18 Settembre 2025
Home Blog Pagina 3

Thaksin Shinawatra condannato: l’ex premier thailandese entra in carcere dopo anni di polemiche

0

L’ex primo ministro thailandese Thaksin Shinawatra, figura controversa e centrale nella storia politica moderna del paese, entrerà in carcere per scontare una pena di un anno dopo una lunga vicenda giudiziaria durata quasi due decenni. La Corte Suprema di Bangkok ha imposto la detenzione effettiva in esecuzione della condanna pregressa, tra cui abuso di potere e corruzione risalenti al suo mandato. Il caso, che scuote nuovamente la Thailandia, accende un riflettore sulla tensione tra giustizia, potere e privilegio, mentre la società rimane divisa tra chi lo considera un perseguitato politico e chi riconosce nella condanna un raro gesto di equità istituzionale.

Thaksin, magnate delle telecomunicazioni e capo della “dinastia Shinawatra”, era fuggito all’estero nel 2008 dopo un colpo di stato del 2006 che l’aveva rimosso dalla guida del governo. Da allora aveva vissuto tra Dubai e Londra, tornando a Bangkok nel 2023 in circostanze che hanno sollevato dubbi e polemiche. I processi a suo carico, legati principalmente all’assegnazione irregolare di appalti pubblici e a una gestione dei poteri considerata personalistica, si sono accumulati negli anni, con una pena iniziale sommata di otto anni di reclusione, ridotta poi a un solo anno grazie alla grazia concessa dal re Maha Vajiralongkorn.

Il ritorno in patria di Thaksin era stato salutato da una folla divisiva: le strade di Bangkok erano affollate da sostenitori entusiasti, convinti che i giudici fossero mossi da intenti persecutori e che l’ex premier potesse portare nuova stabilità al paese. Subito dopo la sentenza, però, Thaksin aveva trascorso meno di ventiquattro ore in una cella ordinaria, lamentando problemi cardiaci e venendo trasferito in un reparto VIP dell’ospedale generale della polizia, dove sarebbe rimasto per sei mesi. Quella che venne giustificata come “detenzione sanitaria” suscitò indignazione e polemiche in tutto il paese, con sospetti di favoritismi e trattamenti privilegiati riservati alle élite politiche.

La Corte Suprema ha stabilito definitivamente che il periodo trascorso nell’ospedale non può essere considerato come pena scontata. I giudici hanno chiarito che Thaksin, pur soffrendo di patologie croniche, non versava in condizioni di emergenza e avrebbe potuto essere curato in regime ambulatoriale. La decisione segna un punto importante poiché numerosi attivisti e osservatori locali avevano criticato l’apparente impunità di Thaksin e contestavano la sua effettiva detenzione, vista più come privilegio che come punizione. Secondo la sentenza, l’ex premier dovrà essere condotto nel carcere di Bangkok, con l’impegno di ottemperare per un anno a tutti gli obblighi previsti dalla legge.

Alla lettura della sentenza, Thaksin ha pubblicato un messaggio sui social network, ribadendo di voler mantenere la forza necessaria per servire la monarchia e il popolo thailandese. Ha scritto: «Anche se perderò la mia libertà fisica, avrò comunque libertà di pensiero per il bene del mio Paese e del suo popolo», mostrando ancora una volta la sua abilità nel rivolgersi direttamente alla nazione e ai suoi sostenitori e rimarcando il proprio attaccamento al senso civico e alla monarchia.

La questione della sua salute rimane un tema controverso e dibattuto. Molti osservatori internazionali e una parte della stampa locale hanno avanzato dubbi sulla gravità delle sue condizioni, sottolineando che l’accesso a cure mediche private e a una sistemazione di lusso in ospedale non può in alcun modo essere equiparato alle dure condizioni carcerarie vissute dalla maggior parte dei detenuti. La stessa corte, nella motivazione del verdetto, ha rimarcato il rischio che comportamenti del genere indeboliscano la fiducia del pubblico nella giustizia.

Il destino della famiglia Shinawatra resta strettamente intrecciato alle sorti della politica thailandese. Paetongtarn Shinawatra, figlia di Thaksin, aveva assunto il ruolo di primo ministro nel 2024 ma è stata rimossa e sottoposta a indagine per presunte violazioni etiche. Durante il processo, Paetongtarn, circondata dai familiari e dai funzionari più fidati, ha ringraziato pubblicamente il re per la sua clemenza, sottolineando che il padre rimarrà un punto di riferimento “spirituale” per la nazione. Le sue parole, pronunciate davanti ai giornalisti, hanno consolidato l’immagine della dinastia come simbolo di un potere resiliente e capaci di affrontare le avversità.

Fin dal colpo di stato del 2006, la figura di Thaksin ha rappresentato il bersaglio di una parte dell’establishment militare e delle élite giudiziarie, ma ha continuato ad essere un polo di aggregazione popolare, soprattutto nelle regioni rurali e tra i ceti esclusi dai benefici dello sviluppo economico. Le politiche adottate durante il suo mandato, tra cui programmi di sanità pubblica, agevolazioni fiscali e riforme agricole, sono ancora oggi ricordati da gran parte della popolazione. Tuttavia, le sue alleanze con gli ambienti economici e la gestione fortemente personalistica del potere hanno finito per alienare il consenso di settori vitali della società.

La nuova condanna di Thaksin e l’esecuzione effettiva della pena rappresentano uno snodo cruciale anche per il futuro politico thailandese, aprendo importanti riflessioni sul rapporto tra giustizia, privilegio e democrazia. Con questa sentenza, la Corte Suprema lancia un segnale di autorevolezza destinato a influenzare non solo la carriera del magnate, ma anche quella degli altri esponenti politici e imprenditoriali che da anni si muovono tra le pieghe del potere ed i margini delle regole. Il timore, però, è che la crisi di fiducia verso le istituzioni non possa essere sanata da una sola sentenza e che il futuro della Thailandia debba passare per una riforma più profonda delle procedure giudiziarie e dei meccanismi di controllo democratico.

Nel frattempo, la Thailandia si prepara a una lunga stagione di incertezza. Il sistema politico appare profondamente polarizzato e una parte della popolazione, soprattutto fra i giovani, chiede da tempo maggiori meccanismi di trasparenza e tutela dei diritti civili. Il tentativo di Thaksin di rappresentare l’immagine di “padre della patria” appare oggi indebolito dai fatti ma anche dal logoramento di una presenza pubblica costantemente segnata dalla polemica e dalla contestazione.

La condanna di Thaksin Shinawatra suggella un capitolo importante nella storia della Thailandia, ma apre anche interrogativi radicali sulla possibilità del paese di trovare nuovi equilibri tra giustizia, potere e consenso popolare.

Il Nepal travolto dalle proteste contro il blocco dei social media: scende in strada l’esercito

0

Il 10 settembre 2025 il Nepal si è ritrovato nel vortice di una crisi sociale e politica di proporzioni straordinarie, quando l’esercito è sceso nelle strade di Kathmandu per sedare le proteste esplose dopo il blocco dei social media. L’intervento militare, motivato dal tentativo del governo di contenere un’ondata di manifestazioni guidate dalla Generazione Z, ha reso ancora più esplosivo il clima di tensione diffuso nel Paese, portando alla proclamazione di un coprifuoco e alla chiusura di interi quartieri centrali della capitale.

La scintilla che ha innescato la rivolta è stata la decisione del governo nepalese di bloccare l’accesso a decine di piattaforme social, tra cui Facebook, X e YouTube, dopo che queste non avevano accettato di registrare una rappresentanza legale sul territorio e di sottoporre i contenuti a una supervisione governativa. Solo poche aziende, come TikTok, avevano aderito alla normativa, ma la maggior parte delle piattaforme preferite dai giovani è sparita dalle reti digitali del Nepal. Questo atto di censura, secondo i manifestanti e molte organizzazioni per i diritti umani, non rappresentava solo un tentativo di controllo delle informazioni, ma la punta dell’iceberg di un disagio più profondo, legato alla corruzione, al nepotismo e all’esclusione giovanile dal dibattito pubblico.

Le prime proteste sono divampate attorno al Parlamento di Kathmandu, con decine di migliaia di ragazzi arrabbiati che, l’8 settembre, hanno sfidato la polizia antisommossa superando le recinzioni e occupando il cuore istituzionale del Paese. Le forze di sicurezza hanno risposto con una repressione brutale: lacrimogeni, proiettili di gomma, cannoni ad acqua e persino colpi di arma da fuoco, causando la morte di manifestanti e centinaia di feriti. Il bilancio di questa vera e propria rivolta è stato il più drammatico nella storia recente del Nepal e ha lasciato il Paese sotto shock. Amnesty International e altre ONG hanno subito invocato indagini indipendenti sulla gestione delle proteste, bollandola come repressione mortale ai danni di cittadini che rivendicavano il diritto di manifestare e di esprimersi liberamente.

Nemmeno la revoca del blocco dei social media e le dimissioni del primo ministro K.P. Sharma Oli sono stati sufficienti a placare la rabbia della folla. Le proteste si sono estese anche fuori dalla capitale, toccando città come Pokhara, Biratnagar, Sunsari e Nepalgunj, dove sono stati segnalati altri scontri e vittime. Tra i politici nel mirino della popolazione vi sono stati ministri e parlamentari accusati di arricchimento personale, fino a episodi di vandalismo contro le proprietà di alcuni funzionari, con il Ministro delle Finanze Bishnu Prasad Paudel picchiato e, secondo alcune fonti, gettato in un fiume dai manifestanti.

La società nepalese, profondamente giovane, con la metà della popolazione sotto i 25 anni, si è presentata in piazza compatta e determinata. Gli slogan scanditi dai giovani hanno raccontato la profondità della crisi: “Fermate la censura, non i social media”, “Combattete la corruzione, non la libertà”, “Serve un governo libero da nepotismo e influenze esterne”. Le proteste, organizzate anche da reti civiche come il gruppo “Hami Nepal”, sono state caratterizzate da una forte autonomia dal sistema dei partiti, dando voce a un’esigenza trasversale di cambiamento radicale. La rivolta è stata letta da molti come il grido disperato di una generazione orfana di prospettive, costretta a emigrare per cercare una vita dignitosa e che si vede oggi ostacolata da un sistema politico impostato sulla corruzione e la difesa delle élite.

La crisi politica e sociale si è aggravata nel corso della giornata: mentre il coprifuoco veniva esteso a tutte le principali aree di Kathmandu e del Paese, centinaia di persone sono rimaste bloccate nelle case o costrette a cercare rifugio per timore di nuove violenze. Il governo ha revocato la misura più contestata, quella del blocco dei social, ma i giovani tornati online hanno continuato a coordinare manifestazioni e a condividere testimonianze della repressione, moltiplicando la comunicazione investigativa e la pressione sull’esecutivo.

Mentre il primo ministro e altri ministri si dimettevano per facilitare una soluzione politica, il vuoto di potere ha contribuito al caos. Il Parlamento è stato in parte incendiato il 9 settembre, le sedi di partiti devastate, e la capitale ha vissuto ore di angoscia e fibrillazione, con la polizia impegnata nel contenimento e l’esercito schierato a presidio di edifici pubblici e quartieri strategici. La popolazione, intanto, ha denunciato la difficoltà a reperire beni di prima necessità e il rallentamento di tutte le attività produttive, con molti che hanno paura di uscire di casa.

I gruppi per i diritti umani hanno richiesto la sospensione immediata delle misure repressive e la costituzione di una commissione parlamentare investigativa. Amnesty International ha ribadito l’appello a garantire giustizia per le vittime e ha invitato le autorità a dialogare con la società civile e con le rappresentanze giovanili piuttosto che ricorrere a nuovi giri di vite autoritari.

Il Nepal si trova ora davanti al bivio di una transizione delicatissima, con la Generazione Z che chiede a gran voce un nuovo patto sociale, una lotta contro la disuguaglianza e la fine di decenni di governi corrotti e inadeguati alle esigenze delle nuove generazioni.

Ucraina orientale in trincea: civili tra fuga e disperazione mentre la Russia avanza

Nell’Ucraina orientale, la disperazione e la distruzione sono diventate il filo conduttore dell’esistenza quotidiana per migliaia di civili, sopraffatti dall’avanzata russa che continua a stringere la morsa sulle rovine di Kramatorsk e Kostiantynivka. In queste fortificazioni martoriate, uomini, donne e bambini vivono in un costante stato di allerta, consapevoli che ogni strada, ogni casa e persino ogni momento di quiete può essere interrotto da un attacco improvviso.Le residue risorse umanitarie sono fortemente limitate, lasciando la popolazione in bilico tra la fuga e la resistenza.

Le ultime settimane hanno visto un’intensificazione drammatica degli attacchi. I bombardamenti russi hanno colpito centri nevralgici, come il villaggio di Yarova, dove un raid ha mietuto vittime proprio mentre diverse persone si erano radunate per ricevere la pensione mensile. Il bilancio ufficiale parla di morti e feriti, spesso anziani, colpiti mentre si trovavano in fila in un cortile sterrato, sorpresi dalle bombe plananti lanciate da caccia russi. Segni evidenti del terrore di questo conflitto si trovano nei corpi ancora sparsi nei prati, nella reazione tra soldati e soccorritori impegnati a documentare e cercare di dare una dignità alle vittime.

Nei sobborghi di Kostiantynivka e Kramatorsk, la paura è diventata una compagna fedele. Molte famiglie hanno deciso di evacuare, altre resistono, spinte dalla speranza di un ritorno imminente alla normalità. Case sventrate, ambulanze blindate che si muovono tra le strade devastate per recuperare feriti, volontari impegnati in turni estenuanti: ogni aspetto della vita civile è stato stravolto. Gli ospedali di retrovia sono un rifugio precario, spesso sovraffollati e costantemente messi alla prova dall’arrivo di nuovi feriti. I paramedici, in particolare, operano sotto il fuoco incrociato, rischiando la vita per stabilizzare e trasportare chi ha bisogno di cure urgenti. Il viaggio verso zone più sicure è pieno di incognite, ostacolato dai continui avvistamenti di droni e dalla difficoltà di attraversare le linee del fronte. Le autorità locali organizzano evacuazioni di massa, coordinando risorse ormai al limite e cercando di non abbandonare nessuno tra i fragili resti della comunità.

La devastazione investe anche le infrastrutture vitali. Interi villaggi sono stati privati di luce, gas e servizi essenziali: la vita quotidiana si è trasformata in una lotta per la sopravvivenza. La distribuzione degli aiuti umanitari è complicata sia dai continui raid che dal progressivo isolamento delle aree più colpite; chi riceve un pacco di viveri o medicine sa che potrebbe essere l’ultimo per giorni. I racconti dei residenti descrivono la fatica di vivere con il rumore costante delle sirene, delle esplosioni in lontananza e della paura che la prossima bomba non risparmi la propria casa.

La pressione militare si traduce in una massiccia mobilitazione, con interi gruppi di uomini costretti ad arruolarsi per difendere le città e contenere l’offensiva russa. Ma il sistema difensivo ucraino è sempre più sotto stress: mancano armi, mancano uomini, e la forte pressione mobilitativa alimenta l’esodo di chi vuole evitare di finire in prima linea. Le testimonianze parlano di residenti dispersi, fuggiti o nascosti per non essere costretti alle armi. Le truppe russe, intanto, rafforzano ogni giorno la loro presenza su più fronti, dalla regione di Lugansk fino agli ultimi baluardi ucraini.

Fra attacchi con missili, droni teleguidati e bombardamenti a tappeto, la popolazione soffre una condizione di assedio perpetuo. Le scuole sono chiuse, gli asili distrutti, gli ospedali funzionano a capacità ridotta e intere città rischiano di essere cancellate dalle mappe. Nonostante tutto, la solidarietà fra civili, volontari e operatori sanitari non viene meno: la resistenza si traduce in piccoli gesti quotidiani, nella cura reciproca e nella volontà di conservare il più possibile la dignità umana.

Il governo ucraino, consapevole della gravità della situazione, insiste sulla necessità di nuovi aiuti internazionali e della continuazione delle sanzioni contro Mosca. I vertici europei hanno condannato ripetutamente i bombardamenti indiscriminati, chiedendo una reazione forte e coordinata per fermare la campagna di terrore. La diplomazia di Kiev è costantemente impegnata nel tentativo di mobilitare la comunità internazionale, dal Consiglio europeo al G20, per rafforzare gli aiuti e arginare la crisi.

Le ultime notizie dal fronte rivelano che la Russia, nell’intento di soffocare ogni resistenza, intensifica gli sforzi sulle arterie logistiche ucraine e punta a isolare completamente i centri nevralgici. La conquista di nuovi villaggi e l’aumento degli scontri quotidiani rivelano la strategia russa di logoramento, mentre gli ucraini cercano di difendere ogni metro di territorio. La crisi non investe solo le grandi città: anche zone rurali e villaggi vengono bersagliati dai raid, causando ondate di sfollati e devastazione.

Le storie di chi vive sotto assedio sono fatte di coraggio, paura e sacrificio. Una giovane volontaria diventata paramedico, intervistata, racconta di dover scegliere ogni giorno tra il rischio costante e il dovere di salvar vite. Le sue operazioni lungo la strada che porta a Kramatorsk si svolgono tra droni nemici e il timore che ogni ambulanza sia il prossimo obiettivo. Molti residenti rimasti nelle città colpite descrivono la solitudine, l’isolamento e la sensazione che il mondo li abbia dimenticati.

Il conflitto continua a segnare profondamente sia il tessuto sociale sia la memoria collettiva dell’Ucraina. La speranza di una soluzione diplomatica si scontra con la quotidianità violenta della guerra, mentre la popolazione civile, abbandonata a sé stessa, attende che il mondo trovi il modo di far cessare la distruzione. La crisi di Kramatorsk e Kostiantynivka è il simbolo di una resistenza che si oppone alla disperazione, aggrappandosi con ostinazione all’idea che il futuro possa tornare ad essere qualcosa di più di una semplice sopravvivenza.

La presidente von der Leyen propone sanzioni contro Israele: Bruxelles si schiera per Gaza

La crisi in corso nella Striscia di Gaza continua a scuotere la politica internazionale e questa settimana ha portato la presidente della Commissione Europea, Ursula von der Leyen, a proporre una svolta storica: sanzioni mirate contro ministri israeliani estremisti e coloni violenti, sospensione parziale dell’Accordo di Associazione commerciale UE-Israele e il blocco del sostegno bilaterale alle autorità israeliane. Le parole pronunciate a Strasburgo durante il discorso sullo stato dell’Unione sono state nette, segno di una situazione che non può più essere ignorata. “Ciò che sta accadendo a Gaza ha scosso la coscienza del mondo. Persone uccise mentre chiedevano cibo, madri che tengono in braccio bambini senza vita. Queste immagini sono semplicemente catastrofiche. La carestia provocata dall’uomo non potrà mai essere un’arma di guerra. Per il bene dei bambini, per il bene dell’umanità, questo deve finire”, ha ribadito von der Leyen prendendo posizione contro l’uso deliberato della fame come strumento politico e militare.

Le proposte della Commissione arrivano dopo mesi di pressioni interne e divisioni tra i governi degli Stati membri: alcuni paesi chiedono misure dure, come embargo sulle armi e sospensione totale dell’accordo, altri invece ostacolano ogni sanzione, temendo ritorsioni e ripercussioni diplomatiche. Il delicato equilibrio europeo si riflette nelle parole della presidente, che riconosce la difficoltà nell’ottenere una maggioranza in Consiglio e invita Parlamento, Consiglio e Commissione ad assumersi le proprie responsabilità. “So che qualsiasi azione sarà eccessiva per alcuni, troppo poco per altri. Ma dobbiamo tutti agire. Non possiamo rimanere paralizzati”, ha avvertito von der Leyen nel suo intervento.

Il piano di Bruxelles prevede la sospensione di tutti i fondi europei destinati al governo israeliano in forma bilaterale, senza compromettere l’appoggio alle organizzazioni civiche e di memoria israeliane, compreso lo storico Yad Vashem. La misura più concreta proposta sarà l’interruzione delle preferenze commerciali per i prodotti israeliani, toccando così un settore strategico dell’economia di Tel Aviv. Von der Leyen ha inoltre sottolineato la necessità di colpire direttamente i ministri coinvolti nelle politiche più estremiste, accanto ai responsabili delle violenze contro civili e alle azioni che mettono a rischio la prospettiva dei due Stati.

La presa di posizione europea raccoglie il sostegno di un fronte trasversale di eurodeputati, che nelle scorse settimane ha avanzato richieste di embargo e di inasprimento delle relazioni con Israele. A favorire la determinazione di Bruxelles sono anche le immagini diffuse dagli operatori umanitari della crisi a Gaza, con migliaia di vittime, bambini privati di acqua e cibo, e file interminabili presso i centri di distribuzione degli aiuti. Le proteste politiche non mancano: in sede europea la Spagna si è espressa per una sospensione immediata degli accordi, mentre Italia, Francia e Germania frenano su una linea più cauta e graduale.

La Commissione non dimentica la complessità della crisi israeliana e palestinese: von der Leyen ha condannato con forza le azioni di Hamas e la sua presenza nella striscia di Gaza, ma ha rimarcato che “l’unico piano di pace realistico è quello basato su due Stati che vivono fianco a fianco in pace e sicurezza, con un Israele protetto e una Palestina vitale, senza la piaga di Hamas”. Un concetto ribadito a ogni passaggio del discorso, in cui l’Europa viene chiamata ad assumere un ruolo attivo nelle future trattative.

Alle proposte di sanzione si aggiunge l’annuncio di un nuovo gruppo donatori internazionale per la ricostruzione palestinese, il “Palestine Donor Group”, pensato per rilanciare la speranza di aiuti concreti e affiancare il processo negoziale in modo autonomo dalle tensioni geopolitiche. Questa iniziativa guarda al coordinamento con i promotori regionali e alle conferenze organizzate a New York, sotto l’egida di Francia e Arabia Saudita, affinché la solidarietà possa tradursi in interventi sul terreno.

Le reazioni da Israele non si sono fatte attendere: il governo ha dichiarato “ostilità” alle nuove misure e ha avvertito l’Unione Europea di ripercussioni economiche e diplomatiche. Gli ambienti più radicali dell’esecutivo israeliano accusano Bruxelles di “cedere alle pressioni di Hamas” e di mettere a rischio la sicurezza collettiva. Il premier Netanyahu insiste sul diritto di difesa di Israele e sulla lotta contro il terrorismo, mentre gli esponenti dell’ala moderata invitano all’apertura di una nuova fase dialogica, soprattutto con quei paesi UE che mantengono canali di cooperazione attivi.

La mossa della Commissione segna uno spartiacque nel coinvolgimento europeo sulla crisi di Gaza: a fronte di un’escalation di violenza che ha suscitato indignazione globale, la leadership di von der Leyen cerca di superare la paralisi decisionale e di ribadire l’importanza dei valori europei nella difesa dei civili e nella lotta contro pratiche disumane come la fame provocata dall’uomo. La scelta di colpire soprattutto ministri e coloni rappresenta la volontà di isolare le posizioni più dure e proteggere le prospettive di una convivenza futura.

Il dibattito interno all’Unione resta acceso: partiti e governi si confrontano sulla natura e l’efficacia delle sanzioni, con la consapevolezza che le divisioni politiche possono prolungare la crisi. La Commissione continuerà a muoversi anche in autonomia, congelando fondi non indispensabili e investendo in programmi civili. La questione del consenso resta centrale: la sospensione degli accordi commerciali richiederà una maggioranza qualificata in Consiglio e la pressione sui partner europei continuerà nei prossimi mesi.

L’Europa si trova davanti a una prova storica, stretta tra la necessità di tutelare la popolazione di Gaza e i rapporti consolidati con Israele. La presidenza von der Leyen ha deciso di non voltarsi dall’altra parte e di avviare un cambiamento concreto, chiamando tutti gli Stati membri a un’assunzione collettiva di responsabilità. Le prossime settimane saranno decisive per capire se l’Unione saprà davvero tradurre le promesse in azioni e dare un contributo reale alla pace.

Raid israeliano senza precedenti a Doha contro i leader di Hamas

0

La giornata del 9 settembre 2025 segnerà un nuovo capitolo nella storia del Medio Oriente: un raid israeliano ha colpito i vertici di Hamas a Doha, capitale del Qatar, durante un momento cruciale delle trattative per il cessate il fuoco nella Striscia di Gaza. L’attacco, avvenuto a Leqtaifiya, nell’area del West Bay, ha causato esplosioni violente, alte colonne di fumo visibili a grande distanza e danni significativi all’edificio dove si stava tenendo una riunione riservata dei dirigenti di Hamas. Secondo fonti israeliane, il raid era mirato a esponenti di spicco del movimento islamista, tra cui Khalil al-Hayya, coinvolti proprio nelle discussioni su una nuova proposta di tregua patrocinata dagli Stati Uniti.

Le informazioni sull’esito dell’attacco sono frammentarie e oggetto di forti contraddizioni: Israele ha rivendicato il colpo mirato sostenendo di aver neutralizzato “responsabili diretti dell’attacco del 7 ottobre e della guerra contro Israele”, mentre Hamas afferma che i membri del suo comitato direttivo sono rimasti illesi, pur confermando la morte di alcuni collaboratori e la devastazione della sede. Gli Stati Uniti hanno dichiarato di essere stati informati da Tel Aviv solo poco prima della missione. Secondo le prime stime, si registrano almeno sei morti, tra cui cinque membri di Hamas, ma tutti negano il decesso di leader di primo piano.

Il Qatar, ospite e mediatore nelle trattative tra Israele e Hamas, ha reagito con parole durissime: il governo ha accusato Israele di “terrorismo di Stato”, promettendo azioni diplomatiche e legali. “Non tollereremo questo comportamento sconsiderato – si legge nella nota ufficiale – né la manomissione continua della sicurezza regionale. Israele ha violato ogni principio del diritto internazionale e della sovranità territoriale del Qatar.” Il premier Mohammed bin Abdulrahman Al Thani ha ribadito l’intenzione di coinvolgere tutti i paesi della regione in una risposta congiunta, mentre l’esecutivo ha avviato una maxi-inchiesta a tutti i livelli istituzionali per chiarire le responsabilità del raid.

Gli osservatori descrivono il raid come “storico” e senza precedenti nelle relazioni tra Doha e Tel Aviv: è la prima volta, infatti, che l’aviazione israeliana colpisce direttamente il territorio qatariota, paese ospitante gran parte del vertice politico di Hamas e fondamentale crocevia delle mediazioni per la fine della guerra a Gaza. Il quartiere colpito, West Bay Lagoon, è noto anche per ospitare ambasciate, residenze di diplomatici e attività commerciali frequentate da cittadini e stranieri. Il raid ha generato panico tra la popolazione locale, c’è stato un massiccio intervento della polizia e l’area è stata isolata. Numerose testimonianze riportano finestre infrante per il potente spostamento d’aria e decine di residenti in fuga verso quartieri adiacenti.

Il raid arriva in un momento di gravissima crisi regionale, con migliaia di ostaggi ancora detenuti a Gaza e trattative congelate per uno scambio con prigionieri palestinesi. Secondo fonti di Hamas e la tv Al Jazeera, il raid avrebbe compromesso definitivamente il raggiungimento di un accordo globale per la liberazione degli ostaggi israeliani, vanificando mesi di negoziati. Le organizzazioni umanitarie temono che l’attacco possa pregiudicare anche l’arrivo di aiuti nel territorio assediato, già devastato da oltre 64.000 vittime dal 2023 e da una crisi umanitaria senza precedenti.

Dal punto di vista militare, lobiettivo era quello di minimizzare danni collaterali e vittime tra la popolazione civile, considerate le caratteristiche residenziali della zona colpita. I vertici dell’IDF hanno dichiarato che il raid aveva come scopo principale decapitare la leadership di Hamas presente all’estero e dimostrare che, anche fuori dai confini di Gaza, nessuna base è più sicura.

Le reazioni internazionali sono state immediate ed estremamente critiche: l’Unione Europea ha condannato il raid, sottolineando la pericolosità dell’escalation e del coinvolgimento di nazioni terze in una guerra sempre più globale. Gli Stati Uniti hanno ribadito che il raid “non ha avvicinato i negoziati di pace”, e che simili azioni rischiano di allontanare il rilascio degli ostaggi e qualsiasi prospettiva di dialogo futuro. Il Papa Leone XIV, in visita a Castel Gandolfo, ha definito la situazione “gravissima” e ha lanciato un appello al dialogo, invitando tutte le parti a evitare gesti disperati e a mettere fine alla spirale di violenza.

Nella capitale Doha la popolazione è rimasta scioccata: molte famiglie, anche straniere, hanno passato la notte in allerta, temendo nuovi attacchi. I media locali hanno raccontato scene di caos e agenti di sicurezza in assetto da guerra, mentre la diplomazia internazionale si muove per evitare il precipitare della crisi. Oman, Emirati, Arabia Saudita e Iran hanno denunciato con fermezza il raid, evocando il rischio per la stabilità di tutto il Golfo.

Sul fronte palestinese, il raid ha riacceso le tensioni infatti Hamas ha minacciato “vendetta” contro obiettivi israeliani in Medio Oriente e ha intensificato gli appelli alla resistenza. La leadership del movimento islamista, da anni ospite a Doha e Ankara, rappresenta la vera cabina di regia delle trattative e delle operazioni militari fuori dai territori palestinesi: la sua neutralizzazione sarebbe uno spartiacque sia per le sorti del conflitto sia per gli equilibri interni all’organizzazione.

La missione israeliana segna una svolta nelle tattiche del governo Netanyahu, che ha deciso di estendere la guerra anche fuori da Gaza, puntando al cuore delle reti politiche, finanziarie e strategiche di Hamas in diaspora. Secondo fonti politiche, la scelta di prendere di mira direttamente il Qatar è un messaggio alla comunità internazionale, soprattutto ai paesi che, negli anni, hanno garantito ospitalità e sostegno ai capi di Hamas.

In Israele, la notizia del raid ha diviso l’opinione pubblica: molte famiglie degli ostaggi hanno accusato Netanyahu di avere compromesso definitivamente ogni possibilità di accordo e di aver deciso per una dimostrazione di forza pur sapendo i rischi diplomatici. Il premier, dal canto suo, ha rivendicato la legittimità dell’azione definendola “imprescindibile per la sicurezza nazionale”.

L’attacco israeliano in Qatar potrebbe avere conseguenze durature e imprevedibili: la credibilità di Doha come mediatore viene messa a dura prova e i rapporti tra Israele e gli Stati del Golfo si fanno più tesi. Gli equilibri regionali, già fragili per effetto della guerra a Gaza, rischiano di subire nuove pressioni, con la possibilità che altri paesi siano coinvolti in future operazioni di forza.

Le ultime ore vedono la diplomazia globale in fermento, con riunioni d’emergenza della Lega Araba, l’ONU e il Consiglio di Sicurezza pronti a valutare sanzioni e incontri straordinari. La crisi, ormai non più esclusiva di Gaza, si sposta al centro politico del mondo arabo, con effetti che potrebbero ridefinire gli equilibri di potere nel Medio Oriente.

Hamas. Chi è Khalil al-Hayya: tra resistenza, negoziazioni e Jihad

Khalil Ismail Ibrahim al-Hayya, noto con il nome di battaglia “Abu Osama”, rappresenta una delle figure più influenti e complesse dell’attuale leadership di Hamas. Nato il 5 novembre 1960 nel quartiere di Shuja’iyya a Gaza, al-Hayya ha dedicato la sua vita alla causa palestinese, diventando il volto diplomatico di un movimento che combina resistenza armata e strategia politica internazionale.

La sua formazione accademica riflette il profondo radicamento nei valori islamici che caratterizzano Hamas. Dopo aver conseguito la laurea in Teologia presso l’Università Islamica di Gaza nel 1983, al-Hayya proseguì gli studi in Giordania, ottenendo un master in Scienze del Hadith presso l’Università Giordana nel 1989. Il culmine del suo percorso accademico arrivò nel 1997 con il dottorato in Scienze del Hadith e della Sunnah presso l’Università del Sacro Corano e delle Scienze Islamiche in Sudan, un’esperienza che gli permise di consolidare i legami con reti islamiste internazionali e, secondo fonti di intelligence, di sviluppare contatti con funzionari della Forza Quds dei Pasdaran iraniani.

Il percorso politico di al-Hayya iniziò negli anni ’80 durante la Prima Intifada, quando entrò a far parte della Fratellanza Musulmana presso l’Università Islamica di Gaza, per poi aderire a Hamas fin dalla sua fondazione nel 1987. La sua militanza gli costò cara: nei primi anni ’90 fu arrestato dalle forze israeliane e trascorse tre anni nelle prigioni israeliane per attività legate al terrorismo. Questa esperienza carceraria, comune a molti leader di Hamas, contribuì a forgiare la sua determinazione e a consolidare la sua posizione all’interno del movimento.

Al-Hayya ha attraversato decenni di tragiche perdite familiari che testimoniano il prezzo personale della sua militanza. Nel 2007, durante un tentativo di assassinio israeliano, sette membri della sua famiglia persero la vita, inclusi due fratelli, quattro nipoti e un cugino. Nel 2008, suo figlio Hamza, membro dell’ala militare di Hamas, fu ucciso in un attacco di droni israeliani. La tragedia più devastante arrivò nel 2014 durante l’operazione “Margine Protettivo”, quando forze israeliane colpirono la casa di suo figlio maggiore Osama nel quartiere di Shuja’iyya, uccidendo lui, sua moglie Hala Saqr Abu Hayn e i loro tre figli. In totale, diciannove membri della famiglia al-Hayya sono morti negli attacchi israeliani nel corso degli anni.

Nonostante queste tragedie personali, al-Hayya ha mantenuto una posizione di primo piano nella diplomazia di Hamas, diventando progressivamente il volto negoziale del movimento. La sua ascesa nella gerarchia di Hamas è stata costante: membro del Parlamento palestinese dal 2006, leader del blocco parlamentare di Hamas, e infine vice-leader di Hamas a Gaza nel 2017 sotto Yahya Sinwar. Questa posizione lo ha reso il principale interlocutore nelle delicate negoziazioni per i cessate il fuoco, ruolo che ha ricoperto durante i conflitti del 2012, 2014 e, più recentemente, nelle trattative successive al 7 ottobre 2023.

Al-Hayya era tra i pochi dirigenti di Hamas a conoscere in anticipo i piani dell’Operazione Alluvione di al-Aqsa del 7 ottobre 2023. Documenti segreti catturati dall’esercito israeliano e analizzati dal New York Times rivelano che faceva parte del “piccolo consiglio militare” convocato da Sinwar per due anni al fine di pianificare l’attacco. In particolare, nell’agosto 2023, al-Hayya incontrò l’alto comandante iraniano Mohammed Said Izadi per discutere il piano d’attacco, richiedendo assistenza iraniana per colpire siti critici durante la “prima ora” dell’assalto.

La sua capacità diplomatica si è manifestata chiaramente nel ruolo di mediatore regionale che ha assunto negli ultimi anni. Nel 2022, guidò una delegazione di Hamas a Damasco per incontrare il presidente siriano Bashar al-Assad, riuscendo a ricucire le relazioni tra Hamas e la Siria dopo un decennio di tensioni causate dalla guerra civile siriana. Questo incontro fu descritto come “storico” dallo stesso al-Hayya, che espresse rammarico per eventuali “azioni sbagliate” passate contro la Siria.

Attualmente, al-Hayya guida le delegazioni di Hamas nei negoziati indiretti con Israele, operando principalmente dal Qatar, dove si è trasferito prima dell’attacco del 7 ottobre. La sua base operativa a Doha lo ha reso il principale collegamento tra Hamas e paesi chiave come Qatar, Iran e Turchia. Dopo l’assassinio di Ismail Haniyeh nel luglio 2024 e di Yahya Sinwar nell’ottobre 2024, al-Hayya è emerso come una figura centrale nella leadership collettiva di Hamas, facendo parte del consiglio di cinque membri che attualmente guida il movimento.

Al-Hayya rappresenta l’ala più conservatrice di Hamas, descritta come il “braccio diplomatico della jihad”. Le sue dichiarazioni pubbliche riflettono questa dualità: da un lato gestisce complesse negoziazioni internazionali, dall’altro rivendica con orgoglio l’attacco del 7 ottobre, definendolo “un atto monumentale” che “ha svegliato il mondo dal suo profondo sonno”. In un’intervista, al-Hayya ha rivelato che l’attacco era inizialmente concepito come un’operazione limitata per catturare “un certo numero di soldati” da scambiare con prigionieri palestinesi, ma “l’unità dell’esercito sionista è completamente collassata”.

La sua visione strategica abbraccia un approccio regionale alla resistenza palestinese. Durante il suo discorso televisivo per annunciare il cessate il fuoco del gennaio 2025, al-Hayya ha lodato “i fronti di supporto” rappresentati da Hezbollah in Libano, gli Houthi nello Yemen, l’Iran e la resistenza irachena, descrivendoli come attori che “hanno superato i confini, cambiato le regole della guerra e della regione”. Questa retorica evidenzia la sua comprensione dell’interconnessione tra i vari fronti anti-israeliani nell’asse della resistenza guidato dall’Iran.

Al-Hayya ha mantenuto stretti legami con il defunto leader di Hezbollah Hassan Nasrallah e serve come collegamento chiave tra Hamas e l’Iran. Nel febbraio 2025, ha guidato una delegazione di Hamas a Teheran per incontrare la Guida Suprema Ali Khamenei, la prima visita di questo tipo dopo il cessate il fuoco a Gaza. Durante l’incontro, Khamenei ha elogiato Hamas per aver “vinto contro il regime sionista e, in realtà, contro gli Stati Uniti”.

La carriera di al-Hayya illustra l’evoluzione di Hamas da movimento di resistenza locale a organizzazione con ambizioni regionali. La sua capacità di navigare tra la militanza jihadista e la diplomazia internazionale lo ha reso indispensabile per Hamas, specialmente in un periodo in cui il movimento deve bilanciare la pressione militare israeliana con la necessità di mantenere il sostegno regionale e internazionale.

L’attentato israeliano del 9 settembre 2025 contro la leadership di Hamas a Doha, che ha preso di mira specificamente al-Hayya, sottolinea la sua importanza strategica. L’operazione ha causato vittime tra i membri della sua famiglia e del suo staff, aggiungendo un altro capitolo tragico alla sua storia personale segnata dalla violenza del conflitto israelo-palestinese.

Al-Hayya rappresenta quindi una figura emblematica del moderno Hamas: un intellettuale religioso che ha abbracciato la jihad, un negoziatore abile che non rinuncia alla retorica della resistenza, un leader pragmatico che opera in un contesto regionale complesso. La sua traiettoria biografica riflette le contraddizioni e le sfide di un movimento che deve conciliare ideologia religiosa, obiettivi nazionali palestinesi e dinamiche geopolitiche regionali, mantenendo al contempo la coerenza con i principi fondativi della resistenza islamica palestinese.

Crisi in Indonesia: il presidente licenzia i ministri delle finanze e della sicurezza dopo le proteste

0

L’Indonesia ha vissuto una delle settimane più turbolente della sua storia recente, con una ondata di proteste che ha portato il presidente Prabowo Subianto a prendere la drammatica decisione di licenziare il ministro delle finanze e quello della sicurezza. La scintilla che ha dato il via alle manifestazioni popolari è stata la scoperta dei nuovi privilegi economici concessi ai parlamentari: un bonus alloggio pari a circa dieci volte il salario medio del Paese, in un contesto già segnato da disuguaglianze crescenti, aumento dei prezzi e tagli alla spesa sociale. Il malcontento dei cittadini era latente da mesi, alimentato dalle recenti politiche di austerità.

La rivolta ha preso forma a Giacarta, da dove è dilagata in decine di città indonesiane. Migliaia di studenti, lavoratori precari e cittadini comuni si sono riversati nelle strade invocando riforme, salari adeguati e giustizia sociale. Il punto di rottura è stato raggiunto con la tragica morte di Affan Kurniawan, giovane autista di moto-taxi investito da un mezzo blindato della polizia. Le immagini della sua fine hanno scatenato la furia dei manifestanti e dato un volto umano alla sofferenza collettiva. La contestazione si è presto trasformata in rabbia: edifici governativi e proprietà private sono stati dati alle fiamme, mentre il bilancio si è aggravato di giorno in giorno con morti, centinaia di feriti e più di mille arresti.

La risposta delle forze di polizia e dell’esercito si è rivelata immediata e spietata. A molti osservatori è apparso evidente l’uso eccessivo della forza da parte delle autorità, con episodi di repressione brutale ripresi dai media internazionali. Molte città – tra cui Bandung, Makassar, Surabaya, Solo, Yogyakarta – sono state teatro di scontri, incendi e proteste, con la popolazione in costante tensione e paura.

La crisi politica non si è limitata agli scontri di piazza. Il Parlamento, già al centro dell’attenzione per i privilegi dei suoi membri, è stato fisicamente attaccato dai manifestanti, che hanno chiesto un cambio radicale della leadership e della gestione delle risorse pubbliche. L’opinione pubblica ha criticato duramente il governo e la classe dirigente, colpevoli di aver ignorato i problemi sociali ed economici che assillano milioni di cittadini. Le case di diversi parlamentari sono state assaltate e saccheggiate.

Il presidente Subianto si è trovato con le spalle al muro: dopo aver revocato il contestato bonus alloggio, nel tentativo di placare la protesta, ha annunciato il rimpasto di governo con la rimozione dei due ministri più contestati. La scelta, giudicata inevitabile dai commentatori, mira a rasserenare il clima e mostrare che il governo intende ascoltare le richieste della popolazione. Tuttavia, molti analisti sottolineano come la crisi abbia solo messo in evidenza la fragilità istituzionale e la crescente distanza tra classe politica e società civile.

Sul fronte internazionale le reazioni sono state immediate. L’ONU ha chiesto l’apertura di una inchiesta indipendente sulla morte dei manifestanti e sull’uso sproporzionato della forza. Gli investitori stranieri hanno espresso forte preoccupazione, paventando ripercussioni economiche e instabilità nei mercati. Alcuni paesi della regione hanno manifestato solidarietà alla popolazione indonesiana, con appelli al dialogo e alla moderazione.

La rabbia sociale ha avuto anche un impatto simbolico, con il giovane Affan Kurniawan che è diventato icona delle rivendicazioni e della resistenza contro il malgoverno. Il suo volto, sui poster e sulle magliette dei manifestanti, ricorda costantemente il costo umano di scelte politiche che ignorano le sofferenze degli ultimi. L’eco delle proteste indonesiane si è sentito anche nei paesi vicini, dove negli stessi giorni si sono svolte manifestazioni contro le ingiustizie e la corruzione politica.

Nelle ore in cui si decideva la sorte del governo, molte città sono rimaste paralizzate, con proteste che hanno bloccato i trasporti e reso difficile il normale svolgimento delle attività. A Makassar, alcuni sono morti durante l’incendio di un edificio parlamentare, mentre a Surabaya un gruppo di studenti ha preso d’assalto il palazzo del governatore. In diverse città sono stati organizzati sit-in e cortei davanti alle sedi istituzionali, mentre le autorità hanno imposto coprifuoco e rafforzato la presenza delle pattuglie militari.

La decisione di Prabowo Subianto di licenziare i ministri delle finanze e della sicurezza rappresenta un tentativo di arginare la crisi. Fonti vicine al governo parlano di pressione crescente da parte delle elite militari e imprenditoriali, decise a preservare la stabilità economica e politica del paese. Tuttavia, la maggioranza dei cittadini chiede cambiamenti sostanziali, maggiori investimenti nelle politiche sociali e una lotta efficace contro la corruzione.

I prossimi giorni saranno decisivi per il futuro del governo indonesiano e della democrazia nel paese. Mentre il presidente cerca di ricostruire il rapporto di fiducia con la popolazione, il rischio di nuove proteste resta alto. Diversi osservatori ritengono che solo un vero processo di riforma istituzionale e sociale potrà avviare la pacificazione. Nel frattempo, la memoria delle vittime e il coraggio dei manifestanti continuano a influenzare il dibattito pubblico.

L’Indonesia, pur restando la più grande economia del sudest asiatico, appare oggi profondamente segnata da una frattura sociale e politica. La sfida per le istituzioni sarà responsabile e trasparente, tenendo conto delle richieste di una società civile che chiede voce e rispetto. Il destino dei ministri licenziati segna solo uno dei possibili punti di svolta in una crisi che potrebbe ridefinire il futuro del paese e la sua posizione nello scacchiere regionale.

Kiev sotto assedio: record di droni e missili russi, colpito il palazzo del governo

La Russia ha scatenato il più grande attacco aereo su Kiev dall’inizio della guerra, utilizzando una quantità senza precedenti di droni e missili che hanno devastato la capitale ucraina e altre città. Questa offensiva ha seminato dolore e terrore tra la popolazione, mentre il panorama internazionale si è compattato nella condanna. Gli eventi della notte tra il 6 e il 7 settembre rimarranno una pagina nera nella storia del conflitto russo-ucraino, segnando un nuovo, tragico primato: secondo le fonti ci sono tre o quattro morti, tra cui un bambino molto piccolo, e oltre quaranta feriti: questo il prezzo pagato dalla popolazione civile, costretta ancora una volta a rifugiarsi sotto terra per sfuggire ai bombardamenti.

Il cuore di Kiev è stato colpito in modo brutale. Gli attacchi hanno provocato incendi e distruzione soprattutto nei quartieri Sviatoshynskyi e Darnytskyi, dove i detriti dei droni hanno infiammato edifici residenziali e causato danni gravi. Immagini di auto carbonizzate e colonne di fumo hanno fatto il giro del mondo, mentre squadre di soccorso hanno estratto tra le macerie corpi senza vita, compreso quello di un bambino piccolo e della madre, vittime innocenti di una notte di orrore. Una donna incinta, è stata ricoverata in ospedale insieme ad altri feriti, tra cui dei bambini.

L’attacco, secondo le autorità ucraine, ha visto la Russia lanciare ben 805 droni e 13 missili in poche ore, colpendo otto regioni tra cui Odessa, Kharkiv, Dnipro, Zaporizhzhia e Kryvyj Rih. La capitale ha subito il peso maggiore della tempesta di fuoco. Gli sforzi della difesa ucraina sono stati straordinari: le forze di difesa aerea sono riuscite a intercettare e abbattere la stragrande maggioranza degli ordigni, neutralizzando 747 droni russi e quattro missili da crociera Iskander-K. Nonostante questa reazione efficace, la potenza dell’attacco ha generato comunque morti e danni ingenti.

Le reazioni internazionali non si sono fatte attendere. La presidente della Commissione europea Ursula von der Leyen ha espresso indignazione per l’assalto, accusando la Russia di calpestare il diritto internazionale e di beffarsi della diplomazia. Ha inoltre ribadito il pieno sostegno dell’Europa all’Ucraina, annunciando misure per rafforzare le forze armate ucraine e aumentare la pressione su Mosca tramite nuove sanzioni. Il premier britannico Keir Starmer ha definito i raid attacchi codardi, puntando il dito contro Vladimir Putin, reo secondo lui di non essere realmente interessato alla pace. Anche il presidente ucraino Volodymyr Zelensky ha condannato l’attacco, sottolineando la volontà deliberata della Russia di perpetrare crimini ed uccisioni, e ha invocato una reazione più forte dagli Stati Uniti e dall’Unione Europea.

Il palazzo del governo di Kiev stesso è stato preso di mira, subendo gravi danni: questo simboleggia la volontà di colpire al cuore dello Stato ucraino. Il palazzo è una delle colonne portanti dell’amministrazione civile, ed è diventato un nuovo punto focale attorno al quale ruota la difesa della capitale e la capacità di reazione del paese. Le autorità hanno circoscritto l’area, e attivato tutte le misure d’emergenza possibili, in mezzo alla crescente paura della popolazione.

La notte dell’attacco ha rappresentato anche una sfida per la diplomazia internazionale. Mentre il Cremlino ha ribadito l’intenzione di continuare l’offensiva fino alla capitolazione dell’Ucraina, le principali cancellerie occidentali si sono strette attorno a Kiev. Gli Stati Uniti hanno confermato la ripresa dell’invio di armi alla capitale ucraina, promettendo il supporto necessario per resistere agli assalti russi.

Ma il significato degli eventi va oltre la conta delle vittime e l’elenco dei danni. L’offensiva russa con droni e missili rappresenta una nuova fase del conflitto: la guerra non è più confinata alle zone di frontiera, ma raggiunge il cuore delle città, terrorizzando milioni di civili. Il record di ordigni lanciati sulla capitale ucraina è un chiaro segnale che la logica delle armi domina ancora le scelte del Cremlino, mentre la diplomazia internazionale assiste, spesso impotente, allo scorrere della violenza.

La popolazione di Kiev vive nuovamente la notte nei rifugi sotterranei, con la consapevolezza che il conflitto sia ancora lontano da una soluzione. La città, che aveva provato a riprendere una parvenza di normalità, viene travolta da una nuova ondata di devastazione che infierisce sugli innocenti e sulle infrastrutture cruciali per la quotidianità. L’incendio che ha devastato i piani alti del palazzo del governo, così come i roghi nei quartieri periferici, raccontano di una guerra che non risparmia nulla e nessuno.

La risposta ucraina sul campo è stata determinata ed efficace. Dal punto di vista militare va sottolineata la capacità della difesa aerea di Kiev di abbattere la maggior parte dei droni e missili russi, riducendo sensibilmente il bilancio dei morti rispetto a ciò che sarebbe potuto accadere in assenza di tecnologie avanzate e cooperazione internazionale. Questo dato rappresenta una speranza, ma non basta a rasserenare la popolazione. Il trauma di una guerra che si combatte sulla pelle dei bambini, delle donne, dei lavoratori e degli anziani continua ad essere la realtà quotidiana per milioni di ucraini.

Come sottolineano le dichiarazioni internazionali, gli omicidi e le violenze devono cessare, ma la fine appare sempre più lontana. Il nuovo attacco ha definitivamente sgretolato le prospettive di trattative dirette, spingendo le parti verso un’escalation ulteriore che rischia di coinvolgere sempre più attori globali. Nonostante le difese, la tensione e il dolore sono destinati a ripetersi, lasciando ogni giorno nuove cicatrici sulla capitale ucraina. Mai come ora la comunità internazionale è chiamata a prendere una posizione netta, a fornire risposte concrete e rapide per evitare che la spirale di violenza si intensifichi ancora. Mentre le diplomazie occidentali cercano vie più solide per intervenire e la Russia sembra decisa a non abbassare la pressione, l’Ucraina resiste tra le rovine, chiedendo all’Europa e agli Stati Uniti un sostegno sempre più forte. I cittadini, costretti a convivere con la paura e con la perdita, attendono un futuro diverso.

Israele sotto accusa: la Corte Suprema ordina cibo sufficiente per i detenuti palestinesi

0

In una decisione rara e significativa, la Corte Suprema di Israele ha stabilito che il governo ha fallito nel garantire una nutrizione sufficiente ai detenuti palestinesi nelle sue carceri, imponendo alle autorità di migliorare le condizioni alimentari per assicurare il minimo indispensabile per la sopravvivenza. Questa sentenza rappresenta un momento di grande rilievo, considerando che, durante il conflitto durato quasi due anni con Gaza, la Corte aveva generalmente evitato di intervenire contro le azioni del governo e delle forze militari.

Da quasi due anni, migliaia di palestinesi sono stati detenuti in Israele, sospettati di legami con Hamas o altre attività considerate minacciose per la sicurezza dello Stato. Molti di loro sono stati rilasciati senza accuse dopo lunghi periodi di detenzione, ma le testimonianze di organizzazioni per i diritti umani denunciano condizioni durissime nelle prigioni e nei centri di detenzione. Queste includono forniture di cibo insufficienti, mancanza di cure mediche adeguate, condizioni igieniche pessime e casi di abusi fisici. Un esempio drammatico è quello di un ragazzo palestinese di 17 anni, morto lo scorso marzo in un carcere israeliano: è probabile che la fame sia stata la principale causa del decesso.

La sentenza della Corte Suprema arriva in risposta ad una causa presentata lo scorso anno dall’Associazione per i Diritti Civili in Israele (ACRI) e dall’organizzazione israeliana Gisha, che hanno denunciato un cambiamento nelle politiche alimentari applicate dopo l’inizio del conflitto a Gaza, le quali hanno portato a una situazione di severa malnutrizione e anche di fame tra i detenuti. Secondo un membro del governo, Itamar Ben-Gvir, ministro della Sicurezza Nazionale e responsabile del sistema carcerario, le condizioni imposte ai detenuti di sicurezza sono state ridotte al minimo assoluto consentito dalla legge israeliana.

La Corte, con una decisione unanime, ha affermato che lo Stato ha l’obbligo legale di fornire ai detenuti un’alimentazione sufficiente per garantire «un livello di esistenza di base». In una sentenza con il voto favorevole di due giudici su tre, la Corte ha evidenziato che vi sono forti dubbi sull’effettiva adeguatezza del cibo attualmente fornito ai prigionieri, definendo necessarie misure immediate per assicurare che il sostentamento rispetti le condizioni minime imposte dalla legge. La Corte ha sottolineato che la questione non riguarda certo «un vivere in modo confortevole o di lusso», ma solo le condizioni essenziali richieste per la sopravvivenza secondo la normativa vigente.

La decisione ha suscitato reazioni forti e contrastanti. Il Ministro Ben-Gvir ha criticato aspramente la sentenza, accusando la Corte di schierarsi a sfavore dell’Israele e a favore dei militanti di Hamas, mentre migliaia di ostaggi israeliani soffrono a Gaza senza assistenza. Ha ribadito la volontà di mantenere la politica secondo la quale garantire solo le condizioni minime richieste dalla legge ai detenuti palestinesi.

Dall’altra parte, l’Associazione per i Diritti Civili in Israele ha esortato all’immediata applicazione della sentenza, accusando il sistema carcerario di Israele di aver trasformato le prigioni in veri e propri «campi di tortura». Gli attivisti hanno ribadito con forza che «uno Stato non deve far soffrire la fame alle persone, indipendentemente dalle loro azioni». Le organizzazioni per i diritti umani richiedono un cambiamento immediato, ricordando che il diritto internazionale e la legislazione nazionale impongono che anche i prigionieri ricevano un trattamento umano e dignitoso.

Nel contesto più ampio del conflitto, l’attenzione anche sul fronte di Gaza è alta: la popolazione civile sta affrontando condizioni di carestia peggiorate dalle azioni militari israeliane e dalle restrizioni imposte. Il settore sanitario locale segnala decessi quotidiani dovuti a malnutrizione, aggravando ulteriormente la crisi umanitaria. Questi dati sottolineano la tensione crescente sia dentro che fuori dalle carceri israeliane, rendendo la sentenza ancor più significativa nel contesto delle legittime aspettative di rispetto dei diritti umani fondamentali.

Questa sentenza della Corte Suprema israeliana arriva quindi come un monito legale e morale in una situazione di guerra prolungata e difficilmente gestibile, evidenziando la responsabilità dello Stato verso tutti i detenuti, anche in situazioni di conflitto. Mentre le istituzioni cercano di bilanciare la sicurezza nazionale con il rispetto dei diritti umani, il caso di questi detenuti palestinesi rappresenta un banco di prova fondamentale per la giustizia e l’etica nel trattamento dei prigionieri.

Le implicazioni di questa sentenza sono molteplici: da una parte, si pone un limite chiaro alle politiche di restrizione alimentare attuate come strumento punitivo o di pressione; dall’altra, si apre uno spazio per un confronto più ampio sulla trasparenza e il controllo delle condizioni carcerarie in Israele, specialmente nella gestione dei detenuti palestinesi. Il dibattito pubblico che ne deriva è cruciale per capire come uno Stato democratico possa applicare la legge e i diritti anche nei momenti di emergenza.

In questo scenario così complesso, la decisione della Corte si distingue come un segnale forte di rispetto dei diritti umani. Garantire un’alimentazione adeguata non è soltanto un obbligo formale, ma un imperativo morale che riflette la base stessa della dignità umana, anche per chi è detenuto in condizioni di guerra. Proprio per questo, la sentenza non può essere vista come un semplice atto giuridico, ma come un appello a non perdere l’umanità in tempo di crisi.

Crisi al vertice: Bayrou rischia la sfiducia e la Francia si prepara a una nuova stagione di instabilità

0

François Bayrou, primo ministro da meno di nove mesi, si trova al centro di una tempesta politica che potrebbe travolgere nuovamente il governo francese. Lunedì 8 settembre, con la proposta di un voto di fiducia sulla legge di bilancio presentata da lui stesso, Bayrou ha deciso di giocare il tutto per tutto contro una maggioranza parlamentare frammentata e un’opposizione agguerrita. La Francia rischia di perdere il suo terzo primo ministro in appena dodici mesi, accentuando lo stato di crisi e incertezza che domina la Quinta Repubblica. L’iniziativa di Bayrou nasce dalla necessità di ottenere il consenso su una dura spending review che prevede tagli alla spesa pubblica per decine di miliardi di euro, l’eliminazione di due giorni festivi e misure imposte dal deficit cresciuto ben oltre il limite europeo.

Questa situazione critica si inserisce in un contesto parlamentare dove nessuna formazione politica detiene una reale maggioranza. Le elezioni anticipate avvenute dopo la disastrosa dissoluzione dell’Assemblea Nazionale hanno creato un Parlamento frammentato tra Rassemblement National, sinistra e macronismo. Bayrou ha cercato alleati sia tra i centristi che tra i moderati, ma né la sinistra né l’estrema destra hanno voluto soccorrerlo, facendo preannunciare un nuovo periodo di instabilità per il paese. Questa crisi, sottolinea lo stesso Bayrou, nasce da una “guerra civile tra i partiti”, che si sono uniti solo per abbattere il governo senza trovare punti di convergenza reale tra loro.

Mentre la Francia si prepara alla sessione parlamentare straordinaria, la tensione è palpabile. La strategia di Bayrou mira a responsabilizzare tutti i deputati di fronte all’emergenza dei conti pubblici; il governo conta teoricamente su una minoranza, mentre l’opposizione totalizza consensi contrari decisivi. Lo scarto appare insormontabile e l’esito sembra già segnato: Bayrou rischia la bocciatura da parte di un Parlamento che non vuole altre misure di austerità.

Il discorso del primo ministro agli eletti è incentrato sulla trasparenza e sulla necessità di agire in nome dell’interesse nazionale. Nel suo intervento, Bayrou parla della gravità della situazione del debito pubblico, che ha raggiunto livelli record e che, secondo lui, richiede scelte dolorose ma imprescindibili: contenere il deficit, riformare la spesa sanitaria e rivedere il calendario festivo nazionale. Tuttavia, la sua posizione è contestata duramente dall’opposizione, in particolare da Marine Le Pen e dai leader della sinistra, che accusano il premier di voler scaricare i costi della crisi sulle fasce più deboli della popolazione.

Nella giornata cruciale, la Francia vive una paralisi politica e sociale: i mercati reagiscono con nervosismo, i titoli di Stato subiscono oscillazioni e le agenzie di rating minacciano un declassamento del debito sovrano. Il clima è quello di una vera crisi di regime, aggravata dalla difficoltà per il presidente Macron di trovare una soluzione rapida e consensuale. In poco tempo, il governo francese si trova a dover cambiare premier ancora una volta. La tradizionale separazione tra potere presidenziale e potere esecutivo si scontra con la realtà di una maggioranza sempre più ingestibile.

Sul fronte internazionale, l’instabilità politica francese preoccupa i partner europei e mette a rischio la credibilità della Francia come pilastro dell’Unione. La seconda economia dell’area euro vive una fase in cui le priorità di bilancio, le regole di Bruxelles e la pressione dei mercati finanziari si sovrappongono alle tensioni tra Stato e cittadini, con proteste e barricate che si moltiplicano nelle piazze di Parigi e delle principali città francesi.

Se Bayrou dovesse essere sfiduciato, Macron avrebbe davanti tre scenari possibili e nessuno senza rischi: la nomina di un altro capo del governo, il tentativo, assai improbabile, di ricostruire una nuova maggioranza, oppure il ricorso a nuove elezioni, opzione che la destra radicale invoca apertamente. È un passaggio storico, segnato da una crisi di identità per la politica francese, dove la leadership del presidente vacilla davanti all’incapacità di garantire stabilità e progresso sociale.

Lo stesso Bayrou, alla vigilia del voto, si è dichiarato convinto di aver fatto tutto ciò che andava fatto, denunciando una situazione in cui le forze politiche non trovano alcun punto di accordo e si mobilitano solo per abbattere l’esecutivo. Le sue dichiarazioni risuonano in un Parlamento bloccato, dove le scelte sulla legge di bilancio diventano il simbolo delle divisioni più profonde tra i partiti.

La crisi rivela un’immagine della Francia molto diversa da quella a cui il mondo era abituato: non più modello di stabilità, ma teatro di incessanti cambiamenti di rotta e incertezze, con una crescita economica minacciata e una società civile in fermento. Il futuro di Bayrou, e quello dell’esecutivo, si gioca su un terreno minato, dove ogni errore può diventare fatale per la tenuta dello Stato e della sua reputazione internazionale.

Il voto di fiducia sul governo Bayrou è il crocevia di una stagione politica segnata da dissidi, sfide economiche e sgretolamento della coesione nazionale. Nel momento in cui la Francia affronta la possibilità di un nuovo vuoto di potere, si fa strada la consapevolezza che le pagine di questa crisi saranno decisive per il futuro dell’intera Europa.