21 Novembre 2025
Home Blog Pagina 3

La “Flotta d’Oro” di Trump: nasce l’ambizioso piano del dominio marittimo americano

In una mossa che promette di ridefinire il futuro della marina militare americana, il presidente Donald Trump ha approvato i primi passi di un vasto piano di ammodernamento navale, destinato a trasformare radicalmente la struttura e la potenza della flotta statunitense. Il progetto, battezzato “Golden Fleet”, rappresenta il cuore della nuova strategia marittima dell’amministrazione, concepita per affrontare le crescenti sfide poste dalla Cina e da altre potenziali potenze rivali.

Secondo fonti vicine alla Casa Bianca e al Pentagono, Trump ha partecipato personalmente alle discussioni con gli alti vertici della Marina, mostrando un interesse costante e diretto nella progettazione delle nuove navi. Già in passato, il presidente aveva espresso pubblicamente il proprio dissenso verso l’aspetto dei moderni cacciatorpediniere americani, giudicandoli privi di “carattere e potenza visiva”. Oggi, la sua visione prende forma in un piano destinato non solo a rafforzare la difesa, ma anche a imprimere un marchio simbolico sul futuro della flotta: una rinascita tecnologica e stilistica in grado di rappresentare il potere americano in mare aperto.

La “Flotta d’Oro” comprenderà grandi navi da guerra con armamenti a lungo raggio e una nuova generazione di unità più leggere, come corvette e fregate avanzate. Tra le proposte più audaci si distingue una manovra per la costruzione di una nave pesantemente corazzata, del peso compreso tra le 15.000 e le 20.000 tonnellate, capace di imbarcare un numero mai visto di missili convenzionali e ipersonici. Lo scopo è chiaro: raggiungere una potenza di fuoco che possa eguagliare, se non superare, la deterrenza delle antiche corazzate della Seconda Guerra Mondiale.

Bryan Clark, ex ufficiale della Marina e oggi ricercatore senior presso l’Hudson Institute, ha spiegato che la nuova logica ricalca quella dei cannoni a lunga gittata del passato: “Nell’era dei missili, ciò che conta non è più la corazza ma la capacità di colpire a distanza.” In un mondo in cui la tecnologia ipersonica e i sistemi automatizzati stanno riscrivendo le regole della guerra navale, Trump sembra voler scommettere su una combinazione di forza bruta e innovazione tecnologica.

Già durante il suo primo mandato, Trump aveva manifestato il desiderio di riportare la Marina a uno standard di grandezza paragonabile a quello dell’epoca d’oro americana, auspicando una flotta da 355 navi operative. Sebbene quel progetto non avesse trovato piena attuazione prima della fine del suo mandato, oggi il nuovo piano spinge in una direzione ancora più ambiziosa: meno navi nel complesso, ma più potenti e interconnesse, con capacità autonome e armamenti avanzati.

La strategia non si limita alla costruzione di mezzi tradizionali. Il Pentagono e la Marina stanno lavorando a un modello “ibrido”, che unisce navi con equipaggio a sistemi robotici e autonomi. Tali unità senza pilota – sottomarini, droni di superficie e velivoli marittimi – agiranno come scudo avanzato per la flotta principale, garantendo una copertura continua e riducendo i rischi umani in teatri critici come il Mar Cinese Meridionale. Il concetto, in parte ispirato alla dottrina “Hellscape” sviluppata dal Comando Indo-Pacifico, mira a inondare di mezzi automatizzati eventuali zone di conflitto, ritardando le offensive e fornendo vantaggio tattico in caso di crisi con Pechino.

La Cina, nel frattempo, continua ad accelerare la costruzione di nuove navi da guerra e l’aggiornamento di quelle esistenti. Per questo motivo, l’amministrazione Trump ritiene che solo una flotta dotata di missili a lunghissima gittata possa mantenere la superiorità strategica nel Pacifico. Anche l’ammiraglio Samuel Paparo, oggi a capo del Comando Indo-Pacifico, ha discusso pubblicamente dell’importanza di creare un “equilibrio di deterrenza” che combini potenza convenzionale e tecnologia autonoma.

Alla Casa Bianca, la portavoce Anna Kelly ha riaffermato che il presidente ha già compiuto passi senza precedenti per rafforzare il predominio marittimo americano. Tra questi, l’istituzione di un ufficio dedicato alla costruzione navale, un investimento di oltre 43 miliardi di dollari e un accordo con la Finlandia per la realizzazione di 11 nuovi cutter artici. “Il presidente ha fatto più di chiunque altro per rilanciare il potere marittimo degli Stati Uniti”, ha dichiarato Kelly, annunciando che ulteriori dettagli sul programma saranno resi noti nei prossimi mesi.

Non tutti, però, condividono la visione presidenziale. Alcuni esperti mettono in guardia dai rischi economici e strategici di una flotta “troppo grande, troppo presto”. Mark Montgomery, ex ufficiale e analista della Foundation for Defense of Democracies, ha sottolineato la necessità di concentrare gli sforzi sulla modernizzazione dei cantieri navali e sulla manutenzione delle navi esistenti. “Sono favorevole a un ripensamento completo della flotta,” ha detto, “ma non è detto che una nave di superficie gigantesca sia la risposta più efficace.”

La questione estetica, che il presidente considera parte integrante dell’immagine militare americana, resta un punto controverso. Trump ha già chiesto modifiche al design delle fregate di classe Constellation e in passato aveva invocato il ritorno alle catapulte a vapore sulle portaerei, simbolo di un’epoca in cui la potenza industriale americana si esprimeva anche attraverso l’imponenza delle sue macchine belliche. Le sue critiche alle linee “troppo moderne” dei cacciatorpediniere Arleigh Burke riflettono una visione in cui la tecnologia deve sposarsi con la simbologia della forza visibile e del prestigio nazionale.

La “Golden Fleet” non sarà soltanto un progetto tecnico, ma anche culturale e politico. Trump vuole restituire alla Marina un ruolo di leadership globale, concentrando risorse, industria e immaginario collettivo sul mare come nuovo campo di competizione strategica. Il programma prevede la collaborazione con partner stranieri per la costruzione delle navi più leggere, come nel caso di Israele, il cui modello di corvetta classe Sa’ar 6 potrebbe fungere da base per una versione americana.

Dentro la Marina, la sensazione predominante è che le intuizioni del presidente abbiano trovato terreno fertile tra i vertici militari. Bryan Clark ha spiegato che gli esercizi di guerra condotti negli ultimi anni hanno evidenziato le debolezze della flotta attuale, incapace di rispondere con efficienza alle minacce moderne, dagli attacchi dei droni Houthi nel Mar Rosso fino ai sofisticati sistemi missilistici cinesi. Da qui nasce un concetto operativo definito “a bilanciere”: una flotta composta da poche navi capitali potentemente armate e da una moltitudine di piccole unità agili e automatizzate.

Trump, noto per la sua attenzione personale ai dettagli, invia messaggi diretti ai vertici della Marina anche nel cuore della notte, chiedendo aggiornamenti sullo stato dei cantieri e lamentandosi delle condizioni delle navi arrugginite. Il segretario della Marina John Phelan ha confermato l’impegno costante del presidente, che considera il mare uno dei pilastri della politica di sicurezza americana.

Non è un segreto che la costruzione di nuove navi di grande tonnellaggio richiederà anni, forse più di un decennio. Ma Trump intende posare fin d’ora le fondamenta di una trasformazione destinata a definire l’era delle “battleship digitali”, moderne eredi delle leggendarie corazzate della classe Iowa. La loro realizzazione richiederà almeno cinque anni di progettazione e altri sette di costruzione, ma gli analisti sostengono che la visione presidenziale punti oltre i confini temporali del suo mandato.

Nel frattempo, la Marina si prepara a rinnovare il proprio equilibrio interno, riducendo progressivamente la dipendenza dalle vecchie classi di navi e destinando maggiori fondi alla ricerca. La “Flotta d’Oro” è tanto un progetto industriale quanto un manifesto politico, un modo per riaffermare che il dominio del mare resta la chiave della supremazia globale statunitense.

La sfida lanciata da Trump non riguarda solo la forma delle nuove navi, ma la sostanza del potere navale americano. In gioco c’è il ritorno della simbologia della forza, una visione che fonde estetica, potenza e tecnologia nella convinzione che il prestigio marittimo degli Stati Uniti debba brillare ancora, come un riflesso dorato sull’oceano del futuro.

Smotrich all’Arabia Saudita: Continuate a cavalcare cammelli nel deserto saudita

Il ministro delle Finanze israeliano Bezalel Smotrich ha scatenato una tempesta politica e diplomatica con le sue recenti dichiarazioni durante una conferenza a Gerusalemme. In un contesto di crescenti pressioni internazionali e di delicate trattative sullo scenario mediorientale, Smotrich ha risposto senza mezzi termini alle richieste dell’Arabia Saudita che condizionano qualsiasi avanzamento verso la normalizzazione dei rapporti con Israele a una chiara roadmap verso la fondazione di uno Stato palestinese.

Le sue parole, “Se l’Arabia Saudita dice normalizzazione in cambio di uno Stato palestinese, amici miei, no grazie. Continuate a cavalcare cammelli nel deserto saudita”, prontamente riportate dalla stampa israeliana e internazionale, sono rimbalzate in tutto il mondo e hanno suscitato reazioni indignate sia a livello interno che esterno.​

La normalizzazione dei rapporti

L’uscita di Smotrich arriva in un momento in cui la questione della normalizzazione tra Israele e le potenze arabe del Golfo rappresenta una delle sfide cruciali della diplomazia mediorientale contemporanea. L’iniziativa si è intensificata soprattutto dopo l’annuncio, da parte della Casa Bianca, dell’intenzione del presidente Donald Trump di ospitare a novembre il principe ereditario saudita Mohammed bin Salman per colloqui bilaterali.

Proprio il viaggio a Washington del leader saudita sarebbe un segnale di volontà di dialogo, anche se la posizione di Riyadh resta ferrea: nessuna apertura verso Israele senza una soluzione “irreversibile e garantita” per la creazione di uno Stato palestinese.​

A Gerusalemme, la risposta ufficiale del governo israeliano si mostra divisa. La fazione più oltranzista, rappresentata da Smotrich e dai rappresentanti dei partiti nazional-religiosi, non solo rigetta le condizioni saudite, ma rilancia addirittura l’idea dell’annessione unilaterale della Cisgiordania e una linea dura sulla questione palestinese.

Smotrich ha infatti sottolineato che “la sovranità israeliana sui territori è la cartina di tornasole” di qualsiasi processo diplomatico, ribadendo la sua opposizione di principio a qualsiasi progresso verso la nascita di uno Stato palestinese.

Il suo intervento si è svolto in contemporanea con la votazione preliminare alla Knesset su una proposta di legge che mira a legalizzare l’annessione dei territori occupati, una mossa che ha incontrato la resistenza della stessa maggioranza guidata da Netanyahu e ha preoccupato l’amministrazione statunitense per le possibili ripercussioni sui delicati equilibri geopolitici regionali.​

Le opposizioni insorgono

Le dichiarazioni di Smotrich hanno provocato immediate reazioni critiche anche tra i leader dell’opposizione israeliana. Yair Lapid, ex primo ministro e attualmente all’opposizione, ha pubblicamente preso le distanze dalle parole del ministro, precisando ai partner internazionali che “Smotrich non rappresenta lo Stato di Israele”.

Benny Gantz, ex ministro della Difesa, ha definito le frasi rivolte ai sauditi “irresponsabili e dannose”, sottolineando che la leadership del Paese non può essere affidata a chi privilegia la propaganda sui social media rispetto alla stabilità nazionale.​

Mohammed bin Salman
Mohammed bin Salman

Al di fuori di Israele, i commenti di Smotrich sono stati percepiti come non solo offensivi ma sintomatici di una crescente polarizzazione del dibattito politico israeliano circa la questione palestinese e la normalizzazione con il mondo arabo. Gran parte della stampa internazionale ha evidenziato il sottotesto razzista dell’espressione “continuate a cavalcare cammelli”, che richiama stereotipi storici e rischia di minare quei fragili canali diplomatici che gli Stati Uniti stanno tentando di tessere con fatica per ampliare l’orizzonte degli Accordi di Abramo.

Dal punto di vista saudita la posizione è chiara e pubblicamente ribadita dal principe ereditario e dai vertici della diplomazia di Riyadh: nessuna relazione formale con Israele sarà possibile in assenza di passi concreti, verificabili e irreversibili verso l’autodeterminazione palestinese.​

Israele è divisa

Dal fronte interno israeliano traspare anche un elemento di forte contraddizione. Se da una parte, secondo recenti sondaggi, circa il 73% degli israeliani si dichiara favorevole a una normalizzazione con l’Arabia Saudita anche a fronte di concessioni significative nello status dei territori palestinesi, nel governo prevalgono invece posizioni intransigenti. L’esecutivo guidato da Netanyahu è infatti alle prese con una fragile maggioranza parlamentare, in cui ciascun partito esprime priorità profondamente divergenti riguardo allo status dei territori e al futuro processo di pace.​

Alla base del rifiuto israeliano rimane un elemento identitario e strategico. Smotrich e i partiti di destra estrema considerano il riconoscimento di uno Stato palestinese come una “minaccia esistenziale” alla sicurezza e all’integrità di Israele.

Alla conferenza, il ministro ha evocato il trauma delle ondate di attentati che negli anni hanno colpito la popolazione civile israeliana ogni qualvolta apparivano spiragli di apertura diplomatica verso i palestinesi, lasciando intendere che ogni concessione unilaterale rappresenterebbe un rischio inaccettabile per la sicurezza nazionale.​

La tensione internazionale

Sul piano internazionale, le dichiarazioni di Smotrich rischiano ora di inasprire la posizione saudita e di complicare ulteriormente la missione diplomatica americana guidata dal presidente Trump, che avrebbe voluto presentare il summit di novembre come un passo decisivo verso la pace regionale.

Riyadh, storicamente custode dei principali Luoghi Santi islamici e leader morale dell’area, è sottoposta anche a forti spinte interne: accettare una normalizzazione senza progressi reali per la causa palestinese significherebbe esporre l’intera famiglia reale a pressioni popolari e critiche da tutto il mondo musulmano.​

Il nodo, dunque, resta quello di sempre: la questione palestinese non è soltanto un ostacolo tecnico nelle trattative, ma incarna il cuore del conflitto arabo-israeliano e della legittimità dei nuovi assetti geopolitici nella regione. Mentre Israele prosegue con una politica orientata alla massimizzazione dei guadagni diplomatici senza concessioni sui territori, la leadership saudita ribadisce che nessun accordo sarà possibile senza una soluzione concreta e dignitosa per i palestinesi.

Negli ultimi mesi questa posizione si è addirittura irrigidita, soprattutto dopo il riaccendersi del conflitto su Gaza e il malcontento suscitato dalle politiche israeliane sui territori occupati. Fonti diplomatiche riportano che Riyadh ha respinto le recenti aperture americane che avrebbero potuto aggirare la questione palestinese, rendendo ogni spiraglio di intesa sempre più lontano.​

All’interno di questa cornice si muovono ambizioni personali, strategie di conservazione del potere e incognite sul futuro ordine regionale. L’asprezza delle parole di Smotrich segnala una fase di irrigidimento dello scontro politico e diplomatico e rischia di lasciare una traccia profonda sugli equilibri futuri del Medio Oriente.

I prossimi incontri a Washington, l’eventuale risposta saudita e le scelte che Netanyahu sarà costretto a fare sul fronte interno diranno se la diplomazia avrà ancora margini, o se prevarrà una nuova stagione di chiusure e tensioni. In questo quadro carico di incognite, ogni dichiarazione pubblica, ogni parola pronunciata davanti alle telecamere, si trasforma in un elemento cruciale che può orientare o distruggere mesi di iniziative diplomatiche e di trattative spesso condotte dietro le quinte. Un errore di comunicazione può costare più di una battaglia persa sul campo.

Gripen: Il caccia svedese che cambia le regole in Ucraina

La firma dello storico accordo tra il Primo Ministro svedese Ulf Kristersson e il Presidente ucraino Volodymyr Zelenskiy rappresenta una svolta decisiva nel panorama aeronautico militare europeo: la Svezia ha ufficializzato la lettera d’intenti per esportare fino a 150 caccia Gripen SAAB in Ucraina, dopo una trattativa strategica avvenuta a Linköping, città dove i jet vengono prodotti. Questo evento proietta il Gripen al centro della scena internazionale, non solo come simbolo dell’innovazione industriale scandinava, ma anche come strumento chiave nella ridefinizione degli equilibri di sicurezza in Europa Orientale.

Il Gripen è un caccia multiruolo supersonico monomotore di quarta generazione, pensato per missioni aria-aria, attacco al suolo e ricognizione. È considerato un’opzione affidabile e dal costo contenuto rispetto alle più costose piattaforme stealth di quinta generazione come l’F-35 ed è stato sviluppato espressamente per garantire modularità, flessibilità impareggiabile e interoperabilità NATO.

Cosa vuol dire Gripen

Il nome “Gripen”, che in svedese richiama il mitico grifone, non è casuale: questa creatura leggendaria incarna potenza, agilità e uno spirito di adattamento che ritroviamo perfettamente nel progetto Saab. Dal suo debutto operativo nel 1996 ad oggi, il Gripen ha ricevuto costanti aggiornamenti, mantenendo sempre un altissimo livello tecnologico. Il modello più recente – il Gripen E – è stato consegnato per la prima volta alla Swedish Air Force solo nell’ottobre scorso, a conferma di come il programma continui a evolversi seguendo l’eccellenza tecnologica.​

Il Gripen E si distingue non solo per le sue doti aerodinamiche, ma soprattutto per aver rivoluzionato il concetto stesso di efficienza in combattimento. Lungo poco più di 15 metri, con una massa massima al decollo che sfiora le 16,5 tonnellate, è progettato per tornare in volo dopo aver fatto rifornimento e ricaricato armamenti in soli 10-20 minuti, anche su piste non preparate, grazie alla sua proverbiale rapidità di turnaround e alla manutenzione semplificata.

Il segreto del Gripen sta nell’equilibrio tra peso, potenza del motore General Electric F414-GE-39E e capacità di carico. L’aereo presenta superfici canard-delta che gli conferiscono grande manovrabilità, riducendo la distanza minima di decollo e consentendo operazioni da piste e strade semi-preparate, un’idea nata per resistere a scenari di guerra ad alta intensità o sotto minaccia diretta alle basi.​

Operatività del Gripen E

Dal punto di vista operativo, il Gripen E si impone per l’avionica d’avanguardia: integra radar AESA Raven ES-05, sensori IRST Skyward-G, sistema di fusione dati “best sensor dominates” e una suite completa di contromisure elettroniche. La sensoristica avanzata consente di individuare bersagli a lunghissima distanza e affrontare anche minacce a bassa traccia radar. L’aereo può equipaggiare missili aria-aria di quarta e quinta generazione, armi stand-off di attacco terrestre, bombe di precisione e sofisticati pod da guerra elettronica.

La capacità di carico su 10 punti d’aggancio gli permette di trasportare combinazioni di armamento tra le più flessibili del panorama mondiale. Sottolineare che un solo Gripen può portare fino a nove missili aria-aria, sedici bombe leggere o quattro missili antinave RBS-15, mette in luce una versatilità senza rivali nella sua categoria, anche grazie a un massiccio incremento dei serbatoi interni rispetto alle generazioni precedenti.​

L’introduzione del Gripen E si inserisce in uno scenario internazionale di forte competizione, dovendo reggere il confronto con avversari come F-35, F-16, Dassault Rafale ed Eurofighter Typhoon. Tuttavia, il jet svedese conserva un vantaggio chiave: costi di acquisizione e gestione sensibilmente inferiori, modularità completa e una politica Saab di open architecture che consente agli Stati acquirenti di personalizzare i sistemi d’arma e software secondo le esigenze nazionali.

Questo aspetto facilita grandemente l’adozione in contesti operativi anche molto diversi tra loro e ha favorito negli anni contratti di esportazione non solo con paesi NATO, ma anche con nazioni che cercano alternative autonome al dominio USA. Il Gripen, infatti, è stato adottato da forze aeree di Svezia, Sudafrica, Thailandia, Brasile, Repubblica Ceca e Ungheria, mentre la Colombia ne ha già programmato l’acquisto.​

Adattamento tattico

Un altro aspetto distintivo riguarda la rapidità di adattamento nelle differenti missioni, confermata dai recenti impegni operativi. La stampa svedese segnala che quest’anno, per la prima volta, i Gripen sono stati impiegati in combattimento diretto da parte dell’aeronautica thailandese in un confronto con il vicino Cambogia, oltre a presenziare alle classiche attività di air policing in Polonia, azione simbolica nel quadro delle missioni NATO per la tutela dello spazio aereo orientale.

Già nel 2014, i Gripen avevano dato prova della loro efficacia nella realizzazione della no-fly zone sopra la Libia su mandato NATO, dimostrando capacità di interoperabilità, affidabilità e prontezza nell’ambito delle operazioni multilaterali.​

Grazie a queste peculiarità, la trattativa tra Svezia e Ucraina acquisisce una reale portata storica. L’acquisto di 150 Gripen da parte di Kyiv non solo ammoderna in profondità la sua difesa aerea, ma suggella anche una nuova fase dell’industria bellica svedese che, da sempre neutrale, ora si pone come garante di sicurezza per un paese oggetto di aggressione e simbolo della resistenza europea.

Si tratta di una scelta che offre all’Ucraina caccia moderni e interoperabili, in grado di essere rimessi in volo in tempi record e adattati in base alle minacce del momento, nonché di operare da infrastrutture minime, dettaglio cruciale in condizioni di conflitto prolungato. Da oggi, il Gripen non è più soltanto una brillante piattaforma tecnologica: è l’emblema di una nuova solidarietà europea, l’arma che può davvero cambiare le regole del confronto nei cieli dell’Est.

Le Terre Rare al centro della guerra commerciale tra Stati Uniti e Cina

Le tensioni tra Washington e Pechino hanno raggiunto un nuovo picco critico con l’annuncio da parte della Cina di ulteriori restrizioni sull’esportazione delle terre rare, minerali strategici essenziali per la produzione di tecnologie avanzate, armamenti militari e dispositivi elettronici. Quello che sembrava un fragile accordo commerciale raggiunto nei mesi precedenti rischia ora di crollare completamente, con entrambe le potenze che si accusano reciprocamente di aver violato gli impegni presi e di aver innescato una pericolosa escalation proprio a poche settimane da un incontro cruciale tra il presidente americano Donald Trump e il leader cinese Xi Jinping.​

La cina espande i controlli: dodici elementi su diciassette sotto restrizione

La Repubblica Popolare Cinese ha ampliato drasticamente il proprio controllo sulle esportazioni di elementi delle terre rare attraverso l’Annuncio numero 61 del 2025, pubblicato dal Ministero del Commercio cinese. Le nuove regole, che entreranno in vigore in due fasi l’8 novembre e il 1° dicembre 2025, aggiungono cinque nuovi elementi alla lista delle sostanze sottoposte a restrizioni: olmio, erbio, tulio, europio e itterbio. Questi si vanno ad aggiungere ai sette già inclusi ad aprile scorso, portando il totale degli elementi controllati a dodici su diciassette che compongono la famiglia completa delle terre rare.​

La portata di queste misure va ben oltre il semplice controllo delle materie prime. Le nuove normative richiedono che le aziende straniere ottengano una licenza di esportazione dal governo cinese anche per prodotti che contengono appena lo 0,1% di elementi delle terre rare di origine cinese. Questo significa che un’automobile costruita negli Stati Uniti e venduta in Messico richiederebbe l’approvazione di Pechino prima della vendita, a causa dei chip presenti nel veicolo che potrebbero contenere tracce di materiali cinesi. Le restrizioni si estendono anche alle tecnologie di raffinazione e alle attrezzature di produzione utilizzate per estrarre, fondere, separare e riciclare questi minerali strategici.​

Il “bazooka” di pechino: le accuse dell’amministrazione Trump

Il rappresentante commerciale degli Stati Uniti Jamieson Greer ha definito le nuove limitazioni cinesi come “un atto di coercizione economica sull’intera economia globale” e “una presa di potere sulla catena di approvvigionamento globale”. Durante una conferenza stampa congiunta con il Segretario al Tesoro Scott Bessent, Greer ha avvertito che le ripercussioni potrebbero estendersi a vari settori, inclusi beni di consumo e automobili in tutto il mondo. Le dichiarazioni di Bessent sono state ancora più forti: “Hanno puntato un bazooka contro le catene di approvvigionamento e la base industriale dell’intero mondo libero”, ha affermato il Segretario al Tesoro, aggiungendo che “la Cina è un’economia a comando e controllo, ma non comanderanno né controlleranno noi”.​

L’amministrazione Trump ha reagito minacciando di reintrodurre tariffe al 100% su tutte le importazioni cinesi a partire dal 1° novembre, raddoppiando di fatto l’aliquota tariffaria complessiva che arriverebbe intorno al 130%. Trump ha descritto le azioni cinesi come “straordinariamente aggressive” e ha persino ventilato la possibilità di cancellare l’incontro programmato con Xi Jinping durante il vertice della Cooperazione Economica Asia-Pacifico (APEC) che si terrà in Corea del Sud tra il 29 ottobre e il 1° novembre. Tuttavia, Bessent ha mantenuto un tono più cauto, affermando che l’incontro tra i due leader è ancora previsto e che “abbiamo avuto comunicazioni sostanziali con i cinesi negli ultimi giorni”.​

La dipendenza americana: il 90% della raffinazione mondiale in mani cinesi

La dipendenza americana dalla Cina per le terre rare è drammaticamente evidente nei numeri. La Cina controlla circa il 70% dell’estrazione mineraria globale di terre rare e oltre il 90% della capacità di raffinazione mondiale, secondo l’Agenzia Internazionale per l’Energia. Gli Stati Uniti importano circa il 70% dei propri composti e metalli di terre rare dalla Cina, secondo il Geological Survey americano. Questi elementi sono fondamentali per una vasta gamma di tecnologie militari statunitensi, inclusi i caccia F-35, i sottomarini delle classi Virginia e Columbia, i droni Predator, i missili Tomahawk, i sistemi radar e le bombe intelligenti di precisione.​

Jeremy Siegel, professore emerito di finanza all’Università della Pennsylvania, ha espresso frustrazione durante un’intervista alla CNBC: “È scandaloso che non possediamo una riserva strategica di terre rare e che permettiamo alla Cina di monopolizzare il 90% del processo di raffinazione. Dove eravamo?”. L’assenza di capacità di lavorazione domestica per le terre rare pesanti, particolarmente critiche per applicazioni militari e tecnologiche avanzate, rappresenta una vulnerabilità strategica significativa per gli Stati Uniti.​

La risposta cinese alle critiche americane è stata altrettanto decisa. Durante una conferenza stampa del Ministero del Commercio, una portavoce ha chiarito che “finché le terre rare sono destinate ad applicazioni civili, le esportazioni riceveranno l’approvazione”. Ha inoltre sottolineato che le nuove regole rappresentano “un’azione valida per proteggere i nostri diritti” e che l’obiettivo è “impedire l’esportazione illegale di materiali di terre rare che potrebbero potenzialmente essere utilizzati nella creazione di armi di distruzione di massa”. La funzionaria ha accusato gli Stati Uniti di aver distorto significativamente i fatti e le azioni intraprese dalla Cina, esacerbando incomprensioni e incitando allarme.​

Pechino ha anche respinto le accuse americane sostenendo di aver informato Washington prima dell’annuncio del nuovo sistema di licenze e che le proprie regole sono in linea con le pratiche adottate da altre grandi economie. La Cina ha collegato l’escalation retorica all’espansione inattesa da parte del Dipartimento del Commercio americano della “Entity List” alla fine di settembre, che ora include aziende cinesi e non solo che tentano di aggirare le restrizioni all’esportazione di apparecchiature per la produzione di chip e altre tecnologie avanzate.​

Settori a rischio: difesa, semiconduttori e veicoli elettrici nel mirino

Analisti ed esperti vedono le mosse cinesi come una risposta logica e proporzionata alle azioni di Trump, piuttosto che una nuova strategia per ottenere leva nei negoziati futuri. Paul Triolo, specialista di Cina e tecnologia presso la società di consulenza Albright Stonebridge, ha osservato che l’attuale escalation ricorda il deterioramento delle relazioni bilaterali visto a maggio, aggiungendo che “ci siamo avvicinati al bordo di un abisso” e notando che la posta in gioco è ancora più alta ora.​

L’amministrazione Trump sta lavorando per costruire una catena di approvvigionamento domestica per ridurre la dipendenza dalla Cina. A luglio, il Dipartimento della Difesa ha siglato un accordo storico con MP Materials, la più grande società mineraria di terre rare degli Stati Uniti, che gestisce la miniera di Mountain Pass in California, l’unica miniera di terre rare pienamente operativa nel paese. L’accordo multimiliardario comprende investimenti azionari, garanzie sui prezzi e contratti di acquisto a lungo termine, con il Dipartimento della Difesa destinato a diventare il maggiore azionista della società.​

Nel dettaglio, il Pentagono ha garantito un prezzo minimo di 110 dollari per chilogrammo di produzione di neodimio e praseodimio per i prossimi dieci anni, quasi il doppio del prezzo di mercato prevalente in Cina. L’accordo prevede anche un impegno decennale per l’acquisto di magneti e include un investimento di 400 milioni di dollari in nuove azioni emesse dalla società. MP Materials costruirà un nuovo impianto di produzione di magneti, denominato “10X Facility”, che si prevede inizierà la messa in servizio nel 2028 e porterà la capacità totale di produzione di magneti di terre rare degli Stati Uniti a circa 10.000 tonnellate metriche.​

James Litinsky, fondatore e CEO di MP Materials, ha dichiarato che “questa iniziativa segna un’azione decisiva da parte dell’amministrazione Trump per accelerare l’indipendenza della catena di approvvigionamento americana”. L’azienda ha anche registrato una produzione trimestrale di concentrato di terre rare aumentata di quasi il 45%, raggiungendo 13.145 tonnellate metriche, mentre la produzione di ossido di neodimio-praseodimio è aumentata di quasi il 120%, totalizzando 597 tonnellate metriche nel secondo trimestre del 2025. Le azioni di MP Materials sono schizzate del 509,4% quest’anno, beneficiando dei rinnovati riflettori sulle terre rare in mezzo all’escalation delle tensioni.​

Tuttavia, costruire una capacità di lavorazione domestica per le terre rare negli Stati Uniti richiederà probabilmente un decennio o più, anche con tariffe che inclinano il campo di gioco a favore della produzione americana. La lavorazione delle terre rare su larga scala richiede intervento governativo per garantire sia accordi di acquisto che finanziamenti di base a causa della sua complessità tecnica e della mancanza di prezzi trasparenti. Esistono 17 elementi delle terre rare, che si combinano in modi diversi in ciascun deposito, e gli impianti pilota per elaborare i processi chimici per separarli non si traducono automaticamente in un’operazione su vasta scala.​

Gli esperti avvertono che le restrizioni cinesi potrebbero avere ripercussioni globali significative. Ryan Kiggins, professore di scienze all’Università dell’Oklahoma Centrale, ha osservato che “le terre rare sono centrali in questa lotta: sono vitali per armamenti avanzati, veicoli elettrici e la transizione verso l’energia sostenibile, industrie che caratterizzano il potere nel 21° secolo”. Le restrizioni colpiscono una vasta porzione dell’economia statunitense e globale, poiché le terre rare sono fondamentali per la produzione di chip per computer necessari per molti prodotti come smartphone e sistemi di intelligenza artificiale, magneti per alimentare droni, robot e automobili.​

Il rischio del disaccoppiamento: verso due catene di approvvigionamento parallele

I settori della difesa, dei semiconduttori e dei veicoli elettrici sono quelli che probabilmente subiranno il colpo più duro, secondo Garcia Herrero, analista presso la banca d’investimento francese Natixis. Le principali aziende della difesa, Apple, Nvidia, Tesla, Ford e General Motors sono particolarmente vulnerabili. Le nuove regole cinesi prendono di mira elementi delle terre rare critici per le applicazioni di difesa e chip semiconduttori, estendendosi a olmio, erbio, tulio, europio e itterbio. Questo annuncio ha fatto seguito ai controlli imposti sui materiali magnetici al neodimio ad aprile 2025, che hanno causato il panico nell’industria automobilistica e hanno portato Ford a chiudere temporaneamente alcuni dei suoi stabilimenti di produzione.​

Bessent ha indicato che gli Stati Uniti si aspettano di ottenere un sostegno sostanziale dagli europei, dall’India e dalle democrazie asiatiche per contrastare le mosse di Pechino. Durante le riunioni annuali del Fondo Monetario Internazionale e della Banca Mondiale a Washington, i funzionari americani hanno incontrato omologhi di vari paesi per coordinare una risposta collettiva. I ministri delle finanze del Gruppo dei Sette discuteranno una risposta congiunta per scoraggiare le mosse previste dalla Cina per controllare la fornitura globale di terre rare.​

Tuttavia, l’ironia della situazione non è sfuggita agli analisti: mentre Washington chiede aiuto con una mano, con l’altra mantiene tariffe elevate proprio sui paesi da cui cerca sostegno. Gli Stati Uniti hanno imposto una tariffa del 50% sull’India anche mentre chiama Nuova Delhi un partner nella sicurezza delle catene di approvvigionamento. L’India, dal canto suo, ha riserve limitate di terre rare e affronta i propri ostacoli produttivi.​

Le prospettive per l’incontro Trump-Xi in Corea del Sud rimangono incerte. Il presidente sudcoreano Lee Jae Myung ospiterà i leader dell’APEC il 31 ottobre e il 1° novembre nella città costiera sudorientale di Gyeongju. Trump dovrebbe arrivare il 29 ottobre per una visita di uno o due giorni, mentre Xi dovrebbe visitare la Corea del Sud il 30 ottobre. Seul sta coordinando separatamente con Pechino per finalizzare i dettagli della visita del presidente cinese, che non si recava in Corea del Sud dal 2014.​

Sia Bessent che Greer hanno espresso un cauto ottimismo sul fatto che Pechino possa riconsiderare e tornare ai negoziati. “Prevediamo che non procederanno con i controlli e che possiamo tornare alla nostra posizione precedente di una settimana fa”, ha dichiarato Greer, “dove avevamo aliquote tariffarie concordate e il flusso di magneti di terre rare che avevamo stabilito”. Bessent ha anche suggerito che l’attuale pausa tariffaria di 90 giorni tra Stati Uniti e Cina potrebbe essere prolungata, sebbene abbia affermato che le discussioni su questa estensione non avverranno prima che i leader si incontrino in Corea del Sud.​

Le restrizioni si ritorceranno su Xi?

Tuttavia, alcuni esperti ritengono che le restrizioni cinesi sulle terre rare potrebbero ritorcersi contro Xi. Secondo analisti, Pechino potrebbe aver esteso eccessivamente la propria leva sulle terre rare, rischiando di perdere il controllo su quella che sta emergendo come la catena di approvvigionamento più cruciale del 21° secolo. Le azioni della Cina stanno accelerando gli sforzi occidentali per sviluppare alternative, con investimenti record che affluiscono nelle catene di approvvigionamento strategiche di terre rare occidentali nel 2025. Il 2025 è destinato a essere un punto di svolta, poiché un anno di tariffe e guerre commerciali spinge investimenti record nella fornitura strategica occidentale di terre rare.​

Il futuro potrebbe essere caratterizzato da sistemi paralleli di raffinazione e approvvigionamento per le terre rare e le tecnologie associate, mentre Stati Uniti e Cina si allontanano ulteriormente. Tobin Marcus, analista di Wolfe Research, ha indicato che “se le regole dovessero essere applicate rigorosamente a tempo indeterminato, sarebbero dirompenti non solo per gli Stati Uniti, ma a livello globale”. Le terre rare sono anche essenziali per i settori dei semiconduttori e automobilistico, e le restrizioni potrebbero potenzialmente fermare l’impennata globale dell’intelligenza artificiale, che si basa su questi chip per l’addestramento.​

Mentre la retorica tra le due superpotenze continua a intensificarsi, gli osservatori rimangono concentrati sulle prossime settimane come momento critico per determinare se la relazione commerciale tra Stati Uniti e Cina può essere salvata o se il mondo si sta muovendo verso un disaccoppiamento più profondo delle due maggiori economie globali. La posta in gioco non potrebbe essere più alta: le terre rare rappresentano non solo una questione economica, ma una componente fondamentale della sicurezza nazionale, della supremazia tecnologica e del potere geopolitico nel ventunesimo secolo.

Gaza. Hamas uccide palestinesi in strada

Negli ultimi giorni, il fragile equilibrio nella Striscia di Gaza ha mostrato quanto il cessate il fuoco fra Israele e Hamas sia solo una tregua sottile, sostenuta più da necessità geopolitiche che da un reale mutamento delle dinamiche di potere.

Hamas, nonostante le devastazioni subite e la perdita di buona parte delle sue infrastrutture, sta tentando con forza di riaffermarsi come unica autorità legittima nel territorio, colpendo duramente le milizie rivali e i clan armati che negli ultimi mesi hanno sfruttato il vuoto di potere per consolidare il proprio controllo su intere aree urbane.

Le vie di Gaza City e Khan Yunis, dove fino a poche settimane fa regnavano le bande armate in una drammatica frammentazione sociale, vedono ora la presenza di pattuglie di Hamas, uomini in divisa che cercano di ristabilire un ordine apparente. Questa riaffermazione di forza è un messaggio politico oltre che militare: Hamas vuole dimostrare di essere ancora il centro di gravità della governance palestinese, nonostante le pressioni internazionali affinché si ritiri dal potere e consenta la creazione di un’amministrazione transitoria sotto supervisione esterna.

Hamas non vuole perdere Gaza

Il cessate il fuoco, frutto della mediazione di Stati Uniti, Qatar, Egitto e Turchia, ha posto sul tavolo condizioni molto chiare: il disarmo progressivo di Hamas e il trasferimento della gestione del territorio a un’entità amministrativa internazionale, accompagnata da un piano di ricostruzione in più fasi. Ma Hamas ha resistito, dichiarando che non può “disarmare mentre Gaza è ancora instabile e soggetta a continue infiltrazioni”. Israele, dal canto suo, conserva il controllo militare di diverse zone della Striscia e osserva con preoccupazione l’evolversi della situazione. Il primo ministro Benjamin Netanyahu ha più volte ribadito che “la guerra finirà solo quando Hamas sarà completamente smantellata”.

Sul terreno la realtà è molto più complessa: dopo due anni di bombardamenti, occupazioni parziali e carestia, il tessuto sociale della Striscia è frantumato. Clan come i Doghmush, gli Abu Shabab e gli al-Mujaida si sono armati, hanno creato checkpoint autonomi e si sono imposti in questi anni come nuovi centri di potere locale. Alcuni di questi gruppi hanno avuto nei mesi scorsi un sostegno indiretto da parte di Israele, che li ha considerati un possibile contrappeso a Hamas. Ma questa strategia, avvertono gli analisti, rischia di riprodurre dinamiche già viste in Afghanistan negli anni Ottanta, quando le potenze esterne alimentarono milizie locali che in seguito si rivoltarono contro chi le aveva sostenute.

Le violenze tra Hamas e i clan non si sono fermate con la tregua. Nel quartiere di Sabra, a Gaza City, gli scontri con la potente famiglia Doghmush hanno causato almeno 27 morti, tra cui otto membri di Hamas, mentre nella zona di Khan Yunis il raid contro il clan al-Mujaida ha lasciato sul campo decine di vittime.

Questi episodi rivelano la difficoltà del movimento islamista nel riprendere un controllo capillare del territorio e nel garantire la sicurezza interna. Le stesse fonti palestinesi riconoscono che la proliferazione di armi leggere e la totale assenza di un’autorità civile efficace rendono ogni tentativo di stabilizzazione un’impresa quasi impossibile.

Trump appoggia il regolamento di conti

Donald Trump, oggi presidente degli Stati Uniti e principale mediatore del cessate il fuoco, ha commentato la repressione interna di Hamas in termini sorprendentemente diretti, affermando che il gruppo “ha eliminato alcune gang pericolose” e che questo “non lo preoccupa affatto”. Tuttavia, ha precisato che gli Stati Uniti sono pronti a intervenire “rapidamente e con forza” nel caso Hamas rifiuti di disarmarsi, lasciando intendere che Washington non intende consentire una rinascita militare del movimento.

Fonti diplomatiche vicine alle delegazioni arabe coinvolte nei colloqui hanno spiegato che la Casa Bianca punta a consolidare una forma di amministrazione neutrale, composta da tecnocrati palestinesi ma supervisionata da un’alleanza internazionale guidata dagli Stati Uniti.

Nel frattempo, all’interno di Gaza cresce un sentimento ambivalente fra la popolazione civile. Alcuni cittadini vedono nel ritorno delle pattuglie di Hamas una garanzia minima di sicurezza dopo mesi di anarchia, mentre altri denunciano la brutalità delle operazioni di “ripulitura” della milizia islamista, accusata di esecuzioni sommarie e arresti arbitrari. Le famiglie delle vittime parlano di incursioni notturne, sparizioni e torture, segnali di un clima di paura che ricorda gli anni più bui del controllo totalitario di Hamas.

A questo si aggiunge una crisi umanitaria ancora devastante. Secondo organizzazioni internazionali, oltre l’80% della popolazione di Gaza vive oggi senza accesso stabile all’acqua potabile, e le infrastrutture sanitarie restano paralizzate: solo un terzo degli ospedali è operativo. Le tensioni tra le diverse fazioni palestinesi rendono inoltre difficoltosa la distribuzione equa degli aiuti, spesso confiscati dai gruppi armati per rafforzare la propria influenza.

La lotta è per il potere non per la libertà

Tra i clan più attivi dopo il cessate il fuoco figura anche quello di Abu Shabab, operativo nel sud della Striscia, che ha istituito posti di blocco e imposto “tasse di passaggio” a convogli umanitari, tra cui veicoli delle Nazioni Unite e della Croce Rossa. Secondo fonti locali, l’esercito israeliano, pur consapevole di queste attività, avrebbe evitato di intervenire, probabilmente per non rischiare nuovi scontri e per favorire la pressione interna su Hamas.

Questa tolleranza, tuttavia, ha alimentato la percezione che Tel Aviv stia lasciando fare ai gruppi palestinesi, per non incorrere in nuovi scontri armati, una strategia che molti pensano sia un “consiglio” di Trump.

Mentre le cancellerie occidentali guardano con crescente incertezza al futuro politico della Striscia, Hamas tenta di dimostrare la propria capacità di governare. I portavoce del movimento affermano di voler “garantire la sicurezza e la stabilità, in vista di un’amministrazione condivisa con altri attori palestinesi”.

Tuttavia, sul terreno, le armi parlano più delle parole. Ogni quartiere di Gaza racconta una storia diversa: a nord prevale ancora la legge dei clan, a sud si combattono guerre private per il controllo degli aiuti, al centro Hamas tenta di imporre la sua disciplina. L’immagine di un potere frammentato è oggi il riflesso del fallimento collettivo di tutte le parti coinvolte, incapaci di offrire ai palestinesi un orizzonte politico chiaro.

Gli analisti della regione concordano sul fatto che la tregua mediata dagli Stati Uniti potrà durare solo se si interverrà su due fronti contemporaneamente: la ricostruzione materiale del territorio e la ricostruzione istituzionale della governance. In assenza di una forza politica condivisa e legittimata, Gaza rischia di scivolare in una condizione di “somalizzazione”, dove il potere si disperde tra fazioni locali, signori della guerra e interessi esterni.

Le prospettive per una stabilità duratura, dunque, restano incerte, e gli occhi del mondo tornano a puntarsi su una terra dove il confine tra guerra e pace è sempre più sottile e dove il cessate il fuoco non coincide con la fine della violenza, ma solo con il suo mutare di forma.

Shahed 136: il drone kamikaze che ha rivoluzionato il conflitto globale

La guerra in Ucraina ha portato sotto i riflettori una nuova categoria di armamenti, vera protagonista dei massicci attacchi alle infrastrutture: il drone iraniano HESA Shahed 136, conosciuto anche come Geran-2 in Russia. Sviluppato dalla HESA in collaborazione con la Shahed Aviation Industries, questo sistema rappresenta uno degli esempi più avanzati di munizioni vaganti, spesso definite “droni kamikaze” o “suicide drone”. Progettato per la distruzione di obiettivi statici a lungo raggio, il Shahed 136 ha ridisegnato la logica degli attacchi a distanza, soprattutto per ciò che riguarda il rapporto tra costi e efficacia militare.

Ciò che distingue il Shahed 136 dagli altri droni da combattimento non sta tanto nel livello tecnologico assoluto, quanto nella sua filosofia di design: il focus è stato posto su affidabilità, facilità di fabbricazione e basso costo, fattori che ne consentono non solo la produzione in massa, ma anche l’impiego in sciami per saturare le difese avversarie. Il suo valore produttivo si aggira attorno agli 20/50.000 dollari per unità, una cifra irrisoria se confrontata con il costo esorbitante dei missili intercettatori impiegati per abbatterlo, spesso superiori a un milione di dollari ciascuno. Questa asimmetria economica permette a chi lo impiega di logorare le risorse nemiche, rendendo insostenibile la difesa tradizionale contro attacchi su ampia scala.​

Nel concreto, lo Shahed 136 si presenta come un velivolo con ala delta e propulsore a spinta posteriore, alimentato da un motore a combustione interna, derivato da tecnologie tedesche riadattate. È lungo 3,5 metri, ha un’apertura alare di circa 2,5 metri e pesa tra i 200 e i 250 chilogrammi. Il sistema di lancio è semplice ma efficace: cinque droni possono essere schierati simultaneamente tramite appositi rack mobili, consentendo una distribuzione efficiente anche da veicoli. Poco dopo il lancio, un booster viene separato, lasciando che il motore a pistone mantenga la propulsione per l’intero percorso.​

Shahed 136 Rack

Le prestazioni operative del Shahed 136 sono notevoli: può raggiungere una velocità compresa tra i 185 e i 200 km/h e vanta un’autonomia tra i 2.000 e i 2.500 km. Questo significa che può colpire obiettivi ben oltre le linee del fronte e spesso eludere le barriere radar grazie alla sua ridotta superficie riflettente e alla traiettoria di volo radente. La rumorosità del motore lo ha reso noto tra la popolazione ucraina come “flying moped” (ciclomotore volante), testimonianza del suo impatto psicologico oltre che materiale. Il payload, tipicamente costituito da una testata esplosiva di 40-50 kg, è sufficiente a devastare infrastrutture energetiche, depositi di carburante e centri di comando.​

La semplicità delle sue componenti interne, spesso provenienti dal mondo commerciale, ha permesso all’Iran di aggirare le tensioni derivanti dalle sanzioni internazionali: nella sua elettronica sono state individuate parti occidentali di uso civile, un segno dell’astuzia ingegneristica impiegata per sostituire tecnologie militari vietate. Questo “inganno” ha spesso alimentato dibattiti etici e legali sulla proliferazione di armi autonome, poco controllabili e potenzialmente impiegabili contro civili. L’efficacia nel targeting statico è tale da aver causato danni ingenti alle reti energetiche ucraine, privando intere città di luce e riscaldamento in pieno inverno. Al tempo stesso, le limitazioni del drone sono evidenti nel contesto delle operazioni tattiche “dinamiche”: la velocità moderata e la mancanza di manovrabilità lo rendono inadatto a colpire bersagli mobili o ad agire in ambienti saturi di difese elettroniche avanzate.​

Recentemente, sono state realizzate versioni modificate della Shahed 136 da parte degli ingegneri russi, capaci di adattarsi meglio alle esigenze del conflitto in Ucraina. Queste varianti integrano aggiornamenti nel sistema di guida e targeting, permettendo attacchi anche contro posizioni difensive avanzate. Il drone, tra l’altro, ha dimostrato di possedere una certa resistenza agli sforzi di guerra elettronica, benché sia vulnerabile ai disturbi e jamming. Gli ucraini stanno affinando le contromisure, ma la massa degli attacchi Shahed mette comunque a dura prova le capacità di risposta, costringendo le forze difensive a impiegare risorse costose.​

Shahed 136 elica

Sul fronte tecnico, Iran e altri paesi stanno spingendo sugli sviluppi futuri della piattaforma, con ricerche orientate verso sistemi propulsivi ibridi, motori a fuel cell o l’integrazione di materiali avanzati. Queste innovazioni puntano ad aumentare ulteriormente l’autonomia, la silenziosità e la resistenza ai disturbi radar, con l’obiettivo di rendere il drone ancora più difficile da intercettare pur mantenendo un costo contenuto. L’integrazione dell’intelligenza artificiale nei sistemi di volo è un orizzonte già esplorato, in grado di adattare le rotte in tempo reale sulla base delle minacce o delle caratteristiche di ciascuna missione.​

La strategia iraniana si basa sull’asimmetria: l’introduzione di armi economiche e facilmente replicabili permette di proiettare potenza su scala regionale e globale, rendendo obsoleti i paradigmi di deterrenza tradizionali. Il Shahed 136 è stato esportato e impiegato attivamente da proxy come gli Houthi nello Yemen, e la sua “replica” è ormai oggetto di interesse e studio negli Stati Uniti e presso diversi paesi occidentali, segno che il drone iraniano rappresenta un modello per l’innovazione bellica internazionale.​

Le implicazioni legali sono ancora oggetto di dibattito. La facilità con cui può essere impiegato contro obiettivi civili ha portato alcune leadership, come quella ucraina, a definirlo un’arma terroristica. La comunità internazionale è chiamata a riflettere sul futuro dei sistemi di arma autonomi e sulle normative necessarie a limitarne gli effetti collaterali e la dispersione.​

L’ecosistema del Shahed 136 viene completato dalla presenza di numerose varianti e piattaforme sorelle, come il Shahed 131 e il Shahed 238, oltre agli aggiornamenti russi (Geran-2), che differiscono per peso, autonomia e capacità di carico. Il continuo perfezionamento di questi sistemi, nonché la loro adozione da parte di attori non statali, sta innescando una “corsa alla replica” in tutto il mondo, trasformando il Shahed in un vero punto di riferimento per la guerra del futuro.​

Scheda tecnica dello Shahed 136

Shahed 136 scheda tecnica

Per arricchire il quadro sullo Shahed 136, è fondamentale approfondire le sue caratteristiche tecniche. La cellula del drone si basa su una configurazione ad ala delta con due derive alle estremità, una soluzione che assicura stabilità e semplicità costruttiva. La fusoliera è realizzata principalmente con materiali compositi leggeri come fibra di carbonio e strutture a nido d’ape, favorendo sia la robustezza sia la leggerezza, oltre a minimizzare la traccia radar. L’intero sistema pesa circa 200 kg, con una lunghezza di 3,5 metri e un’apertura alare di 2,5 metri.

Il motore è un elemento singolare dello Shahed 136: parliamo di un motore a pistoni quattro cilindri MD-550 da circa 37-50 cavalli, una versione prodotta in Iran e Cina derivata da tecnologia tedesca Limbach ottenuta tramite reverse engineering. Funziona con una semplice elica a due pale in configurazione “pusher”, cioè posizionata posteriormente per spingere il velivolo anziché trainarlo. Questo contribuisce al caratteristico rumore che lo ha reso riconoscibile sul campo, ma garantisce anche una buona efficienza grazie al basso consumo di carburante e all’elevata energia specifica della benzina rispetto alle batterie moderne.

Il decollo avviene tramite lancio assistito da razzi RATO, che vengono separati subito dopo pochi secondi di volo, lasciando al motore a combustione interna la propulsione principale. La versatilità del sistema di lancio consente la preparazione e il dispiegamento rapido da veicoli mobili, inclusi camion civili, rendendo i lanci difficili da prevedere o neutralizzare. Inoltre, la capacità di lanciare fino a cinque droni in sequenza rafforza il concetto di saturazione delle difese avversarie.

Dal punto di vista dell’avionica, lo Shahed 136 impiega un sistema di navigazione elementare ma efficace: si basa su un’accoppiata di guida inerziale e GPS commerciale, integrando correzioni via GLONASS, con possibilità di ricevere aggiornamenti sulla posizione tramite moduli di comunicazione 4G o SIM satellitari. Numerose analisi di rottami hanno evidenziato la presenza di componenti elettronici di origine occidentale come chip prodotti da Texas Instruments, Altera e Microchip Technology oltre che pompe del carburante e convertitori di tensione provenienti dall’Europa o dalla Cina. Il drone può quindi essere pre-programmato per raggiungere in autonomia un bersaglio statico, ma esistono versioni dotate di sensori aggiuntivi per l’attacco a bersagli mobili, come dimostrato dagli impieghi nel Golfo di Oman contro navi in movimento.

Shahed 136 rottami

La testata bellica è collocata frontalmente e pesa tra i 30 e i 50 kg, con esplosivo ad alto potenziale solitamente a frammentazione. Le varianti disponibili includono configurazioni anti-personale, anti-infrastruttura o per la neutralizzazione di radar. Il drone è in grado di volare tra i 60 e i 4.000 metri di altitudine, una caratteristica che lo rende estremamente versatile per missioni a bassa quota per eludere la maggior parte dei sistemi radar.

Una delle innovazioni più discusse per il futuro è l’integrazione di propulsori ibridi e intelligenza artificiale, con l’obiettivo di aumentare ulteriormente la sopravvivenza e la precisione, riducendo la rumorosità e aumentando l’autonomia. Materiali innovativi, gestione intelligente dei flussi e tecnologie fuel cell rappresentano le frontiere in via di esplorazione per rendere droni come il Shahed 136 ancora più avanzati e difficili da contrastare.

Le specifiche tecniche nel dettaglio includono:

  • Motore: Mado MD-550, quattro cilindri, 37-50 CV (derivato Limbach L550E)
  • Propulsione: Elica bipala “pusher”, posteriore
  • Peso: Circa 200-250 kg (payload 30-50 kg di esplosivo)
  • Dimensioni: Lunghezza 3,5 m – apertura alare 2,5 m
  • Velocità di crociera: 185-200 km/h
  • Autonomia operativa: 2.000-2.500 km
  • Quota di servizio: 60-4.000 m
  • Sistema di guida: INS + GPS/GLONASS commerciale, possibilità di ricezione segnali via GSM/SAT

La combinazione di semplicità, modularità e adattabilità elettronica fa dello Shahed 136 un prodotto bellico unico nel suo genere, in grado di rappresentare una minaccia rilevante per sistemi difensivi tradizionali e scenario in rapida evoluzione.

Venti anni di guerra in Afghanistan. Tra obiettivi mancati e ritorni di fiamma

0

La guerra in Afghanistan iniziata il 7 ottobre 2001 come risposta agli attentati dell’11 settembre fu presentata come una campagna rapida per distruggere Al-Qaida, rovesciare il regime talebano che la ospitava e impedire che il paese tornasse a essere un santuario del terrorismo.

Venti anni dopo, nell’agosto 2021, i talebani entravano a Kabul quasi senza combattere e restauravano l’Emirato Islamico, mentre le ultime truppe statunitensi e NATO lasciavano il paese. In mezzo, una sequenza di operazioni militari, insurrezioni, accordi politici e fallimenti istituzionali ha prodotto un bilancio umano e strategico pesantissimo.

Secondo stime riconosciute, il conflitto ha ucciso circa 176 mila persone, inclusi oltre 46 mila civili, e ha generato milioni di rifugiati e sfollati interni, pur registrando periodi di miglioramento in ambito sanitario, educativo e di diritti femminili che non hanno retto all’ultimo collasso statuale del 2021.

L’operazione Enduring Freedom prese forma con una combinazione di bombardamenti aerei mirati, supporto alle milizie dell’Alleanza del Nord e l’impiego di forze speciali. La caduta di Mazar-i Sharif il 9 novembre 2001 e l’abbandono di Kabul da parte dei talebani pochi giorni dopo sembrarono confermare la validità della strategia di abbattere il regime con mezzi relativamente contenuti.

La resa di Kunduz, la fuga del mullah Omar da Kandahar il 7 dicembre e la campagna sulle grotte di Tora Bora completarono la prima fase, benché la mancata cattura di Osama bin Laden alimentasse già allora dubbi sulla tenuta dell’impianto antiterrorismo a lungo termine. In quel primo scorcio di guerra, gli USA e il Regno Unito rivendicarono l’attenzione esclusiva a obiettivi militari e lanci di aiuti umanitari dall’aria; ma le vittime civili, l’effetto dei bombardamenti e le prime accuse di violazioni misero presto in discussione la narrativa di una guerra “pulita” e chirurgica.

Le origini immediate dell’intervento si radicarono nelle relazioni tra Al-Qaida e il regime talebano, consolidatesi dal 1996 con la creazione di campi di addestramento, e nella sequenza di ultimatum lanciati dall’amministrazione Bush dopo l’11 settembre. Le risoluzioni del Consiglio di Sicurezza dell’ONU contro il terrorismo, insieme al riconoscimento dell’Afghanistan quale minaccia alla pace e sicurezza internazionale, furono interpretate da molti come un quadro di legittimità, seppure con margini controversi.

Una parte della dottrina giuridica riconobbe il diritto di legittima difesa, un’altra evidenziò l’assenza di uno Stato aggressore in senso classico. Eppure, il consenso internazionale sulla presenza della coalizione, la creazione dell’ISAF e il mancato isolamento diplomatico dell’operazione consolidarono la cornice politico-istituzionale del conflitto.

Dal 2002 in avanti, il baricentro operativo si spostò da una guerra di rovesciamento del regime a un conflitto controinsurrezionale. Nelle montagne di Shahi-Kot si riorganizzarono nuclei di Al-Qaida e talebani, dando vita a una fase di guerriglia transfrontaliera che sfruttò le aree tribali del Pakistan.

Gli attacchi con razzi, imboscate, ordigni improvvisati e il consolidamento delle retrovie in regioni impervie resero evidente che il “dopoguerra breve” non sarebbe mai arrivato, mentre la ricostruzione dello Stato afghano si scontrava con limiti strutturali, divisioni etniche e una corruzione endemica.

Con l’ingresso pieno della NATO nel 2006 e l’ampliamento dell’ISAF, la campagna cambiò scala. Operazioni come Medusa, Achille e le offensive nel distretto di Helmand riflettevano uno sforzo alleato crescente, con truppe britanniche, canadesi, olandesi e di altri paesi, accanto al dispositivo statunitense. Seguirono la surge annunciata da Barack Obama nel 2009 e, nel 2015, la transizione da ISAF a Sostegno Risoluto, con meno truppe e missione focalizzata sull’addestramento e il supporto. In parallelo, il sistema talebano divenne più fluido, resiliente e territoriale, alimentato anche dai proventi dell’oppio, mentre la governance afghana faticava a legittimarsi agli occhi delle comunità e a garantire sicurezza di base.

Il bilancio umano rimane tra i capitoli più dolorosi. Le stime citano circa 176 mila vittime complessive, con oltre 46 mila civili uccisi e fasi, come il 2011, in cui ai talebani fu attribuita la responsabilità per la grande maggioranza dei decessi civili. La guerra vide inoltre episodi documentati di crimini e violazioni: dai massacri e attentati indiscriminati dei talebani alle uccisioni illegali e alle torture imputate a forze afghane e a reparti occidentali, con inchieste che hanno coinvolto anche la Corte Penale Internazionale.

L’impatto sociale oscillò: nei periodi di più intensa presenza internazionale crebbero aspettativa di vita, scolarizzazione femminile, accesso all’acqua e rappresentanza parlamentare delle donne; ma la fragilità istituzionale rese questi progressi vulnerabili, fino al brusco arretramento imposto dal ritorno talebano.

Sul piano economico-finanziario, i costi furono enormi. Le stime aggregate indicano una spesa complessiva di centinaia di miliardi di dollari, con la quota statunitense preponderante e contributi significativi di Regno Unito, Germania, Italia e altri alleati. Le sole politiche di contrasto al narcotraffico costarono miliardi, senza riuscire a invertire strutturalmente la dipendenza rurale dal papavero da oppio. La resilienza dell’economia dell’oppio — fino a coprire la gran parte dell’offerta mondiale — segnò uno degli scacchi strategici più netti della coalizione e del governo di Kabul.

Il punto di svolta politico fu l’Accordo di Doha del 29 febbraio 2020, che fissò il ritiro statunitense entro 14 mesi a fronte di impegni talebani sul contrasto al terrorismo e sul dialogo intra-afghano. Le liberazioni di prigionieri e la riduzione della presenza militare internazionale prepararono la fase finale.

A maggio 2021 prese avvio il ritiro delle ultime truppe USA e NATO; l’effetto domino nelle province fu rapidissimo, con cadute in sequenza nel Nord e una capitolazione della sicurezza governativa che sorprese per velocità e ampiezza. Il 15 agosto i talebani entrarono a Kabul; il presidente Ashraf Ghani fuggì, e il 19 agosto fu proclamata la restaurazione dell’Emirato Islamico. Le ultime settimane furono segnate dall’evacuazione caotica all’aeroporto e da attentati che mostrarono il ritorno della minaccia jihadista in un ambiente di collasso istituzionale.

Il giudizio storico sul ventennio afghano mescola elementi contrastanti. Da un lato, l’eliminazione di Osama bin Laden nel 2011 e l’assenza, per anni, di un santuario indisturbato di Al-Qaida in Afghanistan furono risultati operativi non marginali. Dall’altro, la mancata costruzione di uno Stato legittimo e autosufficiente, la dipendenza dalla presenza militare straniera e la resilienza politico-militare dei talebani hanno eroso il senso degli obiettivi dichiarati.

Sotto il profilo del diritto internazionale, il dibattito sulla legittimità originaria dell’intervento non ha impedito un ampio sostegno multilaterale nei fatti; ma l’uscita precipitosamente gestita e la resa del terreno a un attore già responsabile di violazioni sistematiche dei diritti umani hanno inciso sull’immagine internazionale dell’Occidente e sulla percezione della coerenza strategica delle sue campagne. L’opinione pubblica nei paesi coinvolti è passata dal sostegno iniziale, molto alto nel 2001, a un crescente scetticismo sul prolungamento della missione e sull’utilità di restare, fino al sostegno maggioritario per il ritiro in diverse democrazie occidentali.

Nel quadro regionale, il ruolo del Pakistan è stato determinante e ambiguo. Le aree tribali transfrontaliere hanno funzionato da retroterra operativo per talebani e affiliati, complicando la logica controinsurrezionale. Allo stesso tempo, Islamabad ha coltivato legami di influenza in Afghanistan per ragioni di sicurezza strategica verso l’India, alimentando una dinamica che ha ostacolato una soluzione afgano-centrica.

Anche l’Iran ha esercitato nel tempo forme di influenza pragmatica, mentre Russia e Cina hanno valutato con attenzione il rischio di spillover jihadista e le opportunità economiche connesse alla stabilità, senza impegnarsi militarmente come l’Occidente. La caduta di Kabul ha ridisegnato gli equilibri regionali, ponendo nuove domande sulla gestione dei flussi migratori, sul narcotraffico e sulla prevenzione di nuovi hub del terrorismo internazionale.

Resta il dato che sintetizza l’intera vicenda: una guerra iniziata per negare spazio operativo al terrorismo e per sostituire un regime teocratico con uno Stato funzionante si è conclusa con il ritorno di quel regime e con istituzioni collassate, mentre milioni di afghani sono ripiombati nell’incertezza e in molte aree nella paura. È una lezione strategica che interroga dottrine militari, strumenti di nation-building e capacità di leggere il terreno sociale oltre il momento cinetico.

Le finestre di progresso registrate tra il 2002 e il 2020 — dall’istruzione femminile all’assistenza sanitaria, dalla crescita urbana all’apertura mediatica — mostrano che una società diversa era possibile, ma non sostenibile senza sicurezza, inclusione politica e lotta efficace alla corruzione. La storia del conflitto afghano dal 2001 al 2021 costringe oggi a ripensare tempi, strumenti e obiettivi di ogni intervento esterno in contesti statali fragili, dove legittimità interna e resilienza socioeconomica contano almeno quanto il successo militare tattico.

Il gelo sul 38º parallelo: storie e ombre della guerra di Corea

0

La Guerra di Corea rappresenta uno degli eventi più drammatici e paradigmatici della storia contemporanea, capace di influenzare sia gli equilibri mondiali che le vite di milioni di persone.

Definita come il conflitto combattuto nella penisola coreana tra il 1950 e il 1953, questa guerra viene ricordata soprattutto per aver segnato un pericoloso punto di escalation della guerra fredda, portando il mondo sull’orlo di un conflitto nucleare globale e lasciando sul campo circa 2.800.000 vittime tra morti, feriti e dispersi, metà delle quali civili. La scintilla che accese le ostilità scaturì dall’invasione della Corea del Sud da parte dell’esercito della Corea del Nord comunista e dalla successiva risposta militare dell’ONU guidata dagli Stati Uniti, decisi a impedire la caduta del Sud nelle mani dell’ideologia comunista.

Il coinvolgimento internazionale fu immediato e vasto, in quanto la posta in gioco andava ben oltre i confini della penisola. La divisione del territorio coreano lungo il 38º parallelo, decisa dopo la sconfitta del Giappone nel 1945, aveva lasciato due presidi inconciliabili: al Nord un regime filosovietico con Kim Il-sung, al Sud un governo nazionalista filostatunitense capeggiato da Syngman Rhee.

Le tensioni, alimentate da una lunga storia di occupazione giapponese e da mutue accuse di provocazioni e repressioni, sfociarono presto in una guerra non dichiarata fatta di rappresaglie, imboscate e violenze interne tra le due parti, ma fu solo il 25 giugno 1950 che la situazione precipitò. In quel giorno, la Corea del Nord lanciò un attacco a sorpresa attraversando il 38º parallelo con un esercito notevolmente superiore, sia per numeri che per equipaggiamento militare, cogliendo impreparata la Corea del Sud e le forze americane dislocate nella regione. Questo attacco segnò il vero inizio della guerra e costrinse la comunità internazionale a una rapida mobilitazione.

La risposta delle Nazioni Unite fu rapida grazie all’assenza, in seno al Consiglio di Sicurezza, del rappresentante sovietico, che protestava per l’esclusione della Cina comunista dalle deliberazioni dell’ONU. Iniziò così la formazione di una coalizione composta da 18 stati, capeggiata dagli Stati Uniti, che si schierò al fianco del Sud con il compito di respingere le truppe del Nord e ripristinare la situazione precedente all’invasione. La coalizione, però, dovette affrontare subito alcune delle offensive più devastanti della guerra: le truppe nordcoreane, grazie a un’organizzazione meticolosa e alla superiorità dei mezzi forniti da Mosca, avanzarono rapidamente, conquistando Seul in pochi giorni e costringendo gli alleati a ripiegare sulle difese del cosiddetto “perimetro di Busan”. Qui, nei pressi dell’omonima città portuale, le forze sudcoreane, americane e della coalizione riuscirono infine a rallentare e poi fermare l’impeto dell’avanzata nemica, ma solo dopo settimane di sanguinose battaglie e immensi sacrifici umani.

Fu a questo punto che si verificò uno degli episodi strategici più celebri della guerra: lo sbarco di Incheon. Sotto il comando del generale Douglas MacArthur, le forze della coalizione organizzarono un’imponente operazione anfibia che colse completamente di sorpresa le forze nordcoreane, tagliando loro le linee di rifornimento e permettendo agli alleati di risalire rapidamente verso il 38º parallelo e oltre.

La guerra sembrava volgere a favore del Sud, ma l’intervento massiccio della Cina comunista, che inviò nell’arco di pochissimi mesi centinaia di migliaia di soldati “volontari”, cambiò nuovamente le sorti del conflitto. Questo ingresso allargò il fronte, ampliò la portata delle operazioni militari e complicò irrimediabilmente la situazione strategica sul terreno.

La tensione fra Cina e Unione Sovietica cominciò a farsi sentire anche sul piano politico. Le ragioni dell’impegno cinese in Corea furono oggetto di interpretazioni discordanti, ma appare ormai chiaro che, oltre a evitare il rischio di una Corea unificata filostatunitense ai propri confini, Pechino intendeva affermare la propria autonomia e leadership nel campo comunista, contrapponendosi all’egemonia di Mosca. L’intervento cinese portò a un drammatico capovolgimento delle sorti del conflitto, provocando il ripiegamento degli eserciti delle Nazioni Unite e il ritorno delle linee di combattimento attorno al 38º parallelo, dove la guerra si tramutò nuovamente in una lunga serie di battaglie di posizione.

Sul fronte interno, la guerra di Corea accentuò profondi contrasti anche tra le forze in campo. Negli Stati Uniti, l’amministrazione Truman si trovò a gestire forti dissidi interni, culminati nella destituzione del generale MacArthur, il quale, insoddisfatto delle strategie adottate e sostenitore dell’uso delle armi nucleari contro la Cina, rappresentava ormai un elemento di rischio per la stabilità internazionale.

In Unione Sovietica, per contro, le divergenze di vedute col governo cinese portarono a una crescente diffidenza reciproca destinata ad avere ripercussioni durature sugli equilibri del blocco comunista. Sul campo, nel frattempo, si moltiplicarono crimini e brutalità: la popolazione coreana fu costretta a subire indicibili sofferenze, con decine di migliaia di massacri, deportazioni e atti di inumana violenza compiuti da entrambe le parti. Il conflitto coreano si guadagnò perciò la tragica fama di “guerra dimenticata” in Occidente, sebbene le sue conseguenze siano rimaste profondamente radicate nella memoria collettiva dei popoli coinvolti.

L’armistizio firmato a Panmunjeom nel luglio 1953 pose ufficialmente fine alle ostilità, ma non portò mai a una pace duratura. La penisola coreana restò divisa lungo il 38º parallelo, custodita da un’ininterrotta presenza militare e da una tensione che, ancora oggi, si riflette nei rapporti tra le due Coree e nel delicatissimo equilibrio internazionale nell’Asia orientale. Le cicatrici della guerra sono ancora ben visibili sia nelle società coreane, profondamente segnate da traumi individuali e collettivi, sia nella costante instabilità della regione, teatro di frequenti provocazioni militari, incidenti di confine e crisi politiche. L’impatto della guerra di Corea va ben oltre la dimensione militare: essa ha lasciato un’impronta indelebile sul piano geopolitico, culturale e umano.

Chiunque oggi osservi la penisola coreana non può che ravvisare nella linea di demarcazione, presidiata da postazioni fortificate e sormontata dal filo spinato, il simbolo di un conflitto sospeso, di una pace incompiuta e di divisioni che continuano a plasmare le scelte dei popoli coinvolti. La Corea del Nord, divenuta uno degli stati più isolati e autoritari del pianeta, rappresenta forse uno degli ultimi retaggi della guerra fredda ancora pienamente efficaci, mentre la Corea del Sud, trasformatasi in una potenza economica avanzata, convive da decenni con la costante minaccia di un ritorno alle armi.

La memoria della guerra di Corea è dunque essenziale per comprendere non solo la storia del XX secolo, ma anche le dinamiche di potere e le tensioni che ancora oggi agitano lo scenario internazionale. Le lezioni di quella tragedia, purtroppo, restano di bruciante attualità e il ricordo di quei terribili anni continua a rappresentare un monito contro i pericoli della violenza ideologica e della divisione politica. La guerra di Corea ha segnato l’inizio di una nuova era, in cui la pace, raggiunta a prezzo altissimo, rimane fragile e le ferite del conflitto attendono ancora una vera riconciliazione.

Migliaia di reperti archeologici di Gaza salvati dai bombardamenti grazie a una missione d’emergenza

0

Il salvataggio improvviso di migliaia di reperti archeologici palestinesi dalla distruzione rivela l’importanza della tutela del patrimonio culturale di Gaza nel presente scenario di guerra. Nel caos della crisi tra Israele e Hamas, le cronache degli ultimi giorni raccontano una delle operazioni di emergenza più singolari della storia recente, un atto disperato che ha consentito di preservare testimonianze antichissime dalla furia dei bombardamenti.

Giovedì 11 settembre, gli aid workers della ONG Première Urgence Internationale (PUI), sono riusciti a mettere in salvo migliaia di artefatti di inestimabile valore contenuti in un magazzino di Gaza, pochi istanti prima che la struttura venisse abbattuta da un raid israeliano. Lo sforzo è stato il risultato di nove lunghe ore di trattativa fra organizzazioni umanitarie e l’esercito israeliano, mentre il tempo scorreva inesorabile, con la notizia di una demolizione imminente che rischiava di cancellare decenni di scoperte.

In quel magazzino erano custoditi reperti provenienti da oltre venticinque anni di scavi archeologici, fra cui resti di un antico monastero bizantino del IV secolo, già riconosciuto come patrimonio mondiale UNESCO e una delle primissime testimonianze del cristianesimo in Palestina. L’esercito israeliano ha dichiarato che nell’edificio erano presenti anche infrastrutture di intelligence di Hamas, ragione per cui era stato inserito nella lista degli obiettivi da colpire nell’espansione delle operazioni militari a Gaza City.

La leadership della missione di recupero è spettata a Kevin Charbel, coordinatore di emergenza per Urgence Internationale (UI), una ONG attiva in Palestina dal 2009, impegnata sia nell’ambito sanitario sia nella salvaguardia della memoria storica locale. “Non si tratta semplicemente di eredità palestinese o cristiana: è un patrimonio che appartiene al mondo, tutelato ufficialmente dall’UNESCO” ha sottolineato Charbel, che si è trovato in prima linea durante la frenetica operazione.

Le trattative si sono svolte il mercoledì, quando l’agenzia COGAT, responsabile per le questioni umanitarie presso le autorità israeliane, ha avvertito la ONG dell’imminente abbattimento del magazzino. Attraverso un sistema di notifiche internazionale gestito da ONG e agenzie umanitarie, l’esercito viene informato delle “aree sensibili”: scuole, ospedali, magazzini che preservano aiuti e beni culturali. Charbel ha speso nove ore tentando di ottenere un rinvio della demolizione, mentre la crisi dei trasporti nel territorio assediato rendeva impossibile reperire camion per salvare i reperti.

Il tempo era pochissimo: solo cinque minuti prima di dover accettare la perdita totale, un’altra organizzazione ha offerto i mezzi necessari per il trasporto. Insieme al Patriarcato latino di Gerusalemme, UI ha proceduto al trasferimento degli oggetti in un luogo sicuro, la cui ubicazione resta segreta per motivi di sicurezza. La Scuola Biblica e Archeologica Francese di Gerusalemme, istituto di riferimento internazionale e protagonista nella scoperta dei Rotoli del Mar Morto, si è occupata della conservazione di circa 80 metri quadrati di artefatti accumulati nell’edificio “Al-Kawthar high-rise building ” di Gaza City.

La storia archeologica di Gaza è antichissima, risalente a oltre 6000 anni fa, e il territorio ospita decine di siti: templi, monasteri, palazzi, chiese, moschee e mosaici, molti dei quali sono andati perduti negli ultimi decenni tra urbanizzazione e saccheggi. L’UNESCO si sforza di proteggere ciò che resta, consapevole che Gaza fu crocevia di scambi fra Egitto e Levante e luogo di nascita di società urbane evolutesi da villaggi agricoli. Fra i reperti salvati figurano anfore, monete, mosaici, resti umani e animali, e oggetti riportati alla luce dal monastero di San Ilarione, uno dei primi insediamenti monastici cristiani del Medio Oriente.

La frenesia dell’operazione ha imposto condizioni tutt’altro che ideali: trasportare reperti così fragili e antichi avrebbe richiesto settimane di preparazione e mezzi specializzati, ma la situazione di emergenza ha costretto a stipare scatole di cartone sui camion scoperti, con la ceramica poggiata direttamente sulla sabbia. Le normative militari vietano l’uso di container sigillati, mettendo ulteriormente a rischio il patrimonio. Durante il tragitto, alcuni manufatti sono stati danneggiati o lasciati indietro per mancanza di tempo. Domenica, l’edificio è stato abbattuto dalle forze israeliane, che hanno motivato l’operazione con la presenza di infrastrutture militari nemiche.

Nelle ultime settimane, Israele ha demolito diversi palazzi a Gaza City, avvertendo la popolazione di evacuare in vista dell’offensiva di terra. Il conflitto, iniziato nell’ottobre 2023, ha già provocato devastazioni colossali sul fronte culturale: UNESCO ha censito almeno 110 siti culturali danneggiati, fra cui 13 siti religiosi, 77 edifici storici o artistici, un museo e sette siti archeologici.

Gli operatori impegnati nel salvataggio hanno vissuto tensioni emotive profonde, interrogandosi sulla liceità di investire risorse vitali come carburante e automezzi per preservare oggetti inanimati, mentre la crisi umanitaria richiede atteggiamenti e risposte altrettanto tempestive per garantire acqua, cibo, e medicine alla popolazione sotto assedio. “Abbiamo scelto di fare tutto questo perché questi reperti sono preziosi. Rappresentano una pagina fondamentale non solo per la storia palestinese, ma per la storia dell’umanità intera”, dice Charbel, sottolineando che la perdita delle testimonianze più antiche del cristianesimo in Palestina avrebbe effetti irreversibili.

Il patrimonio salvato ora si trova ancora in una location segreta a Gaza City, ma la sua esposizione agli agenti atmosferici e al rischio di nuove incursioni belliche mette in allerta storici e archeologi, ponendo sotto i riflettori la fragilità della memoria culturale in zone di guerra.

Da decenni, la tutela dei siti culturali è al centro della missione UNESCO in Gaza. Questi beni rappresentano l’identità condivisa delle popolazioni locali e la memoria universale, elementi fondamentali per il dialogo interreligioso e la ricostruzione sociale dopo le crisi. Ogni volta che la guerra colpisce la cultura, si spezza una connessione preziosa con il passato, indispensabile per immaginare il futuro.

La cronaca di questa settimana pone domande etiche e strategiche che riguardano il senso stesso del diritto alla cultura e alla memoria, nella tempesta di emergenze che affliggono Gaza. Fra le priorità di molte ONG, tornano con forza i temi della protezione del patrimonio in tempo di conflitto e la necessità di conciliare il soccorso umanitario alla popolazione con la difesa della storia.

La vicenda ci ricorda che la guerra non devasta soltanto vite, ma estende la distruzione alle radici più profonde di una civiltà, cancellando testimonianze che nessun intervento potrà mai recuperare. La battaglia per la salvezza dei siti archeologici di Gaza è il simbolo di una resilienza fatta di lavoro quotidiano, scelte dolorose e sforzi collettivi che superano i confini locali per diventare patrimonio globale.

La Russia aggira le sanzioni occidentali. Il sistema con il Vietnam. Ecco come funziona

Le tensioni geopolitiche globali hanno dato vita a meccanismi finanziari sempre più sofisticati per eludere le sanzioni internazionali. Una rivelazione esclusiva dell’Associated Press ha portato alla luce un sistema clandestino sviluppato da Vietnam e Russia per nascondere i pagamenti degli armamenti, utilizzando i profitti delle joint venture energetiche per eludere il sistema bancario internazionale.

L’architettura di questo meccanismo finanziario rappresenta una risposta diretta alle sanzioni occidentali imposte in seguito al conflitto ucraino. Secondo documenti interni vietnamiti, Hanoi ha acquistato equipaggiamenti militari russi, inclusi caccia, carri armati e navi, utilizzando un sistema di crediti che vengono poi ripagati attraverso la quota dei profitti vietnamiti della joint venture petrolifera Rusvietpetro operante in Siberia.

La struttura di questo accordo finanziario è articolata in tre fasi principali. Inizialmente, i profitti vietnamiti dalla joint venture in Siberia vengono inviati a Mosca per ripagare i crediti militari. Successivamente, eventuali profitti eccedenti i rimborsi dei prestiti vengono indirizzati all’azienda statale russa di petrolio e gas Zarubezhneft. Infine, Zarubezhneft utilizza la sua joint venture in Vietnam per trasferire una somma equivalente di ritorno a Petrovietnam, evitando così qualsiasi transazione finanziaria internazionale.

Le Ngoc Son, direttore generale di Petrovietnam, ha chiarito in un documento datato 11 giugno 2024 che “nel contesto delle sanzioni statunitensi e occidentali contro la Russia in generale, e l’esclusione della Russia da SWIFT in particolare, questo metodo di pagamento è considerato relativamente riservato e appropriato”, poiché i fondi circolano esclusivamente all’interno di Vietnam e Russia, mitigando i rischi dell’embargo americano.

Questo sistema emerge in un momento critico per la diplomazia internazionale. Gli Stati Uniti stanno cercando di rafforzare la partnership con il Vietnam come contrappeso alla crescente influenza cinese nel Sud-Est asiatico, mentre contemporaneamente sono in corso negoziati commerciali dopo l’imposizione di dazi del 20% sui beni vietnamiti da parte della Casa Bianca. Il presidente Donald Trump ha inoltre minacciato sanzioni ancora più severe contro Mosca, mentre l’Unione Europea ha implementato una serie di nuove sanzioni per pressare il presidente russo Vladimir Putin a concludere il conflitto in Ucraina.

Il meccanismo di pagamento descritto nei documenti sembra essere progettato per prevenire il rischio di future sanzioni e il potenziale di sanzioni secondarie contro coloro che facilitano le attività di entità sotto sanzioni primarie. Benjamin Hilgenstock, economista della Kyiv School of Economics che ha analizzato i documenti vietnamiti per l’AP, ha spiegato che “se vuoi proteggerti da qualsiasi tipo di rischio, essenzialmente eviti le transazioni transfrontaliere e crei questi tipi di schemi di pagamento compensativi”.

La principale minaccia di sanzioni secondarie deriva dal Countering America’s Adversaries Through Sanctions Act (CAATSA), misure promulgate durante il primo mandato di Trump che consentono l’applicazione di sanzioni a paesi o individui impegnati in attività commerciali con il complesso militare-industriale russo. L’ambiguità che circonda queste minacce è particolarmente potente, portando aziende e nazioni a peccare per eccesso di prudenza.

La rivelazione di questo sistema di pagamenti arriva mentre le relazioni tra Vietnam e Stati Uniti attraversano una fase delicata. Il Vietnam ha storicamente mantenuto stretti legami con la Russia, particolarmente nel settore della difesa, dove Mosca rappresenta un fornitore chiave di equipaggiamenti militari. Tuttavia, Hanoi cerca contemporaneamente di bilanciare questa relazione con il desiderio di approfondire i rapporti economici e strategici con Washington.

I documenti rivelano che il sistema è stato concepito già nel marzo 2023, quando il Ministero delle Finanze vietnamita ha avvertito che le transazioni di armi con la Russia potrebbero scatenare sanzioni americane “a causa della continua pressione degli Stati Uniti sul Vietnam per passare all’acquisto di armamenti americani, minacciando di sanzionare il Vietnam sotto CAATSA se persiste nell’acquisire armi russe”.

Parallelamente, il documento suggeriva che gli Stati Uniti potrebbero essere persuasi a evitare di imporre sanzioni al Vietnam perché, tra altri fattori, “gli Stati Uniti apprezzano il ruolo del Vietnam nell’attuazione della strategia Indo-Pacifico” finalizzata a contrastare la crescente assertività della Cina. Questa considerazione geopolitica rappresenta un elemento chiave nella complessa equazione diplomatica che il Vietnam deve navigare.

L’efficacia di questo meccanismo finanziario riflette una tendenza più ampia nell’economia globale, dove sanzioni e controsanzioni stanno spingendo paesi e aziende a sviluppare sistemi di pagamento alternativi. Il caso Vietnam-Russia non è isolato: nel 2017, la Russia ha accettato di fornire undici caccia Sukhoi Su-35 all’Indonesia in cambio di olio di palma, caffè e altre materie prime, dimostrando la creatività di Mosca nell’aggirare le restrizioni finanziarie occidentali.

Le implicazioni di questo sistema si estendono oltre le relazioni bilaterali Vietnam-Russia. Il meccanismo rappresenta una sfida diretta all’efficacia delle sanzioni occidentali e evidenzia le limitazioni degli strumenti finanziari tradizionali per influenzare il comportamento statale. Mentre l’Occidente si affida sempre più alle sanzioni economiche come alternativa all’azione militare, paesi come Vietnam e Russia stanno dimostrando una notevole capacità di adattamento e innovazione finanziaria.

La scoperta di questo accordo solleva questioni significative sulla trasparenza finanziaria internazionale e sull’efficacia dei controlli anti-riciclaggio. Il fatto che profitti legittimi da joint venture energetiche possano essere utilizzati per mascherare transazioni militari evidenzia le vulnerabilità nei sistemi di monitoraggio finanziario globale. Questo caso potrebbe spingere regolatori e istituzioni finanziarie internazionali a rafforzare i meccanismi di controllo e a sviluppare nuovi strumenti per identificare schemi di pagamento compensativi.

Il coinvolgimento di Zarubezhneft nel meccanismo aggiunge un ulteriore livello di complessità. Sebbene l’azienda non sia attualmente soggetta a sanzioni imposte in seguito alle azioni della Russia in Ucraina, il suo CEO Sergei Kudashov è stato incluso in una serie di sanzioni contro il settore energetico russo annunciate a gennaio, poco prima dell’insediamento di Trump. Il presidente del consiglio di amministrazione di Zarubezhneft, Evgeny Zinichev, ex ufficiale dell’FSB, è stato anch’egli sanzionato dagli Stati Uniti nel 2014.

Il tempismo di questa rivelazione è particolarmente significativo. Trump ha recentemente emesso un ordine esecutivo che ha raddoppiato i dazi sulle importazioni dall’India al 50% nel tentativo di persuadere Nuova Delhi a cessare i suoi acquisti di petrolio e forniture militari russe. Contemporaneamente, l’Unione Europea ha imposto una nuova serie di sanzioni mirate ai ricavi petroliferi e alle forniture militari della Russia, incluso il divieto per 70 navi di una “flotta ombra” presumibilmente utilizzata per trasportare petrolio russo aggirando le sanzioni internazionali.

Questo sofisticato meccanismo finanziario evidenzia la crescente complessità dell’economia globale sotto sanzioni. Mentre le potenze occidentali continuano a sviluppare strumenti punitivi sempre più raffinati, paesi come Vietnam e Russia dimostrano una capacità altrettanto sofisticata di adattamento. Il caso rappresenta un esempio emblematico di come la geopolitica contemporanea stia ridisegnando i flussi finanziari globali, spingendo attori statali e non statali a innovare continuamente per navigare un panorama di sanzioni in costante evoluzione.