzione rivela l’importanza della tutela del patrimonio culturale di Gaza nel presente scenario di guerra. Nel caos della crisi tra Israele e Hamas, le cronache degli ultimi giorni raccontano una delle operazioni di emergenza più singolari della storia recente, un atto disperato che ha consentito di preservare testimonianze antichissime dalla furia dei bombardamenti.

Giovedì 11 settembre, gli aid workers della ONG Première Urgence Internationale (PUI), sono riusciti a mettere in salvo migliaia di artefatti di inestimabile valore contenuti in un magazzino di Gaza, pochi istanti prima che la struttura venisse abbattuta da un raid israeliano. Lo sforzo è stato il risultato di nove lunghe ore di trattativa fra organizzazioni umanitarie e l’esercito israeliano, mentre il tempo scorreva inesorabile, con la notizia di una demolizione imminente che rischiava di cancellare decenni di scoperte.

In quel magazzino erano custoditi reperti provenienti da oltre venticinque anni di scavi archeologici, fra cui resti di un antico monastero bizantino del IV secolo, già riconosciuto come patrimonio mondiale UNESCO e una delle primissime testimonianze del cristianesimo in Palestina. L’esercito israeliano ha dichiarato che nell’edificio erano presenti anche infrastrutture di intelligence di Hamas, ragione per cui era stato inserito nella lista degli obiettivi da colpire nell’espansione delle operazioni militari a Gaza City.

La leadership della missione di recupero è spettata a Kevin Charbel, coordinatore di emergenza per Urgence Internationale (UI), una ONG attiva in Palestina dal 2009, impegnata sia nell’ambito sanitario sia nella salvaguardia della memoria storica locale. “Non si tratta semplicemente di eredità palestinese o cristiana: è un patrimonio che appartiene al mondo, tutelato ufficialmente dall’UNESCO” ha sottolineato Charbel, che si è trovato in prima linea durante la frenetica operazione.

Le trattative si sono svolte il mercoledì, quando l’agenzia COGAT, responsabile per le questioni umanitarie presso le autorità israeliane, ha avvertito la ONG dell’imminente abbattimento del magazzino. Attraverso un sistema di notifiche internazionale gestito da ONG e agenzie umanitarie, l’esercito viene informato delle “aree sensibili”: scuole, ospedali, magazzini che preservano aiuti e beni culturali. Charbel ha speso nove ore tentando di ottenere un rinvio della demolizione, mentre la crisi dei trasporti nel territorio assediato rendeva impossibile reperire camion per salvare i reperti.

Il tempo era pochissimo: solo cinque minuti prima di dover accettare la perdita totale, un’altra organizzazione ha offerto i mezzi necessari per il trasporto. Insieme al Patriarcato latino di Gerusalemme, UI ha proceduto al trasferimento degli oggetti in un luogo sicuro, la cui ubicazione resta segreta per motivi di sicurezza. La Scuola Biblica e Archeologica Francese di Gerusalemme, istituto di riferimento internazionale e protagonista nella scoperta dei Rotoli del Mar Morto, si è occupata della conservazione di circa 80 metri quadrati di artefatti accumulati nell’edificio “Al-Kawthar high-rise building ” di Gaza City.

La storia archeologica di Gaza è antichissima, risalente a oltre 6000 anni fa, e il territorio ospita decine di siti: templi, monasteri, palazzi, chiese, moschee e mosaici, molti dei quali sono andati perduti negli ultimi decenni tra urbanizzazione e saccheggi. L’UNESCO si sforza di proteggere ciò che resta, consapevole che Gaza fu crocevia di scambi fra Egitto e Levante e luogo di nascita di società urbane evolutesi da villaggi agricoli. Fra i reperti salvati figurano anfore, monete, mosaici, resti umani e animali, e oggetti riportati alla luce dal monastero di San Ilarione, uno dei primi insediamenti monastici cristiani del Medio Oriente.

La frenesia dell’operazione ha imposto condizioni tutt’altro che ideali: trasportare reperti così fragili e antichi avrebbe richiesto settimane di preparazione e mezzi specializzati, ma la situazione di emergenza ha costretto a stipare scatole di cartone sui camion scoperti, con la ceramica poggiata direttamente sulla sabbia. Le normative militari vietano l’uso di container sigillati, mettendo ulteriormente a rischio il patrimonio. Durante il tragitto, alcuni manufatti sono stati danneggiati o lasciati indietro per mancanza di tempo. Domenica, l’edificio è stato abbattuto dalle forze israeliane, che hanno motivato l’operazione con la presenza di infrastrutture militari nemiche.

Nelle ultime settimane, Israele ha demolito diversi palazzi a Gaza City, avvertendo la popolazione di evacuare in vista dell’offensiva di terra. Il conflitto, iniziato nell’ottobre 2023, ha già provocato devastazioni colossali sul fronte culturale: UNESCO ha censito almeno 110 siti culturali danneggiati, fra cui 13 siti religiosi, 77 edifici storici o artistici, un museo e sette siti archeologici.

Gli operatori impegnati nel salvataggio hanno vissuto tensioni emotive profonde, interrogandosi sulla liceità di investire risorse vitali come carburante e automezzi per preservare oggetti inanimati, mentre la crisi umanitaria richiede atteggiamenti e risposte altrettanto tempestive per garantire acqua, cibo, e medicine alla popolazione sotto assedio. “Abbiamo scelto di fare tutto questo perché questi reperti sono preziosi. Rappresentano una pagina fondamentale non solo per la storia palestinese, ma per la storia dell’umanità intera”, dice Charbel, sottolineando che la perdita delle testimonianze più antiche del cristianesimo in Palestina avrebbe effetti irreversibili.

Il patrimonio salvato ora si trova ancora in una location segreta a Gaza City, ma la sua esposizione agli agenti atmosferici e al rischio di nuove incursioni belliche mette in allerta storici e archeologi, ponendo sotto i riflettori la fragilità della memoria culturale in zone di guerra.

Da decenni, la tutela dei siti culturali è al centro della missione UNESCO in Gaza. Questi beni rappresentano l’identità condivisa delle popolazioni locali e la memoria universale, elementi fondamentali per il dialogo interreligioso e la ricostruzione sociale dopo le crisi. Ogni volta che la guerra colpisce la cultura, si spezza una connessione preziosa con il passato, indispensabile per immaginare il futuro.

La cronaca di questa settimana pone domande etiche e strategiche che riguardano il senso stesso del diritto alla cultura e alla memoria, nella tempesta di emergenze che affliggono Gaza. Fra le priorità di molte ONG, tornano con forza i temi della protezione del patrimonio in tempo di conflitto e la necessità di conciliare il soccorso umanitario alla popolazione con la difesa della storia.

La vicenda ci ricorda che la guerra non devasta soltanto vite, ma estende la distruzione alle radici più profonde di una civiltà, cancellando testimonianze che nessun intervento potrà mai recuperare. La battaglia per la salvezza dei siti archeologici di Gaza è il simbolo di una resilienza fatta di lavoro quotidiano, scelte dolorose e sforzi collettivi che superano i confini locali per diventare patrimonio globale.

La Russia aggira le sanzioni occidentali. Il sistema con il Vietnam. Ecco come funziona

Le tensioni geopolitiche globali hanno dato vita a meccanismi finanziari sempre più sofisticati per eludere le sanzioni internazionali. Una rivelazione esclusiva dell’Associated Press ha portato alla luce un sistema clandestino sviluppato da Vietnam e Russia per nascondere i pagamenti degli armamenti, utilizzando i profitti delle joint venture energetiche per eludere il sistema bancario internazionale.

L’architettura di questo meccanismo finanziario rappresenta una risposta diretta alle sanzioni occidentali imposte in seguito al conflitto ucraino. Secondo documenti interni vietnamiti, Hanoi ha acquistato equipaggiamenti militari russi, inclusi caccia, carri armati e navi, utilizzando un sistema di crediti che vengono poi ripagati attraverso la quota dei profitti vietnamiti della joint venture petrolifera Rusvietpetro operante in Siberia.

La struttura di questo accordo finanziario è articolata in tre fasi principali. Inizialmente, i profitti vietnamiti dalla joint venture in Siberia vengono inviati a Mosca per ripagare i crediti militari. Successivamente, eventuali profitti eccedenti i rimborsi dei prestiti vengono indirizzati all’azienda statale russa di petrolio e gas Zarubezhneft. Infine, Zarubezhneft utilizza la sua joint venture in Vietnam per trasferire una somma equivalente di ritorno a Petrovietnam, evitando così qualsiasi transazione finanziaria internazionale.

Le Ngoc Son, direttore generale di Petrovietnam, ha chiarito in un documento datato 11 giugno 2024 che “nel contesto delle sanzioni statunitensi e occidentali contro la Russia in generale, e l’esclusione della Russia da SWIFT in particolare, questo metodo di pagamento è considerato relativamente riservato e appropriato”, poiché i fondi circolano esclusivamente all’interno di Vietnam e Russia, mitigando i rischi dell’embargo americano.

Questo sistema emerge in un momento critico per la diplomazia internazionale. Gli Stati Uniti stanno cercando di rafforzare la partnership con il Vietnam come contrappeso alla crescente influenza cinese nel Sud-Est asiatico, mentre contemporaneamente sono in corso negoziati commerciali dopo l’imposizione di dazi del 20% sui beni vietnamiti da parte della Casa Bianca. Il presidente Donald Trump ha inoltre minacciato sanzioni ancora più severe contro Mosca, mentre l’Unione Europea ha implementato una serie di nuove sanzioni per pressare il presidente russo Vladimir Putin a concludere il conflitto in Ucraina.

Il meccanismo di pagamento descritto nei documenti sembra essere progettato per prevenire il rischio di future sanzioni e il potenziale di sanzioni secondarie contro coloro che facilitano le attività di entità sotto sanzioni primarie. Benjamin Hilgenstock, economista della Kyiv School of Economics che ha analizzato i documenti vietnamiti per l’AP, ha spiegato che “se vuoi proteggerti da qualsiasi tipo di rischio, essenzialmente eviti le transazioni transfrontaliere e crei questi tipi di schemi di pagamento compensativi”.

La principale minaccia di sanzioni secondarie deriva dal Countering America’s Adversaries Through Sanctions Act (CAATSA), misure promulgate durante il primo mandato di Trump che consentono l’applicazione di sanzioni a paesi o individui impegnati in attività commerciali con il complesso militare-industriale russo. L’ambiguità che circonda queste minacce è particolarmente potente, portando aziende e nazioni a peccare per eccesso di prudenza.

La rivelazione di questo sistema di pagamenti arriva mentre le relazioni tra Vietnam e Stati Uniti attraversano una fase delicata. Il Vietnam ha storicamente mantenuto stretti legami con la Russia, particolarmente nel settore della difesa, dove Mosca rappresenta un fornitore chiave di equipaggiamenti militari. Tuttavia, Hanoi cerca contemporaneamente di bilanciare questa relazione con il desiderio di approfondire i rapporti economici e strategici con Washington.

I documenti rivelano che il sistema è stato concepito già nel marzo 2023, quando il Ministero delle Finanze vietnamita ha avvertito che le transazioni di armi con la Russia potrebbero scatenare sanzioni americane “a causa della continua pressione degli Stati Uniti sul Vietnam per passare all’acquisto di armamenti americani, minacciando di sanzionare il Vietnam sotto CAATSA se persiste nell’acquisire armi russe”.

Parallelamente, il documento suggeriva che gli Stati Uniti potrebbero essere persuasi a evitare di imporre sanzioni al Vietnam perché, tra altri fattori, “gli Stati Uniti apprezzano il ruolo del Vietnam nell’attuazione della strategia Indo-Pacifico” finalizzata a contrastare la crescente assertività della Cina. Questa considerazione geopolitica rappresenta un elemento chiave nella complessa equazione diplomatica che il Vietnam deve navigare.

L’efficacia di questo meccanismo finanziario riflette una tendenza più ampia nell’economia globale, dove sanzioni e controsanzioni stanno spingendo paesi e aziende a sviluppare sistemi di pagamento alternativi. Il caso Vietnam-Russia non è isolato: nel 2017, la Russia ha accettato di fornire undici caccia Sukhoi Su-35 all’Indonesia in cambio di olio di palma, caffè e altre materie prime, dimostrando la creatività di Mosca nell’aggirare le restrizioni finanziarie occidentali.

Le implicazioni di questo sistema si estendono oltre le relazioni bilaterali Vietnam-Russia. Il meccanismo rappresenta una sfida diretta all’efficacia delle sanzioni occidentali e evidenzia le limitazioni degli strumenti finanziari tradizionali per influenzare il comportamento statale. Mentre l’Occidente si affida sempre più alle sanzioni economiche come alternativa all’azione militare, paesi come Vietnam e Russia stanno dimostrando una notevole capacità di adattamento e innovazione finanziaria.

La scoperta di questo accordo solleva questioni significative sulla trasparenza finanziaria internazionale e sull’efficacia dei controlli anti-riciclaggio. Il fatto che profitti legittimi da joint venture energetiche possano essere utilizzati per mascherare transazioni militari evidenzia le vulnerabilità nei sistemi di monitoraggio finanziario globale. Questo caso potrebbe spingere regolatori e istituzioni finanziarie internazionali a rafforzare i meccanismi di controllo e a sviluppare nuovi strumenti per identificare schemi di pagamento compensativi.

Il coinvolgimento di Zarubezhneft nel meccanismo aggiunge un ulteriore livello di complessità. Sebbene l’azienda non sia attualmente soggetta a sanzioni imposte in seguito alle azioni della Russia in Ucraina, il suo CEO Sergei Kudashov è stato incluso in una serie di sanzioni contro il settore energetico russo annunciate a gennaio, poco prima dell’insediamento di Trump. Il presidente del consiglio di amministrazione di Zarubezhneft, Evgeny Zinichev, ex ufficiale dell’FSB, è stato anch’egli sanzionato dagli Stati Uniti nel 2014.

Il tempismo di questa rivelazione è particolarmente significativo. Trump ha recentemente emesso un ordine esecutivo che ha raddoppiato i dazi sulle importazioni dall’India al 50% nel tentativo di persuadere Nuova Delhi a cessare i suoi acquisti di petrolio e forniture militari russe. Contemporaneamente, l’Unione Europea ha imposto una nuova serie di sanzioni mirate ai ricavi petroliferi e alle forniture militari della Russia, incluso il divieto per 70 navi di una “flotta ombra” presumibilmente utilizzata per trasportare petrolio russo aggirando le sanzioni internazionali.

Questo sofisticato meccanismo finanziario evidenzia la crescente complessità dell’economia globale sotto sanzioni. Mentre le potenze occidentali continuano a sviluppare strumenti punitivi sempre più raffinati, paesi come Vietnam e Russia dimostrano una capacità altrettanto sofisticata di adattamento. Il caso rappresenta un esempio emblematico di come la geopolitica contemporanea stia ridisegnando i flussi finanziari globali, spingendo attori statali e non statali a innovare continuamente per navigare un panorama di sanzioni in costante evoluzione.

La U.S. Army sta rivoluzionando il campo di battaglia con i nuovi sistemi autonomi Launched Effects

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A metà agosto 2025, alla Joint Base Lewis-McChord, nello stato di Washington, l’esercito degli Stati Uniti ha fatto un passo decisivo nella trasformazione digitale del campo di battaglia. Per la prima volta si è svolta una Special User Demonstration, cioè una dimostrazione operativa in cui reparti militari effettivi, non tecnici o riservisti, hanno messo alla prova i nuovi sistemi chiamati Launched Effects – Short Range. Non si è trattato di un semplice test tecnico, ma di una prova sul campo che ha visto soldati in servizio attivo usare direttamente queste piattaforme in scenari realistici.

I Launched Effects – Short Range sono strumenti autonomi che possono essere lanciati da un operatore o da altri sistemi più grandi. Servono a svolgere missioni di ricognizione, disturbo delle comunicazioni nemiche e, se necessario, attacco. Sono definiti “ibridi” perché uniscono due concetti finora separati: da un lato il drone, cioè un velivolo senza pilota usato per osservare o colpire, e dall’altro la munizione loitering, un’arma capace di restare in volo sopra una zona anche per diverso tempo, in attesa di un obiettivo da colpire. In pratica, si tratta di un sistema che può fare sorveglianza continua, raccogliere informazioni e allo stesso tempo intervenire in maniera offensiva, aumentando la rapidità d’azione e riducendo i rischi per i soldati.

L’obiettivo dell’esercito americano è chiaro: arrivare entro il 2027 a una vera e propria “drone dominance”, cioè a un dominio basato sull’uso massiccio e diffuso di piattaforme autonome in tutti i reparti. Per raggiungere questo traguardo è stata avviata l’Army Transformation Initiative, un programma che punta a cambiare radicalmente il modo in cui vengono acquistate e testate le nuove tecnologie militari. Invece dei tradizionali processi lenti e burocratici, con anni di sviluppo in laboratorio, i nuovi sistemi vengono messi subito nelle mani dei soldati, così che il loro feedback diretto – cioè le impressioni e i suggerimenti raccolti durante l’uso – possa guidare in tempo reale modifiche e miglioramenti.

Durante la dimostrazione, sono stati provati tre diversi modelli: il Coyote Block 3 prodotto da RTX, l’Altius 600 dell’azienda Anduril e l’Atlas della AEVEX Aerospace. Le unità hanno seguito un programma intenso in tre fasi: una prima settimana di formazione tecnica, una seconda dedicata ai voli di prova e una terza con esercitazioni tattiche complesse, in cui più droni venivano coordinati insieme. I soldati coinvolti hanno sottolineato come il passaggio dal simulatore alla realtà sia stato naturale: i sistemi risultano intuitivi e utili, soprattutto nella possibilità di combinare droni ricognitori e droni d’attacco, aumentando precisione e sicurezza.

Anche i comandanti hanno evidenziato un punto importante: questi test non servono solo a imparare a usare una nuova tecnologia, ma a immaginare nuovi modi di combattere. Un drone, infatti, non è soltanto uno strumento aggiuntivo: può trasformare la logica stessa di pianificazione e gestione della battaglia.

Per dare continuità al progetto, alcune unità hanno mantenuto in dotazione i sistemi testati, così da proseguire l’addestramento e fornire dati preziosi. Inoltre, il programma è stato inserito in una procedura di acquisizione accelerata, chiamata urgent capability acquisition pathway. Questo meccanismo speciale consente di introdurre rapidamente tecnologie ritenute strategiche, senza attendere i lunghi tempi di sviluppo tipici dei programmi militari.

Un aspetto fondamentale dei Launched Effects è la loro modularità. Significa che i vari componenti – dai sistemi di lancio ai controller di volo – sono pensati per essere sostituibili e aggiornabili come pezzi di un puzzle. Così, se una nuova tecnologia arriva sul mercato, può essere integrata facilmente senza dover rifare da zero l’intero sistema. L’idea è quella di costruire una struttura “plug-and-play”, simile a ciò che avviene con i software sui nostri computer o smartphone.

Il maggiore Chris Dudley, uno dei responsabili del programma, ha spiegato che la filosofia è ribaltata rispetto al passato: non si aspetta di avere un sistema “perfetto” prima di consegnarlo ai reparti, ma si dà subito ai soldati un prototipo funzionante, per poi perfezionarlo strada facendo.

Il risultato di questa nuova strategia è duplice: da un lato velocizza l’adozione dei droni in combattimento, dall’altro mantiene aperta la competizione tra le aziende produttrici, così da non restare vincolati a un solo fornitore. Ogni sei mesi, infatti, i modelli disponibili vengono rivalutati, in modo da scegliere sempre la soluzione migliore.

La dimostrazione di Joint Base Lewis-McChord ha segnato una svolta: non solo tecnologica, con l’introduzione di sistemi che uniscono ricognizione e capacità d’attacco in una sola piattaforma, ma anche organizzativa, con un nuovo modo di sviluppare e adottare innovazioni militari. La combinazione di coinvolgimento diretto dei soldati, processi rapidi e apertura all’innovazione continua rappresenta oggi la chiave con cui gli Stati Uniti puntano a mantenere un vantaggio decisivo nella guerra del futuro, sempre più segnata dall’impiego massiccio della robotica e dell’intelligenza artificiale.

L’intelligenza artificiale supera lo status di novità e diventa il motore invisibile di ogni settore

Negli ultimi mesi, chiunque segua con attenzione l’evoluzione tecnologica avrà notato come l’intelligenza artificiale sia divenuta oggetto di un hype mediatico senza precedenti. Questo è il segno di una trasformazione così rapida da rendere impossibile restare aggiornati senza un continuo monitoraggio, proprio ora che l’accesso all’AI sta uscendo dall’élite per farsi leva collettiva. Eppure, ciò che molti ancora faticano a comprendere è che considerare l’AI “speciale” equivale a essere rimasti già indietro rispetto ai fenomeni che ne determinano la traiettoria globale.

L’avvento di chatbot conversazionali per la produttività di massa, di modelli multimodali che ragionano su immagini, testo e audio, e di piattaforme in grado di automatizzare processi d’impresa e gestione creativa, ha infranto la barriera fra novità e uso quotidiano, proiettando l’intelligenza artificiale nello spazio delle commodity tecnologiche. Il vero punto di svolta non sta tanto nella sofisticatezza degli algoritmi, già teorizzati decenni fa, ma nella democratizzazione dell’accesso, nell’apertura di una stagione in cui chiunque, singoli utenti, aziende, sognatori digitali, può sperimentare, integrare e adattare l’AI su misura.

Lo scenario attuale vede l’intelligenza artificiale attraversare una fase di feroce concorrenza internazionale. La divisione tra modelli protetti da brevetti e soluzioni open-source si è fatta più netta e vivace: all’enorme impatto dei giganti occidentali come OpenAI, Microsoft, Google e Meta va contrapponendosi l’accelerazione senza precedenti di player cinesi come Baidu, Alibaba e ByteDance, pronti a scalare mercati e standard prestazionali con tecnologie proprie. L’esplosione di investimenti in infrastrutture, alimentata da colossi della finanza, porta il peso economico delle iniziative AI su cifre mai viste, generando nuove alleanze geopolitiche e industriali, come dimostra il progetto Stargate, che è una joint venture di infrastrutture AI i cui finanziatori azionari iniziali sono SoftBank, OpenAI, Oracle e MGX; SoftBank e OpenAI sono i partner guida, con Masayoshi Son presidente, e Oracle collaborerà anche come partner infrastrutturale per sviluppare 4,5 GW di nuova capacità di data center negli Stati Uniti.

Non basta. La rincorsa all’efficienza sta contribuendo a una vera rivoluzione anche tra i principali fornitori cloud, che ora diventano non solo partner strategici delle società AI, ma protagonisti diretti della corsa all’innovazione, grazie a potenze di calcolo centralizzate e capacità di scalare soluzioni in modo immediato e globale. Questa concentrazione di potere, però, solleva interrogativi sulla futura sostenibilità della concorrenza e sulla possibile nascita di nuovi monopoli, capaci di “asfissiare” la crescita dei settori tecnologici tradizionali.

Nel frattempo, la ricerca non rallenta. Se GPT-4 ha fissato una prima asticella nella capacità di ragionamento multimodale e Google DeepMind con Gemini Ultra ha superato quasi tutti i benchmark precedenti, la vera novità è la competitività sempre più serrata tra modelli open, come Llama 3 di Meta, e soluzioni chiuse proprietarie: il processo di raffinamento continuo ha portato il CEO di OpenAI a riflettere pubblicamente sulla rischiosità di un modello industriale esclusivamente privato. Il dato di fatto è che, soprattutto negli ultimi dodici mesi, l’intelligenza artificiale è diventata sempre più accessibile e diffusa: la produzione di open source ha aperto la strada a migliorie ultra-rapide, rendendo obsoleti in poche settimane risultati fino a poco tempo fa sorprendenti.

La velocità, secondo gli analisti, è la nuova scala, il vero parametro chiave. L’AI sta comprimendo i cicli decisionali d’impresa, trasformando i processi interni di aziende e pubbliche amministrazioni da sequenze di settimane o mesi a task da risolversi in pochi minuti. L’organizzazione vincente non è più solo quella che investe in tecnologie imponenti, ma quella che sa sperimentare, imparare e sbagliare rapidamente, gestendo la governance dei dati, la sicurezza e la selezione dei fornitori con reattività e intelligenza.

Le aziende che restano ancorate a un modello tradizionale rischiano di vedere i margini erosi da concorrenti che automatizzano, reinventano i workflow e ridisegnano prodotti e servizi per il nuovo mercato AI-driven. La domanda non è se adattarsi, ma quando: aspettare ancora significa rischiare una crisi strutturale. In più, l’automazione sta sciogliendo la cosiddetta “middle office”, ovvero quello strato intermedio di coordinamento umano tra funzioni e settori: i task di approvazione e controllo si stanno digitalizzando, cambiando profondamente la gerarchia e il funzionamento delle organizzazioni.

Anche la guerra globale dei talenti si trasforma: i migliori vogliono lavorare con strumenti di intelligenza artificiale all’avanguardia, e la capacità di attrarre professionalità qualificate è sempre più legata all’AI readiness interna. Non si tratta più solo di offrire stipendi competitivi, ma piattaforme potenti, ambienti reattivi, tecnologie che possano essere leve di crescita personale e professionale.

Dietro le quinte, si delinea poi un nuovo “AI tax” non visibile a tutti. Il vero costo non risiede tanto nell’acquisizione di software quanto nella domanda crescente di potenza di calcolo, nell’energia necessaria a mantenere funzionanti sistemi sempre più affamati di dati e di hardware. Le organizzazioni che oggi investono in AI rischiano di dover pagare un prezzo crescente per alimentare le proprie infrastrutture nei prossimi anni.

Un altro fronte rivoluzionario è rappresentato dall’interfaccia utente: la lingua naturale. “parlata” sta diventando il modo principale di usare software e dati, sostituendo menu e comandi con richieste in chiaro, di testo o voce, che l’AI capisce, esegue e traduce in azioni concrete. L’AI, infatti, ha portato ogni app, database, servizio aziendale o piattaforma a diventare “conversazionale”, e chi resta attaccato a vecchi menu rischia di trovarsi con strumenti obsoleti in breve tempo. Gli esperti prevedono che l’ulteriore sviluppo dei sistemi agentici andrà oltre i chatbot, spostando il paradigma verso veri assistenti e manager digitali, modificando quindi anche le regole della leadership e delle relazioni professionali.

La storia ci insegna che qualunque tecnologia, dirompente quanto si voglia, passa rapidamente da esclusiva a commodity. Lo stesso avverrà per l’AI. La corsa alla costruzione di modelli sempre più grandi e costosi, la cosiddetta “scale up”, verrà superata dalla tendenza a “scalare in orizzontale”: più sistemi piccoli, modulari, leggeri, capaci di essere distribuiti su larga scala ma personalizzati su casi d’uso specifici. Sarà questo il futuro dell’intelligenza artificiale realmente pervasiva.

Dietro l’hype, l’AI è già diventata lo standard con cui il mondo digitale si misura: accelerazione, democratizzazione, trasformazione continua e una nuova governance dei dati e dei talenti sono già realtà. Le aziende e le società disposte a cogliere la sfida oggi tracceranno la traiettoria economica, politica e culturale del prossimo decennio. Chi considera ancora l’AI “speciale” rischia di essere tagliato fuori dai giochi prima ancora che la partita sia iniziata.

Seoul, Washington e Tokyo mostrano unità contro le minacce nordcoreane con Freedom Edge

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L’apertura delle manovre congiunte “Freedom Edge” tra Stati Uniti, Corea del Sud e Giappone rappresenta un passaggio senza precedenti verso una nuova architettura di sicurezza nel Pacifico. Da oggi, lunedì, le forze navali e aeree dei tre Paesi sono impegnate in una maxi-esercitazione a sud dell’isola coreana di Jeju. Le operazioni, destinate a protrarsi per più giorni, sono state definite dal Comando Indo-Pacifico statunitense la dimostrazione più avanzata della cooperazione difensiva trilaterale mai organizzata, con una struttura che integra scenari marittimi, aerei e cyber e prevede simulazioni di attacchi missilistici e minacce nucleari provenienti dalla Corea del Nord.

Le autorità sudcoreane hanno dichiarato che “Freedom Edge” è essenziale per rafforzare le capacità comuni di risposta alle crescenti minacce nucleari e missilistiche di Pyongyang e per consolidare l’interoperabilità tra le flotte e le aviazioni alleate. Il Ministero della Difesa di Seul ha ribadito che il focus della manovra sarà affinare la cooperazione su antiaerea, antibalistico, evacuazione medica e operazioni navali, con grande attenzione anche agli aspetti informatici e al coordinamento logistico. Tra i mezzi coinvolti figurano alcuni dei più avanzati assetti della Marina statunitense e sudcoreana, mentre per l’aviazione vi sono caccia di nuova generazione e aerei radar di sorveglianza e comando.

Si tratta di una nuova edizione dell’esercitazione, che consolida il ciclo già avviato negli ultimi anni, ma è la prima volta in cui le esercitazioni avvengono sotto la presidenza congiunta del neo-presidente sudcoreano Lee Jae Myung e di Donald Trump, tornato alla Casa Bianca. Questo contesto di avvicendamento politico ha rilanciato con forza la dimensione trilaterale della sicurezza nel Pacifico, in risposta alla stagione di test missilistici nordcoreani e di retorica sempre più aggressiva proveniente da Pyongyang.

Non sono mancate, come prevedibile, le reazioni della Corea del Nord. Kim Yo Jong, sorella del leader Kim Jong Un e figura di peso all’interno del Partito dei Lavoratori, ha diffuso una dichiarazione dai toni forti attraverso i media statali, definendo le esercitazioni una sconsiderata dimostrazione di potenza e avvertendo che si tratta di un errore compiuto nel luogo sbagliato, che porterà conseguenze negative per Stati Uniti, Corea del Sud e Giappone. Pyongyang ha ribadito che continuerà a espandere parallelamente le proprie capacità militari convenzionali e nucleari e che non tollererà provocazioni ostili nei propri pressi, lasciando trasparire la possibilità di nuove prove di forza o di escalation retorica.

Le manovre Freedom Edge coincidono inoltre con l’esercitazione Iron Mace tra Stati Uniti e Corea del Sud, una pianificazione tabletop con focus sull’integrazione tra il potenziale nucleare di Washington e i mezzi convenzionali sudcoreani, con l’obiettivo di rafforzare ulteriormente la deterrenza e lo scambio informativo tra i due Paesi. La simultaneità delle due esercitazioni sottolinea, secondo i comandi militari, la volontà di dimostrare una risposta articolata e multidimensionale alle potenziali crisi della regione, testando contemporaneamente l’affidabilità dei protocolli di comando, controllo e comunicazione.

La portata dello spiegamento navale e aereo non è passata inosservata nemmeno a Pechino e Mosca. Cina e Russia seguono con grande attenzione le evoluzioni della sicurezza nel Pacifico e hanno manifestato tramite le rispettive diplomazie una velata preoccupazione per lo scenario nascente. Tuttavia, i governi di Seul, Washington e Tokyo hanno insistito sul carattere puramente difensivo delle esercitazioni, concepite unicamente per rispondere alle minacce dirette della Corea del Nord. L’obiettivo dichiarato resta quello di mantenere la stabilità regionale e prevenire qualsiasi tentativo di avventurismo militare da parte di Pyongyang, senza provocare escalation non desiderate nella penisola coreana.

Secondo fonti sudcoreane, le esercitazioni si articolano sia in acque internazionali sia nello spazio aereo sovrastante l’isola di Jeju, con sessioni dedicate all’addestramento antinave, contrasto agli attacchi di missili balistici, soccorso aereo ed esercizi di cyberdifesa. Un’attenzione particolare viene data agli scenari di negoziazione in tempo di crisi e simulazioni di incidenti o azioni ostili, con la partecipazione di squadre medico-militari e l’impiego di sistemi satellitari per il coordinamento in tempo reale dei comandi alleati. Gli ufficiali coinvolti hanno confermato che uno degli aspetti più innovativi della manovra sarà la pratica di risposta coordinata a minacce simultanee su più domini, sfruttando piattaforme d’intelligence condivise e modelli operativi integrati.

La dinamica della cooperazione nippo-coreana presenta ancora fragilità, dovute a storiche diffidenze, ma i continui sforzi diplomatici da parte di Washington hanno contribuito negli ultimi mesi a ridurre le divergenze e a promuovere fiducia reciproca tra Tokyo e Seul. La presenza statunitense, sia a terra sia nelle acque del Pacifico, continua a rappresentare il principale elemento di garanzia per la deterrenza regionale, in un periodo segnato da numerose incognite globali e dalla necessità, per gli alleati dell’area, di rafforzare la propria proiezione di sicurezza per il lungo termine.

L’avvio di Freedom Edge viene interpretato dagli osservatori come la riprova che la gestione della crisi nella penisola coreana passa anzitutto per la cooperazione trilaterale e per la condivisione di informazioni, risorse e capacità tecnologiche all’avanguardia, allo scopo di contenere qualsiasi tentazione di escalation da parte della Corea del Nord. Secondo Seul, la priorità resta quella di rafforzare la prontezza operativa, mantenendo però il dialogo aperto ai possibili canali diplomatici per scongiurare derive più gravi.

In un clima internazionale denso di rivalità e alleanze mutevoli, la complessa esercitazione Freedom Edge consolida il ruolo degli Stati Uniti come leader delle alleanze regionali e fa della partnership tra Seul e Tokyo un modello per tutte le future risposte collettive alle potenziali crisi asiatiche. Intanto, le forze nordcoreane osservano con attenzione ogni fase delle manovre, mentre il mondo assiste al rafforzamento di un fronte che, almeno per questa settimana, ha scelto di mostrare unità e determinazione nei confronti delle sempre più sofisticate minacce di Pyongyang.