11 Novembre 2025
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Liguria crocevia di armi, guerre e diritti: il paradosso genovese tra Piaggio, Palestina e portuali

Liguria, estate 2025. In poche settimane tre notizie, apparentemente scollegate, s’intrecciano in una trama che coinvolge industria, politica, diritti e coscienza collettiva. Si parte dal rilancio di una storica eccellenza industriale, si attraversano decisioni simboliche di riconoscimento internazionale, e si arriva a un clamoroso sciopero contro il traffico di armi nei porti. Ma quando il quadro si compone, emergono domande scomode e riflessioni sul ruolo di una regione che oggi si scopre al centro delle rotte globali delle tecnologie, delle alleanze e delle armi.

Il rilancio (turco) di una storia italiana

Il 1 luglio 2025 segna una svolta per Piaggio Aerospace, ex gioiello dell’aeronautica ligure e italiana, dopo sei anni di amministrazione straordinaria a rischio chiusura. È la turca Baykar, leader mondiale nella produzione di droni militari, ad acquisire l’azienda, con benedizione e vigilanza del governo italiano tramite la normativa “golden power”. A Genova e Villanova d’Albenga si sperimentano così entusiasmo e inquietudine: da un lato la salvezza dei posti di lavoro, nuovi investimenti tecnologici e promesse di sviluppo; dall’altro, la consapevolezza che i velivoli che verranno prodotti saranno sistemi d’arma avanzati, destinati alle guerre di oggi e di domani.

Baykar si impegna non solo a mantenere, ma persino a incrementare l’occupazione, rilanciando progetti iconici come il P.180 Avanti EVO, insieme a sistemi remotizzati di nuova generazione. Un piano industriale che punta a fare di Genova e Savona un polo europeo dell’aerospazio e della difesa.

Genova riconosce la Palestina: la svolta simbolica

Il 29 luglio 2025 il Consiglio Comunale di Genova approva una mozione storica: riconosce ufficialmente lo Stato di Palestina nei confini del 1967, con Gerusalemme capitale condivisa. Una decisione dal forte valore diplomatico, che impegna il Comune a promuovere presso il governo italiano lo stesso riconoscimento e a sospendere qualunque collaborazione istituzionale o di ricerca con Israele finché non verranno rispettati i diritti umani e sarà garantito l’accesso agli aiuti umanitari.

È il segnale visibile di una città, e di una regione, che vuole riscrivere le sue politiche estere e commerciali con una nuova attenzione ai conflitti mediorientali e alle responsabilità dell’Occidente.

Il blocco dei portuali: “no alle armi per gli eserciti in guerra”

Pochi giorni dopo, a inizio agosto, la notizia fa il giro dei media globali: il Collettivo autonomo lavoratori portuali (Calp) di Genova e La Spezia organizza un imponente blocco allo sbarco di tre container carichi di materiale bellico destinato a Israele. All’azione segue uno sciopero, sostenuto da una rete che coinvolge anche altri porti del Mediterraneo, come il Pireo. Sotto la pressione sindacale, la compagnia Cosco rinuncia allo scarico: per la prima volta una grande compagnia navale cede formalmente di fronte a una protesta di questo tipo. Per i portuali, si tratta di una battaglia etica: “Non siamo complici nel traffico di armi che alimenta conflitti e uccisioni di civili”, ripetono, ribadendo il loro sostegno alla popolazione palestinese.

Il puzzle si ricompone: quali armi produrremo in Liguria, e per chi?

Ma qui il racconto si fa complesso – per non dire contraddittorio. Mentre una parte della società civile blocca armi destinate a Israele e altre potenze belliche, nelle stesse settimane Genova inaugura, grazie a Baykar, la produzione di sistemi militari avanzati.

Sotto la guida turca, negli stabilimenti ex Piaggio saranno prodotti:

  • Droni armati Bayraktar TB2: velivoli a pilotaggio remoto tra i più diffusi nelle guerre recenti, capaci di compiere missioni di sorveglianza e attacco utilizzando missili aria-superficie e bombe intelligenti.
  • Droni Akıncı: piattaforme MALE (Media Altitudine, Lunga Autonomia) di nuova generazione, in grado di trasportare carichi pesanti, radar avanzati, sistemi di guerra elettronica e armamenti di ultima generazione.
  • Componentistica avanzata: sensori, radar, circuiti di controllo con intelligenza artificiale per rendere i sistemi automatizzati più “decisionali”, cioè capaci di riconoscere e attaccare obiettivi in autonomia.

Una produzione all’avanguardia che trasforma la Liguria in una delle capitali europee dell’industria bellica hi-tech, in un momento storico in cui i droni sono diventati l’arma simbolo dei conflitti moderni.

A chi andranno le armi made in Liguria?

Qui la domanda diventa scomoda. I clienti di Baykar – e dei suoi siti produttivi, liguri compresi – sono numerosi e trasversali. Basta guardare la lista pubblica delle esportazioni: Polonia, Ucraina, Kosovo, Albania, Romania, Croazia, Lettonia, Lituania, Finlandia, Qatar, Kuwait, Iraq, Emirati Arabi Uniti, Azerbaigian, Togo, Mali, Etiopia, Pakistan, e molti altri.

In particolare, Qatar e Arabia Saudita figurano tra i maggiori importatori. Il Qatar, oltre a essere alleato privilegiato di Ankara e base di molte leadership di Hamas, è fra gli hub di gestione e finanziamento della crisi israelo-palestinese. Arabia Saudita e gli Emirati, invece, usano regolarmente i droni Baykar anche nell’interminabile conflitto in Yemen, uno dei teatri di guerra più sanguinosi e dimenticati degli ultimi anni, con almeno 377.000 morti stimati dalle Nazioni Unite – la stragrande maggioranza civili.

La paradossale realtà è che le tecnologie prodotte in Liguria, pur non destinate, secondo le dichiarazioni pubbliche, direttamente a Israele, alimenteranno comunque conflitti e guerre in molte aree calde del pianeta e, nei fatti, anche gli attori coinvolti nel conflitto mediorientale potranno beneficiarne, direttamente o indirettamente.

L’ipocrisia della guerra “giusta” e del pacifismo parziale

In questa cornice, le scelte della politica e della società civile appaiono ambigue. La Regione, simbolicamente in guerra contro la guerra con il blocco dei container e il riconoscimento della Palestina, si trasforma intanto nel polo industriale di sistemi d’arma che saranno comunque impiegati in scontri sanguinosi, spesso contro civili inermi. Il paradosso emerge lampante: si è contro “una sola guerra”, quella più visibile e politicamente discussa in Occidente, mentre si contribuisce, direttamente o come terzisti, all’escalation di tanti altri conflitti alcuni dei quali privi di visibilità mediatica.

Ma la domanda di fondo è scomoda: possiamo separarci dall’industria bellica globale solo a parole, mantenendo economie territoriali fondate proprio sulle produzioni militari? Si può essere credibili nel reclamare la pace, mentre si esporta tecnologia che alimenta nuove guerre?

Il risultato è una Liguria “sdoppiata”: da un lato regista di iniziative di solidarietà, dall’altro epicentro di una filiera che attraversa fronti di guerra da Kiev a Sanaa, da Tripoli a Gaza, fornendo strumenti sofisticati di attacco e difesa, ma anche di morte.

Quale futuro per la Liguria d’armi e diritti?

Il caso ligure è esemplare del dilemma occidentale: come bilanciare sviluppo industriale, occupazione, difesa dei diritti e scelte etiche in un mondo dove la filiera bellica è al centro dei rapporti geopolitici e degli equilibri economici? O si accetta la logica della guerra, anche in nome della propria sicurezza e prosperità, oppure la coerenza impone scelte radicali che pochi sembrano voler davvero percorrere.

Nel frattempo, a Genova – mentre si celebrano la solidarietà con il popolo palestinese e le vittorie sindacali contro il transito di armi nei capannoni ex Piaggio, ingegneri e operai mettono insieme componenti di droni che voleranno, molto presto, sugli scenari di guerra del pianeta. Il futuro di questa frontiera etica, industriale e politica resta tutto da scrivere.

Mohammad Mustafa il palestinese contro Hamas

Mohammad Mustafa rappresenta oggi una delle figure più emblematiche del panorama politico palestinese, un economista che con la sua nomina a primo ministro ha segnato una svolta nella storia recente dell’Autorità Nazionale Palestinese. 

La sua investitura nel marzo 2024 arriva in un momento critico, con Gaza devastata dal conflitto e la frammentazione interna ai massimi storici. La sua carriera, iniziata ben lontano dai partiti tradizionali, è segnata da una lunga esperienza internazionale e da un approccio tecnico alle questioni economiche e istituzionali. 

Nato nel 1954 a Kafr Sur, in Palestina, cresciuto con una formazione accademica culminata in un dottorato alla George Washington University, Mustafa ha trascorso buona parte della sua vita professionale alla Banca Mondiale, dove ha maturato una visione pragmatica e modernizzatrice delle strutture pubbliche e delle economie in transizione.

Il suo ritorno in Palestina lo vede impegnato come consigliere fidato di Mahmoud Abbas, presidente dell’ANP, e come promotore di grandi progetti di investimento per sostenere un tessuto economico debole e costantemente sotto pressione politica. L’elezione a capo del governo ha però suscitato reazioni contrastanti, sia internamente che sul fronte internazionale. In particolare, il movimento di Hamas ha subito bollato la scelta come un tentativo unilaterale di rafforzare Fatah, il partito dominante nella Cisgiordania, e di escludere le altre forze politiche da ogni futuro assetto, soprattutto nel possibile scenario del dopoguerra a Gaza.

Il tratto forse più evidente del profilo di Mohammad Mustafa è la sua distanza dal linguaggio e dalle logiche di partito che hanno modellato la vita politica palestinese negli ultimi decenni. Mustafa si presenta come un tecnico, un uomo che privilegia il dialogo con le istituzioni multilaterali, che parla il linguaggio della ricostruzione economica e delle riforme, che sollecita la trasparenza e la collaborazione con le potenze occidentali e i partner arabi moderati. Non è un uomo di apparati di sicurezza né un esponente delle milizie, ed è proprio questa posizione che lo rende, da un lato, un interlocutore credibile agli occhi di Washington, Bruxelles e delle monarchie del Golfo; dall’altro, una figura debole se confrontata con l’establishment politico tradizionale e con la società palestinese, spesso più sensibile ai temi dell’identità e della militanza.

Nel pieno della crisi di Gaza, Mustafa è diventato la voce più netta della linea dell’Autorità Nazionale Palestinese contraria alla permanenza di Hamas come forza armata. Secondo lui, la chiave del futuro per i palestinesi passa per una rinuncia di Hamas alle armi, la restituzione degli ostaggi e il superamento della divisione amministrativa tra Gaza e Cisgiordania sotto un’unica gestione pacifica. Mustafa insiste sull’apertura a una riconciliazione nazionale ma solo a condizione che Hamas ammetta la legittimità dell’OLP, il riconoscimento internazionale e la soluzione dei due Stati attraverso la diplomazia e non la lotta armata. La sua idea di governo per il periodo post-bellico si basa su una struttura tecnica e inclusiva, ma con il primato delle istituzioni di Ramallah nella gestione della sicurezza e dell’amministrazione pubblica.

Questa visione lo distingue nettamente da altri membri dell’ANP, spesso più legati a logiche di partito o alle necessità di controllo dei territori. A differenza di personalità come Hussein al-Sheikh o Majid Faraj, leader storici schierati nella difesa delle prerogative dell’apparato di sicurezza e fortemente radicati nel movimento di Fatah, Mustafa non ha alle spalle una lunga militanza partitica, ma si propone come garante di un nuovo patto nazionale che guardi alla ricostruzione delle istituzioni, all’afflusso di capitale internazionale e alla credibilità verso la comunità internazionale.

Il premier palestinese ha raccolto il consenso soprattutto presso interlocutori esteri che chiedono una riforma dell’ANP e la fine delle vecchie pratiche clientelari. All’interno, però, la sua posizione è ancora fragile. Nelle strade delle città palestinesi la sfiducia nelle istituzioni resta alta, e molti vedono in Mustafa un rappresentante degli interessi occidentali più che una voce autentica della resistenza o della società civile. Al contempo, i segmenti più conservatori di Fatah temono che la leadership tecnica, fondata sulla collaborazione internazionale, possa ridurre il peso specifico del partito storico a beneficio di una governance priva di forti legami con le realtà locali.

Le sfide che attendono Mohammad Mustafa sono enormi: gestire la ricostruzione di Gaza in un contesto di massima instabilità, riportare legittimità all’ANP presso una popolazione provata da anni di occupazione e divisioni, negoziare condizioni accettabili per la partecipazione di Hamas alla vita pubblica senza però cedere sulla necessità dello smantellamento delle milizie. Tuttavia, il suo pragmatismo e la sua insistenza sulla necessità di riforme lo rendono una figura atipica e insieme preziosa per chi vede nel dialogo, nella diplomazia e nello sviluppo economico i veri strumenti per rilanciare la causa palestinese e arrivare a una soluzione sostenibile e inclusiva del conflitto.

È in questo quadro articolato che si inserisce la postura di Mustafa: da un lato portavoce della necessità di liquidare la stagione delle milizie armate, dall’altro uomo delle istituzioni internazionali, pronto a negoziare nuove regole ma fermo sulla difesa di una visione politica basata sulla legalità e sulla prospettiva di due Stati. Ed è proprio questa combinazione di fermezza tecnica e apertura negoziale ciò che lo differenzia profondamente dai suoi colleghi dell’ANP, e che rappresenta la speranza, ma anche il rischio, di un possibile nuovo corso per la Palestina.

Riconoscere la Palestina? Serve davvero o è solo un simbolo?

Riconoscere la Palestina è, ultimamente, un simbolo. Chi lo fa spesso si sente automaticamente “a posto” con le immense violenze in Gaza e il trattamento riservato al popolo palestinese, sia da parte di Israele che da Hamas, che governo la striscia.

Ma all’atto pratico cosa cambia per il popolo martoriato di Gaza? Probabilmente proprio un bel nulla. I governi si beano della loro medaglia di bontà ma nulla aiuta i bambini e le donne della striscia. Ci sono poi dei punti oscuri nel riconoscimento della Palestina, parliamo dei confini e soprattutto del governo. Quale governo? Quali confini?

L’architettura del riconoscimento: quando la politica si fa procedura

Il riconoscimento dello Stato di Palestina richiede una sequenza precisa di passaggi istituzionali che variano secondo l’ordinamento costituzionale del paese, ma seguono tutti una logica simile.

Il caso della Norvegia è emblematico dal punto di vista giuridico. Il primo ministro Gahr Støre aveva annunciato la decisione ma l’efficacia del riconoscimento è stata subordinata all’approvazione del Re in Consiglio di Stato, secondo l’articolo 28 della Costituzione norvegese. Il Re Harald V ha formalmente adottato il decreto reale, dando valore giuridico alla decisione politica. Solo a quel punto la Norvegia ha potuto inviare la nota verbale a Ramallah per comunicare ufficialmente il riconoscimento.

La Spagna, invece, ha optato per una procedura più diretta: il Consiglio dei Ministri ha approvato il riconoscimento con effetto immediato. L’atto è stato subito inserito nel Bollettino Ufficiale dello Stato, conferendo efficacia giuridica interna al riconoscimento.

L’Irlanda ha seguito un percorso intermedio, formalizzando la decisione in una riunione di gabinetto mattutina e autorizzando contestualmente l’instaurazione di piene relazioni diplomatiche tra Dublino e Ramallah. La particolarità irlandese è stata l’elevazione immediata della missione palestinese a Dublino al rango di ambasciata, e l’apertura di una piena ambasciata d’Irlanda a Ramallah.

La diplomazia delle coordinate: Gerusalemme Est e i confini del 1967

Tutti e tre i paesi hanno riconosciuto la Palestina “sulla base dei confini stabiliti prima della guerra del 1967, con Gerusalemme come capitale di entrambi gli Stati”. Il premier spagnolo Sánchez ha specificato che uno Stato palestinese deve essere praticabile, con Cisgiordania e Gaza collegate da un corridoio e Gerusalemme Est come capitale, e che la Spagna “non riconoscerà cambiamenti alle linee di confine del 1967 diversi da quelli concordati dalle parti”.

L’impatto del riconoscimento si è fatto sentire anche in altri paesi europei. La Slovenia ha annunciato il riconoscimento della Palestina mentre Malta formalizzerà la decisione durante una Conferenza dell’ONU sulla soluzione dei due Stati.

Il caso più significativo riguarda la Francia: il presidente Emmanuel Macron ha annunciato che la Francia riconoscerà lo Stato di Palestina nel settembre 2025 durante l’Assemblea Generale delle Nazioni Unite, affermando che la decisione si inserisce nel solco dell’impegno storico della Francia per una pace giusta e duratura in Medio Oriente. Trattandosi di una delle principali potenze diplomatiche dell’UE, il riconoscimento della Francia potrebbe incoraggiare altri grandi paesi europei a seguire l’esempio.

Va però detto che il riconoscimento non obbliga automaticamente ad avere rapporti diplomatici attivi: si può riconoscere uno Stato senza, per forza, aprire subito un’ambasciata o stringere accordi di collaborazione. Il riconoscimento, infatti, è principalmente un atto simbolico, che però può avere conseguenze importanti, sia a livello internazionale sia per la popolazione palestinese.

Infine, esistono diversi gradi di riconoscimento: alcuni Paesi lo fanno in modo pieno e definitivo (“de jure”), altri in modo più cauto, temporaneo o implicito, semplicemente iniziando a trattare la Palestina come uno Stato nei fatti, senza grandi annunci pubblici.

Ma quale governo viene risconosciuto?

La situazione politica della Palestina è complessa e spesso difficile da capire, soprattutto a causa delle profonde divisioni interne. Oggi, il territorio palestinese è governato principalmente da due fazioni che si sono spesso trovate in contrasto tra loro: Fatah e Hamas. Questa spaccatura ha portato a una situazione in cui la Cisgiordania e la Striscia di Gaza sono amministrate in modo separato, con conseguenze importanti sia per la politica interna che per le condizioni di vita dei palestinesi.

Chi governa dove?

In Cisgiordania, la guida è in mano all’Autorità Nazionale Palestinese (ANP), controllata soprattutto da Fatah, il partito storico che rappresenta una posizione più laica e orientata al negoziato con Israele. Il volto principale di Fatah è Mahmoud Abbas, meglio conosciuto come Abu Mazen, che è presidente dell’ANP, e anche della cosiddetta Stato di Palestina e dell’OLP (Organizzazione per la Liberazione della Palestina).

La Striscia di Gaza, invece, è dal 2007 sotto il controllo totale di Hamas. Questo gruppo è nato come organizzazione islamista e si è imposto come il principale rivale di Fatah soprattutto fra la popolazione di Gaza, distinguendosi per le sue posizioni molto più dure contro Israele.

Come si è arrivati a questa spaccatura?

La rivalità tra Fatah e Hamas si è acuita dopo le elezioni legislative del 2006. In quell’occasione, Hamas ottenne una vittoria sorprendente, soprattutto nella Striscia di Gaza, mentre Fatah rimase più forte in Cisgiordania. L’incapacità di trovare un’intesa su come governare insieme portò a scontri sempre più violenti, fino alla vera e propria “Battaglia di Gaza” del 2007. Da allora, le due forze hanno diviso le aree di governo: Fatah nella Cisgiordania e Hamas a Gaza. Da quel momento non si sono più tenute elezioni legislative, lasciando le istituzioni ferme agli equilibri di allora.

Negli ultimi anni ci sono stati diversi tentativi di mettere da parte le divergenze e formare un governo di unità nazionale, ma finora tutti questi sforzi sono falliti. I motivi sono tanti: visioni politiche diverse, interessi di potere, ingerenze di altri Paesi (come Israele, Stati Uniti, Qatar, Egitto e Unione Europea), nonché il problema delle risorse economiche e degli aiuti, cruciali soprattutto per una zona fragile come Gaza. Hamas e Fatah non si fidano pienamente l’uno dell’altro e la popolazione resta divisa non solo geograficamente, ma anche nella percezione di chi meglio rappresenti i loro interessi.

Come vivono i palestinesi questa situazione?

Per molti cittadini palestinesi, soprattutto i giovani, l’appartenenza politica è spesso legata a questioni molto pratiche, come la possibilità di trovare lavoro o ottenere un po’ di sicurezza, più che a forti convinzioni ideologiche. I partiti al governo, nelle loro rispettive aree, sono diventati anche distributori di risorse e di opportunità, accentuando così il loro potere sulla popolazione.

Quali sono i confini reali

Le differenze fra i confini della Palestina del 1967 e quelli di oggi sono profonde e legate alle vicende storiche della regione.

I confini del 1967 (“Linea Verde”)

  • Con il termine “confini del 1967” si intende la cosiddetta Linea Verde, ovvero la linea di armistizio stabilita nel 1949 dopo la prima guerra arabo-israeliana, mantenuta fino alla Guerra dei Sei Giorni del giugno 1967.
  • Secondo questa linea, la Palestina sarebbe composta da Cisgiordania (inclusa Gerusalemme Est) e Striscia di Gaza: rispettivamente sotto controllo giordano e egiziano sino al 1967, quindi occupate da Israele a seguito della guerra dei Sei Giorni
  • La comunità internazionale fa frequentemente riferimento a questi confini come base per una possibile soluzione a due Stati, in cui lo stato palestinese sorgerebbe su questi territori, con Gerusalemme Est come capitale

La situazione attuale

  • Oggi, i confini del 1967 non esistono più come reali linee di demarcazione sul terreno: la Cisgiordania è frammentata da insediamenti israeliani, barriere di separazione, check-point militari e aree sotto diversi livelli di controllo (palestinese, misto, israeliano)
  • Gerusalemme Est è stata annessa da Israele e non viene gestita dall’Autorità Nazionale Palestinese come previsto dagli accordi ONU; la presenza palestinese è fortemente limitata.
  • La Striscia di Gaza è controllata di fatto da Hamas dal 2007, ed è sotto un blocco israeliano (mentre il valico con l’Egitto è solo parzialmente aperto)
  • I confini reali attuali sono quindi dettati, più che da trattati riconosciuti dalle parti, da occupazioni militari, insediamenti e divisioni amministrative (tramite gli accordi di Oslo: zone A, B e C in Cisgiordania)

I confini del 1967 sono uno standard di riferimento internazionale, ma la realtà attuale è di una Palestina estremamente più suddivisa, con crescente presenza israeliana in Cisgiordania e confini non riconosciuti né praticabili secondo le risoluzioni ONU. La possibilità di uno Stato palestinese unitario entro i confini del 1967, per ora, resta solo teorica. 

Hamas nel mondo nel 2025: come viene considerata?

Nel luglio 2025, Hamas si trova al centro di un complesso labirinto diplomatico che riflette le profonde divisioni geopolitiche contemporanee. L’organizzazione palestinese è simultaneamente vista come gruppo terroristico da alcune nazioni e come movimento di resistenza legittimo da altre, creando un panorama internazionale frammentato.

Il fronte occidentale: condanna unanime

Il mondo occidentale presenta una posizione sostanzialmente unita nel classificare Hamas come organizzazione terroristica. Gli Stati Uniti mantengono la designazione come Foreign Terrorist Organization dal 1997, comportando congelamento dei beni e divieto di supporto materiale. L’Unione Europea ha incluso Hamas nella lista terroristica dal 2003, intensificando le misure dopo il 7 ottobre 2023 con un regime di sanzioni dedicato confermato fino ad ottobre 2026.

Il Regno Unito ha esteso la proscrizione all’intera organizzazione nel 2021, rendendo punibile la sola appartenenza con pene fino a 14 anni. Posizioni simili mantengono Canada, Australia e Giappone, quest’ultimo con oltre 540 soggetti sanzionati al giugno 2025.

 Il mondo arabo: riposizionamenti strategici

Il panorama arabo-islamico presenta complessità particolari. L’Arabia Saudita ha adottato una posizione sempre più critica, descrivendo Hamas come movimento terroristico simile ai Fratelli Musulmani. Nel marzo 2025, il principe ereditario Mohammed bin Salman avrebbe espresso la necessità di “schiacciare il movimento e disarmarlo completamente” durante un incontro con i leader regionali.

Nel luglio 2025, il ministro degli esteri francese ha annunciato che “per la prima volta, i paesi arabi condanneranno Hamas e chiederanno il suo disarmo” durante un evento ONU, parte di un’iniziativa franco-saudita per l’isolamento definitivo del gruppo.

La Russia si distingue per il rifiuto categorico di etichettare Hamas come terroristico, mantenendo relazioni diplomatiche dal 2006 e ospitando regolarmente delegazioni del movimento. Nel giugno 2025, una delegazione senior ha incontrato funzionari russi a Mosca, riaffermando posizioni comuni.

La Cina evita la lista terroristica ONU, definendo Hamas “parte del tessuto nazionale palestinese” e mediando tra fazioni palestinesi. Tuttavia, nel maggio 2025 l’ambasciatore cinese in Israele ha condannato per la prima volta inequivocabilmente il massacro del 7 ottobre 2023.

 Alleati strategici

La Turchia sotto Erdogan è diventata sostenitrice incrollabile di Hamas, descrivendolo come “combattenti della resistenza”. Nel gennaio 2025, migliaia di persone si sono radunate a Istanbul per sostenere la causa palestinese, con il figlio del presidente tra gli oratori.

L’Iran rimane il principale sostenitore, fornendo armi, finanziamenti e addestramento. Secondo fonti israeliane, i finanziamenti erano aumentati a 350 milioni di dollari annui nel 2023, sebbene Hamas riconosca che l’Iran sta “pagando il prezzo” per questo sostegno.

Il Qatar continua a ospitare l’ufficio politico di Hamas e a facilitare negoziati, annunciando un accordo di cessate il fuoco nel gennaio 2025. Tuttavia, affronta crescenti pressioni israeliane per “smettere di giocare su entrambi i fronti”.

La coesistenza di definizioni opposte complica qualsiasi architettura di sicurezza post-Gaza. Il consenso occidentale vede Hamas come attore terroristico da isolare, posizione progressivamente adottata da stati sunniti come l’Arabia Saudita. Dall’altra parte, Turchia, Iran e Russia mantengono rapporti aperti per interessi strategici differenti.

I tentativi franco-sauditi di disarmare Hamas mantenendolo come attore politico rappresentano l’approccio più pragmatico, ma la frammentazione della legittimità internazionale continua a ostacolare sia la ricostruzione di Gaza sia la creazione di un quadro di sicurezza condiviso nella regione.

Quali sono i benefici per il popolo Palestinese?

Il riconoscimento dello Stato di Palestina, pur rappresentando un passaggio di grande importanza simbolica, nella realtà quotidiana dei palestinesi ha un impatto molto limitato sulle condizioni di vita effettive. Questo gesto internazionale, infatti, non si traduce automaticamente in cambiamenti concreti sulla libertà di movimento, sulle condizioni economiche, sull’accesso alle risorse o sulla sicurezza delle persone.

Nonostante il riconoscimento da parte di numerosi Stati e l’ammissione della Palestina come “Stato osservatore non membro” all’ONU, permangono tutte le sfide principali: l’occupazione militare israeliana continua sia in Cisgiordania che a Gerusalemme Est, Gaza rimane sotto blocco, i confini non sono definiti e le divisioni politiche interne fra Hamas e Fatah ostacolano la governance efficace. Le restrizioni ai movimenti e agli scambi, la precarietà economica e la carenza di infrastrutture essenziali non hanno subito miglioramenti diretti in seguito a questi riconoscimenti internazionali.

Il riconoscimento dà forza alla causa diplomatica palestinese, ma non comporta un controllo reale del territorio, della sicurezza o delle risorse. L’autorità palestinese non ha potere su molti aspetti essenziali del governo di uno Stato: la possibilità di siglare accordi commerciali autonomi, di amministrare le frontiere o di garantire la protezione dei propri cittadini resta estremamente limitata. Senza una soluzione politica condivisa con Israele e senza il supporto concreto della comunità internazionale nelle questioni chiave (come l’accesso alle risorse idriche, la libertà di movimento o la ricostruzione di Gaza), il riconoscimento da solo non basta a cambiare la realtà quotidiana delle persone.

Per questo motivo, pur rappresentando un passo avanti nella legittimazione politica e simbolica, nella pratica il popolo palestinese continua a vivere una situazione fatta di incertezza, restrizioni e mancanza di prospettive reali di sviluppo. Il riconoscimento internazionale, senza misure concrete che portino alla fine dell’occupazione e al raggiungimento di un vero Stato indipendente, rimane soprattutto un fatto simbolico.

Groenlandia: la corsa mondiale alle terre rare e il nuovo risiko artico

Negli ultimi anni la Groenlandia è progressivamente emersa come un territorio al centro della diplomazia globale, della corsa alle risorse e delle tensioni tra le potenze mondiali. A porla davvero sotto i riflettori è stato Donald Trump: presidente degli Stati Uniti per la seconda volta e, ancora una volta, deciso sostenitore dell’idea che il controllo dell’isola sia una questione di sicurezza nazionale, oltre che una straordinaria opportunità economica.

È proprio la combinazione di fattori come la ricchezza mineraria, il cambiamento climatico e candidati politici ambiziosi a rendere la Groenlandia l’epicentro di una partita complessa e cruciale per il futuro energetico globale e la ridefinizione dei rapporti internazionali.

Trump ha fatto del sogno di acquisire la Groenlandia un vero tema di politica estera statunitense. Dapprima con proposte economiche, poi ventilando anche ritorsioni tariffarie nei confronti della Danimarca, di cui l’isola è territorio autonomo, e addirittura alludendo alla possibilità di usare la forza militare come extrema ratio. Il suo interesse è radicato in una convinzione strategica: la supremazia sulle cosiddette “rare earths”, i metalli rari indispensabili per microchip, batterie di auto elettriche, turbine eoliche e apparati militari, ad oggi dominio quasi esclusivo della Cina. Gli Stati Uniti, insoddisfatti della dipendenza dalle forniture cinesi, vedono nella Groenlandia una possibile alternativa, così come il Vecchio Continente. Tuttavia, la risposta da Nuuk è stata chiara: l’isola è aperta a investimenti internazionali, ma non è in vendita e difenderà la propria sovranità e i suoi interessi ambientali e sociali.

Questa posizione si inserisce in un contesto in cui anche la politica groenlandese è cambiata: il nuovo primo ministro Jens-Frederik Nielsen ha dichiarato che l’isola è “aperta agli affari”, pur con la chiara volontà di evitare manovre predatorie e preservare i delicati equilibri ambientali dell’Artico. Il governo locale, infatti, mira a emanciparsi economicamente dalla Danimarca puntando su turismo e risorse minerarie, ma sceglie con attenzione i partner internazionali, escludendo al momento un coinvolgimento eccessivo della Cina, da sempre temuta per la sua aggressiva politica di acquisizione di materie prime.

Il cuore della questione è però la difficoltà concreta di trasformare le potenzialità della Groenlandia in vantaggi immediati. L’isola vanta una delle concentrazioni più elevate al mondo di minerali strategici, con molti dei metalli considerati “critici” dalla UE. Tra i giacimenti più contestati figura quello di Tanbreez, così chiamato perché contiene tantalio, niobio, terre rare e zirconio. Tuttavia, solo poche miniere sono attualmente operative, White Mountain, a nord di Nuuk, produce anortosite per l’industria europea e asiatica, e decine di progetti internazionali sono ancora a livello di studio o prima fase. Molte concessioni sono state recentemente rilasciate anche a consorzi franco-danesi o finanziati dall’Unione Europea.

I problemi non sono soltanto politici, ma soprattutto fisici. La Groenlandia è avvolta dal ghiaccio per gran parte dell’anno, con temperature medie invernali di -5°C e punte estive che difficilmente superano i 10°C nella parte meridionale. Alcuni siti minerari, come quello di Tanbreez vicino a Qaqortoq, sono raggiungibili solo via nave durante la stagione estiva, attraverso fiordi profondi che ospitano spesso giganteschi iceberg. L’infrastruttura è scarsissima: le strade interne sono praticamente inesistenti, la popolazione, meno di 60mila abitanti su una superficie immensa, non offre il capitale umano per sostenere un boom industriale immediato, e anche la formazione specifica per il settore minerario è carente.

Il clima estremo e il fragile ecosistema artico pongono costi elevatissimi e rischi ambientali notevoli. Lo scioglimento dei ghiacciai, accelerato dai cambiamenti climatici, da un lato apre nuove opportunità di accesso alle risorse, ma dall’altro amplifica il rischio di inquinamento, incidenti ambientali e perdita di habitat preziosi. Va ricordato che, nel 2021, qualsiasi esplorazione petrolifera era stata formalmente vietata dal governo groenlandese, che teme catastrofi ambientali e catene di conseguenze irreparabili per la fauna e la popolazione locale.

La questione geopolitica si intreccia così all’emergenza ambientale e alla ricerca di un nuovo equilibrio economico per la Groenlandia. Trump, con la sua insistenza, ha certamente alzato la posta coinvolgendo non solo gli Stati Uniti, ma anche Russia, Unione Europea e, indirettamente, la Cina. La partita delle risorse diventa, in questo contesto, la chiave di volta per rivaleggiare sull’asse atlantico con Pechino, considerata la vera “padrona” delle terre rare mondiali. La Danimarca e l’Europa, lungi dal cedere ai piani americani, hanno ribadito in tutte le sedi di voler difendere ad ogni costo la propria influenza e la sovranità dei territori, rifiutando con fermezza ogni ipotesi di acquisto o annessione forzata.

Sul piano strategico, la posizione della Groenlandia è in effetti fondamentale: l’isola si trova tra gli oceani Artico e Atlantico, punto nevralgico per importanti rotte navali e transiti di sottomarini, molti dei quali a propulsione nucleare. Non a caso, l’interesse americano si spingeva già oltre le sole terre rare, puntando a installare nuovi assetti militari e rafforzare la presenza nella zona calda dell’Artico, scenario futuro di competizione tra grandi potenze non solo per le risorse ma anche per il controllo degli snodi più sensibili del pianeta.

Non si può dimenticare poi il recente accordo da molti miliardi di dollari firmato dalla Groenlandia per lo sfruttamento delle sue miniere: una mossa che ha aumentato il malumore a Washington, poiché le concessioni sono andate per lo più a società europee o consorzi canadesi, e solo marginalmente alle compagnie americane. Questo successo europeo rappresenta un duro colpo per l’amministrazione Trump, che nel frattempo deve rincorrere nuove strategie per garantire all’industria USA una quota della catena internazionale delle batterie, dei magneti e delle nuove tecnologie ecologiche.

La Groenlandia stessa appare consapevole dei propri punti di forza e delle proprie debolezze. La sua leadership, pur disposta ad attrarre capitali e know-how per raggiungere una maggiore indipendenza dalla Danimarca, resta estremamente prudente nella concessione delle licenze, temendo una “colonizzazione mineraria” che possa alterare in modo irreversibile paesaggio, tradizioni e futuro delle giovani generazioni groenlandesi. L’obiettivo sembra essere quello di trovare un equilibrio virtuoso: ottenere posti di lavoro e sviluppo, ma senza svendere le proprie risorse o accettare compromessi distruttivi dal punto di vista ambientale.

Nel futuro immediato, il ruolo della Groenlandia resta il medesimo: un banco di prova della nuova geopolitica delle risorse, specchio delle sfide climatiche e modello per il difficile bilanciamento tra tutela dell’ambiente e sviluppo economico. Gli occhi di Stati Uniti, Europa, Cina e Russia resteranno puntati sull’isola ancora a lungo. Ma la vera domanda è capire se questa ricchezza mineraria rappresenterà un’opportunità per tutta la popolazione, o finirà invece per esasperare divisioni, sfruttamento e tensioni internazionali. Il futuro dell’Artico, e con esso quello di buona parte degli equilibri globali, si gioca oggi tra i ghiacci della Groenlandia, dove politica, ambiente e affari s’intrecciano nella partita più complessa del nostro tempo.


Ucraina in piazza: Zelenskyy costretto a ritirare la legge sugli enti anti-corruzione

Il recente passo indietro del presidente ucraino Volodymyr Zelenskyy sulla controversa legge che limitava l’autonomia degli organismi anti-corruzione ha scosso profondamente il Paese, segnando uno degli episodi politici più controversi dall’inizio della guerra. La proposta legislativa in questione aveva infiammato l’opinione pubblica, scatenando le manifestazioni di protesta più imponenti contro il governo dall’inizio delle ostilità con la Russia. Migliaia di cittadini sono scesi in piazza per difendere i principi di trasparenza e integrità, richiamando l’attenzione sia delle autorità interne che delle istituzioni internazionali sull’importanza di mantenere salda la lotta contro la corruzione in Ucraina.

Al centro della questione c’erano la NABU (National Anti-Corruption Bureau) e la SAP (Specialized Anti-Corruption Prosecutor’s Office), istituzioni create tra il 2014 e il 2015 sotto la spinta della Commissione europea e del Fondo Monetario Internazionale. Questi organismi hanno rappresentato una condizione imprescindibile per facilitare la cooperazione internazionale e la liberalizzazione dei visti tra Kiev e l’Unione Europea, diventando simboli della volontà dell’Ucraina di riformarsi e allinearsi agli standard politici europei. La nuova legge, però, minacciava la loro indipendenza, rimettendo in discussione anni di impegno per la trasparenza e gettando un’ombra sulla credibilità delle riforme avviate dopo la Rivoluzione della Dignità.

La risposta della popolazione non si è fatta attendere: le strade si sono riempite di cittadini comuni, attivisti e membri dell’opposizione, determinati a difendere i pochi baluardi rimasti della legalità istituzionale. Le immagini delle proteste hanno fatto il giro del mondo, mostrando un popolo che, nonostante il peso della guerra, non si arrende davanti a proposte che sembrano riportare il Paese verso vecchie logiche clientelari. Il dissenso popolare è stato talmente dirompente da costringere il presidente Zelenskyy, inizialmente deciso sulla linea dura, a rivedere pubblicamente la propria posizione.

Pur non menzionando direttamente le manifestazioni durante il suo discorso, Zelenskyy ha dichiarato di aver sottoposto un nuovo disegno di legge per ripristinare l’autonomia degli organi anti-corruzione. Il presidente si è limitato a sottolineare come sia fondamentale rispettare le opinioni di tutti gli ucraini e ha ringraziato coloro che continuano a sostenere il Paese, scegliendo un tono istituzionale e conciliante, ma evitando di riconoscere esplicitamente la portata della protesta.

L’episodio ha innescato un acceso dibattito all’interno della Rada, il parlamento ucraino. Il deputato Oleksiy Honcharenko, molto attivo sui social, ha sollevato critiche pungenti sulla gestione della vicenda da parte dell’esecutivo. “Se togliamo l’indipendenza, poi dobbiamo garantirla di nuovo: perché era stato necessario questo passaggio?”, si è chiesto pubblicamente, incalzando il governo sulla reale motivazione dietro un dietrofront tanto repentino e poco trasparente.

La Commissione europea, da parte sua, ha espresso apprezzamento per la scelta del governo ucraino di correggere la rotta rispetto alla legge. Un portavoce ufficiale ha dichiarato che Bruxelles continuerà a collaborare strettamente con Kiev per assicurarsi che tutte le preoccupazioni relative all’autonomia degli organi anti-corruzione siano realmente recepite e attuate. L’episodio si inserisce in un quadro molto delicato: il percorso dell’Ucraina verso una maggiore integrazione europea passa non soltanto attraverso la resistenza militare all’aggressione russa, ma anche, forse soprattutto, dalla capacità di rafforzare le istituzioni democratiche e la fiducia dei cittadini nello Stato.

Il cammino di riforme anti-corruzione in Ucraina non è mai stato lineare. L’indipendenza di organismi come NABU e SAP è spesso stata messa in discussione da pressioni politiche trasversali e resistenze interne, così come dalla tentazione di ricadere in vecchie abitudini di gestione del potere basate sul controllo centralizzato delle nomine. Tuttavia, l’intervento deciso della società civile e la rapida reazione delle istituzioni comunitarie hanno mandato un segnale forte e inequivocabile: le conquiste ottenute dopo il 2014 non sono negoziabili.

Le proteste, in questo senso, rappresentano non solo una manifestazione di dissenso contro una legge considerata pericolosa, ma anche un atto di fiducia nei confronti delle possibilità di cambiamento. In una società segnata dalla guerra e dalla crisi economica, il desiderio di legalità e trasparenza rappresenta una delle poche certezze a cui ancorarsi. La mobilitazione popolare ha dimostrato che gli ucraini sono pronti a difendere democraticamente i principi fondamentali, sfidando apertamente il rischio della deriva autoritaria.

Dal punto di vista internazionale, la vicenda ha rafforzato la percezione dell’Ucraina come Paese in cammino verso una piena maturità democratica, nonostante tutte le difficoltà. L’appoggio della Commissione europea e il pressing del Fondo Monetario Internazionale riflettono la volontà della comunità occidentale di continuare a supportare Kiev, ma anche la consapevolezza che ogni passo indietro potrebbe compromettere il difficile processo di riforme.

Anche sul fronte interno la crisi ha generato ripercussioni importanti. Molti analisti sostengono che la prontezza di Zelenskyy a rivedere il testo di legge sia stata dettata più dalla forza delle proteste che da una convinzione reale sulla necessità di mantenere pienamente indipendenti NABU e SAP. Tuttavia, resta il dato di fatto: la società civile ucraina si conferma motore vero delle trasformazioni sostanziali del Paese, capace di orientare anche le decisioni dei vertici istituzionali.

Il labile equilibrio tra esigenze di sicurezza nazionale, necessità di riforma e tutela dei principi democratici resta il nodo più difficile da sciogliere. Zelenskyy, ritrovandosi di fronte a una crisi politica forse sottovalutata all’inizio, ha dovuto cedere al confronto con una cittadinanza che non è più disposta ad accettare compromessi al ribasso sui principi di legalità. In un momento in cui l’Ucraina cerca di rafforzare i legami con l’Occidente, ogni scelta politica è inevitabilmente oggetto di analisi e di pressione, non soltanto da parte dei partner internazionali ma soprattutto dell’opinione pubblica interna.

Le conseguenze di questa vicenda andranno ben oltre la semplice correzione di una legge. Quello che è accaduto richiama il senso profondo delle riforme post-Maidan e la centralità di un’autentica partecipazione popolare nei processi decisionali. Perché se oggi l’Ucraina può contare su organismi anticorruzione solidi, questo è soprattutto merito della capacità dei cittadini di mobilitarsi, vigilare e farsi sentire, anche – e forse soprattutto – nelle fasi più difficili.

Thailandia e Cambogia pronti alla guerra

La frontiera tra Thailandia e Cambogia è stata teatro di uno dei peggiori scontri militari degli ultimi anni, con una escalation di violenza che ha lasciato dietro di sé una scia di morti, feriti e sfollati. Questo conflitto è il culmine di tensioni che covavano da mesi su un’area contesa da entrambe le nazioni, un luogo ricco di storia ma segnato da decenni di dispute. La zona in questione è quella intorno al tempio di Prasat Ta Muen Thom, posizione strategica e simbolica sulla linea di confine tra la provincia thailandese di Surin e la provincia cambogiana di Oddar Meanchey.

Tutto ha avuto inizio con uno scontro tra soldati che si sono ritrovati a pochi metri di distanza, seguiti da un violento scambio di fuoco che ha coinvolto armi leggere, razzi e artiglieria. Secondo i rapporti della Royal Thai Army, i soldati cambogiani hanno utilizzato persino lanciarazzi multipli BM-21 contro posizioni thailandesi, colpendo aree abitate e causando numerose vittime civili. Tra le perdite thailandesi si contano almeno undici civili e un soldato, mentre si segnala anche un crescente numero di feriti, molti dei quali sono stati trasportati negli ospedali di frontiera trasformati in strutture di emergenza per far fronte all’emergenza sanitaria. Il bilancio umano è agghiacciante: tra le vittime ci sono anche bambini, come un bambino di otto anni colpito in un’area commerciale colpita dalle bombe cambogiane.

La reazione thailandese non si è fatta attendere, con l’impiego di aerei da combattimento F-16 per colpire obiettivi militari in territorio cambogiano. Questi raid aerei hanno causato la distruzione di almeno due basi di supporto militare cambogiane, segnando un’escalation senza precedenti negli ultimi dieci anni tra i due paesi. Entrambi i governi si accusano reciprocamente di iniziare gli scontri e di aver violato la sovranità territoriale altrui, di aver collocato mine nel territorio altrui e di attaccare intenzionalmente obiettivi civili. Queste accuse, che si rimbalzano come una partita a ping pong, nascondono un profondo retaggio di rivalità e sfiducia che risale all’epoca coloniale francese, quando furono delineati i confini poco chiari e contestati.

La crisi attuale ha peggiorato notevolmente la situazione diplomatica tra Thailandia e Cambogia. Il governo thailandese ha già deciso di ritirare il proprio ambasciatore da Phnom Penh e di espellere l’ambasciatore cambogiano da Bangkok, mentre il primo ministro cambogiano Hun Manet ha esortato la Thailandia a cessare immediatamente tutte le ostilità e a ritirare le sue truppe oltre il confine, accusando il suo vicino di violare il diritto internazionale. Le tensioni hanno portato anche alla sospensione del primo ministro thailandese in carica, evidenziando come la disputa stia minando la stabilità politica interna.

Dal punto di vista umanitario, la situazione è drammatica. Oltre centomila persone sono state costrette a fuggire dalle proprie case, trovando rifugio in centri di evacuazione allestiti dalle autorità. Le province thailandesi di Sisaket, Buriram e Ubon Ratchathani sono quelle maggiormente colpite, con migliaia di sfollati che abbandonano le loro abitazioni per sfuggire alle bombe e ai razzi. Anche in Cambogia si segnalano feriti e almeno un morto, anche se il governo di Phnom Penh è stato meno trasparente sul numero esatto delle vittime. La paura ha investito intere comunità, mentre molte scuole nelle regioni di confine sono state chiuse per motivi di sicurezza, creando ulteriori disagi ai bambini e alle loro famiglie.

Il conflitto si inserisce in una lunga storia di dispute territoriali nella cosiddetta “Triangolo di Smeraldo”, area di incontro tra i confini di Thailandia, Cambogia e Laos, caratterizzata da una ricca presenza di templi storici e da antiche rivendicazioni territoriali. La fragilità di questo equilibrio si è manifestata più volte nel corso degli ultimi decenni, con occasionali scaramucce che si sono trasformate in scontri armati più severi, come quello di maggio di quest’anno che aveva già causato la morte di un soldato cambogiano.

Gli esperti sottolineano come la questione del confine si intrecci con dinamiche politiche e nazionaliste interne a entrambi i paesi. In Thailandia, la gestione della crisi ha portato a una forte instabilità politica, con il governo costretto a fare i conti con pressioni interne e con una popolazione allarmata dalla ripresa delle ostilità. In Cambogia, la leadership ha usato la questione come elemento di coesione nazionale, richiamando all’unità contro quella che percepisce come una minaccia esterna.

Il futuro rimane incerto. Nonostante gli appelli alla calma da parte di organismi internazionali e della stessa ASEAN, il rischio di un conflitto prolungato o di ulteriori escalation rimane alto. La situazione ai confini è estremamente volatile, con continue segnalazioni di movimenti di truppe e scontri sporadici che impediscono una normalizzazione delle condizioni di vita per chi abita la zona. La comunità internazionale osserva con preoccupazione, mentre la pace, fino a questo momento fragile, sembra essersi dissolta in un momento di violenza.

Questo conflitto rappresenta non solo una tragedia umana ma anche una sfida geopolitica delicata nel cuore del Sud-Est asiatico. La storia dimostra che le frontiere tracciate da potenze coloniali spesso lasciano in eredità problemi complessi e difficili da risolvere attraverso la diplomazia tradizionale. In questa fase cruciale, il rischio è che le tensioni sfocino in un conflitto più ampio che potrebbe coinvolgere altri attori regionali e internazionali, con conseguenze imprevedibili per la stabilità dell’intera area.

Il dramma che si svolge ai confini tra Thailandia e Cambogia ci ricorda quanto sia fragile la pace in zone dove il passato e le rivendicazioni territoriali si intrecciano con interessi nazionali profondi e sfide geopolitiche complesse. L’auspicio rimane che possa prevalere la ragione, e che i canali diplomatici riescano a riaprire un dialogo serio e costruttivo prima che sia troppo tardi per le comunità locali e per le relazioni fra i due vicini di casa.

Israele vota mozione per annettere la Cisgiordania. Pericolosa escalation

Il 23 luglio 2025, con una maggioranza netta, il parlamento israeliano ha approvato una mozione non vincolante che invita il governo ad estendere la sovranità israeliana su tutta la Cisgiordania, compresa la Valle del Giordano. Un atto dal peso legale nullo ma dal valore politico potenzialmente dirompente, capace di riaprire con forza il dibattito sulla soluzione a due Stati, di mettere alla prova le relazioni internazionali di Israele e di infiammare, ancora una volta, l’opinione pubblica palestinese.

Un testo nato dall’ala destra che intercetta un clima già polarizzato

Il dispositivo, presentato inizialmente dal ministro delle Finanze Bezalel Smotrich e rilanciato da deputati di Likud, Religious Zionism e persino dall’opposizione di destra Yisrael Beiteinu, definisce la Cisgiordania “parte inseparabile della patria storica del popolo ebraico”. La mozione non cambia immediatamente lo status giuridico dei Territori occupati, ma consolida nella narrativa parlamentare l’idea che l’annessione sia non solo legittima, bensì necessaria per la sicurezza nazionale.
Fin dall’inizio della legislatura la coalizione guidata da Benjamin Netanyahu ha stretto intese con i partner ultra-nazionalisti promettendo di “avanzare l’applicazione della sovranità su Giudea e Samaria”, denominazioni bibliche usate per indicare la Cisgiordania. L’attuale voto, dunque, rappresenta il coronamento simbolico di quell’accordo di governo.

La scelta del calendario non è casuale: a fine luglio il Knesset entrerà in pausa estiva e le pressioni di diversi ministri che hanno firmato una lettera pubblica a Netanyahu perché agisca “prima della chiusura dei lavori” hanno accelerato l’iter. Per i promotori, si tratta di “mandare un messaggio chiaro al mondo” contro ogni ipotesi di Stato palestinese; per i partiti centristi e di sinistra, invece, la mozione è una “cortina fumogena” che distoglie l’attenzione dalla crisi degli ostaggi a Gaza e dalle proteste economiche interne.

Se il carattere non vincolante sembra ridurre la portata dell’iniziativa, il contesto la ingrandisce: in Cisgiordania convivono numerosi coloni israeliani accanto a una popolazione palestinese molto più ampia. Applicare la legge israeliana significherebbe includere gli insediamenti considerati illegali secondo il diritto internazionale in un sistema amministrativo unico, con il rischio di creare un regime di cittadinanza differenziata. Organizzazioni per i diritti umani evocano lo spettro di uno status permanente di apartheid.

La mozione arriva a un anno esatto dall’opinione consultiva della Corte Internazionale di Giustizia, che nel luglio 2024 ha definito l’occupazione “illegale” e intimato lo smantellamento delle colonie. Proprio per questo, la diplomazia israeliana teme che il passo possa innescare nuove iniziative sanzionatorie all’ONU o presso la Corte Penale Internazionale.

Sul fronte palestinese la reazione è stata immediata. Il portavoce presidenziale Nabil Abu Rudeineh ha definito il voto “una pericolosa escalation che mina la stabilità”. Hussein al-Sheikh, braccio destro di Mahmoud Abbas, ha parlato di “attacco diretto ai diritti del popolo palestinese” e ha invitato la comunità internazionale a intervenire. Hamas, da Gaza, ha bollato la delibera come “nulla e priva di legittimità” e ha chiesto di intensificare la resistenza popolare.

Lo sguardo del mondo: condanne, preoccupazioni e silenzi strategici

Dal Medio Oriente al G20, condanne e ammonimenti si sono susseguiti in poche ore. Turchia, Egitto, Giordania, Qatar, Arabia Saudita e Emirati Arabi Uniti hanno diffuso note congiunte definendo la mozione “una violazione palese del diritto internazionale”. Il ministero degli Esteri giordano l’ha qualificata come “minaccia alla soluzione dei due Stati e alla pace regionale”. Parallelamente l’Unione Europea ha ricordato che “qualsiasi annessione costituirebbe una grave violazione del diritto internazionale”.

Più contenute le reazioni di Washington, dove l’amministrazione statunitense evita da mesi prese di posizione nette sul dossier Cisgiordania per non compromettere i delicati equilibri con gli alleati arabi in piena crisi di Gaza. Dietro le quinte, tuttavia, diplomatici statunitensi avrebbero espresso “profonda preoccupazione” a Netanyahu, ribadendo che i negoziati con i palestinesi restano “l’unica via credibile”. Canada, Australia e diversi Paesi latino-americani, dal canto loro, hanno richiamato il principio di inutilizzabilità della forza nella modifica dei confini.

Il voto israeliano pesa anche sulle trattative, ancora in stato embrionale, per la normalizzazione dei rapporti tra Israele e Arabia Saudita. Riyadh ha più volte subordinato eventuali aperture a “progressi reali” sul fronte palestinese, condizione che la mozione rende ancora più complicata.

Possibili scenari: dal diritto interno alla geopolitica

Cisgiordania - West bank
West bank – Cisgiordania

Sebbene la mozione non obblighi il governo a presentare una legge di annessione, il rischio che diventi la base di future iniziative legislative è concreto. Netanyahu potrebbe sfruttare il voto come leva negoziale: da un lato per rafforzare la coesione della coalizione, dall’altro per ottenere concessioni internazionali in cambio di un congelamento de facto. Analoga dinamica si è già vista in passato, quando il parlamento approvò risoluzioni contro la nascita di uno Stato palestinese; da allora, tuttavia, nessuna legge di annessione vera e propria è stata discussa.

Sul versante palestinese l’Autorità Nazionale teme un ulteriore indebolimento della propria posizione. Già oggi l’erosione territoriale dovuta all’espansione delle colonie rende frammentaria la continuità geografica necessaria a uno Stato sovrano. Un’annessione formale negherebbe di fatto le frontiere del 1967, base di ogni negoziato sin dagli Accordi di Oslo. Per questo Ramallah valuta di intensificare la campagna di riconoscimento internazionale con numerosi Paesi, portando sempre più Stati a riconoscere la Palestina come entità sovrana. Ogni nuovo passo israeliano verso l’annessione potrebbe accelerare questa dinamica diplomatica.

Nell’immediato, l’attenzione si sposta sulle possibili reazioni dei coloni e dei movimenti palestinesi sul territorio. Incursioni, demolizioni e blocchi stradali sono in aumento, alimentando il timore di un’ulteriore spirale di violenza. La società civile israeliana è a sua volta spaccata: gruppi pacifisti come Peace Now denunciano “il rischio di un conflitto permanente”, mentre settori nazional-religiosi salutano la mozione come “passo storico verso il compimento della missione sionista”.

Un passo che ridisegna il lessico del conflitto

Al di là dei suoi effetti immediati, la mozione segna un mutamento semantico: sostituisce la logica del “processo di pace” con il linguaggio della “sovranità”, trasferendo nel discorso pubblico un concetto finora confinato a slogan elettorali. Se in passato si discuteva di ritiro, negoziato e compromesso, oggi il centro del dibattito è diventato l’estensione permanente della legislazione israeliana oltre la Linea Verde.

Molti analisti vedono in questo cambio di paradigma il sintomo di un conflitto ormai privo di un quadro negoziale riconosciuto da entrambe le parti. L’Autorità Palestinese, delegittimata internamente e priva di risultati concreti, rischia di perdere definitivamente la funzione di interlocutore; Israele, dal canto suo, potrebbe trovarsi isolato da un fronte internazionale più vasto di quello che bloccò l’annessione nel 2020, quando gli Accordi di Abramo permisero un congelamento in cambio della normalizzazione con gli Emirati Arabi Uniti.

Il voto, quindi, non si esaurisce nella cronaca parlamentare. È l’ennesima tessera di un puzzle che vede sul tavolo diritto internazionale, equilibri interni israeliani, aspirazioni nazionali palestinesi e interessi strategici globali. Se diventerà un detonatore legislativo o resterà un gesto di pura propaganda dipenderà dalla capacità – o volontà – degli attori coinvolti di tornare a un tavolo di trattativa credibile. Nel frattempo, il linguaggio della sovranità continua a spostare il baricentro del conflitto, lasciando sul campo una domanda aperta: quale spazio rimane, oggi, per una pace negoziata che garantisca diritti e sicurezza a entrambe le popolazioni?

Russia: un Antonov An-24 precipita con quasi cinquanta persone a bordo

L’alba del 24 luglio 2025 si è svegliata con una delle sue notizie più cupe per la Federazione Russa. Un Antonov An-24, aereo di linea quasi cinquantennale, si è schiantato nella regione dell’Amur, a ovest della cittadina siberiana di Tynda, lasciando dietro di sé una scia di fumo visibile tra i densi boschi e spegnendo le speranze di ritrovare superstiti tra le quasi cinquanta persone a bordo. La conferma della gravità della situazione è giunta dopo frenetiche ricerche aeree: la fusoliera in fiamme è stata avvistata da un elicottero dei servizi d’emergenza russi, rendendo palese fin da subito la portata della tragedia.

Il volo, operato dalla compagnia regionale Angara Airlines, trasportava un gruppo eterogeneo: passeggeri, tra cui alcuni bambini, e membri dell’equipaggio. Un dato confermato sia dal governatore dell’Amur, Vasily Orlov, che dalle fonti del ministero per le Situazioni d’Emergenza, benché alcune note ufficiali indichino un numero di presenze oscillante a causa delle consuete discrepanze iniziali in simili circostanze. Le autorità, che hanno subito aperto un’indagine per presunta violazione delle norme sulla sicurezza del volo, si sono trovate davanti a uno scenario da incubo: nessun superstite, i resti dell’Antonov dispersi su un pendio boscoso vicino a Tynda. L’area, tra l’altro, è notoriamente remota e difficile da raggiungere anche per i soccorritori più esperti: la morfologia del terreno, caratterizzata da colline, vegetazione intensa e l’assenza di infrastrutture agevoli, ha reso impossibile l’atterraggio diretto perfino ai velivoli di soccorso.

Le immagini che hanno fatto il giro del mondo brevi spezzoni pubblicati sui social media e ripresi dai notiziari locali mostrano colonne di fumo che si alzano nel verde fitto della foresta, con pezzi dell’aeromobile disseminati tra gli alberi e le fiamme ancora attive all’arrivo della prima squadra di soccorso. Lo scenario si è immediatamente prospettato devastante, con le autorità dell’Amur che hanno dichiarato lo stato di massima emergenza e l’attivazione di hotline dedicate per informare familiari e parenti delle vittime.

Il volo era partito da Blagoveshchensk, capoluogo regionale al confine con la Cina, ed era diretto alla cittadina di Tynda, approdo strategico della linea ferroviaria Baikal-Amur, cuore logistico dell’Estremo Oriente russo. Secondo le ricostruzioni preliminari, il contatto radio si è interrotto mentre l’aereo stava iniziando le manovre di discesa. A bordo—oltre ai numerosi passeggeri, uomini, donne e bambini—figuravano componenti dell’equipaggio, tra cui pilota e copilota, che secondo quanto riportato, non hanno mai avuto il tempo o la possibilità di lanciare un segnale di emergenza né di riferire anomalie tecniche comunicabili alle torri di controllo.

I primi dettagli sull’accaduto sono giunti dopo che il centro operativo della difesa civile aveva disposto il decollo di elicotteri di ricerca, i quali hanno sorvolato l’area individuando ben presto i resti del velivolo. Le indagini si sono subito concentrate sulle condizioni meteorologiche e sulle dinamiche dell’atterraggio. Secondo quanto riferito dalla procura dei trasporti della regione, l’aereo avrebbe tentato un secondo avvicinamento alla pista dopo un primo tentativo fallito, probabilmente a causa di scarsissima visibilità e forti venti. È stato proprio durante questa manovra, apparentemente senza alcuna richiesta di aiuto, che i radar hanno perso il segnale del velivolo.

L’Antonov An-24 coinvolto nell’incidente era uno degli esemplari storici dell’aviazione sovietica, entrato in servizio decenni fa, con alle spalle numerosi voli per la compagnia di bandiera Aeroflot prima e per varie compagnie regionali dopo la dissoluzione dell’URSS. Nonostante l’età, il velivolo risultava in regola con le certificazioni di volo, secondo quanto riportato da fonti dell’aviazione russa; tuttavia, l’elevata anzianità della flotta civile russa in zone isolate rappresenta una costante fonte di preoccupazione per esperti e associazioni di settore, che nuovamente invocano interventi strutturali per il rinnovo del parco mezzi, soprattutto sulle tratte periferiche dove l’usura e la difficoltà di manutenzione si fanno sentire di più.

L’intera operazione di ricerca e recupero ha richiesto ore tra ostacoli naturali e condizioni meteorologiche avverse, con squadre specializzate che hanno lavorato incessantemente tra i fumi ancora attivi dell’incendio. “È stato complicato atterrare sul sito dello schianto”, ha dichiarato un responsabile dei soccorsi citato dall’agenzia TASS. “Abbiamo riscontrato subito assenza di sopravvissuti”.

Le autorità hanno deciso di avviare, nel frattempo, un’indagine penale ipotizzando la violazione delle norme di sicurezza del volo: una prassi obbligata in Russia nel caso di incidenti mortali dell’aviazione civile, che mira a stabilire con precisione le responsabilità e a produrre raccomandazioni per prevenire catastrofi simili. Fra le ipotesi prese in esame, oltre all’errore umano e alle difficili condizioni del meteo, non viene esclusa la possibilità di un improvviso guasto tecnico dovuto all’età della macchina.

Profondo è il dolore nella regione dell’Amur e in tutta la comunità dell’Estremo Oriente russo, tuttora impreparata a confrontarsi con la portata di una simile tragedia: Tynda, la destinazione finale del volo, è una cittadina di dimensioni contenute, autentico crocevia ferroviario e aereo di frontiera, toccata raramente dalle cronache nazionali se non per casi come questi. Familiari delle vittime, colleghi e amici si sono radunati nelle ore successive presso l’aeroporto e gli ospedali della zona, mentre le autorità locali hanno allestito supporti psicologici e centri di assistenza per i parenti colpiti dalla perdita.

Il disastro dell’An-24 dell’Angara Airlines riapre, ancora una volta, il dibattito sulla sicurezza nei cieli periferici della Russia, un Paese vastissimo in cui spesso la manutenzione e il ricambio della flotta si scontrano con la realtà logistica e i costi proibitivi delle operazioni nelle regioni più isolate. La presenza di aerei dal progetto sovietico ormai vetusto, insieme all’assenza di segnalazioni di malfunzionamento o avviso immediato di avaria, mette sotto esame tutti gli anelli della catena: dalla formazione degli equipaggi alle strategie di approccio agli aeroporti più esposti a condizioni critiche.

L’opinione pubblica russa già scossa da precedenti catastrofi aeree e incidenti in zone periferiche esprime rabbia e smarrimento, mentre le indagini proseguono senza sosta. Il lutto che ha investito la regione dell’Amur si riflette sulle politiche dell’intero Paese, laddove la questione delle infrastrutture e della sicurezza civile e industriale torna prepotentemente al centro dell’attenzione nazionale. La speranza di qualche segnale di vita si è spenta definitivamente quando anche le ultime squadre di soccorso hanno confermato che non c’era nessuna possibilità di trovare superstiti.

Ancora una volta, la tragedia richiama la necessità di rinnovare e rafforzare i sistemi di trasporto in territori poco serviti, ove la sicurezza non può essere affidata solo alla storicità o alla fama di progetti ingegneristici del passato ma necessita di interventi continui, controlli serrati e risorse adeguate. La gravità dell’incidente e il dolore delle famiglie delle vittime resteranno un monito vivissimo per il sistema aeronautico russo e per le comunità che, nel silenzio delle loro foreste e steppe, continuano a scommettere sulla connettività aerea per non restare isolate dal resto del Paese. Solo la massima attenzione alla prevenzione, all’addestramento e allo stato dei velivoli potrà, forse, evitare che tragedie come quella del 24 luglio 2025 si ripetano.

Germania 2025: blatte spia, robot e IA, così cambia la guerra del futuro

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Nella Germania del 2025, la rivoluzione bellica non si combatte più solo con carri armati e cannoni: i protagonisti di questa nuova corsa agli armamenti sono intelligenza artificiale avanzata, droni autonomi e persino “blatte spia” inviate tra le linee nemiche. Sull’onda lunga del conflitto in Ucraina e della crescente incertezza geopolitica internazionale, Berlino ha avviato una trasformazione profonda della sua difesa, investendo miliardi di euro in tecnologie che fino a pochi anni fa sembravano fantascienza.

La svolta è sotto gli occhi di tutti: la Bundeswehr, forze armate tedesche, si apre sempre di più alle start-up innovative e ai nuovi attori del settore, accorciando drasticamente i tempi della burocrazia per favorire la rapida adozione delle tecnologie più all’avanguardia. “La trasformazione che portano sul campo di battaglia i droni e l’intelligenza artificiale è paragonabile a quella introdotta a suo tempo dalla mitragliatrice o dal carro armato”, ha dichiarato Annetta LeigkEmden, a capo del potente organismo che gestisce la spesa militare tedesca. In questa corsa all’innovazione, ad esempio, il Cyber Innovation Hub, acceleratore ufficiale della Bundeswehr, riceve ora decine di proposte di collaborazione ogni giorno, spaziando dallo sviluppo della robotica militare fino agli infestanti dotati di microchip.

Le blatte “cyborg”: natura e tecnologia per la guerra e il soccorso

Tra le idee più sorprendenti emerse in Germania figura quella di utilizzare vere blatte, equipaggiate con minuscoli zaini elettronici, come strumento per la sorveglianza in ambienti ostili. Queste “spy cockroaches” sono in grado di essere manovrate a distanza, inviate in edifici o sotterranei per raccogliere informazioni tramite telecamere miniaturizzate e sensori. La start-up tedesca Swarm Biotactics, con laboratori a Kassel, punta dichiaratamente a creare stormi di insetti telecomandati per infiltrare le basi nemiche o localizzare persone rimaste intrappolate in scenari di catastrofe.

Il funzionamento è tanto ingegnoso quanto inquietante: un piccolo modulo elettronico, impiantato sul dorso di ogni insetto, stimola elettricamente i movimenti della blatta, guidandola secondo necessità. A differenza che con i mammiferi, la normativa tedesca non proibisce questo tipo di manipolazione sugli insetti, una zona grigia della legge che sta facilitando la sperimentazione di sistemi davvero fuori dall’ordinario. L’obiettivo degli sviluppatori è ambizioso: non solo militarizzare sciami di insetti per lo spionaggio, ma impiegarli anche nell’industria (per rilevare fughe di gas) o nelle operazioni di salvataggio, dove uomini e droni faticherebbero a penetrare in luoghi troppo stretti o insicuri2.

L’intelligenza artificiale e la trasparenza del campo di battaglia

La corsa della Bundeswehr non si ferma però alla biotecnologia. Il nuovo sistema “Uranos KI” punta a creare un vero e proprio campo di battaglia trasparente: la frontiera è quella della sorveglianza capillare grazie a sensori e algoritmi. L’IA analizzerà masse di dati in tempo reale, consentendo di prevedere e identificare ogni mossa dell’avversario, dai movimenti dei carri armati fino alle manovre furtive dei droni.

Secondo fonti della difesa, i primi test pratici in Germania hanno già permesso di dimezzare i tempi necessari per neutralizzare veicoli nemici e di risparmiare fino a un terzo delle munizioni utilizzate in addestramento. La direzione è chiara: la Germania vuole dotarsi di sistemi automatizzati che, nel giro di pochi anni, possano guidare in tempo reale le decisioni tattiche dei soldati sul campo.

Alla base di questa svolta vi è anche una crescente collaborazione tra settore pubblico e imprese innovative: come nel caso di Helsing, la start-up da 12 miliardi di dollari protagonista nello sviluppo di IA bellica e di droni d’attacco, o di ARX Robotics, che lavora su sistemi di terra autonomi. Il governo di Berlino sta cambiando radicalmente le regole del gioco: semplificazioni delle gare d’appalto, anticipi per le PMI e priorità ai fornitori europei sono le nuove linee guida per il procurement militare.

Il cambiamento è così profondo che la “Mittelstand”, la tradizionale classe di piccole e medie imprese tedesche in passato fortemente legata al settore automobilistico, sta progressivamente riconvertendo la produzione verso componenti per la difesa. L’obiettivo governativo è triplicare il budget militare entro il 2029, fino a 175 miliardi di dollari, con particolare attenzione alle tecnologie dirompenti come l’IA e la robotica.

Le implicazioni geopolitiche: una Germania “armi-tech leader”

Questa trasformazione è figlia anche del mutato clima geopolitico. L’invasione russa dell’Ucraina ha scosso profondamente la società e la politica tedesca, abbattendo molti dei tabù storici sull’impiego della forza e sul riarmo. Oggi la Germania non si limita più a sostenere l’Ucraina come donatore, ma intende porsi come leader della nuova difesa europea. Basti pensare che, per la prima volta da decenni, l’Europa nel suo complesso ha superato gli Stati Uniti per spesa in procurement militare, secondo le recenti rilevazioni della Commissione Europea. Questo significa anche una maggiore autonomia strategica rispetto alla Nato e un rafforzamento degli strumenti per affrontare le minacce alle frontiere orientali dell’Alleanza.

Il piano tedesco si inserisce inoltre in un più ampio programma di riarmo europeo, che prevede un’iniezione di 800 miliardi di euro nei prossimi anni per la costruzione di difese anti-aeree e l’ammodernamento delle infrastrutture critiche. Start-up, venture capital e grandi colossi come Rheinmetall o Hensoldt sono ormai coinvolti direttamente nei processi decisionali e nella ricerca di soluzioni che accelerino l’integrazione di queste nuove tecnologie nella filiera difensiva continentale.

Il futuro della guerra: tra etica, innovazione e tecnosorveglianza

L’avvento di sistemi basati su intelligenza artificiale, strumenti cibernetici e “organismi cyborg” pone enormi questioni etiche e strategiche. Il vantaggio degli animali-cyborg? Non vengono rilevati dai radar, hanno energia praticamente illimitata (si nutrono da soli) e, se dotati dei giusti sensori, possono raccogliere dati ovunque sia impossibile arrivare per qualsiasi altra macchina o essere umano. Ma tutto ciò solleva interrogativi profondi: fin dove la tecnologia può spingersi prima che gli stessi principi fondamentali della guerra e della privacy vengano messi in discussione?

Berlino ne è consapevole. Ma in una stagione segnata da crisi e da una crescente pressione ai confini orientali europei, la priorità sembra essere quella di non restare indietro in una corsa tecnologica che ormai definisce non solo la sicurezza nazionale, ma il bilanciamento dei poteri mondiali.

Italia e Algeria, un nuovo patto strategico: tra contrasto al terrorismo e migrazioni

Nella splendida cornice di Villa Doria Pamphili a Roma, si è svolto un cruciale vertice intergovernativo tra Italia e Algeria che segna una svolta nelle relazioni bilaterali tra i due Paesi. L’incontro, che ha visto protagonisti la Presidente del Consiglio italiana Giorgia Meloni e il Presidente algerino Abdelmadjid Tebboune, ha prodotto una serie di accordi fondamentali, incentrati sulla lotta al terrorismo internazionale, sul contenimento dei flussi migratori e sul rafforzamento della cooperazione economica, soprattutto nei settori dell’energia e delle telecomunicazioni.

Il vertice arriva in un delicato momento storico per l’area mediterranea, segnato da sfide complesse come l’instabilità del Nord Africa e la pressione esercitata dalle migrazioni verso l’Europa. Il documento siglato dalle delegazioni di Roma e Algeri prevede la formalizzazione di un memorandum d’intesa specificamente dedicato al contrasto del terrorismo e al blocco dei suoi canali di finanziamento, anche se al momento non sono stati resi noti i dettagli operativi delle minacce che i due Paesi intendono affrontare congiuntamente.

Parallelamente, una delle principali linee di collaborazione riguarda la gestione delle migrazioni. L’Italia, guidata dal governo Meloni dal 2022, ha infatti fatto della riduzione degli sbarchi e della lotta ai traffici dei migranti una delle sue priorità politiche. L’accordo prevede una strategia di coordinamento rafforzato nei soccorsi e nelle operazioni di salvataggio nel Mediterraneo, rotta tristemente nota per i numerosi naufragi di migranti in fuga dal Nord Africa. Questo impegno mira a rendere più efficace la risposta congiunta nella gestione delle emergenze e a salvare vite umane, oltre a erodere i margini di azione delle organizzazioni criminali che lucrano sulla disperazione dei migranti.

Il legame tra Italia e Algeria, in particolare, assume una valenza cruciale anche dal punto di vista energetico ed economico. L’Algeria è attualmente il principale partner commerciale dell’Italia in Africa, con scambi bilaterali che hanno superato i 14 miliardi di euro negli ultimi dodici mesi e investimenti italiani in territorio algerino che ammontano a circa 8,5 miliardi di euro. Nel corso del summit sono stati siglati numerosi nuovi contratti, tra cui spicca l’accordo tra il colosso energetico italiano Eni e l’azienda statale algerina Sonatrach, del valore di circa 1,3 miliardi di dollari, destinato all’esplorazione e allo sviluppo di risorse idrocarburiche nel paese nordafricano. Questa collaborazione energetica non solo consolida il ruolo dell’Italia come primo cliente del gas algerino, ma si inserisce nel contesto più ampio del cosiddetto “Piano Mattei”, la strategia italiana per rafforzare i legami economici e infrastrutturali con l’Africa, ridisegnando gli equilibri dell’approvvigionamento energetico europeo in una fase post-dipendenza dal gas russo.

Il vertice ha rappresentato anche l’occasione per intensificare i rapporti su molteplici fronti: sono stati stipulati oltre dieci accordi intergovernativi, dal contrasto al terrorismo alla cooperazione culturale, passando per il commercio e la sicurezza. Le delegazioni hanno inoltre discusso temi di rilievo globale, tra cui la situazione in Ucraina, le crisi in Medio Oriente, le tensioni in Libia e il coinvolgimento nell’area del Sahel: dossier che confermano la necessità di una sinergia sempre più estesa tra le due sponde del Mediterraneo e sottolineano come Algeria e Italia lavorino fianco a fianco per garantire stabilità regionale, anche grazie al contributo del settore privato e delle oltre 150 aziende italiane operanti in Algeria.

La cooperazione in tema di sicurezza, con un accento particolare sul contrasto ai traffici illeciti, è vista da entrambi i governi come il pilastro per una crescita economica sostenibile e una migliore gestione delle frontiere. L’accordo recentemente firmato dai ministri degli Interni di Italia e Algeria amplia infatti le aree investigative e introduce nuove forme di collaborazione contro la criminalità organizzata, la cybercrime, la tratta di esseri umani e il traffico di droga, con un’attenzione specifica alle minacce emergenti dalla crisi del Sahel e dall’instabilità nei confini orientali algerini, soprattutto con la Libia.

Da sottolineare una dichiarazione del ministro dell’Interno algerino Brahim Merad, secondo cui “al momento (in Italia) non ci sono migranti provenienti dall’Algeria, ed è grazie alla nostra visione comune”. Un risultato che Merad attribuisce anche alla chiusura e al controllo rafforzato delle frontiere meridionali, necessario alla luce dei rischi crescenti derivanti dall’espansione dei traffici da sud e dalla penetrazione del terrorismo nella regione. Si tratta, come ha sottolineato il rappresentante algerino, di un modello di collaborazione che va oltre la semplice gestione emergenziale e punta a una prevenzione strutturale delle dinamiche criminali internazionali.

Dal punto di vista geopolitico, questa rinnovata intesa apre prospettive concrete per la costruzione di una partnership euro-africana moderna, più equa e orientata allo sviluppo reciproco. La visione della Presidenza italiana mira infatti a superare la tradizionale logica di “aiuti dall’alto”, per abbracciare una strategia di cooperazione paritaria che favorisca investimenti, scambi tecnologici e crescita sostenibile su entrambi i versanti del Mediterraneo. Meloni ha spesso sottolineato la necessità di abbandonare l’arroganza occidentale nelle relazioni con l’Africa, promuovendo invece rapporti di fiducia reciproca e progetti concreti in grado di incidere sul benessere delle comunità locali, contribuendo così a ridurre le stesse radici delle migrazioni forzate.

Non manca nell’agenda comune l’attenzione al futuro: dalla lotta al cambiamento climatico ai nuovi modelli di sviluppo agricolo, dalle energie rinnovabili all’innovazione tecnologica, i governi italiano e algerino si sono impegnati a creare nuove opportunità per giovani e imprese, incentivando progetti di ricerca e formazione condivisa.

Il summit di Villa Doria Pamphili non è dunque soltanto un evento simbolico, ma rappresenta l’avvio di una fase operativa in cui la diplomazia mediterranea si traduce in azioni concrete e misurabili. Gli operatori economici guardano con interesse ai nuovi scenari aperti dalla partnership Roma-Algeri, mentre le istituzioni sottolineano la necessità di garantire continuità agli impegni presi. La comunità internazionale osserva con attenzione l’esito dell’intesa, consapevole che la stabilità e la crescita del Mediterraneo passano oggi più che mai attraverso la capacità di agire insieme, di affrontare vecchie emergenze con strumenti nuovi e di utilizzare la cooperazione come leva per costruire sicurezza e prosperità condivise.