06 Novembre 2025
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Manovra 2025: il governo lavora all’Irpef più leggera

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La manovra economica 2025, al centro dell’agenda del governo italiano, si configura come uno degli interventi più notevoli degli ultimi anni per la sua portata e l’impatto diretto sui cittadini, sulle imprese e sull’intero tessuto socio-economico del Paese. Il dibattito politico che accompagna questa fase è serrato, con attori istituzionali e partitici che si confrontano sulle priorità e sulla fattibilità delle proposte in campo, tra cui spicca la tanto discussa revisione dell’Irpef, una misura fiscale che tocca le tasche di milioni di lavoratori e famiglie.

A partire dal 2025, la riforma dell’Irpef introduce una semplificazione storica nella struttura delle aliquote fiscali, che passano da quattro a tre scaglioni, allo scopo di rendere il sistema più equo e gestibile. Le nuove aliquote prevedono il 23% per i redditi fino a 28.000 euro, il 35% per quelli tra 28.001 e 50.000 euro e il 43% per redditi superiori a 50.000 euro. Questa modulazione punta a favorire in modo particolare la fascia medio-bassa, alleggerendo il carico fiscale su una platea che tradizionalmente ha sostenuto il maggior peso della tassazione diretta italiana.

La svolta non è solamente quantitativa, ma anche qualitativa. Con la manovra 2025 diventa strutturale il taglio del cuneo fiscale, un provvedimento che riduce la differenza tra quanto versato dal datore di lavoro e quanto effettivamente ricevuto in busta paga dal dipendente. Questa misura, che nelle intenzioni del governo dovrebbe estendersi stabilmente ai redditi fino a 40.000 euro, rappresenta una risposta concreta alle pressioni del mercato del lavoro e all’urgenza di rafforzare il potere d’acquisto delle famiglie italiane. Si prevede inoltre l’innalzamento della soglia per l’applicazione della flat tax al 15% sulle attività di lavoro autonomo, che sale da 30.000 a 35.000 euro, ampliando così la platea dei professionisti beneficiari della tassazione agevolata.

Non meno rilevante l’attenzione alle detrazioni e ai fringe benefit: il testo della legge di bilancio conferma la soglia di esenzione fiscale per i benefit aziendali a 1.000 euro per i lavoratori senza figli e 2.000 euro per quelli con figli, garanzia estesa per tutto il triennio 2025-2027. Questo dato sottolinea un intento molto chiaro di sostenere le famiglie, soprattutto quelle numerose o con figli a carico, alleviando il peso delle imposte sul reddito complessivo.

Il governo ha stanziato circa 30 miliardi di euro per l’attuazione della manovra, una cifra imponente che testimonia la volontà politica di investire in settori cruciali come il lavoro, la sanità, la natalità e la digitalizzazione. Il taglio dell’Irpef e la riduzione del cuneo fiscale rappresentano la quota più significativa delle risorse, mentre analoghi investimenti vengono destinati al rinnovo contrattuale del personale sanitario e agli incentivi per i nuovi nati o adottati. Il potenziamento dei servizi sanitari e il sostegno all’innovazione digitale, con interventi mirati sulle infrastrutture e sulle competenze, sono altri capisaldi di questa manovra che guarda al futuro.

La discussione sulle coperture, tuttavia, resta centrale. Il Ministero dell’Economia e delle Finanze si muove con cautela, vincolando ogni modifica alla verifica delle risorse disponibili, anche in virtù dei limiti posti dalle regole europee sul deficit e sul debito pubblico. Particolare attenzione è rivolta alle entrate provenienti dal concordato preventivo biennale, un patto tra contribuenti e Fisco che potrebbe offrire margini di manovra addizionali. Tuttavia, le risorse extra disponibili per eventuali ulteriori modifiche si fermano a soli 120 milioni di euro, evidenziando la difficoltà di introdurre cambiamenti non strettamente necessari.

La riduzione dell’aliquota del secondo scaglione (dal 35% al 33%) è la misura chiave sulla quale punta Forza Italia, con l’obiettivo dichiarato di restituire ossigeno al ceto medio. Questa proposta, dal costo complessivo stimato di 2,5 miliardi di euro, è oggetto di dibattito anche all’interno della maggioranza di governo: mentre la Lega insiste sulla riduzione del canone Rai, Forza Italia difende a spada tratta lo sconticino Irpef come leva per stimolare la crescita e il consumo. Per i leader centristi, si tratta di un intervento che può portare fino a 627 euro all’anno in più a favore delle famiglie interessate, garantendo un concreto sollievo fiscale.

Il coordinamento tra i partiti della coalizione di maggioranza è fondamentale. Durante gli incontri istituzionali, emerge una visione condivisa sull’opportunità di procedere con poche modifiche ben concordate, riducendo i rischi di tensioni interne e di proposte irrealizzabili senza copertura finanziaria. Il governo invita tutti a puntare sulle priorità individuate dal Tesoro, lasciando da parte idee di difficile attuazione come l’ulteriore riduzione del canone Rai o provvedimenti non allineati con le posizioni dell’intera compagine governativa.

Dal Festival dell’Economia di Trento, il viceministro del Tesoro Maurizio Leo ha rimarcato che la situazione del ceto medio è al centro delle politiche fiscali, riconoscendo pubblicamente come questa fascia stia vivendo una fase di progressivo impoverimento. Il taglio delle aliquote appare dunque non solo una scelta di giustizia sociale, ma anche un atto strategico per rilanciare i consumi interni e sostenere la crescita economica nazionale dopo anni di andamenti altalenanti.

Accanto alle misure per il lavoro e la riduzione delle imposte, la manovra introduce anche innovazioni significative sul fronte della natalità e della digitalizzazione. Nuovi contributi una tantum per i figli nati o adottati, il sostegno alle famiglie numerose e investimenti consistenti nel settore digitale testimoniano una visione che non si limita all’immediato, ma pone le basi per un Paese più efficiente e competitivo nel lungo periodo.

La dimensione parlamentare della legge di bilancio resta incerta. Ogni anno il provvedimento deve essere approvato entro la fine di dicembre: eventuali ritardi pongono il rischio di esercizio provvisorio, limitando le possibilità di manovra alle mere spese ordinarie. Nel 2025, il Senato ha approvato la legge con 108 voti favorevoli, 63 contrari e un solo astenuto, dimostrando una larga convergenza sulle linee guida tracciate dal governo. L’Articolo 81 della Costituzione garantisce che non possano essere introdotte nuove spese e tributi senza adeguate coperture, rafforzando la responsabilità istituzionale nella gestione delle risorse pubbliche.

Un ulteriore punto di attenzione riguarda la rimodulazione dell’Iva nelle compravendite di opere d’arte, che rimane a quota 22% rispetto al 5% degli altri Paesi europei, ponendo ancora una sfida competitiva per il settore culturale italiano. Sul fronte delle imposte dirette, la norma sugli acconti Irpef è stata corretta, nell’ottica di una maggiore tutela dei contribuenti e di una programmazione più attenta delle entrate fiscali.

Anche la riforma sul Trattamento di fine rapporto (Tfr) assume un ruolo rilevante, con la riapertura del semestre di silenzio-assenso per il conferimento alla previdenza complementare. Tuttavia, la questione delle coperture crea ancora qualche difficoltà, in quanto toglierebbe risorse al fondo Inps, fondamentale per la gestione delle pensioni future. La tematica delle risorse è trasversale: il tesoretto disponibile per le modifiche parlamentari rimane esiguo, e le richieste dei partiti sono destinate a essere sottoposte a una rigorosa selezione.

Tutti questi elementi concorrono a delineare una stagione di riforme che, pur tra compromessi e trattative serrate, segna un passo avanti verso una maggiore semplicità e trasparenza del sistema fiscale italiano. La riduzione delle aliquote, la strutturalità degli interventi sul lavoro e l’attenzione alla digitalizzazione e alle politiche per la natalità rivelano un quadro strategico volto a dare risposte ai cittadini e alle imprese.

La manovra 2025 si interroga e agisce sulle leve fondamentali della ripresa nazionale, scegliendo la chiarezza, la responsabilità e il coraggio riformatore come strumenti per affrontare le sfide di una stagione complessa e per restituire fiducia nell’opera delle istituzioni. In una fase storica segnata da incertezze economiche e tensioni geopolitiche, l’Italia mostra la volontà di puntare su inclusione, innovazione e buon governo, rinnovando il patto sociale tra Stato e cittadini.

Il Vertice di Anchorage 2025: e adesso?

Il 15 agosto 2025, il mondo ha assistito a uno degli eventi diplomatici più significativi degli ultimi anni: l’incontro tra il Presidente americano Donald Trump e quello russo Vladimir Putin ad Anchorage, in Alaska. Questo vertice, il primo tra i due leader dal 2019 e il primo faccia a faccia dalla ripresa della guerra in Ucraina nel 2022, si è concluso senza accordi concreti ma ha segnato un momento di svolta nelle dinamiche geopolitiche internazionali.

L’isolamento di Putin

L’incontro di Anchorage ha rappresentato una rottura drammatica con l’isolamento diplomatico di Putin seguito all’invasione su larga scala dell’Ucraina. Per la prima volta dal febbraio 2022, Putin ha ricevuto un’accoglienza formale su territorio occidentale, con tanto di tappeto rosso e sorvolo di caccia F-22 e bombardieri B-2 stealth americani. La scelta dell’Alaska come sede dell’incontro non è stata casuale: questo territorio, venduto dalla Russia agli Stati Uniti nel 1867, offriva diversi vantaggi strategici tra cui la posizione geografica intermedia tra le due capitali, il fatto che gli Stati Uniti non fanno parte della Corte Penale Internazionale evitando così l’esecuzione del mandato d’arresto contro Putin, e il significato storico delle relazioni russo-americane.

Il vertice è stato il culmine di mesi di intense negoziazioni diplomatiche iniziate dopo la rielezione di Trump nel 2024, quando aveva promesso di porre fine alla guerra ucraina entro il primo giorno di mandato. Una sorprendente telefonata tra Trump e Putin a febbraio 2025 aveva avviato le prime negoziazioni dirette tra Russia e Stati Uniti dall’inizio dell’invasione, seguita dall’incontro tra il Segretario di Stato americano Marco Rubio e il Ministro degli Esteri russo Sergey Lavrov in Arabia Saudita. Tuttavia, i tentativi di organizzare colloqui diretti tra Putin e Zelensky a Istanbul erano falliti quando il leader russo non si era presentato.

Lo svolgimento del vertice e i risultati

L’incontro è iniziato alle 11:32 ora locale dell’Alaska e si è concluso alle 14:18, durando quindi quasi tre ore. Contrariamente alle aspettative iniziali di un incontro uno-contro-uno, entrambi i leader erano accompagnati dalle loro delegazioni: Trump da Marco Rubio e Steve Witkoff, Putin da Yuri Ushakov e Sergey Lavrov. L’atmosfera cordiale è stata evidente fin dall’arrivo: Putin e Trump sono scesi dai loro aerei quasi contemporaneamente alle 11:08, si sono stretti la mano sul tappeto rosso davanti al cartello “ALASKA 2025” e hanno posato per le foto mentre i caccia americani sorvolavano la base. Un gesto simbolicamente significativo è stato quello di Putin che ha accettato l’invito di Trump a viaggiare insieme nella limousine presidenziale blindata, rinunciando alla sua Aurus di servizio.

Durante la conferenza stampa conclusiva, iniziata alle 14:58, Putin ha parlato per primo per circa otto minuti, descrivendo i negoziati come tenuti in “un’atmosfera costruttiva di rispetto reciproco”. Ha sottolineato la vicinanza geografica tra i due paesi e ha riconosciuto la necessità di garantire la sicurezza dell’Ucraina, pur insistendo sulla necessità di affrontare le “cause profonde” del conflitto. Trump, apparso insolitamente contenuto, ha parlato per soli due minuti, affermando che erano stati raggiunti accordi su “molti punti” ma riconoscendo che rimanevano alcune questioni irrisolte, inclusa una “significativa”. La sua dichiarazione “non c’è accordo finché non c’è un accordo” ha sintetizzato l’esito inconcludente del vertice.

Un elemento cruciale emerso dopo l’incontro è stato il cambio di posizione di Trump riguardo alla strategia per porre fine al conflitto. Mentre prima del vertice aveva sostenuto la necessità di un cessate il fuoco immediato, dopo aver parlato con Putin ha dichiarato su Truth Social che “il modo migliore per porre fine alla guerra orribile tra Russia e Ucraina è andare direttamente a un Accordo di Pace, che porrebbe fine alla guerra, e non a un mero Accordo di Cessate il Fuoco, che spesso non regge”. Secondo la Premier italiana Giorgia Meloni, Trump aveva evidenziato una proposta italiana ispirata all’Articolo 5 della NATO per fornire garanzie di sicurezza collettiva all’Ucraina, un meccanismo che permetterebbe all’Ucraina di beneficiare del supporto di tutti i suoi partner pronti ad agire in caso di nuovo attacco.

In un’intervista post-vertice con Fox News, Trump ha rivelato che lui e Putin avevano “largamente concordato” su scambi territoriali e garanzie di sicurezza per l’Ucraina. Tuttavia, ha enfatizzato che “l’Ucraina deve essere d’accordo” e ha consigliato al Presidente Zelensky di “fare un accordo”, sottolineando che “la Russia è una grande potenza, e loro non lo sono”.

Le reazioni Internazionali e le implicazioni geopolitiche

La reazione europea al vertice è stata largamente negativa. Il diplomatico tedesco Wolfgang Ischinger ha scritto su X: “Putin ha ottenuto il suo trattamento da tappeto rosso con Trump, Trump non ha ottenuto nulla… nessun cessate il fuoco, nessuna pace. Nessun vero progresso – chiaramente 1:0 per Putin”. I leader europei hanno rilasciato una dichiarazione congiunta dopo essere stati informati da Trump sui suoi colloqui con Putin, ribadendo il loro impegno a continuare il sostegno all’Ucraina e mantenere la pressione sulla Russia. La dichiarazione, firmata da Merz, Macron, Starmer, Meloni e altri, ha enfatizzato che “sarà l’Ucraina a decidere del destino del suo territorio” e che “i confini non dovrebbero essere alterati attraverso la forza”.

Il Presidente ucraino Volodymyr Zelensky, escluso dal vertice di Anchorage, ha annunciato che si recherà a Washington lunedì 18 agosto per incontrare Trump e “discutere tutti i dettagli riguardo al porre fine alle uccisioni e alla guerra”. Zelensky ha sottolineato l’importanza che “gli europei siano coinvolti in ogni fase per garantire garanzie di sicurezza affidabili insieme all’America”. La reazione ucraina all’accoglienza riservata a Putin è stata particolarmente critica, con l’analista politico ucraino Volodymyr Fesenko che ha descritto l’evento come “la legittimazione di un criminale di guerra al più alto livello”, criticando l’eccessiva pompa riservata a Putin.

Il vertice di Anchorage ha segnato il ritorno clamoroso di Putin nell’arena diplomatica internazionale dopo anni di isolamento. L’accoglienza formale ricevuta dagli Stati Uniti ha inviato un segnale potente alla comunità internazionale, minando gli sforzi per mantenere l’isolamento diplomatico della Russia. Il gesto simbolico più significativo è stato quando Putin è entrato nella limousine presidenziale di Trump, un evento celebrato dalla televisione di stato russa come una “stretta di mano storica”. Questo momento ha rappresentato visivamente il ritorno della Russia al tavolo delle grandi potenze.

Durante il vertice, i combattimenti in Ucraina sono continuati senza sosta, con le forze russe che hanno intensificato gli attacchi nella regione di Donetsk, mirando alla città strategica di Pokrovsk. La Russia ha condotto attacchi con droni e missili proprio nelle ore precedenti e durante il vertice, con il Presidente Zelensky che ha condannato Mosca per aver continuato gli attacchi proprio nel giorno dei negoziati: “Il giorno dei negoziati hanno anche ucciso persone. E questo la dice lunga”. Questa continuazione delle ostilità ha sottolineato la determinazione russa a mantenere la pressione militare anche durante i tentativi diplomatici.

Il vertice ha evidenziato le crescenti divergenze tra gli approcci americano ed europeo al conflitto ucraino. Mentre gli europei continuano a insistere su un cessate il fuoco come prerequisito per i negoziati di pace, Trump sembra aver adottato la posizione russa di procedere direttamente verso un accordo di pace comprensivo. Questa divergenza ha creato preoccupazioni in Europa sulla solidità dell’alleanza transatlantica e sulla determinazione americana a sostenere l’Ucraina nel lungo termine, con gli analisti europei che temono che Trump possa essere stato influenzato dalla narrativa di Putin durante i loro colloqui privati.

Trump ha indicato la possibilità di un futuro incontro trilaterale che includerebbe anche Zelensky, affermando che “entrambi mi vogliono lì”. Tuttavia, Putin ha suggerito scherzosamente “la prossima volta a Mosca”, una proposta che escluderebbe de facto la partecipazione ucraina. Il Cremlino ha rapidamente gettato acqua fredda sulla possibilità di un incontro Putin-Zelensky, con l’advisor per la politica estera Yuri Ushakov che ha dichiarato che l’argomento “non è stato ancora toccato”.

Il vertice di Anchorage del 15 agosto 2025 rimarrà nella storia come un momento di svolta nelle relazioni internazionali, anche se non per i risultati concreti raggiunti. L’incontro ha rappresentato una vittoria diplomatica significativa per Putin, che è riuscito a rompere il suo isolamento internazionale e a ottenere una piattaforma di prestigio per presentare le sue posizioni. Per Trump, il vertice ha rappresentato sia un’opportunità che un rischio: pur dimostrando la sua volontà di impegnarsi personalmente nella risoluzione del conflitto ucraino, il Presidente americano non è riuscito a ottenere concessioni significative da Putin e ha dovuto affrontare critiche per aver accordato eccessiva legittimità al leader russo.

Il fallimento del vertice nel produrre accordi concreti solleva interrogativi sulla fattibilità del processo di pace immaginato da Trump. Putin continua a mantenere le sue posizioni massimaliste, richiedendo il riconoscimento dell’annessione dei territori ucraini e la neutralità permanente dell’Ucraina, mentre l’Ucraina e i suoi alleati europei insistono su garanzie di sicurezza robuste e sul rifiuto di riconoscere qualsiasi annessione territoriale. L’Europa e l’Ucraina si trovano ora di fronte alla sfida di mantenere la coesione occidentale mentre Trump sembra sempre più incline ad adottare un approccio che privilegi i rapporti bilaterali con la Russia rispetto alla solidarietà atlantica. Il prossimo incontro tra Trump e Zelensky a Washington sarà cruciale per determinare se sarà possibile riconciliare le visioni divergenti su come porre fine al conflitto più devastante in Europa dalla Seconda Guerra Mondiale, in un contesto dove le posizioni fondamentali delle parti rimangono sostanzialmente immutate nonostante tre anni e mezzo di guerra.

Le verità nascoste del summit tra Trump e Putin sull’Ucraina

Nel contesto globale attuale, dove le sorti dell’Ucraina continuano a essere al centro di tensioni internazionali, emergono nuovi dettagli sulla strategia degli Stati Uniti e sulle mosse di Mosca che rivelano fragilità, ambizioni e giochi di potere che vanno ben oltre le dichiarazioni ufficiali. Mentre Donald Trump prepara il vertice con Vladimir Putin, circolano indiscrezioni sulle condizioni che la Russia intende porre per uno scenario di pace, con il Donetsk come punto centrale delle trattative. Secondo alcuni analisti, Putin avrebbe rilassato le sue pretese territoriali rispetto ai mesi precedenti, passando dalla richiesta di quattro regioni ucraine alla concentrazione su una sola area, segnalando possibili spiragli di dialogo ma anche l’assenza di vere concessioni.

L’assenza di Volodymyr Zelensky al summit di Alaska si profila come uno degli elementi più controversi. Pur non essendo ufficialmente escluso, la Casa Bianca ha precisato che il vertice nasce come bilaterale tra Stati Uniti e Russia, lasciando la decisione sull’eventuale coinvolgimento ucraino a una fase successiva. Zelensky, tuttavia, ha dichiarato che qualsiasi accordo siglato senza la presenza dell’Ucraina sarebbe «privo di significato» e che il suo governo non accetterà in nessun caso cessioni territoriali imposte dall’esterno. Nel frattempo, europarlamentari e ministri europei hanno ribadito che “la strada verso la pace non può passare sopra la testa dell’Ucraina”, evidenziando il rischio che le trattative possano favorire le ambizioni di Mosca invece di una pace equa.

La posizione degli Stati Uniti appare sempre più ambivalente. Da un lato, Trump insiste sulla necessità di «recuperare territorio per l’Ucraina» e promette di condividere eventuali proposte “fair” di Putin con i leader europei e con lo stesso Zelensky. Dall’altro, la recente decisione di Washington di opporsi a una risoluzione ONU che condanna l’aggressione russa, scegliendo piuttosto di promuovere un testo più neutro, ha generato un solco profondo con le posizioni europee. Esperti di geopolitica sottolineano come questa svolta sia “senza precedenti” e indichi un riposizionamento strategico statunitense che, sebbene motivato dal desiderio di chiudere rapidamente il conflitto, potrebbe minare la coesione del blocco euro-atlantico.

Ad aumentare la pressione sulla diplomazia internazionale intervengono anche questioni di sicurezza energetica e militare: la Russia, grazie ai propri successi sul campo e alla resistenza ucraina messa a dura prova dalle offensive missilistiche e droni, punta a consolidare un “buffer zone” in alcune aree chiave e a mantenere la propria influenza impedendo all’Ucraina di entrare stabilmente nella NATO. Putin sa che il tempo gioca a suo favore: la stanchezza europea, le divisioni interne e il timore di una escalation nucleare rendono difficile individuare misure efficaci che non siano solo sanzioni economiche o sostegno militare indiretto.

Cresce anche il timore, in Europa, che Trump possa essere tentato da un “grande accordo” con Putin, capace di chiudere le ostilità ma sacrificando la sovranità ucraina e la sicurezza europea. Le capitali del vecchio continente hanno intensificato i contatti tra loro e con la Casa Bianca per influenzare la posizione americana prima del summit: solo la Polonia, paese notoriamente vicino a Kiev, ha ottenuto rassicurazioni sulla consultazione con gli alleati europei. Ma la voce ufficiale dell’UE (ad eccezione dell’Ungheria) resta netta: «le frontiere internazionali non devono essere cambiate dalla forza».

Un altro elemento cruciale riguarda l’efficacia della strategia americana degli ultimi anni. Diversi analisti ritengono che, pur evitando un conflitto diretto con Mosca, gli Stati Uniti non siano riusciti a impedire il consolidamento delle posizioni russe né a offrire adeguate garanzie di sicurezza a Kiev. Il rischio di una pace “compromessa”, che possa essere imposta anziché negoziata, pesa come una minaccia sulle future relazioni tra Occidente e Russia.

Sul fronte ucraino, la società civile e la classe dirigente guardano con realismo e molta cautela agli sviluppi. La memoria storica di accordi come quello di Monaco del 1938, che portò a sacrificare i territori di una piccola democrazia europea per la pace con una grande potenza autoritaria, accompagna le paure di oggi. Non manca il sospetto che la diplomazia russa possa “ingannare” Trump, sfruttando le divisioni occidentali e la pressione per una soluzione rapida per ottenere il massimo vantaggio strategico in Crimea e Donbass.

Di fronte a queste manovre, gli osservatori sottolineano la necessità di un coinvolgimento costante di tutte le parti interessate, in primis Ucraina e Unione Europea, per evitare accordi imposti e per ristabilire la centralità del diritto internazionale. Le istituzioni europee ribadiscono la volontà di sostenere Kiev politicamente, militarmente e finanziariamente, anche paventando nuove aperture sul percorso di adesione all’UE per l’Ucraina. Ma, al tempo stesso, cresce la consapevolezza che senza una vera unità e senza pressioni efficaci su Mosca, la pace rischia di restare un obiettivo lontano.

Il summit tra Trump e Putin in Alaska segna quindi una fase cruciale: rappresenta una mossa diplomatica che può ridisegnare gli equilibri globali, ma porta con sé l’ombra di concessioni che potrebbero minare le fondamenta dell’ordine europeo e le speranze di autonomia dell’Ucraina. La posta in gioco è altissima: il futuro dei confini, delle alleanze e della stessa idea di una Europa unita nella difesa dei propri valori e della legalità.

Salis felice dell’accordo con Salvini: non dobbiamo ridare i 25 milioni. Cancellato il finanziamento di 398 milioni

Le ultime evoluzioni sullo Skymetro di Genova segnano una svolta decisiva nell’annosa vicenda della mobilità in Val Bisagno. Il 6 agosto 2025, nella sede del Ministero delle Infrastrutture e dei Trasporti a Roma, la sindaca Silvia Salis ha incontrato il ministro Matteo Salvini per discutere il destino del tanto dibattuto progetto dello Skymetro. Al centro del confronto si è trovato soprattutto il nodo economico: la sorte dei 398 milioni di euro destinati al progetto originario e dei 19 milioni già spesi negli anni passati tra progettazioni, revisioni e studi tecnici. Negli ultimi mesi, le tensioni tra il Comune ora guidato dal centrosinistra, e il MIT si sono polarizzate sul futuro stesso dell’intervento, con la sindaca e la sua squadra apertamente contrari alla realizzazione dell’opera così come concepita dalla precedente amministrazione.

L’incontro di Roma ha avuto il pregio di chiarire in maniera definitiva la questione dei fondi spesi. Secondo quanto riportato dalle principali testate locali a margine dell’incontro, è stato stabilito che “le risorse già utilizzate per lo Skymetro non dovranno essere restituite”. Si tratta di circa 19 milioni impiegati in tre anni di lavoro e quattro diversi progetti, tutti necessari per rispondere alle richieste del Consiglio superiore dei lavori pubblici e del MIT stesso. Per un Comune alle prese con la difficile gestione del bilancio, questa notizia ha peso strategico: le casse di Palazzo Tursi potranno contare almeno su questo “tesoretto risparmiato”, fondamentale nei delicati equilibri economici delle società partecipate e dei futuri interventi pubblici.

CANCELLATO IL FINANZIAMENTO
DI 398 MILIONi?

Tuttavia, la partita più grande resta aperta: Genova rischia ancora di perdere i 398 milioni di euro che lo Stato aveva stanziato per il progetto dello Skymetro, soldi ora vincolati esclusivamente a questa infrastruttura e che non potranno essere, se confermata la rinuncia, riallocati su proposte diverse. Il MIT lo ha ribadito con fermezza già alla vigilia del vertice: se il nuovo esecutivo comunale non cambierà posizione, i fondi saranno revocati e destinati ad altri progetti in attesa di finanziamenti in tutta Italia. Dal governo centrale, la linea resta dura: “Dopo più di tre anni di lavoro e soldi messi a disposizione, si legge nella nota ministeriale, il Comune ha espresso la volontà di non realizzare lo Skymetro, fermo restando che ha tempo fino al 31 dicembre 2025 per sottoscrivere il contratto di appalto. Se la scelta sarà confermata, i fondi saranno revocati anche per soddisfare altre richieste”.

La sindaca Salis, da parte sua, ha espresso soddisfazione solo parziale: rassicurata dal non dover restituire le somme già investite, ha però posto l’accento sulla necessità “di partecipare al prossimo avviso pubblico per presentare un progetto alternativo per la Val Bisagno”. L’obiettivo del Comune è proporre al MIT un sistema di mobilità moderno e rapido, ma meno impattante dell’ormai contestato Skymetro. Tra le ipotesi sul tavolo, si parla del prolungamento della metropolitana cittadina in sotterranea fino a piazzale Parenzo, con stazioni intermedie in quartieri strategici come Terralba e Marassi. Le difficoltà tecniche non mancano, sia per le complessità di scavo sia per le necessità di soddisfare allo stesso tempo esigenze di rapidità e non invasività178.

Il confronto Salvini-Salis si inserisce in un più ampio ripensamento delle politiche infrastrutturali della città, in una fase in cui l’amministrazione vuole ridefinire le priorità anche rispetto ad altri dossier cruciali come la nuova diga del porto e il tunnel subportuale, fondamentale per la logistica urbana. Il ministro Salvini ha ribadito l’impegno a seguire con attenzione questi capitoli, annunciando l’apertura di tavoli tecnici condivisi tra tutti i soggetti coinvolti, allo scopo di rafforzare il dialogo istituzionale e non lasciare indietro nessuna delle opere considerate strategiche per Genova e la Liguria24.

Il dibattito sulla metro leggera sopraelevata che avrebbe collegato Brignole alla Val Bisagno prosegue con toni accesi anche sul versante politico. La Lega accusa il centrosinistra di voler “cancellare un’opera attesa da anni, progettata e già finanziata”, mentre il Partito Democratico ribatte sulle modalità di gestione del dossier da parte del MIT, parlando di un’impostazione “ricattatoria e poco collaborativa”, che non favorirebbe la costruzione di infrastrutture realmente utili e condivise dalla città. L’aspetto più concreto resta comunque il vincolo giuridico delle risorse statali: solo proposte specificamente mirate all’obiettivo di trasporto rapido di massa in Val Bisagno potranno godere di continuità nella copertura finanziaria. Per il Comune, la sfida ora sarà presentare entro il 2026 un progetto definitivo e convincente che rispetti le regole di ammissibilità imposte dal ministero63.

L’appuntamento romano tra Salvini e Salis, quindi, non scioglie tutti i nodi, ma fissa un punto fermo nella controversia: i 19 milioni già spesi non vanno restituiti; per il futuro della mobilità genovese, invece, si apre una nuova fase progettuale che si giocherà sia sui tavoli istituzionali che nel consenso cittadino. In questo clima di attesa, resta chiara la volontà della nuova amministrazione di non sprecare le opportunità offerte dagli ingenti finanziamenti statali, ma di volerne ridefinire le modalità di spesa per garantire opere più sostenibili e meno impattanti sul territorio.

Le prossime settimane saranno cruciali per definire la rotta strategica della città, tra la necessità di non perdere finanziamenti preziosi e l’intenzione politica di proporre un modello di trasporto urbano più innovativo, sostenibile e integrato con la realtà locale. L’attenzione resta quindi tutta puntata su Palazzo Tursi e sul Ministero delle Infrastrutture, a cui spetta il compito non solo di vigilare sulla regolarità delle procedure, ma anche di promuovere un vero dialogo istituzionale che metta al centro l’interesse della comunità genovese.

Data Breach 2025: perché la sicurezza digitale è la nuova sfida di sopravvivenza per le imprese

Nel 2025 il panorama della sicurezza informatica si presenta ancora denso di minacce e complessità crescenti, in grado di impattare profondamente sia sulle grandi aziende sia sulle piccole imprese. L’evoluzione degli attacchi e il costante perfezionamento delle tecniche di cybercrime impongono nuovi standard di resilienza e innovazione nei processi di difesa. Tuttavia, la capacità di reazione e adattamento delle organizzazioni non è omogenea. Se da un lato molte grandi aziende sono riuscite a sfruttare i progressi dell’automazione e dell’intelligenza artificiale per contenere, almeno in parte, i danni derivanti da un data breach, le piccole imprese devono ancora fronteggiare pesanti difficoltà, sia economiche che reputazionali.

Il costo medio globale di una violazione di dati nel 2025 è sceso a 4,44 milioni di dollari, registrando un calo del 9% rispetto all’anno precedente. Questo risultato è in larga parte dovuto all’adozione sempre più capillare di tecnologie avanzate, come i sistemi di rilevamento automatizzati e le piattaforme di intelligenza artificiale. Gli algoritmi AI favoriscono una riduzione drastica dei tempi necessari a individuare e contenere una minaccia, permettendo alle aziende di arginare in modo tempestivo il rischio di dispersione dei dati e di conseguenti danni finanziari. Eppure, dietro questa apparente inversione di tendenza, si cela un dato che alimenta preoccupazione: negli Stati Uniti, uno degli epicentri delle attività criminali online, il costo medio per violazione è salito a 10,2 milioni di dollari. Tale dato evidenzia la complessità normativa del contesto USA e l’elevata sensibilità in tema di dati personali, che contribuiscono a gonfiare la spesa legata a sanzioni, controversie legali e recupero reputazionale.

Le grandi aziende vivono sulla propria pelle il prezzo altissimo delle interruzioni di servizio, delle sanzioni imposte dagli enti regolatori e della perdita di fiducia da parte dei clienti. Il caso emblematico di Marks & Spencer, colpita da un massiccio data breach quest’anno, offre uno spaccato eloquente di come una violazione possa paralizzare l’operatività per oltre 72 ore, generando danni stimati oltre 300 milioni di sterline tra rallentamento delle attività, costi derivanti dal ripristino dei sistemi e oneri derivanti dal risarcimento alle vittime. La pressione è tale da spingere molte realtà aziendali a innalzare ulteriormente il livello degli investimenti in prevenzione e formazione.

Sul versante delle piccole imprese la fotografia è ancora più impietosa. Il 43% degli attacchi informatici registrati a livello globale prende di mira proprio le PMI, in quanto percepite come un bersaglio facile a causa di sistemi di protezione meno sofisticati. Nel 2025, il costo medio di una violazione per una piccola impresa oscilla tra 120.000 e 1,24 milioni di dollari. All’interno di questa fascia si celano spese legali, interruzione di fatturato, recupero delle infrastrutture digitali, incremento dei premi assicurativi e penali dovute alla mancata conformità a regolamenti stringenti. Ma ciò che lascia il segno più profondo è la difficoltà a rialzarsi dopo un cyberattacco: il 60% delle piccole imprese che subisce un data breach chiude i battenti entro sei mesi dall’incidente, non riuscendo a far fronte alle perdite e alla fuga della clientela. Il tema della sfiducia è centrale: quasi il 29% delle PMI colpite subisce la perdita permanente di clienti, incapaci di ripristinare la credibilità e la sicurezza percepita.

A rendere ancora più complesso il quadro interviene l’impennata dei ransomware, veri protagonisti dell’anno: nel 2025 il riscatto medio richiesto tramite ransomware si è attestato sui 35.000 dollari per singolo caso, una cifra che può aumentare enormemente nei casi di PMI operate in settori strategici o con scarsa cultura della protezione digitale. Non sono da meno le frodi e le truffe da phishing, che superano i 70.000 dollari di danni medi per evento e minacciano in modo particolare i comparti meno digitalizzati.

Il cybercrime nel suo complesso viene valutato in oltre 10.500 miliardi di dollari di danni annuali entro la fine dell’anno, segnando un nuovo record negativo e alimentando timori di “pandemia digitale”. Eppure, le stesse tecnologie avanzate che favoriscono la velocizzazione dei processi aziendali si stanno rivelando la chiave per arginare le minacce: l’adozione diffusa di piattaforme di intelligenza artificiale, in particolare da parte delle grandi aziende, permette una riduzione media di 1,9 milioni di dollari per ogni violazione, grazie alla rapidità nella risposta e nella gestione proattiva degli incidenti.

Questa curva di apprendimento dichiara però un divario crescente tra le grandi aziende, in grado di puntare su investimenti continui nell’automazione, e il mondo delle piccole imprese, costretto a compiere scelte spesso dettate dalla scarsità di budget e dall’assenza di risorse umane specializzate. Ne deriva una sorta di “digital divide” della sicurezza: le big corporate iniziano a mostrare segnali di resilienza e di ritorno verso la normalità dopo un incidente, mentre le piccole fanno i conti con la fragilità dei processi e dei bilanci.

Ma anche in un contesto così polarizzato, non mancano segnali incoraggianti. Gli investimenti in soluzioni di cybersecurity “as-a-service” risultano essere una valida alternativa per le PMI, che possono così accedere a sistemi di protezione avanzati senza dover sostenere oneri insostenibili. La collaborazione fra imprese, la formazione obbligatoria del personale e la crescita delle startup specializzate nella cyber difesa stanno generando nuove opportunità di resilienza per l’intero tessuto economico.

Il 2025 si configura dunque come un anno di svolta: se da un lato l’emergenza cyber aumenta in sofisticazione e volume di attacchi, dall’altro si affina la strategia di protezione, rendendo più accessibili tecnologie e servizi in grado di mitigare i rischi. La prevenzione resta la parola d’ordine assoluta per tutti: non esistono organizzazioni davvero immuni, ma la capacità di prevedere, rilevare e rispondere in tempi rapidi può fare la differenza fra crescita e fallimento. L’impatto dei data breach non è solo una questione di numeri, sanzioni e costi diretti, ma determina un valore immateriale – la fiducia – ormai fondamentale quanto i capitali finanziari e le tecnologie di punta.

Guerra Silenziosa: Stati Uniti e Cina si sfidano ogni giorno nella cyberwar globale

La cyberwar tra Stati Uniti e Cina è ormai divenuta la nuova frontiera della tensione geopolitica globale. Oggi, lo scontro digitale tra queste due superpotenze non conosce pause né tregue, manifestandosi attraverso una serie di attacchi mirati, sofisticati e in larga parte invisibili agli occhi dell’opinione pubblica. La relazione tra Washington e Pechino, già marcata da sfiducia e sospetto sul piano economico e militare, si declina in modo ancor più insidioso nel cyberspazio, dove armi, confini e regole appaiono sempre più sfumati.

Nel corso del 2025 lo scenario si è ulteriormente aggravato: gli Stati Uniti hanno subito una delle offensive informatiche più complesse di sempre, con attacchi che hanno colpito agenzie federali, aziende strategiche e infrastrutture critiche. Il crescendo di sofisticazione di tali operazioni, attribuite a gruppi legati al Ministero della Sicurezza di Stato cinese, ha costretto società come Microsoft a rilasciare patch d’emergenza, mentre il governo statunitense ha elevato il livello di allerta ai massimi storici. Ciò che emerge è un quadro di guerra non dichiarata, ma combattuta ogni giorno dietro le quinte della trasformazione digitale, così come evidenziato dalle analisi di settore.

I cyberattacchi cinesi non si limitano più a finalità di spionaggio industriale, ma hanno assunto una dimensione strategica e apertamente ostile. Gli hacker operano non solo per raccogliere informazioni preziose sulle tecnologie, ma anche per preparare il sabotaggio delle reti elettriche, idriche, dei trasporti e delle comunicazioni, ovvero di quei nodi vitali che in caso di escalation potrebbero essere paralizzati con conseguenze drammatiche per la sicurezza nazionale statunitense. Negli ultimi mesi, specificamente i gruppi identificati con i nomi Apt31, RedBravo e Gallium sono stati protagonisti di campagne di infiltrazione che hanno preso di mira asset strategici, utilizzando malware progettati per restare nascosti a lungo all’interno delle reti colpite.

Il governo cinese, dal canto suo, adotta una posizione ufficiale di smentita, bollando le accuse americane come propaganda e negando qualsiasi coinvolgimento diretto nelle operazioni ostili. Eppure, documenti riservati e rapporti di intelligence pubblicati dai media dimostrano una crescita esponenziale nelle capacità di penetrazione e nei livelli di sofisticazione degli attacchi cibernetici collegati a gruppi che agiscono nell’orbita di Pechino. L’obiettivo di fondo sarebbe il cosiddetto “preposizionamento”: ovvero agire con largo anticipo, occupando silenziosamente spazi digitali strategici e lasciando “porte aperte” nelle infrastrutture critiche degli avversari. In tale ottica, la minaccia non è solo immediata ma latente, pronta a tradursi in sabotaggio o blackout nel momento in cui la tensione internazionale lo rendesse opportuno.

Anche il versante americano non resta a guardare. Sebbene la narrazione dominante sia quella della difesa e della risposta agli attacchi nemici, gli Stati Uniti sono storicamente tra i protagonisti delle offensive digitali a livello mondiale, disponendo a loro volta di capacità di cyberwar tra le più avanzate che il pianeta conosca. Eppure, di fronte alla crescente pressione degli attori cinesi, Washington si trova costretta a una corsa affannosa per colmare le proprie vulnerabilità: le recenti riforme della Casa Bianca, gli investimenti sulle difese critiche e le direttive ai principali colossi tecnologici dimostrano che la sicurezza nel cyberspazio è ormai considerata una delle priorità della strategia nazionale.

Uno degli aspetti più allarmanti è la cosiddetta “normalizzazione del cyberattacco”. La guerra digitale tra Stati Uniti e Cina, infatti, non appare più come un’eccezione, ma come uno stato permanente di conflitto a bassa intensità. Gli attacchi si susseguono a cadenza settimanale: database di agenzie federali statunitensi violati, software compromessi e reti di aziende leader nel settore della difesa costrette a continui aggiornamenti di emergenza. Se fino a pochi anni fa si parlava genericamente di cyber spionaggio, oggi la posta in gioco è il controllo delle infrastrutture essenziali – ma anche della narrazione pubblica e delle percezioni dell’opinione pubblica, dato che la disinformazione orchestrata tramite campagne digitali sta diventando parte integrante della strategia di guerra informatica.

Le principali tecniche di attacco comprendono l’exploitation di vulnerabilità zero-day, phishing altamente mirato verso personale strategico, creazione di backdoor difficilmente individuabili e malware personalizzati capaci di eludere i sistemi di difesa tradizionali. L’obiettivo è sempre più spesso quello di ottenere accesso prolungato ai sistemi compromessi, per potervi rimanere all’interno anche per anni, aspettando il momento più opportuno per colpire con la massima efficacia. Gli esperti sottolineano come la componente principale della dottrina cinese sia la pazienza: non agire solo per causare danno nell’immediato, ma per costruire le condizioni di un intervento potenzialmente devastante su scala ampia.

La minaccia si estende inoltre a nuove frontiere, quali i cavi sottomarini per le comunicazioni, le reti 5G e l’intelligenza artificiale. Gli Stati Uniti sospettano che la penetrazione della tecnologia cinese nei network di nuova generazione possa rappresentare il “cavallo di Troia” per l’infiltrazione di massa o per la raccolta di informazioni su larga scala. Il tema del controllo delle infrastrutture digitali di nuova generazione, così come la difesa dei segreti industriali dei colossi tecnologici, e la salvaguardia delle reti di comando e controllo militare, rappresentano oggi il principale campo di battaglia nel cyberspazio.

Ma la cyberwar non produce solo danni digitali. La sua conseguenza più temibile è il rischio di escalation e di “aggancio” con crisi geopolitiche concrete: il caso di Taiwan è emblematico. Uno dei principali punti di frizione tra Washington e Pechino rimane il futuro della regione, con la minaccia cinese di colpire infrastrutture statunitensi nel caso di un intervento americano a difesa di Taipei. All’interno di questo quadro, gli attacchi informatici si configurano come strumenti di deterrenza e di pressione, veri e propri avvertimenti lanciati all’avversario per condizionare le sue scelte strategiche.

L’imprevedibilità futura di questa guerra senza regole resta uno degli aspetti più critici. Nel cyberspazio le linee rosse sono vaghe, la possibilità di negare il coinvolgimento diretto è elevatissima, e la rapidità con cui una crisi digitale potrebbe tradursi in conseguenze concrete sulla vita delle persone è sempre più elevata. Gli esperti chiedono una decisa accelerazione degli sforzi multilaterali per creare un minimo di governance internazionale su questi temi, ma l’attuale clima di sospetto reciproco rende la cooperazione un obiettivo ancora troppo distante, almeno nel breve termine.

L’impressione più forte che emerge è che la cyberwar tra Stati Uniti e Cina rappresenti oggi il vero termometro della competizione globale, una battaglia sotterranea combattuta da legioni di analisti, tecnici e responsabili della sicurezza informatica, in cui ogni vulnerabilità rappresenta una possibile falla del sistema, e ogni giorno può diventare il teatro di un nuovo, invisibile scontro. Gli equilibri mondiali di domani si giocano, sempre di più, all’interno dei data center, delle reti digitali e nei laboratori di intelligenza artificiale, dove la posta in gioco non sono più solo i dati, ma la stessa sicurezza – e la sovranità – delle nazioni.


Ponte sullo Stretto sotto assedio: la battaglia legale che può riscrivere tutto

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Il ponte sullo Stretto di Messina è una delle opere più controverse mai proposte in Italia e, nell’estate del 2025, la sua realizzazione si trova al centro di una tempesta giudiziaria e politica senza precedenti. Da un lato il governo, sospinto dal desiderio di lasciare un segno tangibile della propria stagione di riforme, promette un futuro di modernità e collegamenti veloci tra Sicilia e continente. Dall’altro, un fronte compatto di associazioni ambientaliste, amministratori locali, tecnici e cittadini punta il dito contro le possibili falle legislative e giuridiche che potrebbero ingabbiare la realizzazione dell’opera o costare carissimo allo Stato e ai territori coinvolti.

I rischi legali che pesano sul ponte sono molteplici e complessi. Le associazioni ambientaliste più autorevoli come WWF, Legambiente, Greenpeace e Lipu, insieme a comitati territoriali, hanno già avviato una pioggia di ricorsi amministrativi contro il via libera ambientale rilasciato dal Ministero. Il cuore di questi ricorsi risiede nella contestazione delle 62 prescrizioni imposte dalla Commissione Via-Vas: secondo i ricorrenti, tali condizioni sarebbero insufficienti a scongiurare danni rilevanti a fauna e habitat protetti, soprattutto quelli tutelati dalle direttive europee Habitat e Uccelli. Se il TAR dovesse accogliere anche in parte queste istanze, la Valutazione di Impatto Ambientale verrebbe annullata e l’intera macchina del cantiere sarebbe costretta a fermarsi, aprendo uno scenario di stop dai contorni imprevedibili.

Ma il braccio di ferro non si gioca solo sulla giustizia amministrativa nazionale. Negli stessi giorni, a Bruxelles sono giunti reclami formali indirizzati alla Commissione Europea, in cui si chiede un intervento diretto dei vertici UE nei confronti dell’Italia. L’accusa è chiara: le deroghe legislative approvate per il ponte violano la normativa comunitaria, consentendo di aggirare i vincoli ambientali e saltare tappe indispensabili di partecipazione e approfondimento tecnico. Se l’Europa dovesse dar corso a una procedura di infrazione, il governo si troverebbe esposto a nuove sanzioni economiche e, soprattutto, a una pesante delegittimazione politica in sede internazionale. Questa minaccia assume rilievo particolare poiché le deroghe, introdotte con provvedimenti come il Decreto Legge 39/2024, permettono di accelerare l’iter progettuale e restringere il perimetro del controllo democratico e giurisdizionale, riducendo al minimo la possibilità per i cittadini di partecipare alle scelte che cambieranno il volto del loro territorio.

Il rischio è che la procedura speciale “autorizzativa” adottata per il ponte si scontri con l’obbligo di dimostrare, secondo la legislazione europea, l’assenza di alternative praticabili, l’effettività dei motivi di interesse pubblico e un piano compensativo realmente adeguato. Molte organizzazioni sostengono che nessuno di questi requisiti sia rispettato, puntando il dito sulla carenza strutturale delle valutazioni cumulative, sulla scarsa trasparenza dei documenti progettuali e sull’assenza di un serio confronto sulle alternative possibili. In questa cornice si muovono anche i dubbi sollevati dagli enti tecnici italiani, come ISPRA e il Consiglio Superiore dei Lavori Pubblici, che ricordano le incertezze sulle criticità sismiche, idrogeologiche e paesaggistiche dello Stretto.

Ad aggravare la situazione, vi sono anche questioni di natura economico-giuridica di dimensioni non trascurabili. Le convenzioni tra lo Stato e i General Contractor, nello specifico Eurolink e Parson, prevedono penali milionarie in caso di mancata realizzazione dell’opera. I legali delle imprese coinvolte hanno più volte ricordato come eventuali interruzioni unilaterali dei lavori obbligherebbero lo Stato a pagare fino a 1,5 miliardi di euro, drenando risorse dai bilanci pubblici già in difficoltà. Inoltre, sono ancora aperti alcuni contenziosi legali legati alle concessioni precedenti, provocate dagli annullamenti dei progetti degli anni passati: queste cause, se concluse in senso sfavorevole per lo Stato, potrebbero comportare nuovi esborsi e ulteriori strascichi sulla credibilità dell’Italia verso gli investitori internazionali.

Nel frattempo, sullo sfondo si muovono tentativi di class action da parte dei cittadini e dei comitati contrari al ponte, che intendono fare leva sul sistema giudiziario per far valere i propri diritti. Seppur dichiarate inammissibili al primo grado, queste azioni collettive hanno comunque avviato iter di appello e contribuito a fissare nell’immaginario l’idea di una battaglia ancora tutta aperta. Il fenomeno non va sottovalutato: una mobilitazione legale diffusa può rappresentare un “fronte caldo” di opposizione destinato ad accompagnare ciascuna tappa futura dell’opera.

Intrecciati ai rischi legali emergono quelli normativi e legislativi, forse ancora più delicati e insidiosi. Le deroghe e le semplificazioni legislative introdotte dai recenti provvedimenti del governo sono state duramente criticate da giuristi e costituzionalisti. Questi ultimi vedono nell’uso disinvolto di procedure accelerate e ordinanze speciali la minaccia di una riduzione degli spazi democratici, la compressione dei diritti delle assemblee elettive locali e la deregolamentazione di settori cruciali quali l’ambiente, la sicurezza dei lavoratori e l’accesso alle informazioni. Il problema è aggravato dal fatto che tali deroghe hanno reso più tenue la rete di controlli antimafia sugli appalti, spalancando potenzialmente le porte a infiltrazioni criminali in un contesto storico noto per la presenza strutturata della criminalità organizzata.

L’Autorità Nazionale Anticorruzione e associazioni come Libera hanno lanciato ripetuti allarmi: allentare maglie su verifica degli assetti proprietari, subappalti e tracciabilità dei finanziamenti significa, di fatto, abbassare le difese contro il rischio di corruzione e illegalità. In una regione dove il rischio di “colonizzazione” dei grandi cantieri da parte della mafia è tutt’altro che teorico, questi segnali non possono essere ignorati. Si rischia di vanificare l’obiettivo stesso di trasparenza e legalità che dovrebbe accompagnare un investimento così significativo.

Sul piano strettamente amministrativo, la rapidità nell’adozione dei decreti e il ricorso a iter straordinari hanno generato un senso diffuso di esclusione tra cittadini, sindaci e consigli comunali. Questa dinamica ha reso più difficile il dialogo tra istituzioni e territorio, incrementando il tasso di conflittualità sociale e facendo apparire le istituzioni centrali come distanti e impermeabili alle esigenze locali. Non a caso molte delle contestazioni giuridiche fanno leva proprio sull’insufficienza dei momenti di consultazione e sulla ridotta possibilità di accesso agli atti.

Sul progetto pende anche una sorta di “spada di Damocle” fatta di tempistiche instabili e incertezza permanente. Ogni passaggio giudiziario, ogni richiesta di sospensiva, ogni nuovo ricorso può tradursi in mesi (se non anni) di ritardi sull’apertura dei cantieri, mentre si accumulano tensioni tra i promotori dell’opera e la società civile. Il vero rischio, quindi, è che la complessità dei nodi legali e normativi finisca per impantanare l’opera, impedendo che si realizzi con i tempi, la sicurezza e la trasparenza necessari. Allo stesso tempo, un’accelerazione forzata per esigenze di calendario politico potrebbe minare i principi del diritto e i valori della partecipazione, compromettendo la legittimità e la sostenibilità sociale dell’intervento.

Questo scenario rende evidente come il ponte sullo Stretto non sia solo una questione di ingegneria o di grandi numeri economici, ma soprattutto una cartina di tornasole della tenuta del sistema istituzionale italiano di fronte alle sfide delle grandi opere. Ogni snodo giuridico, ogni scelta legislativa, ogni sentenza pronunciata nei tribunali amministrativi o nelle aule europee avrà ricadute non solo sull’opera in sé, ma più in generale sulla capacità dell’Italia di coniugare sviluppo, legalità e coesione sociale in uno dei suoi territori più emblematici. Mentre avvocati e magistrati scrutano documenti e leggi alla ricerca di falle o irregolarità, il Paese assiste a quello che, ora più che mai, appare un autentico banco di prova per il rapporto tra Stato, territorio e cittadini.


Netanyahu: iniziamo la piena occupazione di Gaza

Nelle ultime ore la crisi nella Striscia di Gaza ha raggiunto livelli di drammaticità ancora maggiori, a seguito di una serie di decisioni strategiche e umanitarie che hanno catalizzato l’attenzione dell’intera comunità internazionale. Il Primo Ministro israeliano ha annunciato proprio oggi la convocazione del gabinetto di sicurezza con l’obiettivo di deliberare sulle direttive da impartire all’esercito israeliano. Il governo intende perseguire senza esitazione quella che viene ormai chiamata una “piena occupazione” della Striscia, nonostante il dissenso manifestato da alcuni segmenti dell’apparato militare e delle famiglie degli ostaggi.

Secondo dichiarazioni ufficiali, la priorità di Israele rimane il conseguimento degli obiettivi dichiarati: la sconfitta totale di Hamas, la liberazione di tutti gli ostaggi ancora detenuti e la garanzia che Gaza non possa più rappresentare una minaccia alla sicurezza dello Stato ebraico. La tensione interna è però palpabile, poiché molti osservatori fanno notare che tra le fila dell’esercito vi sono alti ufficiali contrari a un’occupazione integrale, temendo che quest’ultima possa esporre ancora di più alla morte i civili e gli ostaggi israeliani tuttora sotto il controllo delle milizie palestinesi.

Uno dei fattori che ha contribuito ad accrescere l’urgenza della situazione è stato la diffusione nelle ultime ore di video che mostrano in condizioni estreme almeno due ostaggi israeliani, visibilmente prostrati dalla malnutrizione e dal disagio psico-fisico. Queste immagini hanno scioccato la popolazione israeliana, spingendo migliaia di persone a manifestare per chiedere una soluzione diplomatica immediata al fine di salvare le persone ancora prigioniere a Gaza. Le famiglie degli ostaggi hanno espresso la propria crescente disperazione, con messaggi pubblici che denunciano il pericolo di un’escalation militare: si teme che ogni attacco diretto nei pressi dei luoghi in cui si pensa siano nascosti gli ostaggi possa portarli rapidamente alla morte.

Sul piano umanitario, il bilancio di vittime e sofferenze civili continua a peggiorare. Solo nella giornata di oggi sono stati documentati almeno 40 morti causati da attacchi aerei e di artiglieria israeliani, tra cui almeno dieci persone uccise mentre cercavano di raggiungere i punti di distribuzione degli aiuti. Negli ospedali di Gaza, le scene sono sempre più drammatiche: numerosi cadaveri vengono avvolti non più in sudari tradizionali, ma in semplici coperte, a causa della penuria di forniture funebri e del sovraffollamento delle strutture sanitarie. Tra le cause di morte si sono aggiunte anche la fame e la malnutrizione: i dati aggiornati riportano almeno 180 vittime per cause legate all’inedia, fra cui 93 bambini, solo dall’inizio del conflitto.

Le condizioni della popolazione palestinese sono pesantemente aggravate dal fatto che molte persone vengono uccise o ferite mentre cercano disperatamente beni di prima necessità, in una situazione nella quale ottenere una borsa di farina può significare rischiare la propria vita. Il deficit di aiuti è aggravato dall’impossibilità di accedere facilmente alle zone interne della Striscia, mentre le autorità israeliane sostengono di aver introdotto misure – come pause umanitarie temporanee e aviolanci di beni – che tuttavia vengono considerate insufficienti dalle organizzazioni internazionali e dalle Nazioni Unite.

A livello diplomatico, la sensazione è quella di un dialogo ormai congelato. I recenti colloqui indiretti per la tregua, che prevedevano il rilascio graduale degli ostaggi israeliani e lo scambio con prigionieri palestinesi, si sono arenati di fronte a condizioni ritenute inaccettabili dalle due parti. Si registra un crescente allineamento tra le richieste israeliane e quelle avanzate anche da alcuni rappresentanti della diplomazia americana, i quali propongono che il rilascio sia “tutto o niente”, ovvero simultaneo per tutti i prigionieri. Nonostante ciò, permangono forti discrepanze sulle modalità di procedere, e le trattative restano ferme.

Nel frattempo, Hamas ha manifestato la disponibilità a consentire l’accesso della Croce Rossa agli ostaggi e a distribuire razioni alimentari, ma solo in cambio dell’apertura di veri corridoi umanitari stabili e della cessazione dei raid aerei. La risposta internazionale continua a crescere sul piano della pressione umanitaria: nuovi fondi sono stati annunciati da alcuni paesi stranieri per sostenere la popolazione civile, ma la comunità internazionale compresa l’Organizzazione delle Nazioni Unite avvisa che la catastrofe in corso è prossima a diventare irreversibile.

All’interno di Israele, il dibattito politico è sempre più acceso. L’annuncio del Primo Ministro di essere pronto a ordinare l’occupazione totale di Gaza ha spaccato il governo e la società civile. Diversi ministri sostengono la necessità di espandere l’operazione militare, mentre altri, compresi capi dei servizi segreti e dell’esercito, sottolineano i rischi incalcolabili di un simile passo. Il capo di Stato Maggiore dell’IDF ha espresso perplessità sulla possibilità reale di “ripulire” l’intera Striscia dalle infrastrutture di Hamas senza pagare un prezzo altissimo non solo in termini umani, ma anche politici e strategici.

Le dichiarazioni di cittadini palestinesi raccolte nelle ultime ore raccontano una quotidianità fatta di paura, fame e desiderio di un ritorno alla normalità. Molti chiedono la pace e la fine delle ostilità, testimoniando una sofferenza che coinvolge tutti: uomini, donne, ragazzi e bambini, messi in pericolo da una crisi senza precedenti.

In questa giornata dunque tutti gli occhi restano puntati sulle prossime mosse del governo israeliano, sulle reazioni delle fazioni palestinesi e, soprattutto, sulla capacità della comunità internazionale di alleviare una crisi umanitaria che non conosce tregua. Ciò che resta evidente, al di là delle strategie e delle posizioni politiche, è l’urgenza estrema di salvare vite umane e di ripristinare condizioni minime di convivenza e rispetto per la dignità di ogni persona. La posta in gioco nelle prossime ore a Gaza non è soltanto la sorte di un territorio o di una guerra, ma il futuro stesso di migliaia di uomini, donne e bambini intrappolati in una spirale di violenza e privazioni senza fine.

Liguria crocevia di armi, guerre e diritti: il paradosso genovese tra Piaggio, Palestina e portuali

Liguria, estate 2025. In poche settimane tre notizie, apparentemente scollegate, s’intrecciano in una trama che coinvolge industria, politica, diritti e coscienza collettiva. Si parte dal rilancio di una storica eccellenza industriale, si attraversano decisioni simboliche di riconoscimento internazionale, e si arriva a un clamoroso sciopero contro il traffico di armi nei porti. Ma quando il quadro si compone, emergono domande scomode e riflessioni sul ruolo di una regione che oggi si scopre al centro delle rotte globali delle tecnologie, delle alleanze e delle armi.

Il rilancio (turco) di una storia italiana

Il 1 luglio 2025 segna una svolta per Piaggio Aerospace, ex gioiello dell’aeronautica ligure e italiana, dopo sei anni di amministrazione straordinaria a rischio chiusura. È la turca Baykar, leader mondiale nella produzione di droni militari, ad acquisire l’azienda, con benedizione e vigilanza del governo italiano tramite la normativa “golden power”. A Genova e Villanova d’Albenga si sperimentano così entusiasmo e inquietudine: da un lato la salvezza dei posti di lavoro, nuovi investimenti tecnologici e promesse di sviluppo; dall’altro, la consapevolezza che i velivoli che verranno prodotti saranno sistemi d’arma avanzati, destinati alle guerre di oggi e di domani.

Baykar si impegna non solo a mantenere, ma persino a incrementare l’occupazione, rilanciando progetti iconici come il P.180 Avanti EVO, insieme a sistemi remotizzati di nuova generazione. Un piano industriale che punta a fare di Genova e Savona un polo europeo dell’aerospazio e della difesa.

Genova riconosce la Palestina: la svolta simbolica

Il 29 luglio 2025 il Consiglio Comunale di Genova approva una mozione storica: riconosce ufficialmente lo Stato di Palestina nei confini del 1967, con Gerusalemme capitale condivisa. Una decisione dal forte valore diplomatico, che impegna il Comune a promuovere presso il governo italiano lo stesso riconoscimento e a sospendere qualunque collaborazione istituzionale o di ricerca con Israele finché non verranno rispettati i diritti umani e sarà garantito l’accesso agli aiuti umanitari.

È il segnale visibile di una città, e di una regione, che vuole riscrivere le sue politiche estere e commerciali con una nuova attenzione ai conflitti mediorientali e alle responsabilità dell’Occidente.

Il blocco dei portuali: “no alle armi per gli eserciti in guerra”

Pochi giorni dopo, a inizio agosto, la notizia fa il giro dei media globali: il Collettivo autonomo lavoratori portuali (Calp) di Genova e La Spezia organizza un imponente blocco allo sbarco di tre container carichi di materiale bellico destinato a Israele. All’azione segue uno sciopero, sostenuto da una rete che coinvolge anche altri porti del Mediterraneo, come il Pireo. Sotto la pressione sindacale, la compagnia Cosco rinuncia allo scarico: per la prima volta una grande compagnia navale cede formalmente di fronte a una protesta di questo tipo. Per i portuali, si tratta di una battaglia etica: “Non siamo complici nel traffico di armi che alimenta conflitti e uccisioni di civili”, ripetono, ribadendo il loro sostegno alla popolazione palestinese.

Il puzzle si ricompone: quali armi produrremo in Liguria, e per chi?

Ma qui il racconto si fa complesso – per non dire contraddittorio. Mentre una parte della società civile blocca armi destinate a Israele e altre potenze belliche, nelle stesse settimane Genova inaugura, grazie a Baykar, la produzione di sistemi militari avanzati.

Sotto la guida turca, negli stabilimenti ex Piaggio saranno prodotti:

  • Droni armati Bayraktar TB2: velivoli a pilotaggio remoto tra i più diffusi nelle guerre recenti, capaci di compiere missioni di sorveglianza e attacco utilizzando missili aria-superficie e bombe intelligenti.
  • Droni Akıncı: piattaforme MALE (Media Altitudine, Lunga Autonomia) di nuova generazione, in grado di trasportare carichi pesanti, radar avanzati, sistemi di guerra elettronica e armamenti di ultima generazione.
  • Componentistica avanzata: sensori, radar, circuiti di controllo con intelligenza artificiale per rendere i sistemi automatizzati più “decisionali”, cioè capaci di riconoscere e attaccare obiettivi in autonomia.

Una produzione all’avanguardia che trasforma la Liguria in una delle capitali europee dell’industria bellica hi-tech, in un momento storico in cui i droni sono diventati l’arma simbolo dei conflitti moderni.

A chi andranno le armi made in Liguria?

Qui la domanda diventa scomoda. I clienti di Baykar – e dei suoi siti produttivi, liguri compresi – sono numerosi e trasversali. Basta guardare la lista pubblica delle esportazioni: Polonia, Ucraina, Kosovo, Albania, Romania, Croazia, Lettonia, Lituania, Finlandia, Qatar, Kuwait, Iraq, Emirati Arabi Uniti, Azerbaigian, Togo, Mali, Etiopia, Pakistan, e molti altri.

In particolare, Qatar e Arabia Saudita figurano tra i maggiori importatori. Il Qatar, oltre a essere alleato privilegiato di Ankara e base di molte leadership di Hamas, è fra gli hub di gestione e finanziamento della crisi israelo-palestinese. Arabia Saudita e gli Emirati, invece, usano regolarmente i droni Baykar anche nell’interminabile conflitto in Yemen, uno dei teatri di guerra più sanguinosi e dimenticati degli ultimi anni, con almeno 377.000 morti stimati dalle Nazioni Unite – la stragrande maggioranza civili.

La paradossale realtà è che le tecnologie prodotte in Liguria, pur non destinate, secondo le dichiarazioni pubbliche, direttamente a Israele, alimenteranno comunque conflitti e guerre in molte aree calde del pianeta e, nei fatti, anche gli attori coinvolti nel conflitto mediorientale potranno beneficiarne, direttamente o indirettamente.

L’ipocrisia della guerra “giusta” e del pacifismo parziale

In questa cornice, le scelte della politica e della società civile appaiono ambigue. La Regione, simbolicamente in guerra contro la guerra con il blocco dei container e il riconoscimento della Palestina, si trasforma intanto nel polo industriale di sistemi d’arma che saranno comunque impiegati in scontri sanguinosi, spesso contro civili inermi. Il paradosso emerge lampante: si è contro “una sola guerra”, quella più visibile e politicamente discussa in Occidente, mentre si contribuisce, direttamente o come terzisti, all’escalation di tanti altri conflitti alcuni dei quali privi di visibilità mediatica.

Ma la domanda di fondo è scomoda: possiamo separarci dall’industria bellica globale solo a parole, mantenendo economie territoriali fondate proprio sulle produzioni militari? Si può essere credibili nel reclamare la pace, mentre si esporta tecnologia che alimenta nuove guerre?

Il risultato è una Liguria “sdoppiata”: da un lato regista di iniziative di solidarietà, dall’altro epicentro di una filiera che attraversa fronti di guerra da Kiev a Sanaa, da Tripoli a Gaza, fornendo strumenti sofisticati di attacco e difesa, ma anche di morte.

Quale futuro per la Liguria d’armi e diritti?

Il caso ligure è esemplare del dilemma occidentale: come bilanciare sviluppo industriale, occupazione, difesa dei diritti e scelte etiche in un mondo dove la filiera bellica è al centro dei rapporti geopolitici e degli equilibri economici? O si accetta la logica della guerra, anche in nome della propria sicurezza e prosperità, oppure la coerenza impone scelte radicali che pochi sembrano voler davvero percorrere.

Nel frattempo, a Genova – mentre si celebrano la solidarietà con il popolo palestinese e le vittorie sindacali contro il transito di armi nei capannoni ex Piaggio, ingegneri e operai mettono insieme componenti di droni che voleranno, molto presto, sugli scenari di guerra del pianeta. Il futuro di questa frontiera etica, industriale e politica resta tutto da scrivere.

Mohammad Mustafa il palestinese contro Hamas

Mohammad Mustafa rappresenta oggi una delle figure più emblematiche del panorama politico palestinese, un economista che con la sua nomina a primo ministro ha segnato una svolta nella storia recente dell’Autorità Nazionale Palestinese. 

La sua investitura nel marzo 2024 arriva in un momento critico, con Gaza devastata dal conflitto e la frammentazione interna ai massimi storici. La sua carriera, iniziata ben lontano dai partiti tradizionali, è segnata da una lunga esperienza internazionale e da un approccio tecnico alle questioni economiche e istituzionali. 

Nato nel 1954 a Kafr Sur, in Palestina, cresciuto con una formazione accademica culminata in un dottorato alla George Washington University, Mustafa ha trascorso buona parte della sua vita professionale alla Banca Mondiale, dove ha maturato una visione pragmatica e modernizzatrice delle strutture pubbliche e delle economie in transizione.

Il suo ritorno in Palestina lo vede impegnato come consigliere fidato di Mahmoud Abbas, presidente dell’ANP, e come promotore di grandi progetti di investimento per sostenere un tessuto economico debole e costantemente sotto pressione politica. L’elezione a capo del governo ha però suscitato reazioni contrastanti, sia internamente che sul fronte internazionale. In particolare, il movimento di Hamas ha subito bollato la scelta come un tentativo unilaterale di rafforzare Fatah, il partito dominante nella Cisgiordania, e di escludere le altre forze politiche da ogni futuro assetto, soprattutto nel possibile scenario del dopoguerra a Gaza.

Il tratto forse più evidente del profilo di Mohammad Mustafa è la sua distanza dal linguaggio e dalle logiche di partito che hanno modellato la vita politica palestinese negli ultimi decenni. Mustafa si presenta come un tecnico, un uomo che privilegia il dialogo con le istituzioni multilaterali, che parla il linguaggio della ricostruzione economica e delle riforme, che sollecita la trasparenza e la collaborazione con le potenze occidentali e i partner arabi moderati. Non è un uomo di apparati di sicurezza né un esponente delle milizie, ed è proprio questa posizione che lo rende, da un lato, un interlocutore credibile agli occhi di Washington, Bruxelles e delle monarchie del Golfo; dall’altro, una figura debole se confrontata con l’establishment politico tradizionale e con la società palestinese, spesso più sensibile ai temi dell’identità e della militanza.

Nel pieno della crisi di Gaza, Mustafa è diventato la voce più netta della linea dell’Autorità Nazionale Palestinese contraria alla permanenza di Hamas come forza armata. Secondo lui, la chiave del futuro per i palestinesi passa per una rinuncia di Hamas alle armi, la restituzione degli ostaggi e il superamento della divisione amministrativa tra Gaza e Cisgiordania sotto un’unica gestione pacifica. Mustafa insiste sull’apertura a una riconciliazione nazionale ma solo a condizione che Hamas ammetta la legittimità dell’OLP, il riconoscimento internazionale e la soluzione dei due Stati attraverso la diplomazia e non la lotta armata. La sua idea di governo per il periodo post-bellico si basa su una struttura tecnica e inclusiva, ma con il primato delle istituzioni di Ramallah nella gestione della sicurezza e dell’amministrazione pubblica.

Questa visione lo distingue nettamente da altri membri dell’ANP, spesso più legati a logiche di partito o alle necessità di controllo dei territori. A differenza di personalità come Hussein al-Sheikh o Majid Faraj, leader storici schierati nella difesa delle prerogative dell’apparato di sicurezza e fortemente radicati nel movimento di Fatah, Mustafa non ha alle spalle una lunga militanza partitica, ma si propone come garante di un nuovo patto nazionale che guardi alla ricostruzione delle istituzioni, all’afflusso di capitale internazionale e alla credibilità verso la comunità internazionale.

Il premier palestinese ha raccolto il consenso soprattutto presso interlocutori esteri che chiedono una riforma dell’ANP e la fine delle vecchie pratiche clientelari. All’interno, però, la sua posizione è ancora fragile. Nelle strade delle città palestinesi la sfiducia nelle istituzioni resta alta, e molti vedono in Mustafa un rappresentante degli interessi occidentali più che una voce autentica della resistenza o della società civile. Al contempo, i segmenti più conservatori di Fatah temono che la leadership tecnica, fondata sulla collaborazione internazionale, possa ridurre il peso specifico del partito storico a beneficio di una governance priva di forti legami con le realtà locali.

Le sfide che attendono Mohammad Mustafa sono enormi: gestire la ricostruzione di Gaza in un contesto di massima instabilità, riportare legittimità all’ANP presso una popolazione provata da anni di occupazione e divisioni, negoziare condizioni accettabili per la partecipazione di Hamas alla vita pubblica senza però cedere sulla necessità dello smantellamento delle milizie. Tuttavia, il suo pragmatismo e la sua insistenza sulla necessità di riforme lo rendono una figura atipica e insieme preziosa per chi vede nel dialogo, nella diplomazia e nello sviluppo economico i veri strumenti per rilanciare la causa palestinese e arrivare a una soluzione sostenibile e inclusiva del conflitto.

È in questo quadro articolato che si inserisce la postura di Mustafa: da un lato portavoce della necessità di liquidare la stagione delle milizie armate, dall’altro uomo delle istituzioni internazionali, pronto a negoziare nuove regole ma fermo sulla difesa di una visione politica basata sulla legalità e sulla prospettiva di due Stati. Ed è proprio questa combinazione di fermezza tecnica e apertura negoziale ciò che lo differenzia profondamente dai suoi colleghi dell’ANP, e che rappresenta la speranza, ma anche il rischio, di un possibile nuovo corso per la Palestina.