18 Settembre 2025
Home Blog Pagina 9

Iran deporta 1 milione e 400 mila afghani nell’indifferenza internazionale

Nell’indifferenza pressoché totale dei media internazionali, l’Iran ha condotto una delle più grandi operazioni di deportazione di massa della storia moderna. Oltre un milione e quattrocentomila afghani sono stati espulsi dal territorio iraniano nel corso del 2025, con un’accelerazione drammatica dopo il conflitto con Israele. Una tragedia umanitaria di proporzioni enormi che si consuma sotto gli occhi di un mondo che sembra aver voltato le spalle al popolo afghano.

Un esodo biblico

La scadenza fissata dalle autorità iraniane ha innescato un esodo biblico. Secondo l’Organizzazione Internazionale per le Migrazioni, centinaia di migliaia di afghani hanno attraversato il confine iraniano-afghano in pochissimi giorni. Il picco si è registrato quando decine di migliaia di persone sono state costrette a lasciare l’Iran in un solo giorno, mentre in una singola settimana ne sono state deportate centinaia di migliaia.

Il regime di Teheran ha utilizzato il pretesto della sicurezza nazionale per giustificare queste espulsioni su larga scala, accusando senza prove concrete i rifugiati afghani di spionaggio per conto di Israele. Richard Bennett, Relatore Speciale delle Nazioni Unite per i diritti umani in Afghanistan, ha denunciato come “centinaia” di afghani siano stati arrestati e accusati di spionaggio, in quella che appare come una caccia alle streghe alimentata da pregiudizi razziali e tensioni geopolitiche.

Le testimonianze raccolte dalle organizzazioni umanitarie dipingono un quadro agghiacciante di violenze sistematiche. Bashir, un giovane afghano, ha raccontato: “Prima mi hanno preso dei soldi. Poi mi hanno costretto a pagare altro nel centro di detenzione, dove non ci davano né cibo né acqua. C’erano centinaia di persone, ci picchiavano e ci maltrattavano”. Un altro deportato ha dichiarato: “Ci hanno trattato come spazzatura”, mentre le testimonianze parlano di famiglie separate, documenti strappati e violenze fisiche durante il processo di espulsione.

Deportato anche chi aveva i documenti

La maggior parte delle deportazioni è avvenuta con la forza, coinvolgendo non solo migranti irregolari ma anche persone con documenti validi. Il Center for Human Rights in Iran ha documentato casi di afghani con visti e permessi di residenza regolari deportati arbitrariamente. La situazione è peggiorata dopo la guerra tra Iran e Israele, quando i media di stato iraniani hanno iniziato una campagna di incitamento all’odio, etichettando gli afghani come “traditori” e “spie”.

La crisi umanitaria al confine afghano-iraniano è devastante. Al valico di Islam Qala, migliaia di persone sono ammassate sotto tende precarie, con temperature estreme. Mihyung Park, capo missione dell’OIM, ha descritto la situazione come “terribile”, segnalando l’arrivo anche di centinaia di minori non accompagnati. Le organizzazioni umanitarie riescono ad assistere solo una minima parte delle persone che hanno bisogno di aiuto.

L’incubo per le donne

Le donne afghane deportate affrontano un doppio calvario. Costrette a tornare in un Afghanistan governato dai talebani, dove le donne sono private di tutti i diritti fondamentali, molte si trovano senza tutore maschio e quindi impossibilitate ad accedere a servizi essenziali. Marwa, una giovane deportata, ha dichiarato: “L’Afghanistan è come una gabbia per le donne, e stiamo tornando in quella prigione”. Le restrizioni talebane vietano alle donne di parlare in pubblico, di lavorare, di studiare oltre la sesta classe e persino di mostrare il volto.

Il regime talebano ha mantenuto un silenzio assordante di fronte a questa tragedia. Molti osservatori ritengono che i talebani vedano di buon occhio le deportazioni, poiché molti rifugiati in Iran erano oppositori del regime, ex funzionari del governo precedente, giornalisti e attivisti per i diritti umani. Questa indifferenza calcolata condanna il proprio popolo a sofferenze devastanti.

L’Afghanistan, già prostrato da una crisi umanitaria gravissima, non è preparato ad accogliere un numero così elevato di rimpatriati. Secondo le Nazioni Unite, oltre la metà della popolazione afghana dipende dagli aiuti umanitari, mentre svariati milioni di persone necessitano di assistenza immediata. La situazione è aggravata dalla diminuzione dei finanziamenti internazionali: molte strutture sanitarie sono state costrette a chiudere, privando milioni di persone delle cure mediche.

La comunità internazionale ha sostanzialmente ignorato questa catastrofe umanitaria. Mentre le crisi in altre regioni del mondo ricevono ampia copertura mediatica e sostegno internazionale, il dramma afghano è relegato alle pagine interne dei giornali. L’Asian Forum for Human Rights and Development ha definito le deportazioni “una grave violazione degli standard internazionali dei diritti umani”, ma le proteste internazionali sono state inefficaci.

Il Pakistan ha seguito l’esempio iraniano, deportando centinaia di migliaia di afghani. Anche il Tagikistan ha annunciato l’espulsione di migliaia di afghani, creando un effetto domino che sta isolando completamente il popolo afghano. Questa convergenza di politiche repressive crea quello che gli esperti definiscono un regime coercitivo di rimpatri forzati.

Ipocrisia occidentale

L’ipocrisia occidentale è palese. Mentre l’Europa e gli Stati Uniti predicano i diritti umani e la protezione dei rifugiati, hanno lasciato che l’Iran procedesse indisturbato nelle deportazioni di massa. Alcuni paesi europei hanno persino annunciato la possibilità di stabilire canali di dialogo con i talebani per deportare afghani condannati, dimostrando come spesso la retorica umanitaria ceda il passo ai calcoli politici.

Ayatollah Ali Khamenei

La tragedia afghana rappresenta un fallimento collettivo della comunità internazionale. Mentre il mondo si concentra su altri conflitti, milioni di afghani vengono abbandonati al loro destino, vittime di un regime teocratico oppressivo in patria e di politiche xenofobe nei paesi di accoglienza. Le immagini di bambini disidratati al confine, di famiglie separate e di donne ridotte al silenzio dovrebbero scuotere le coscienze, ma sembrano destinate a rimanere un capitolo dimenticato nella storia contemporanea.

L’indifferenza mediatica verso questa tragedia è sintomatica di un mondo che ha perso la capacità di indignarsi uniformemente di fronte alle ingiustizie. Mentre alcune crisi ricevono attenzione globale, altre vengono ignorate, creando una gerarchia immorale della sofferenza umana. Il popolo afghano, già abbandonato dalle potenze occidentali, subisce ora una seconda forma di abbandono: quella del silenzio internazionale di fronte alle deportazioni di massa.

La storia giudicherà severamente questa indifferenza. Mentre l’Iran continua le sue deportazioni brutali e i talebani consolidano il loro potere repressivo, milioni di afghani continuano a soffrire nell’indifferenza generale. Il loro grido di aiuto echeggia nel vuoto di un mondo che sembra aver perso la memoria della propria umanità.

Siria nel caos: Israele bombarda il Palazzo Presidenziale

La situazione in Medio Oriente continua a deteriorarsi con una drammatica escalation delle tensioni che ha visto Israele bombardare il palazzo presidenziale di Damasco mentre scontri settari insanguinano il sud della Siria e Gaza continua a contare vittime civili in un conflitto che sembra non conoscere fine. Gli sviluppi delle ultime ore stanno ridisegnando gli equilibri regionali con gli Stati Uniti che tentano di frenare l’escalation attraverso una diplomazia sempre più sotto pressione.

Il bombardamento del Palazzo del Popolo

L’attacco israeliano al palazzo presidenziale di Damasco, conosciuto come “Palazzo del Popolo” e utilizzato dal presidente siriano Ahmed al-Shara, rappresenta un’escalation senza precedenti nel coinvolgimento militare israeliano in Siria. L’operazione, confermata dall’agenzia Reuters attraverso testimonianze oculari, ha visto tre raid israeliani consecutivi contro la struttura governativa siriana, secondo quanto riportato dal sito di notizie siriano Kol HaBira, affiliato all’opposizione.

L’esercito israeliano ha rivendicato l’attacco sostenendo di aver colpito l’ingresso del quartier generale dell’esercito siriano a Damasco, mentre i media statali siriani hanno confermato che i droni israeliani hanno preso di mira anche la città di Sweida, a maggioranza drusa, dove le forze governative siriane si erano schierate nonostante gli espliciti avvertimenti da parte di Tel Aviv. Un corrispondente dell’AFP ha documentato direttamente un attacco contro un camion militare all’ingresso occidentale di Sweida, evidenziando come gli scontri stiano assumendo dimensioni sempre più ampie.

La drammatica situazione dei Drusi

La comunità drusa si trova al centro di una crisi umanitaria e identitaria che sta mettendo alla prova i legami storici con Israele. Gli scontri settari tra drusi e beduini a Sweida hanno causato 248 morti, secondo i dati forniti dalle autorità locali, creando una situazione di emergenza che ha spinto la leadership drusa israeliana a lanciare un appello drammatico per attraversare il confine e soccorrere i “fratelli massacrati”.

Lo sceicco Mowafaq Tarif, che guida la comunità drusa in Israele, ha emesso una dichiarazione che evidenzia una profonda frattura nell’alleanza storica tra Israele e la comunità drusa. “Purtroppo, le IDF e il governo israeliano, nonostante i loro impegni espliciti, non stanno intraprendendo alcuna azione concreta per fermare le uccisioni”, recita il comunicato ufficiale che annuncia giorni di lutto nazionale e uno sciopero generale in tutti gli insediamenti drusi in Israele.

La risposta del primo ministro Benjamin Netanyahu è stata ferma ma carica di preoccupazione: “Stiamo lavorando per salvare i nostri fratelli drusi e per eliminare le bande del regime”, ha dichiarato, rivolgendo però un appello diretto ai drusi israeliani affinché non oltrepassino il confine, poiché “state rischiando la vita”. La situazione è diventata così tesa che drusi israeliani hanno sfondato la recinzione di confine tentando di raggiungere la Siria, come documentato da video diffusi sui media internazionali.

La posizione americana e le pressioni diplomatiche

L’amministrazione Trump si trova di fronte a una crisi diplomatica complessa che richiede un delicato equilibrio tra il sostegno all’alleato israeliano e la necessità di contenere un’escalation regionale. Il Segretario di Stato Marco Rubio ha espresso profonda preoccupazione per gli sviluppi in Siria, rivelando di aver “appena riattaccato al telefono con le parti interessate” e che gli Stati Uniti “vogliono che i combattimenti cessino”.

Secondo quanto riportato da Axios, gli Stati Uniti avevano chiesto a Israele di fermare i raid contro le forze militari siriane nel sud del Paese già nella giornata precedente agli attacchi al palazzo presidenziale. La risposta di Tel Aviv sarebbe stata inizialmente positiva, con l’impegno a cessare gli attacchi entro sera, ma gli eventi successivi hanno dimostrato quanto sia difficile controllare l’escalation militare una volta innescata.

Il coinvolgimento diretto del presidente Trump nella gestione della crisi emerge dalla programmata riunione con il primo ministro del Qatar Mohammad bin Abdulrahman al-Thani alla Casa Bianca, dove al centro dei colloqui saranno i negoziati per il cessate il fuoco nella Striscia di Gaza e il rilascio degli ostaggi. Questa iniziativa diplomatica dimostra come l’amministrazione americana stia cercando di utilizzare tutti i canali disponibili per contenere una situazione che rischia di degenerare ulteriormente.

Gaza: il bilancio continua a crescere

Mentre l’attenzione si concentra sugli sviluppi siriani, la situazione umanitaria a Gaza continua a deteriorarsi con numeri che testimoniano l’ampiezza della catastrofe in corso. Nelle ultime 24 ore, almeno 93 palestinesi sono stati uccisi nei bombardamenti israeliani, portando il numero dei feriti a 278, secondo i dati forniti dal Ministero della Sanità del territorio.

Il bilancio complessivo dall’ottobre 2023 ha raggiunto quota 58.479 morti accertati, la maggior parte dei quali donne e bambini, con almeno altre 139.355 persone rimaste ferite. Particolarmente significativo è il dato che indica come da quando Israele ha ripreso l’aggressione alla Striscia di Gaza il 18 marzo 2025, almeno 7.656 civili sono stati uccisi e altri 27.314 sono rimasti feriti.

La situazione si complica ulteriormente considerando che molte vittime restano intrappolate sotto le macerie, irraggiungibili per ambulanze e soccorritori, rendendo il bilancio delle vittime inevitabilmente incompleto. L’ufficio delle Nazioni Unite per i diritti umani ha registrato almeno 875 uccisioni nelle ultime sei settimane presso punti di soccorso gestiti dalla Gaza Humanitarian Foundation, evidenziando come anche l’accesso agli aiuti umanitari sia diventato mortalmente pericoloso.

Tensioni internazionali e reazioni diplomatiche

Il panorama internazionale mostra una crescente polarizzazione attorno alla gestione della crisi mediorientale. La Turchia, attraverso il suo ministero degli Esteri, ha denunciato che gli attacchi aerei israeliani su Damasco mirano a sabotare gli sforzi della Siria per stabilire la pace e la sicurezza, mentre il governo israeliano ha accolto con soddisfazione l’incapacità dell’Unione Europea di decidere sanzioni, definendola “un importante risultato politico”.

Il ministro degli Esteri israeliano Gideon Sa’ar ha sottolineato come Israele sia “impegnato in una campagna politica complessa, difficile e sfaccettata” oltre che militare, rivendicando di aver “respinto ogni tipo di tentativo ossessivo da parte di vari Paesi di imporre sanzioni contro Israele nell’Unione Europea”.

Di tutt’altro avviso si è mostrata la relatrice speciale delle Nazioni Unite Francesca Albanese, che dalla conferenza di Bogotà ha lanciato un appello affinché “ogni stato deve immediatamente rivedere e sospendere tutti i legami con lo Stato di Israele”, sostenendo che “l’economia israeliana è strutturata per sostenere l’occupazione che ora è diventata genocida”. Albanese, che è stata recentemente sanzionata dagli Stati Uniti, ha spiegato di essere stata punita “perché ho svelato l’economia del genocidio a Gaza”.

Violenze in Cisgiordania

La crisi si estende anche in Cisgiordania dove l’uccisione del palestinese-americano Seifeddin Musalat ha creato nuove tensioni diplomatiche. Il giovane di 20 anni, nato in Florida, è stato picchiato a morte da coloni israeliani nei terreni della sua famiglia durante il fine settimana, secondo quanto riferito dalla famiglia.

L’ambasciatore statunitense in Israele Mike Huckabee, noto sostenitore degli insediamenti israeliani, ha chiesto a Israele di indagare sull’uccisione definendola “un atto criminale e terroristico” per il quale “ci deve essere responsabilità”. L’episodio evidenzia le crescenti tensioni tra coloni e popolazione palestinese e mette in difficoltà un’amministrazione americana che deve bilanciare il sostegno a Israele con la protezione dei propri cittadini.

Le dinamiche regionali mostrano come ogni singolo episodio di violenza rischi di innescare reazioni a catena che coinvolgono attori multipli. Hamas ha condannato i continui attacchi israeliani definendoli “una escalation della guerra di sterminio”, mentre il presidente venezuelano Nicolás Maduro ha definito il governo Netanyahu “la più grande minaccia per l’Umanità”.

La gestione di questa crisi multidimensionale richiederà un coordinamento internazionale senza precedenti e la capacità di affrontare simultaneamente le emergenze umanitarie immediate e le cause strutturali di un conflitto che continua a espandersi geograficamente e a coinvolgere nuovi attori. La stabilità dell’intera regione mediorientale dipende ora dalla capacità delle potenze internazionali di trovare soluzioni diplomatiche prima che la situazione degeneri ulteriormente, mentre il tempo stringe e le vittime civili continuano a moltiplicarsi su tutti i fronti di questo conflitto sempre più complesso.

La caccia ai fringuelli in Liguria: una tradizione che sa di barbarie

0

Liguria, estate. Nonostante il progresso dell’opinione pubblica e la crescente attenzione mondiale verso la tutela della fauna selvatica, la Regione Liguria ha recentemente autorizzato l’abbattimento in deroga di migliaia di fringuelli. L’annuncio è stato motivato ancora una volta con il ricorso alla “tradizione”, un’etichetta logora che sembra voler legittimare pratiche profondamente anacronistiche e ormai inaccettabili per una società civile che si voglia definire davvero moderna. La decisione, presa a margine di un acceso dibattito, ha scatenato l’indignazione delle associazioni ambientaliste e di numerosi cittadini, ulteriormente amplificata dall’impatto mediatico che la vicenda sta avendo in tutto il Paese.

Non è la prima volta che la Regione tenta di piegare le normative europee e nazionali sulla caccia per assecondare le pressioni di una minuscola minoranza. La strategia è sempre la stessa: invocare la specificità locale, la memoria dei tempi passati, i richiami alla cucina tradizionale, a storie narrate da Pellegrino Artusi, Carducci e addirittura Dante Alighieri. Una narrazione che vuole nobilitare il sangue sparso nel nome di riti antichi, dimenticando, però, che il rispetto per la biodiversità e il valore della vita animale dovrebbero essere principi inviolabili, inalienabili, non negoziabili.

L’elemento più inquietante di questa autorizzazione è dato dai numeri: migliaia di fringuelli, a cui si sommano anche storni, potranno essere uccisi in poche settimane. Davanti a questi dati, qualunque tentativo di giustificazione legato alla “modesta entità” della deroga cade nel vuoto. Siamo di fronte a uno sterminio autorizzato, una strage legalizzata mascherata da folklore regionale, perpetrata ai danni di specie protette a livello nazionale e comunitario.

Le associazioni ambientaliste hanno ribadito con forza l’illegittimità di queste deroghe. Fringuelli e storni non risultano tra le specie cacciabili secondo le normative vigenti in Italia e in Europa. Le stesse direttive europee sono chiare: le deroghe devono essere misure eccezionali, solo per motivi gravi e documentabili, mai per pura consuetudine alimentare o per mantenere usi e costumi. Tale posizione trova conferma nelle ripetute condanne inflitte al nostro Paese da parte della Commissione europea, che ha avviato una procedura d’infrazione proprio per l’eccessiva tolleranza di pratiche venatorie ai danni di specie protette. La Liguria, con questa delibera, si pone in aperto contrasto non solo con le norme di tutela della fauna, ma anche con ogni principio di etica ed equilibrio ecologico.

In questo scenario di tensione crescente, le motivazioni addotte dai difensori della caccia risultano sempre più deboli e sfuocate. Si citano ricette tipiche e memorie familiari come se potessero costituire un lasciapassare morale o giuridico. Si parla di “tutela delle tradizioni” per mascherare ciò che altro non è che la volontà di perpetuare un’abitudine di sofferenza e morte, senza alcuna reale necessità, senza alcuna giustificazione razionale in una società pienamente inserita nel ventunesimo secolo.

La caccia ai fringuelli, così come a molte altre specie di piccoli uccelli migratori, è una pratica crudele, fine a se stessa, che non risponde né a esigenze alimentari né di controllo ambientale. Al contrario, minaccia gravemente la biodiversità locale e contribuisce a impoverire gli ecosistemi già messi a dura prova dai cambiamenti climatici e dall’azione antropica indiscriminata. Proprio nel fringuello si concentra una simbolicità suicida della politica regionale: una specie minuta, fragile, che rappresenta la ricchezza della natura italiana e mediterranea, ridotta al rango di trofeo per pochi appassionati di doppiette e palati nostalgici.

Le associazioni animaliste sottolineano il carattere “ingiustificabile” di questa barbarie. Lo fanno con dati scientifici, ricordando gli effetti devastanti sulle popolazioni di uccelli migratori, sempre più minacciate dal bracconaggio e da prelievi massicci legittimati da atti amministrativi discutibili. Lo fanno con la forza della legge, richiamando sentenze passate della Corte di Giustizia Europea e del Consiglio di Stato. Lo fanno, soprattutto, con la voce della società civile, che, a differenza di quanto sostengono i sostenitori della caccia, si mostra sempre più sensibile e contraria a queste esibizioni di violenza organizzata.

Un altro aspetto inquietante, spesso sottovalutato dagli organi regionali, è il rischio per la sicurezza pubblica e la salute collettiva. La stagione di caccia in Italia lascia ogni anno una tragica scia di morti e feriti, non solo tra gli animali selvatici ma anche tra cittadini, agricoltori ed escursionisti. I boschi e le colline, luoghi di svago e cultura ambientale, vengono militarizzati e resi inaccessibili per settimane. Un prezzo altissimo per un vantaggio che riguarda soltanto pochissimi individui, spesso organizzati in lobby con un peso sproporzionato nei tavoli decisionali.

La caccia, e in particolare la caccia in deroga, genera anche problemi di legalità diffusa. I controlli scarsi, la tentazione del bracconaggio, l’utilizzo di richiami acustici illegali e la vendita clandestina di selvaggina rendono ogni stagione venatoria un campo minato per la legalità e la sicurezza. Paradossalmente, più si allarga la maglia delle autorizzazioni, più diventa difficile monitorare e contrastare i fenomeni di abuso, con le forze dell’ordine costrette a rincorrere una realtà sfuggente e pericolosa.

In Liguria, il contrasto tra la Regione e le realtà associative è ormai totale. Gli ambientalisti definiscono la nuova delibera “uno sfregio all’ambiente e allo Stato di diritto”, mentre la politica tenta di arrampicarsi sugli specchi giustificando l’ingiustificabile. C’è chi sostiene che questa sia un’occasione per rilanciare il turismo venatorio e l’enogastronomia, eppure nessuno studio serio dimostra legami certi tra la caccia al fringuello e lo sviluppo dell’economia locale. Anzi, la percezione diffusa è che certe immagini di uccisioni di massa siano un boomerang per l’immagine di una regione che punta sulla green economy e sulla valorizzazione del territorio.

L’Italia è già maglia nera in Europa per quanto riguarda le deroghe venatorie e le procedure d’infrazione, e la Liguria si distingue tristemente per la sua ostinazione a difendere pratiche sempre più isolate e obsolete. La domanda che sorge spontanea è: quanto ancora potranno le istituzioni ignorare la richiesta di cambiamento che sale dalla società? Fino a quando le tradizioni saranno invocate come alibi per perpetuare soprusi ambientali e arretratezza culturale?

Senza cedere allo sconforto, occorre riconoscere e celebrare i tantissimi cittadini, le associazioni, gli scienziati, gli avvocati e gli amministratori che, spesso contro tutto e tutti, continuano a difendere ciò che di più prezioso abbiamo: la natura, la biodiversità, il diritto ad un futuro vivibile per tutte le specie. È doveroso ribadire che la caccia ai fringuelli non appartiene alla tradizione, ma al passato oscuro di cui ogni società consapevole dovrebbe liberarsi senza rimpianti. Il Coraggio vero, oggi, sta nel dire basta, nell’essere innovatori, nel saper distinguere tra cultura e superstizione, tra conservazione e saccheggio.

Il tempo delle scuse è finito. Ogni abbattimento in deroga, ogni sanguinosa concessione fatta “in nome della tradizione” rappresenta una ferita aperta nel cuore della civiltà e dell’etica collettiva. Difendere i fringuelli è una battaglia di civiltà, e perdere questa sfida significherebbe ammettere la nostra incapacità di crescere davvero, di riconoscere nella tutela della vita il più alto traguardo di una comunità matura. La Liguria, l’Italia intera, meritano decisioni all’altezza di questo tempo, non ridicole scuse buone solo a giustificare interessi di parte e arroganza istituzionale.

Stangata IMU sui canoni concordati a Genova: colpita la fascia debole

0

A rischio il futuro della casa per migliaia di famiglie

La scena economica e sociale di Genova è stata recentemente scossa da un provvedimento che ha rapidamente acceso il dibattito tra amministrazione comunale, associazioni dei proprietari immobiliari e rappresentanti degli inquilini. La decisione della nuova giunta guidata da Silvia Salis di aumentare l’IMU per le abitazioni affittate a canone concordato ha suscitato reazioni di protesta, lasciando intravedere profonde conseguenze economiche e sociali in una città già provata dalle sfide degli ultimi anni.

L’annuncio, arrivato a sorpresa, prevede che l’aliquota IMU salga già a partire dal saldo di dicembre. Si tratta di una prima manovra fiscale importante per la nuova amministrazione, giustificata con l’esigenza di risanare i conti comunali e coprire un disavanzo consistente. Questa misura dovrebbe garantire, secondo le stime ufficiali, un incasso extra per le casse municipali. Il vicesindaco e assessore al bilancio Alessandro Terrile ha illustrato la necessità di questa scelta, sottolineando che “serve a garantire servizi essenziali come il sociale, la scuola e la manutenzione dei rivi”, destinando quindi, nell’immediato, gran parte delle nuove entrate proprio ai settori del welfare cittadino e dell’istruzione.

Tuttavia, tale motivazione non ha calmato gli animi. Anzi, il provvedimento ha acceso robuste critiche su più fronti. Le associazioni dei piccoli proprietari, guidate da figure come Vincenzo Nasini, presidente provinciale dell’APE Confedilizia, hanno bollato la decisione come un “pessimo esordio” della giunta Salis: secondo Nasini, il Comune ha scelto di colpire la fascia di cittadini che ha sostenuto più di tutti le politiche abitative sostenibili, offrendo alloggi a canone calmierato, invece di favorire la speculazione sugli affitti brevi o di ricercare altrove i fondi mancanti.

Nel clima di contestazione, le associazioni dei proprietari immobiliari hanno maturato l’intenzione di disertare il tavolo di confronto programmato con l’amministrazione comunale, manifestando un netto rifiuto verso un dialogo che, dopo questa scelta, appare sempre più complicato. Le parole di Nasini hanno un tono inequivocabile: “Peggio di così non potevano iniziare”. Sostiene che questa misura non solo indebolisce la fiducia tra cittadini e amministrazione, ma rischia di accelerare la trasformazione del mercato immobiliare verso affitti più instabili e meno accessibili, con effetti paradossali sul tessuto sociale della città.

Il dettaglio economico

Analizzando più nel dettaglio, l’imposta sugli immobili locati con canone concordato rappresentava una delle agevolazioni fondamentali per chi sceglieva, volontariamente, di offrire la propria abitazione a famiglie o individui con minori possibilità economiche, secondo le regole definite dagli accordi territoriali tra associazioni di proprietari e inquilini, il canone si attestava su valori sensibilmente inferiori rispetto al libero mercato, proprio per garantire un accesso più equo alla casa. L’abolizione dell’agevolazione e il conseguente aumento dell’imposta rischiano ora di minare questo delicato equilibrio.

Le reazioni negative non si fermano ai soli proprietari: anche le associazioni degli inquilini, quali Sunia e Sicet, hanno espresso preoccupazione per un possibile effetto domino sull’accessibilità abitativa. Un rincaro dell’IMU potrebbe infatti ricadere direttamente sui canoni di affitto, aumentando la pressione sulle fasce più deboli della popolazione, tradizionalmente beneficiarie dei contratti a canone concordato. I rappresentanti degli inquilini sottolineano come la tendenza potrebbe incentivare molti proprietari a preferire l’affitto breve o turistico, giudicato oggi molto più redditizio rispetto alla locazione a lungo termine con canone calmierato.

Non meno accese le critiche delle opposizioni politiche in consiglio comunale. Per “Vince Genova” e le altre forze di centrodestra, la manovra viene percepita come un tradimento delle promesse elettorali della giunta Salis e come una scelta in contraddizione con l’impegno progressista assunto, almeno a parole, sul tema della casa e della tutela delle fasce sociali più fragili. Le opposizioni avvertono che questo provvedimento colpisce indirettamente soprattutto le classi medie e medio-basse, rischiando di aggravare la questione degli affitti, già esplosiva nelle principali città italiane, e portando benefici economici che, rispetto ai disagi arrecati, vengono considerati modesti e insufficienti a giustificare la decisione.

Il contesto in cui matura questa scelta è, del resto, estremamente delicato. Genova si trova infatti a gestire, come molte altre città italiane, una crisi strutturale legata al sistema casa che tocca sia la domanda che l’offerta: da un lato famiglie che faticano a trovare alloggi a prezzi sostenibili, dall’altro proprietari alle prese con costi crescenti di manutenzione e tassazione, spesso in difficoltà nella gestione di morosità e rischio di sfratti. In questo quadro, l’appeal degli affitti brevi rischia concretamente di sbilanciare ulteriormente il mercato a danno delle locazioni tradizionali.

Un’analisi più approfondita della situazione mostra come la norma interessi una cifra rilevante di alloggi, che incide direttamente su un’ampia fetta del mercato immobiliare cittadino. Il timore principale delle associazioni coinvolte è che, qualora la misura restasse invariata, si possa assistere a una fuga progressiva dei proprietari dal canale dell’offerta agevolata, con una riduzione dell’offerta di abitazioni a canone calmierato e un inevitabile aumento della pressione sugli affitti tradizionali. Una dinamica, avvertono diversi osservatori, che andrebbe a penalizzare ulteriormente l’accesso all’abitazione per i giovani, i lavoratori precari e le famiglie numerose, accentuando il disagio sociale in tutto il territorio.

C’è poi un’ulteriore questione cruciale: l’impatto psicologico e politico che questa decisione ha sul livello di fiducia tra categorie produttive e amministrazione. La decisione delle associazioni di abbandonare il tavolo di confronto non può essere sottovalutata. Si sta materializzando una rottura nel dialogo tra il Comune e chi, fino a oggi, aveva collaborato al fine di trovare soluzioni condivise per la questione abitativa. Il rischio di una contrapposizione esasperata tra istituzioni e cittadini cresce ogni giorno, generando uno scenario a tratti imprevedibile, in cui la concertazione sembra lasciare spazio solo alla protesta.

Dal Comune, la difesa della misura passa per la retorica dell’emergenza finanziaria e della necessità di dare priorità ai servizi essenziali. Tuttavia, il malessere diffuso evidenzia come la percezione della cittadinanza vada in tutt’altra direzione. L’amarezza traspare anche dalle parole di rappresentanza delle associazioni dei proprietari e degli inquilini, che in questi giorni si ritrovano, pur da fronti spesso opposti, uniti nella preoccupazione per una città che rischia di diventare ancora meno inclusiva ed equa sul fronte dell’abitare.

Di fronte a tutto ciò, una domanda centrale aleggia su Genova: quali saranno le ricadute reali sul mercato immobiliare e sul tessuto sociale cittadino nei prossimi mesi? Molti attendono di veder tradotta in atti pratici la promessa delle istituzioni di “cercare soluzioni alternative” e mitigare gli effetti negativi del provvedimento, magari individuando risorse da altre voci di bilancio o introducendo nuovi strumenti di protezione a favore dei più esposti. Tuttavia, la sensazione diffusa è che la frattura sia ormai profonda, e che per ricucirla serviranno molto più che parole di circostanza.

Il dibattito genovese sul rialzo dell’IMU offre così uno squarcio rivelatore sulle tensioni e sulle fragilità del sistema Italia nel suo complesso. Da un lato l’urgenza dei conti pubblici, dall’altro la tutela del diritto alla casa e della coesione sociale. Il caso genovese è destinato a far scuola, nel bene o nel male, e a costituire un importante banco di prova per il rapporto – sempre complesso – tra fiscalità, politiche sociali e futuro delle città.

Meloni e la sfida dei dazi USA: l’Italia si schiera con l’Europa

Nelle ultime ore la scena politica italiana è stata scossa da una serie di eventi che hanno visto protagonista la presidente del Consiglio, Giorgia Meloni, chiamata a rispondere a una delle più complesse sfide economiche e diplomatiche dell’anno: la minaccia di nuovi dazi commerciali da parte degli Stati Uniti. La tensione è salita vertiginosamente dopo che l’amministrazione Trump ha annunciato l’intenzione di imporre tariffe fino al 30% sui prodotti europei, colpendo in particolare settori chiave per l’economia italiana come l’agroalimentare e l’automotive. Di fronte a questa prospettiva, Meloni ha scelto di rompere il silenzio e di schierarsi con decisione al fianco della Commissione europea, sottolineando che “abbiamo la forza per farci valere”.

Il fine settimana è stato segnato da un clima di grande incertezza e da un acceso dibattito politico. Le opposizioni hanno criticato la premier per la sua iniziale assenza dal dibattito pubblico, accusandola di non aver preso posizione tempestivamente su una questione che riguarda da vicino il futuro delle imprese italiane. Meloni, tuttavia, ha risposto con una nota ufficiale nella quale ha ribadito il pieno sostegno alla linea europea, dichiarando che “la forza economica e finanziaria dell’Europa è tale da poter ottenere un accordo equo e di buon senso”. La premier ha voluto rassicurare le imprese e i cittadini, sottolineando che l’Italia farà la propria parte come sempre, pronta a difendere gli interessi nazionali all’interno di un quadro europeo coeso.

Il contesto internazionale in cui si inserisce questa vicenda è estremamente delicato. La decisione di Trump di alzare i dazi rappresenta una vera e propria sfida per l’Unione Europea, che si trova a dover negoziare da una posizione di forza ma anche di grande responsabilità. Meloni ha evidenziato come sia fondamentale evitare una guerra commerciale che rischierebbe di danneggiare l’intero Occidente, preferendo invece la via del dialogo e del negoziato. In questo scenario, il ruolo dell’Italia si conferma centrale: il governo è in stretto contatto con la Commissione europea e con tutti gli attori coinvolti nella trattativa, lavorando per trovare una soluzione che tuteli sia il mercato unico europeo sia le specificità dell’economia italiana.

Non sono mancate, tuttavia, le polemiche interne. Le opposizioni hanno accusato Meloni di aver sopravvalutato la propria influenza personale nei confronti dell’amministrazione Trump, sostenendo che la tanto sbandierata “relazione speciale” con Washington non abbia prodotto i risultati sperati. Diversi esponenti politici, tra cui Elly Schlein e Giuseppe Conte, hanno chiesto a gran voce che la premier si presenti in Parlamento per riferire sulla situazione e sulle strategie che intende adottare. Il dibattito si è acceso anche all’interno della maggioranza, con alcune voci critiche – in particolare dalla Lega – che hanno espresso dubbi sulla scelta di negoziare insieme alla Germania, suggerendo che trattative separate Stato per Stato potrebbero portare a risultati migliori.

Nonostante le tensioni, Meloni ha scelto la strada della fermezza e della chiarezza. Nel suo messaggio, la presidente del Consiglio ha sottolineato che l’Europa ha la forza economica e finanziaria per far valere le proprie ragioni e che l’Italia non intende arretrare di fronte a pressioni esterne. Il governo italiano ha ribadito che la priorità è quella di evitare una spirale di ritorsioni commerciali che finirebbe per penalizzare soprattutto le imprese e i lavoratori italiani. In particolare, il settore agroalimentare è considerato uno dei più esposti, e Meloni ha assicurato che il governo farà tutto il possibile per difendere le eccellenze del Made in Italy sui mercati internazionali.

La strategia adottata da Meloni si fonda su una doppia direttrice: da un lato, il sostegno pieno alla Commissione europea e la ricerca di una posizione unitaria tra i Paesi membri; dall’altro, il costante dialogo con le istituzioni statunitensi per evitare che la situazione degeneri in una guerra commerciale dagli esiti imprevedibili. Il ministro degli Esteri, Antonio Tajani, è volato negli Stati Uniti per avviare un confronto diretto con l’amministrazione americana, mentre a Bruxelles si lavora per costruire un fronte comune che possa reggere all’urto delle nuove tariffe.

La posizione di Meloni è stata accolta con favore da una parte del mondo imprenditoriale, che ha apprezzato la scelta di puntare su una soluzione negoziale e di evitare reazioni impulsive. Tuttavia, non sono mancati segnali di preoccupazione: il presidente di Confindustria, Emanuele Orsini, ha sottolineato che tariffe così aggressive rappresentano una minaccia concreta per il sistema produttivo italiano e che sarà necessario mantenere i nervi saldi per non compromettere i mercati di sbocco delle nostre aziende.

La partita che si gioca in queste settimane va ben oltre la questione dei dazi. In gioco c’è la credibilità dell’Italia e dell’Europa sullo scenario internazionale, la capacità di difendere i propri interessi senza rinunciare ai valori di apertura e cooperazione che hanno caratterizzato il progetto europeo fin dalle origini. Meloni, consapevole della posta in gioco, ha scelto di assumersi la responsabilità di guidare il Paese in una fase di grande incertezza, puntando su una strategia di dialogo ma senza cedere a ricatti o pressioni.

Il dibattito politico resta acceso. Le opposizioni continuano a chiedere maggiore trasparenza e coinvolgimento del Parlamento nelle scelte strategiche del governo, mentre la maggioranza cerca di mantenere la compattezza in un momento in cui le divisioni interne potrebbero indebolire la posizione italiana al tavolo delle trattative. Meloni, dal canto suo, si mostra determinata a non arretrare, convinta che solo una posizione ferma e unitaria possa consentire all’Italia e all’Europa di ottenere un accordo vantaggioso.

La vicenda dei dazi rappresenta un banco di prova cruciale per la leadership di Giorgia Meloni e per la capacità dell’Italia di giocare un ruolo da protagonista in Europa. La presidente del Consiglio ha scelto di puntare sulla forza dell’unità europea, consapevole che solo facendo squadra con gli altri Paesi membri sarà possibile affrontare con successo le sfide poste da un contesto internazionale sempre più complesso e competitivo.

Nel frattempo, il governo resta vigile e pronto a intervenire in ogni momento per tutelare gli interessi nazionali. Meloni ha ribadito che l’Italia farà la sua parte, come sempre, e che non verrà meno all’impegno di difendere le imprese e i lavoratori italiani. Il messaggio è chiaro: l’Italia non intende subire passivamente le decisioni altrui, ma vuole essere protagonista di una trattativa che riguarda il futuro di milioni di cittadini.

La forza dell’Europa e dell’Italia sta nella capacità di restare uniti, di difendere i propri valori e interessi senza cedere alle pressioni esterne. Meloni lo sa bene e, proprio per questo, ha scelto di affrontare la sfida dei dazi con determinazione e senso di responsabilità, consapevole che da questa partita dipende anche la credibilità internazionale del Paese. Le prossime settimane saranno decisive per capire quale direzione prenderà la trattativa e quale sarà il ruolo dell’Italia in un’Europa chiamata a dimostrare, ancora una volta, di avere la forza per far valere le proprie ragioni.

L’Hindi di Modi: Unità nazionale o minaccia alla diversità dell’India?

L’opinione di Alessandro Trizio

La volontà di Modi di promuovere l’Hindi come lingua nazionale risponde a una duplice esigenza: da un lato, rafforzare l’identità nazionale e superare le divisioni lasciate dal colonialismo britannico; dall’altro, consolidare il potere politico del BJP nelle regioni dove l’Hindi è dominante. La lingua, in questo contesto, diventa uno strumento di potere e di controllo: parlare la stessa lingua significa condividere valori, riferimenti culturali e visioni del mondo. Tuttavia, l’imposizione dall’alto rischia di generare nuove esclusioni e di minare la coesione sociale, soprattutto in un paese così complesso e articolato come l’India. La sfida, per Modi e per l’intera nazione, sarà quella di trovare una sintesi tra unità e diversità, evitando che la battaglia per la lingua si trasformi in una guerra di identità.

La situazione

Nel cuore dell’India contemporanea, la questione della lingua sta diventando uno dei temi più divisivi e sentiti del panorama politico e sociale. Il primo ministro Narendra Modi, leader del Bharatiya Janata Party (BJP), ha scelto di puntare con decisione sull’Hindi come lingua unificante del Paese, scatenando un acceso dibattito che coinvolge milioni di cittadini e mette in discussione l’equilibrio tra unità nazionale e pluralità culturale. La promozione dell’Hindi, sostenuta con forza dal governo centrale, viene percepita da molti come un tentativo di omologazione che rischia di soffocare le ricchissime identità linguistiche regionali dell’India.

L’India è una nazione che vanta una straordinaria varietà linguistica: la Costituzione riconosce ventidue lingue ufficiali, mentre centinaia di idiomi e dialetti vengono parlati quotidianamente da oltre un miliardo di persone. In questo mosaico, l’Hindi è la lingua più diffusa, soprattutto nel nord, e rappresenta la base elettorale del BJP. Tuttavia, in molte regioni, soprattutto nel sud e nell’ovest, la sua imposizione viene vissuta come una minaccia alla sopravvivenza delle lingue locali e, di conseguenza, delle culture che esse esprimono.

Negli ultimi anni, il governo Modi ha adottato una serie di misure per rafforzare la presenza dell’Hindi nell’amministrazione pubblica, nell’istruzione e persino nella comunicazione internazionale. Nuovi programmi statali, iniziative educative e campagne di sensibilizzazione sono stati lanciati con nomi rigorosamente in Hindi, mentre le istituzioni centrali sono state invitate a privilegiare questa lingua nelle comunicazioni ufficiali. Il Ministero dell’Interno ha sottolineato la necessità di fare dell’Hindi “l’alternativa all’inglese” e di renderla la lingua di collegamento tra i cittadini di stati diversi, senza tuttavia voler soppiantare le lingue regionali.

Nonostante le rassicurazioni, le reazioni non si sono fatte attendere. In Maharashtra, uno degli stati più ricchi e popolosi dell’India occidentale, il governo locale – guidato dal BJP – ha dovuto fare marcia indietro su una controversa decisione che prevedeva l’insegnamento obbligatorio dell’Hindi nelle scuole primarie. La misura è stata giudicata un affronto al Marathi, la lingua locale, e ha provocato proteste trasversali tra cittadini, opposizioni e associazioni culturali. Nel Tamil Nadu, stato meridionale storicamente ostile all’imposizione dell’Hindi, il conflitto si è intensificato: il governo regionale ha accusato New Delhi di voler condizionare il sistema educativo e ha avviato un’azione legale contro il centro, denunciando il rischio di perdere finanziamenti federali se non fosse stata adottata la politica delle tre lingue, che prevede l’Hindi come lingua aggiuntiva.

La questione linguistica è diventata così un terreno di scontro politico e simbolico. Il primo ministro Modi e i suoi alleati sostengono che l’Hindi sia uno strumento di integrazione nazionale, capace di rafforzare il senso di appartenenza e di superare le divisioni lasciate in eredità dal colonialismo britannico, che aveva imposto l’inglese come lingua dell’élite e dell’amministrazione. Secondo questa visione, la promozione dell’Hindi sarebbe un passo fondamentale per affermare una nuova identità indiana, libera dai retaggi coloniali e più vicina alle radici culturali del Paese.

Tuttavia, per molti osservatori e leader regionali, la spinta verso l’Hindi rischia di minare il delicato equilibrio federale su cui si regge l’India. In stati come il Tamil Nadu, il Karnataka e il Bengala Occidentale, la difesa delle lingue locali è vissuta come una battaglia per la sopravvivenza culturale e politica. I movimenti dravidici del sud, in particolare, hanno costruito la propria identità proprio sulla resistenza all’omologazione linguistica e sulla valorizzazione delle differenze.

La nuova politica educativa nazionale, introdotta dal governo Modi nel 2020, ha accentuato queste tensioni. Pur prevedendo la valorizzazione delle lingue madri fino alla quinta classe, la riforma suggerisce l’introduzione di una terza lingua – spesso l’Hindi – anche negli stati dove non è tradizionalmente parlata. Molti temono che questa scelta possa portare, nel lungo periodo, a una graduale marginalizzazione delle lingue regionali e a una perdita di ricchezza culturale senza precedenti.

Il dibattito si è acceso anche a livello internazionale. Modi ha scelto di esprimersi in Hindi durante i principali forum globali, promuovendo la lingua come simbolo dell’orgoglio nazionale. Il governo ha istituito divisioni speciali per la promozione dell’Hindi all’estero e ha avviato programmi di formazione per insegnanti nelle regioni dove la lingua è meno diffusa. Questa strategia mira a rafforzare la posizione dell’India sulla scena mondiale, presentando l’Hindi come lingua della nuova potenza emergente.

Non mancano, però, le critiche. Secondo diversi linguisti e attivisti, la questione della lingua non riguarda solo la comunicazione, ma il potere. Imporre una lingua significa anche imporre un modello culturale, un sistema di valori e una gerarchia sociale. In un paese dove più della metà della popolazione ha una lingua madre diversa dall’Hindi, la promozione forzata di quest’ultima rischia di creare nuove fratture e di alimentare sentimenti di esclusione e marginalizzazione.

Il governo, dal canto suo, insiste sul fatto che la valorizzazione dell’Hindi non deve essere vista come una minaccia alle altre lingue, ma come una risorsa per l’integrazione e lo sviluppo. Il ministro dell’Interno Amit Shah ha sottolineato che la nuova politica educativa offre strumenti per la crescita di tutte le lingue indiane, con la traduzione di libri di testo e la diffusione di contenuti digitali in decine di idiomi. L’obiettivo dichiarato è quello di rendere l’India un paese più coeso e competitivo, capace di parlare con una voce sola senza rinunciare alla propria diversità.

In questo scenario, la questione linguistica si intreccia con quella della democrazia e della rappresentanza. Molti temono che la spinta verso l’Hindi sia anche una strategia politica per rafforzare il potere del BJP nelle regioni dove la lingua è maggioritaria e per ridurre il peso delle opposizioni regionali. Le proteste, le manifestazioni e le battaglie legali che stanno scuotendo il Paese dimostrano quanto il tema sia sentito e quanto sia difficile trovare un equilibrio tra unità e pluralità.

L’India si trova così di fronte a una sfida cruciale: riuscire a costruire un’identità nazionale forte senza sacrificare la straordinaria ricchezza delle sue culture locali. La partita dell’Hindi non è solo una questione di parole, ma di futuro, di inclusione e di rispetto delle differenze. In gioco c’è la possibilità di immaginare un’India davvero federale, capace di parlare con molte voci senza perdere la propria anima.

Palasport di Genova, la rivolta dei negozianti: “Un’altra Fiumara? Pronti alla battaglia legale”

0

Il progetto di riqualificazione del Palasport di Genova, destinato a trasformarsi in un grande polo commerciale, sta scatenando un acceso dibattito cittadino. Confcommercio Genova ha lanciato un attacco frontale contro l’iniziativa, dichiarandosi pronta a ricorrere alle vie legali pur di fermare quella che definisce una “nuova Fiumara”, evocando il noto centro commerciale genovese come esempio di modello da non replicare. La polemica si infiamma mentre il cantiere avanza e la lista delle insegne che popoleranno la galleria commerciale si fa sempre più lunga, con nomi di rilievo nazionale e internazionale.

Secondo quanto trapelato, la nuova area commerciale all’interno del Palasport coprirà circa quindicimila metri quadrati, ospitando un centinaio tra negozi, bar e ristoranti. Tra i marchi previsti figurano colossi dell’abbigliamento e della ristorazione come Cisalfa, Levis, Marella, North Sails, Seaside, Piazza Italia, Legami, McDonald’s, Burger King, la catena giapponese Teryaki e due pizzerie. Ma il vero nodo della discordia riguarda l’apertura di un nuovo punto vendita Esselunga, che sarebbe il terzo in città dopo quelli di via Piave e San Benigno. Per Confcommercio, la presenza di un supermercato di queste dimensioni rappresenta un colpo durissimo per il tessuto commerciale cittadino, già messo a dura prova dalla concorrenza delle grandi catene e dalla crisi dei negozi di vicinato.

Alessandro Cavo, presidente di Confcommercio Genova, non usa mezzi termini nel definire il progetto come “una nuova Fiumara, ma rotonda”. L’associazione di categoria denuncia che la struttura, così come concepita, non rispetta la tematicità obbligatoria prevista dalle autorizzazioni regionali. Secondo Cavo, il Palasport avrebbe dovuto ospitare esercizi commerciali legati all’identità sportiva o turistica della città, mentre il progetto attuale si configura come un centro generalista che rischia di drenare la clientela locale a discapito delle imprese storiche del centro cittadino.

La preoccupazione principale di Confcommercio riguarda la concorrenza interna e non turistica che il nuovo centro commerciale eserciterà sulle attività già presenti in città. L’associazione sottolinea come la comodità del parcheggio da 730 posti, la mancanza di marchi attrattivi in grado di competere con poli come l’outlet di Serravalle e le nuove limitazioni alla viabilità urbana, recentemente prospettate dalla nuova amministrazione, rischino di mettere in ginocchio i piccoli commercianti. Inoltre, la presenza di cantieri per gli otto parcheggi in centro, deliberati nel 2024, e l’assenza di misure compensative aggravano ulteriormente il quadro.

Confcommercio chiede lo stop immediato al progetto fino alla verifica del rispetto delle condizioni autorizzative. L’associazione invoca l’apertura urgente di un tavolo di confronto tra Comune e categorie economiche, oltre al monitoraggio e alla realizzazione effettiva dei parcheggi deliberati, considerati condizione imprescindibile per garantire l’accessibilità. In assenza di risposte e provvedimenti concreti da parte dell’amministrazione, Confcommercio annuncia che avvierà con i propri legali un approfondimento normativo, valutando ogni strada percorribile per la tutela del commercio cittadino e dei suoi lavoratori.

La polemica non si limita al solo fronte commerciale. Il progetto del nuovo Palasport, ribattezzato Waterfront Mall, prevede una superficie commerciale di circa ventottomila metri quadrati, con 121 negozi di cui 19 tra bar e ristoranti, oltre a studi medici e altre attività. Secondo il Partito Democratico, che ha presentato un’interrogazione urgente in Consiglio comunale, la destinazione commerciale sarebbe in contrasto con il Piano Urbanistico Comunale (PUC), che prevede per l’area del Palasport una funzione principale di residenza, uffici, strutture ricettive alberghiere e servizi privati e di uso pubblico, e solo come funzione complementare quella di ospitare distretti commerciali, ma esclusivamente di natura tematica. L’inserimento di un centro commerciale di tali dimensioni, secondo il PD, trasformerebbe la funzione complementare in principale, violando così il PUC vigente.

Il sindaco di Genova, Marco Bucci, respinge le accuse e invita a non confondere la superficie totale con quella commerciale. Bucci sostiene che il Palasport non sarà un centro commerciale, ma una struttura polifunzionale sportiva con negozi specifici per chi pratica attività sportiva. “Il Palasport farà sport e i negozi serviranno per poter acquistare articoli sportivi”, ha dichiarato, bollando le polemiche come gratuite e infondate. Tuttavia, la realtà dei fatti sembra smentire questa versione, dato che la lista delle insegne annunciate va ben oltre il settore sportivo, includendo grandi catene di abbigliamento, ristorazione e supermercati.

Il clima di tensione tra amministrazione comunale e associazioni di categoria si fa sempre più acceso, con scambi di accuse anche personali. Il sindaco Bucci ha puntato il dito contro il presidente di Confcommercio, ricordando che quest’ultimo avrebbe preso in gestione tredici ristoranti all’interno del Waterfront di Levante, lasciando intendere che la posizione di Confcommercio non sarebbe del tutto disinteressata. Ma per l’associazione, la questione è di principio: difendere il commercio di prossimità e la vitalità dei quartieri storici contro la proliferazione di grandi strutture di vendita che rischiano di svuotare il centro e impoverire il tessuto sociale genovese.

Il Comune di Genova, dal canto suo, ha recentemente varato un nuovo piano del commercio, che introduce vincoli più stringenti per l’apertura di nuovi negozi di grandi dimensioni e incentivi per chi riapre attività nelle zone collinari o nei centri storici. L’obiettivo dichiarato è tutelare e promuovere il piccolo commercio, ma Confcommercio teme che queste misure non siano sufficienti a contrastare l’impatto di un centro commerciale come quello previsto al Palasport.

Nel frattempo, la battaglia legale si prepara a entrare nel vivo. Confcommercio ha già presentato istanze di sospensione e ricorsi al TAR Liguria contro analoghi progetti di insediamento della grande distribuzione, come quello di Esselunga a Sestri Ponente. L’associazione contesta la compatibilità di questi interventi con la pianificazione urbana e l’impatto economico sul contesto locale. I procedimenti giurisdizionali sono tuttora aperti e potrebbero incidere in modo determinante sulla legittimità degli interventi in corso.

Il caso del Palasport di Genova si inserisce in un contesto nazionale di crescente tensione tra grande distribuzione e commercio di vicinato, con le città italiane sempre più alle prese con la desertificazione dei centri storici e la perdita di identità commerciale. La battaglia di Confcommercio non riguarda solo la difesa degli interessi degli associati, ma anche la salvaguardia di un modello di città fatto di relazioni sociali, sicurezza diffusa e vitalità urbana. L’associazione denuncia che la grande distribuzione rischia di generare squilibri irreversibili, impoverendo il tessuto commerciale e sociale dei quartieri storici.

Il dibattito sul futuro del Palasport di Genova resta quindi aperto, con la città divisa tra chi vede nel nuovo centro commerciale un’opportunità di sviluppo e chi teme l’ennesimo colpo mortale al piccolo commercio. Le prossime settimane saranno decisive per capire se il progetto andrà avanti così com’è stato concepito o se le pressioni di Confcommercio e delle altre categorie porteranno a una revisione delle autorizzazioni e delle modalità di insediamento delle nuove attività.

La posta in gioco è alta: non solo il destino di un’area strategica come il Palasport, ma anche il modello di sviluppo urbano che Genova intende perseguire nei prossimi anni. L’esito di questa vicenda potrebbe fare scuola anche per altre città italiane alle prese con le stesse dinamiche di trasformazione e conflitto tra grande distribuzione e commercio di prossimità.

Prigionieri e rivoluzione: il Myanmar tra bambini in guerra dimenticati da tutti

Nel cuore del sud-est asiatico, il Myanmar vive una delle crisi umanitarie e militari più drammatiche degli ultimi decenni. La guerra civile che infuria dal colpo di stato militare del 2021 ha raggiunto un nuovo, inquietante livello di brutalità e complessità. Negli ultimi mesi, i ribelli hanno guadagnato terreno in modo significativo, riuscendo a catturare migliaia di prigionieri di guerra appartenenti alle forze della giunta militare. Questo fenomeno rappresenta una svolta storica e simbolica nel conflitto, poiché la detenzione di prigionieri da parte dei ribelli non era mai avvenuta su questa scala.

La guerra, iniziata dopo la destituzione del governo democraticamente eletto di Aung San Suu Kyi, si è trasformata in un conflitto diffuso che coinvolge una miriade di attori: dall’esercito regolare, chiamato Tatmadaw, alle milizie etniche, fino ai giovani delle città che hanno abbandonato le loro vite per unirsi alle forze di resistenza. Oggi, la resistenza non è più composta solo da combattenti esperti delle minoranze etniche, ma anche da studenti, insegnanti, medici, artisti e cittadini comuni, uniti dal desiderio di porre fine al regime militare.

La cattura dei prigionieri di guerra da parte dei ribelli è diventata un tema centrale nel racconto della guerra. Mentre la giunta militare tende a non prendere prigionieri, spesso optando per esecuzioni sommarie o sparizioni forzate, i ribelli hanno iniziato a detenere e gestire migliaia di soldati catturati. Questo rovesciamento delle dinamiche tradizionali del conflitto ha sollevato interrogativi sulla gestione dei prigionieri, sulle condizioni di detenzione e sulle implicazioni politiche e umanitarie di questa nuova realtà.

Le testimonianze raccolte da chi è stato catturato e poi liberato raccontano di esperienze estreme, segnate dalla paura della morte imminente e dalla sorpresa di essere risparmiati. Un esempio emblematico è quello di un soldato catturato dai ribelli che, temendo per la propria vita, si è invece ritrovato di fronte al fratello minore tra le fila degli insorti. Questo incontro, carico di emozioni contrastanti, mostra come il conflitto abbia lacerato famiglie e comunità, ma anche come la guerra abbia assunto contorni imprevedibili e profondamente umani.

Le condizioni dei prigionieri variano notevolmente a seconda delle circostanze e delle risorse dei gruppi ribelli. In alcuni casi, i prigionieri vengono impiegati in lavori forzati, in altri ricevono un trattamento relativamente umano, con la possibilità di comunicare con le famiglie o di essere scambiati in trattative con la giunta. Tuttavia, non mancano episodi di violenza, abusi e, in alcuni casi, esecuzioni sommarie, soprattutto quando la tensione sul campo raggiunge livelli estremi. I ribelli, consapevoli dell’attenzione internazionale, cercano di mostrare una gestione più “civile” dei prigionieri rispetto alla brutalità della giunta, ma la realtà rimane estremamente complessa e spesso contraddittoria.

Il conflitto in Myanmar è caratterizzato da una frammentazione etnica e territoriale senza precedenti. Le principali minoranze, come i Kachin, i Karen, i Chin, i Ta’ang e i Rohingya, hanno formato alleanze con i movimenti pro-democrazia, dando vita a una resistenza multiforme che controlla ormai oltre metà del territorio nazionale. Questa coalizione, pur essendo eterogenea e spesso attraversata da tensioni interne, ha saputo sfruttare le debolezze della giunta, infliggendo sconfitte pesanti e costringendo l’esercito a ritirarsi da vaste aree rurali e di confine.

La guerra ha assunto anche una dimensione generazionale: migliaia di giovani, spesso senza alcuna esperienza militare, hanno abbandonato università, uffici e fabbriche per unirsi alle forze di resistenza. Questa nuova leva di combattenti, motivata da ideali di libertà e giustizia, ha portato una ventata di energia e innovazione nelle strategie di guerriglia, utilizzando tecnologie moderne, droni e reti di comunicazione clandestine per coordinare gli attacchi e la logistica. Tuttavia, il prezzo pagato dalla popolazione civile è altissimo: migliaia di morti, decine di migliaia di sfollati, villaggi rasi al suolo e una crisi umanitaria che rischia di travolgere l’intero paese.

La giunta militare, pur avendo perso il controllo di ampie porzioni del territorio, mantiene ancora il potere nelle principali città e nelle regioni centrali. Il regime continua a esercitare una repressione brutale, con arresti di massa, torture, esecuzioni e una sistematica politica di terrore contro chiunque sia sospettato di sostenere la resistenza. La strategia della giunta si basa sulla speranza di logorare la resistenza attraverso l’assedio, la privazione di risorse e la divisione interna tra i vari gruppi ribelli.

Un elemento chiave nella dinamica del conflitto è il ruolo della Cina. Pechino, preoccupata per la stabilità dei propri investimenti e per il rischio di un’espansione del conflitto alle regioni di confine, ha esercitato pressioni sui ribelli affinché cedessero il controllo di alcune città strategiche alla giunta. La Cina, pur dichiarando ufficialmente la propria neutralità, ha di fatto sostenuto il regime militare, fornendo supporto logistico e diplomatico e intervenendo direttamente in alcune occasioni per ristabilire l’ordine nelle aree di interesse economico.

La questione dei prigionieri di guerra è diventata anche un potente strumento di propaganda e di negoziazione. I ribelli cercano di mostrare al mondo la loro superiorità morale rispetto alla giunta, promuovendo immagini di prigionieri trattati in modo umano e chiamando la comunità internazionale a intervenire per garantire il rispetto dei diritti umani. Tuttavia, la realtà sul terreno è spesso molto diversa: la scarsità di risorse, la pressione militare e l’odio accumulato in anni di guerra rendono difficile mantenere standard elevati di trattamento per tutti i prigionieri.

Nel frattempo, la popolazione civile continua a pagare il prezzo più alto. Ospedali bombardati, scuole chiuse, intere comunità costrette alla fuga: la guerra ha distrutto il tessuto sociale ed economico del Myanmar, lasciando cicatrici profonde e difficili da rimarginare. Le organizzazioni umanitarie, spesso impedite dalla giunta o dai ribelli, faticano a portare aiuti nelle zone più colpite, mentre la crisi alimentare e sanitaria si aggrava di giorno in giorno.

La prospettiva di una soluzione politica appare ancora lontana. La giunta ha annunciato elezioni per la fine del 2025 o l’inizio del 2026, ma la comunità internazionale teme che si tratti di una farsa orchestrata per legittimare il regime e dividere ulteriormente la resistenza. La pressione diplomatica, finora, non ha prodotto risultati concreti, mentre la guerra continua a mietere vittime e a generare nuove ondate di odio e sfiducia.

Il Myanmar si trova oggi a un bivio storico: la resistenza ha dimostrato di poter infliggere colpi durissimi alla giunta, ma la vittoria finale appare ancora lontana. Il destino dei prigionieri di guerra, la capacità dei ribelli di mantenere l’unità e la pressione internazionale saranno fattori determinanti nei prossimi mesi. In questo scenario, la popolazione civile resta ostaggio di una guerra che sembra non avere fine, ma che continua a generare storie di coraggio, dolore e speranza.

Skymetro, la doccia fredda di Roma: Genova rispetti gli impegni presi

La vicenda dello Skymetro di Genova ha raggiunto un punto di svolta decisivo con l’ultimo incontro tra la delegazione del Comune e gli uffici tecnici del Ministero dei Trasporti. L’esito è stato netto e senza appello: nessuna proroga per l’avvio dei lavori e nessuna possibilità di presentare progetti alternativi. Il destino dei 398 milioni di euro stanziati per la realizzazione della metropolitana leggera in Valbisagno è ora appeso a un filo, mentre la città si interroga sul futuro della mobilità e sulla gestione delle grandi opere pubbliche.

La delegazione genovese, guidata dal vicesindaco Alessandro Terrile e dall’assessore alle Infrastrutture strategiche Massimo Ferrante, si è presentata a Roma con una richiesta chiara: ottenere uno spostamento di almeno sei mesi della scadenza fissata al 31 dicembre 2025 per l’affidamento dei lavori. Una richiesta che, come sottolineato dagli stessi amministratori, era già stata avanzata dalla precedente giunta il 16 maggio. L’obiettivo era guadagnare tempo prezioso per valutare un progetto alternativo, più sostenibile e meno impattante rispetto allo Skymetro originario, in linea con le promesse elettorali della nuova amministrazione.

Tuttavia, la risposta del Ministero è stata ferma e inequivocabile. “I 398 milioni di euro stanziati sono vincolati esclusivamente a questo specifico intervento e non possono essere destinati ad altre opere”, recita la nota ufficiale del MIT. Durante il colloquio, è stato ribadito che la legge non consente ulteriori proroghe e che, in caso di mancata aggiudicazione dei lavori entro la fine dell’anno, i fondi saranno dirottati su un fondo nazionale, con priorità per progetti non finanziati. Un colpo durissimo per le speranze della giunta Salis, che aveva puntato tutto sulla possibilità di rinegoziare i termini e aprire la strada a una revisione radicale del progetto.

Il Ministero ha inoltre sottolineato come il progetto Skymetro, approvato all’unanimità dal Consiglio superiore dei lavori pubblici, risponda a criteri di compatibilità ambientale e sostenibilità. Il completamento dell’iter autorizzativo e la successiva assegnazione dell’appalto entro la fine del 2025 sono considerati passaggi cruciali per evitare il rischio di perdere il finanziamento. Modifiche alla progettazione potrebbero compromettere la disponibilità dei fondi, con conseguente riassegnazione delle risorse a livello nazionale. L’invito rivolto all’amministrazione comunale è quello di rispettare gli impegni presi e di proseguire senza indugi nell’iter previsto, garantendo così la realizzazione di un’opera considerata strategica per la mobilità genovese.

La reazione della sindaca Silvia Salis è stata immediata e carica di amarezza. “Era impossibile anche per la precedente amministrazione portare avanti il progetto nei tempi indicati. Trovo che questa posizione faccia male a tutti. Comunque, se vogliono portarla avanti, noi porteremo avanti le nostre istanze. Noi ci muoviamo nell’interesse di Genova e rispondiamo all’elettorato che ci ha sostenuto”, ha dichiarato a caldo. Salis ha ricordato come in Valbisagno la destra abbia perso entrambi i municipi, nonostante una campagna elettorale incentrata proprio sullo Skymetro, un dato che secondo la sindaca non può essere ignorato nel dibattito pubblico.

La situazione si complica ulteriormente alla luce delle conseguenze economiche paventate dal Ministero. Se i lavori non saranno aggiudicati entro il 31 dicembre 2025, il Comune di Genova dovrà restituire circa 19 milioni di euro già impegnati negli ultimi tre anni per le quattro versioni progettuali finora elaborate, nessuna delle quali ha completato l’iter approvativo in conferenza dei servizi. Terrile e Ferrante hanno sottolineato come fosse chiaro anche alla precedente amministrazione, che infatti aveva richiesto la proroga dei termini, che il progetto Skymetro non è cantierabile entro la scadenza prevista. Le modifiche progettuali richieste dal Consiglio superiore dei lavori pubblici sono infatti rilevanti e richiederebbero tempi più lunghi, così come la necessità di reperire risorse non ancora stanziate per la demolizione della scuola Firpo, l’acquisto dell’area e la costruzione di un nuovo edificio scolastico sostitutivo.

La posizione del Ministero, comunicata con fermezza, mette in luce una gestione complessa e controversa del progetto Skymetro. Nonostante i ripetuti annunci, la precedente amministrazione comunale non è stata in grado di utilizzare le risorse ottenute, perdendosi in oltre tre anni di progettazioni non realizzabili, con il rischio concreto di un danno erariale di 19 milioni di euro. Gli attuali amministratori assicurano che continueranno a confrontarsi con tutte le istituzioni per dotare la Val Bisagno di un sistema di trasporto rapido, sostenibile e compatibile con il paesaggio, con l’obiettivo di garantire il diritto alla mobilità a tutti gli abitanti della vallata.

Nel frattempo, il dibattito cittadino si infiamma. Il comitato “Opposizione Skymetro – Valbisagno Sostenibile”, attivo da anni nel contrastare l’opera, ha organizzato un incontro pubblico per presentare il proprio studio su una tranvia alternativa in Valbisagno. Secondo il comitato, le risorse sarebbero già disponibili per la città, ma serve la volontà politica perché questa occasione storica non vada sprecata. Rinaldo Mazzoni, una delle anime del comitato, ha ribadito che il Ministero, a suo avviso, non potrebbe negare l’utilizzo dei fondi per altre opere, a patto che vi sia una chiara scelta politica in tal senso. Tuttavia, la realtà dei fatti sembra andare in direzione opposta: a Roma la linea è chiara e la flessibilità nulla, almeno per ora.

Il futuro della mobilità in Valbisagno resta dunque incerto. La giunta Salis, pur non avendo mai sposato esplicitamente la soluzione del tram, si trova ora a dover fare i conti con una situazione di stallo, in cui ogni opzione sembra preclusa. Il rischio di perdere i fondi e di dover restituire milioni di euro pesa come un macigno sulle scelte amministrative, mentre la città assiste all’ennesimo capitolo di una saga che si trascina da anni senza una soluzione definitiva.

La vicenda dello Skymetro si inserisce in un contesto più ampio di difficoltà nella gestione delle grandi opere pubbliche in Italia, dove i tempi della burocrazia, le incertezze politiche e le divergenze tra governo centrale e amministrazioni locali rischiano spesso di bloccare progetti strategici per lo sviluppo dei territori. La storia recente di Genova, segnata dalla tragedia del Ponte Morandi e dalla successiva ricostruzione, aveva fatto sperare in una nuova stagione di efficienza e rapidità nelle decisioni, ma la realtà appare ancora segnata da ostacoli e ritardi.

In questo scenario, la questione dello Skymetro assume un valore simbolico che va oltre la semplice realizzazione di un’infrastruttura. Si tratta di una prova di maturità per la classe dirigente genovese, chiamata a trovare una sintesi tra le esigenze di sviluppo, la tutela dell’ambiente e la partecipazione democratica dei cittadini. La sfida è aperta e il tempo stringe: entro la fine dell’anno sarà chiaro se Genova riuscirà a cogliere l’opportunità dei fondi stanziati o se dovrà rinunciare, ancora una volta, a un progetto di rilancio per la Valbisagno.

Il dibattito resta acceso e la città attende risposte concrete. La posta in gioco non è solo la realizzazione di una linea metropolitana o di una tranvia, ma la capacità di Genova di progettare il proprio futuro e di rispondere alle sfide della mobilità sostenibile. Le prossime settimane saranno decisive per capire se prevarrà la logica della chiusura e del rimpianto o se, al contrario, emergerà la volontà di trovare soluzioni innovative e condivise per il bene della comunità.

Von del Leyen sotto attacco Pfizergate. Giovedì voto di sfiducia

Il recente caso che coinvolge Ursula von der Leyen, presidente della Commissione Europea, e il cosiddetto “Pfizergate” offre uno spunto importante per riflettere sul rapporto tra trasparenza, fiducia e leadership nelle istituzioni europee. Siamo di fronte a una vicenda che, al di là degli aspetti tecnici e procedurali, tocca i nervi scoperti della democrazia rappresentativa e della gestione delle crisi globali.

Durante la pandemia di Covid-19, l’Unione Europea si è trovata a dover prendere decisioni rapide e spesso inedite per garantire la salute dei suoi cittadini. In questo contesto, la trattativa diretta tra von der Leyen e l’amministratore delegato di Pfizer per l’acquisto dei vaccini ha rappresentato, secondo molti, un atto di pragmatismo e responsabilità. Tuttavia, la mancata trasparenza sulle modalità di queste trattative, in particolare la mancata pubblicazione dei messaggi privati tra i due leader, ha sollevato dubbi e sospetti che non possono essere liquidati come semplici attacchi politici.

La mozione di sfiducia presentata al Parlamento europeo, pur non avendo realisticamente i numeri per essere approvata, è il sintomo di un malessere più profondo. Da un lato, c’è chi accusa la presidente di aver agito in modo opaco, mettendo in discussione la credibilità della Commissione; dall’altro, i sostenitori di von der Leyen sottolineano la necessità di agire con tempestività e la legittimità delle scelte fatte in un momento di emergenza senza precedenti.

In questa tensione si riflette il dilemma di molte democrazie contemporanee: come bilanciare l’efficacia dell’azione politica con il dovere di rendere conto ai cittadini? La sentenza della Corte di Giustizia dell’UE, che ha condannato la Commissione per non aver fornito spiegazioni credibili sulla gestione dei messaggi, mostra che la trasparenza non è un optional, ma un requisito fondamentale per la legittimità delle istituzioni.

Il “Pfizergate” non è solo una questione di contratti e vaccini, ma un banco di prova per la maturità democratica dell’Unione Europea. Le istituzioni devono imparare da questa vicenda: la fiducia dei cittadini si costruisce non solo con le decisioni giuste, ma anche con la capacità di spiegare, giustificare e rendere conto di ogni scelta, soprattutto quando queste avvengono in condizioni straordinarie.

Il caso von der Leyen ci ricorda che la trasparenza è la migliore alleata della democrazia. Solo attraverso un dialogo aperto e responsabile tra istituzioni e cittadini si può rafforzare l’Unione Europea e renderla davvero all’altezza delle sfide del nostro tempo.