28 Ottobre 2025
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Ucraina in piazza: Zelenskyy costretto a ritirare la legge sugli enti anti-corruzione

Il recente passo indietro del presidente ucraino Volodymyr Zelenskyy sulla controversa legge che limitava l’autonomia degli organismi anti-corruzione ha scosso profondamente il Paese, segnando uno degli episodi politici più controversi dall’inizio della guerra. La proposta legislativa in questione aveva infiammato l’opinione pubblica, scatenando le manifestazioni di protesta più imponenti contro il governo dall’inizio delle ostilità con la Russia. Migliaia di cittadini sono scesi in piazza per difendere i principi di trasparenza e integrità, richiamando l’attenzione sia delle autorità interne che delle istituzioni internazionali sull’importanza di mantenere salda la lotta contro la corruzione in Ucraina.

Al centro della questione c’erano la NABU (National Anti-Corruption Bureau) e la SAP (Specialized Anti-Corruption Prosecutor’s Office), istituzioni create tra il 2014 e il 2015 sotto la spinta della Commissione europea e del Fondo Monetario Internazionale. Questi organismi hanno rappresentato una condizione imprescindibile per facilitare la cooperazione internazionale e la liberalizzazione dei visti tra Kiev e l’Unione Europea, diventando simboli della volontà dell’Ucraina di riformarsi e allinearsi agli standard politici europei. La nuova legge, però, minacciava la loro indipendenza, rimettendo in discussione anni di impegno per la trasparenza e gettando un’ombra sulla credibilità delle riforme avviate dopo la Rivoluzione della Dignità.

La risposta della popolazione non si è fatta attendere: le strade si sono riempite di cittadini comuni, attivisti e membri dell’opposizione, determinati a difendere i pochi baluardi rimasti della legalità istituzionale. Le immagini delle proteste hanno fatto il giro del mondo, mostrando un popolo che, nonostante il peso della guerra, non si arrende davanti a proposte che sembrano riportare il Paese verso vecchie logiche clientelari. Il dissenso popolare è stato talmente dirompente da costringere il presidente Zelenskyy, inizialmente deciso sulla linea dura, a rivedere pubblicamente la propria posizione.

Pur non menzionando direttamente le manifestazioni durante il suo discorso, Zelenskyy ha dichiarato di aver sottoposto un nuovo disegno di legge per ripristinare l’autonomia degli organi anti-corruzione. Il presidente si è limitato a sottolineare come sia fondamentale rispettare le opinioni di tutti gli ucraini e ha ringraziato coloro che continuano a sostenere il Paese, scegliendo un tono istituzionale e conciliante, ma evitando di riconoscere esplicitamente la portata della protesta.

L’episodio ha innescato un acceso dibattito all’interno della Rada, il parlamento ucraino. Il deputato Oleksiy Honcharenko, molto attivo sui social, ha sollevato critiche pungenti sulla gestione della vicenda da parte dell’esecutivo. “Se togliamo l’indipendenza, poi dobbiamo garantirla di nuovo: perché era stato necessario questo passaggio?”, si è chiesto pubblicamente, incalzando il governo sulla reale motivazione dietro un dietrofront tanto repentino e poco trasparente.

La Commissione europea, da parte sua, ha espresso apprezzamento per la scelta del governo ucraino di correggere la rotta rispetto alla legge. Un portavoce ufficiale ha dichiarato che Bruxelles continuerà a collaborare strettamente con Kiev per assicurarsi che tutte le preoccupazioni relative all’autonomia degli organi anti-corruzione siano realmente recepite e attuate. L’episodio si inserisce in un quadro molto delicato: il percorso dell’Ucraina verso una maggiore integrazione europea passa non soltanto attraverso la resistenza militare all’aggressione russa, ma anche, forse soprattutto, dalla capacità di rafforzare le istituzioni democratiche e la fiducia dei cittadini nello Stato.

Il cammino di riforme anti-corruzione in Ucraina non è mai stato lineare. L’indipendenza di organismi come NABU e SAP è spesso stata messa in discussione da pressioni politiche trasversali e resistenze interne, così come dalla tentazione di ricadere in vecchie abitudini di gestione del potere basate sul controllo centralizzato delle nomine. Tuttavia, l’intervento deciso della società civile e la rapida reazione delle istituzioni comunitarie hanno mandato un segnale forte e inequivocabile: le conquiste ottenute dopo il 2014 non sono negoziabili.

Le proteste, in questo senso, rappresentano non solo una manifestazione di dissenso contro una legge considerata pericolosa, ma anche un atto di fiducia nei confronti delle possibilità di cambiamento. In una società segnata dalla guerra e dalla crisi economica, il desiderio di legalità e trasparenza rappresenta una delle poche certezze a cui ancorarsi. La mobilitazione popolare ha dimostrato che gli ucraini sono pronti a difendere democraticamente i principi fondamentali, sfidando apertamente il rischio della deriva autoritaria.

Dal punto di vista internazionale, la vicenda ha rafforzato la percezione dell’Ucraina come Paese in cammino verso una piena maturità democratica, nonostante tutte le difficoltà. L’appoggio della Commissione europea e il pressing del Fondo Monetario Internazionale riflettono la volontà della comunità occidentale di continuare a supportare Kiev, ma anche la consapevolezza che ogni passo indietro potrebbe compromettere il difficile processo di riforme.

Anche sul fronte interno la crisi ha generato ripercussioni importanti. Molti analisti sostengono che la prontezza di Zelenskyy a rivedere il testo di legge sia stata dettata più dalla forza delle proteste che da una convinzione reale sulla necessità di mantenere pienamente indipendenti NABU e SAP. Tuttavia, resta il dato di fatto: la società civile ucraina si conferma motore vero delle trasformazioni sostanziali del Paese, capace di orientare anche le decisioni dei vertici istituzionali.

Il labile equilibrio tra esigenze di sicurezza nazionale, necessità di riforma e tutela dei principi democratici resta il nodo più difficile da sciogliere. Zelenskyy, ritrovandosi di fronte a una crisi politica forse sottovalutata all’inizio, ha dovuto cedere al confronto con una cittadinanza che non è più disposta ad accettare compromessi al ribasso sui principi di legalità. In un momento in cui l’Ucraina cerca di rafforzare i legami con l’Occidente, ogni scelta politica è inevitabilmente oggetto di analisi e di pressione, non soltanto da parte dei partner internazionali ma soprattutto dell’opinione pubblica interna.

Le conseguenze di questa vicenda andranno ben oltre la semplice correzione di una legge. Quello che è accaduto richiama il senso profondo delle riforme post-Maidan e la centralità di un’autentica partecipazione popolare nei processi decisionali. Perché se oggi l’Ucraina può contare su organismi anticorruzione solidi, questo è soprattutto merito della capacità dei cittadini di mobilitarsi, vigilare e farsi sentire, anche – e forse soprattutto – nelle fasi più difficili.

Thailandia e Cambogia pronti alla guerra

La frontiera tra Thailandia e Cambogia è stata teatro di uno dei peggiori scontri militari degli ultimi anni, con una escalation di violenza che ha lasciato dietro di sé una scia di morti, feriti e sfollati. Questo conflitto è il culmine di tensioni che covavano da mesi su un’area contesa da entrambe le nazioni, un luogo ricco di storia ma segnato da decenni di dispute. La zona in questione è quella intorno al tempio di Prasat Ta Muen Thom, posizione strategica e simbolica sulla linea di confine tra la provincia thailandese di Surin e la provincia cambogiana di Oddar Meanchey.

Tutto ha avuto inizio con uno scontro tra soldati che si sono ritrovati a pochi metri di distanza, seguiti da un violento scambio di fuoco che ha coinvolto armi leggere, razzi e artiglieria. Secondo i rapporti della Royal Thai Army, i soldati cambogiani hanno utilizzato persino lanciarazzi multipli BM-21 contro posizioni thailandesi, colpendo aree abitate e causando numerose vittime civili. Tra le perdite thailandesi si contano almeno undici civili e un soldato, mentre si segnala anche un crescente numero di feriti, molti dei quali sono stati trasportati negli ospedali di frontiera trasformati in strutture di emergenza per far fronte all’emergenza sanitaria. Il bilancio umano è agghiacciante: tra le vittime ci sono anche bambini, come un bambino di otto anni colpito in un’area commerciale colpita dalle bombe cambogiane.

La reazione thailandese non si è fatta attendere, con l’impiego di aerei da combattimento F-16 per colpire obiettivi militari in territorio cambogiano. Questi raid aerei hanno causato la distruzione di almeno due basi di supporto militare cambogiane, segnando un’escalation senza precedenti negli ultimi dieci anni tra i due paesi. Entrambi i governi si accusano reciprocamente di iniziare gli scontri e di aver violato la sovranità territoriale altrui, di aver collocato mine nel territorio altrui e di attaccare intenzionalmente obiettivi civili. Queste accuse, che si rimbalzano come una partita a ping pong, nascondono un profondo retaggio di rivalità e sfiducia che risale all’epoca coloniale francese, quando furono delineati i confini poco chiari e contestati.

La crisi attuale ha peggiorato notevolmente la situazione diplomatica tra Thailandia e Cambogia. Il governo thailandese ha già deciso di ritirare il proprio ambasciatore da Phnom Penh e di espellere l’ambasciatore cambogiano da Bangkok, mentre il primo ministro cambogiano Hun Manet ha esortato la Thailandia a cessare immediatamente tutte le ostilità e a ritirare le sue truppe oltre il confine, accusando il suo vicino di violare il diritto internazionale. Le tensioni hanno portato anche alla sospensione del primo ministro thailandese in carica, evidenziando come la disputa stia minando la stabilità politica interna.

Dal punto di vista umanitario, la situazione è drammatica. Oltre centomila persone sono state costrette a fuggire dalle proprie case, trovando rifugio in centri di evacuazione allestiti dalle autorità. Le province thailandesi di Sisaket, Buriram e Ubon Ratchathani sono quelle maggiormente colpite, con migliaia di sfollati che abbandonano le loro abitazioni per sfuggire alle bombe e ai razzi. Anche in Cambogia si segnalano feriti e almeno un morto, anche se il governo di Phnom Penh è stato meno trasparente sul numero esatto delle vittime. La paura ha investito intere comunità, mentre molte scuole nelle regioni di confine sono state chiuse per motivi di sicurezza, creando ulteriori disagi ai bambini e alle loro famiglie.

Il conflitto si inserisce in una lunga storia di dispute territoriali nella cosiddetta “Triangolo di Smeraldo”, area di incontro tra i confini di Thailandia, Cambogia e Laos, caratterizzata da una ricca presenza di templi storici e da antiche rivendicazioni territoriali. La fragilità di questo equilibrio si è manifestata più volte nel corso degli ultimi decenni, con occasionali scaramucce che si sono trasformate in scontri armati più severi, come quello di maggio di quest’anno che aveva già causato la morte di un soldato cambogiano.

Gli esperti sottolineano come la questione del confine si intrecci con dinamiche politiche e nazionaliste interne a entrambi i paesi. In Thailandia, la gestione della crisi ha portato a una forte instabilità politica, con il governo costretto a fare i conti con pressioni interne e con una popolazione allarmata dalla ripresa delle ostilità. In Cambogia, la leadership ha usato la questione come elemento di coesione nazionale, richiamando all’unità contro quella che percepisce come una minaccia esterna.

Il futuro rimane incerto. Nonostante gli appelli alla calma da parte di organismi internazionali e della stessa ASEAN, il rischio di un conflitto prolungato o di ulteriori escalation rimane alto. La situazione ai confini è estremamente volatile, con continue segnalazioni di movimenti di truppe e scontri sporadici che impediscono una normalizzazione delle condizioni di vita per chi abita la zona. La comunità internazionale osserva con preoccupazione, mentre la pace, fino a questo momento fragile, sembra essersi dissolta in un momento di violenza.

Questo conflitto rappresenta non solo una tragedia umana ma anche una sfida geopolitica delicata nel cuore del Sud-Est asiatico. La storia dimostra che le frontiere tracciate da potenze coloniali spesso lasciano in eredità problemi complessi e difficili da risolvere attraverso la diplomazia tradizionale. In questa fase cruciale, il rischio è che le tensioni sfocino in un conflitto più ampio che potrebbe coinvolgere altri attori regionali e internazionali, con conseguenze imprevedibili per la stabilità dell’intera area.

Il dramma che si svolge ai confini tra Thailandia e Cambogia ci ricorda quanto sia fragile la pace in zone dove il passato e le rivendicazioni territoriali si intrecciano con interessi nazionali profondi e sfide geopolitiche complesse. L’auspicio rimane che possa prevalere la ragione, e che i canali diplomatici riescano a riaprire un dialogo serio e costruttivo prima che sia troppo tardi per le comunità locali e per le relazioni fra i due vicini di casa.

Israele vota mozione per annettere la Cisgiordania. Pericolosa escalation

Il 23 luglio 2025, con una maggioranza netta, il parlamento israeliano ha approvato una mozione non vincolante che invita il governo ad estendere la sovranità israeliana su tutta la Cisgiordania, compresa la Valle del Giordano. Un atto dal peso legale nullo ma dal valore politico potenzialmente dirompente, capace di riaprire con forza il dibattito sulla soluzione a due Stati, di mettere alla prova le relazioni internazionali di Israele e di infiammare, ancora una volta, l’opinione pubblica palestinese.

Un testo nato dall’ala destra che intercetta un clima già polarizzato

Il dispositivo, presentato inizialmente dal ministro delle Finanze Bezalel Smotrich e rilanciato da deputati di Likud, Religious Zionism e persino dall’opposizione di destra Yisrael Beiteinu, definisce la Cisgiordania “parte inseparabile della patria storica del popolo ebraico”. La mozione non cambia immediatamente lo status giuridico dei Territori occupati, ma consolida nella narrativa parlamentare l’idea che l’annessione sia non solo legittima, bensì necessaria per la sicurezza nazionale.
Fin dall’inizio della legislatura la coalizione guidata da Benjamin Netanyahu ha stretto intese con i partner ultra-nazionalisti promettendo di “avanzare l’applicazione della sovranità su Giudea e Samaria”, denominazioni bibliche usate per indicare la Cisgiordania. L’attuale voto, dunque, rappresenta il coronamento simbolico di quell’accordo di governo.

La scelta del calendario non è casuale: a fine luglio il Knesset entrerà in pausa estiva e le pressioni di diversi ministri che hanno firmato una lettera pubblica a Netanyahu perché agisca “prima della chiusura dei lavori” hanno accelerato l’iter. Per i promotori, si tratta di “mandare un messaggio chiaro al mondo” contro ogni ipotesi di Stato palestinese; per i partiti centristi e di sinistra, invece, la mozione è una “cortina fumogena” che distoglie l’attenzione dalla crisi degli ostaggi a Gaza e dalle proteste economiche interne.

Se il carattere non vincolante sembra ridurre la portata dell’iniziativa, il contesto la ingrandisce: in Cisgiordania convivono numerosi coloni israeliani accanto a una popolazione palestinese molto più ampia. Applicare la legge israeliana significherebbe includere gli insediamenti considerati illegali secondo il diritto internazionale in un sistema amministrativo unico, con il rischio di creare un regime di cittadinanza differenziata. Organizzazioni per i diritti umani evocano lo spettro di uno status permanente di apartheid.

La mozione arriva a un anno esatto dall’opinione consultiva della Corte Internazionale di Giustizia, che nel luglio 2024 ha definito l’occupazione “illegale” e intimato lo smantellamento delle colonie. Proprio per questo, la diplomazia israeliana teme che il passo possa innescare nuove iniziative sanzionatorie all’ONU o presso la Corte Penale Internazionale.

Sul fronte palestinese la reazione è stata immediata. Il portavoce presidenziale Nabil Abu Rudeineh ha definito il voto “una pericolosa escalation che mina la stabilità”. Hussein al-Sheikh, braccio destro di Mahmoud Abbas, ha parlato di “attacco diretto ai diritti del popolo palestinese” e ha invitato la comunità internazionale a intervenire. Hamas, da Gaza, ha bollato la delibera come “nulla e priva di legittimità” e ha chiesto di intensificare la resistenza popolare.

Lo sguardo del mondo: condanne, preoccupazioni e silenzi strategici

Dal Medio Oriente al G20, condanne e ammonimenti si sono susseguiti in poche ore. Turchia, Egitto, Giordania, Qatar, Arabia Saudita e Emirati Arabi Uniti hanno diffuso note congiunte definendo la mozione “una violazione palese del diritto internazionale”. Il ministero degli Esteri giordano l’ha qualificata come “minaccia alla soluzione dei due Stati e alla pace regionale”. Parallelamente l’Unione Europea ha ricordato che “qualsiasi annessione costituirebbe una grave violazione del diritto internazionale”.

Più contenute le reazioni di Washington, dove l’amministrazione statunitense evita da mesi prese di posizione nette sul dossier Cisgiordania per non compromettere i delicati equilibri con gli alleati arabi in piena crisi di Gaza. Dietro le quinte, tuttavia, diplomatici statunitensi avrebbero espresso “profonda preoccupazione” a Netanyahu, ribadendo che i negoziati con i palestinesi restano “l’unica via credibile”. Canada, Australia e diversi Paesi latino-americani, dal canto loro, hanno richiamato il principio di inutilizzabilità della forza nella modifica dei confini.

Il voto israeliano pesa anche sulle trattative, ancora in stato embrionale, per la normalizzazione dei rapporti tra Israele e Arabia Saudita. Riyadh ha più volte subordinato eventuali aperture a “progressi reali” sul fronte palestinese, condizione che la mozione rende ancora più complicata.

Possibili scenari: dal diritto interno alla geopolitica

Cisgiordania - West bank
West bank – Cisgiordania

Sebbene la mozione non obblighi il governo a presentare una legge di annessione, il rischio che diventi la base di future iniziative legislative è concreto. Netanyahu potrebbe sfruttare il voto come leva negoziale: da un lato per rafforzare la coesione della coalizione, dall’altro per ottenere concessioni internazionali in cambio di un congelamento de facto. Analoga dinamica si è già vista in passato, quando il parlamento approvò risoluzioni contro la nascita di uno Stato palestinese; da allora, tuttavia, nessuna legge di annessione vera e propria è stata discussa.

Sul versante palestinese l’Autorità Nazionale teme un ulteriore indebolimento della propria posizione. Già oggi l’erosione territoriale dovuta all’espansione delle colonie rende frammentaria la continuità geografica necessaria a uno Stato sovrano. Un’annessione formale negherebbe di fatto le frontiere del 1967, base di ogni negoziato sin dagli Accordi di Oslo. Per questo Ramallah valuta di intensificare la campagna di riconoscimento internazionale con numerosi Paesi, portando sempre più Stati a riconoscere la Palestina come entità sovrana. Ogni nuovo passo israeliano verso l’annessione potrebbe accelerare questa dinamica diplomatica.

Nell’immediato, l’attenzione si sposta sulle possibili reazioni dei coloni e dei movimenti palestinesi sul territorio. Incursioni, demolizioni e blocchi stradali sono in aumento, alimentando il timore di un’ulteriore spirale di violenza. La società civile israeliana è a sua volta spaccata: gruppi pacifisti come Peace Now denunciano “il rischio di un conflitto permanente”, mentre settori nazional-religiosi salutano la mozione come “passo storico verso il compimento della missione sionista”.

Un passo che ridisegna il lessico del conflitto

Al di là dei suoi effetti immediati, la mozione segna un mutamento semantico: sostituisce la logica del “processo di pace” con il linguaggio della “sovranità”, trasferendo nel discorso pubblico un concetto finora confinato a slogan elettorali. Se in passato si discuteva di ritiro, negoziato e compromesso, oggi il centro del dibattito è diventato l’estensione permanente della legislazione israeliana oltre la Linea Verde.

Molti analisti vedono in questo cambio di paradigma il sintomo di un conflitto ormai privo di un quadro negoziale riconosciuto da entrambe le parti. L’Autorità Palestinese, delegittimata internamente e priva di risultati concreti, rischia di perdere definitivamente la funzione di interlocutore; Israele, dal canto suo, potrebbe trovarsi isolato da un fronte internazionale più vasto di quello che bloccò l’annessione nel 2020, quando gli Accordi di Abramo permisero un congelamento in cambio della normalizzazione con gli Emirati Arabi Uniti.

Il voto, quindi, non si esaurisce nella cronaca parlamentare. È l’ennesima tessera di un puzzle che vede sul tavolo diritto internazionale, equilibri interni israeliani, aspirazioni nazionali palestinesi e interessi strategici globali. Se diventerà un detonatore legislativo o resterà un gesto di pura propaganda dipenderà dalla capacità – o volontà – degli attori coinvolti di tornare a un tavolo di trattativa credibile. Nel frattempo, il linguaggio della sovranità continua a spostare il baricentro del conflitto, lasciando sul campo una domanda aperta: quale spazio rimane, oggi, per una pace negoziata che garantisca diritti e sicurezza a entrambe le popolazioni?

Russia: un Antonov An-24 precipita con quasi cinquanta persone a bordo

L’alba del 24 luglio 2025 si è svegliata con una delle sue notizie più cupe per la Federazione Russa. Un Antonov An-24, aereo di linea quasi cinquantennale, si è schiantato nella regione dell’Amur, a ovest della cittadina siberiana di Tynda, lasciando dietro di sé una scia di fumo visibile tra i densi boschi e spegnendo le speranze di ritrovare superstiti tra le quasi cinquanta persone a bordo. La conferma della gravità della situazione è giunta dopo frenetiche ricerche aeree: la fusoliera in fiamme è stata avvistata da un elicottero dei servizi d’emergenza russi, rendendo palese fin da subito la portata della tragedia.

Il volo, operato dalla compagnia regionale Angara Airlines, trasportava un gruppo eterogeneo: passeggeri, tra cui alcuni bambini, e membri dell’equipaggio. Un dato confermato sia dal governatore dell’Amur, Vasily Orlov, che dalle fonti del ministero per le Situazioni d’Emergenza, benché alcune note ufficiali indichino un numero di presenze oscillante a causa delle consuete discrepanze iniziali in simili circostanze. Le autorità, che hanno subito aperto un’indagine per presunta violazione delle norme sulla sicurezza del volo, si sono trovate davanti a uno scenario da incubo: nessun superstite, i resti dell’Antonov dispersi su un pendio boscoso vicino a Tynda. L’area, tra l’altro, è notoriamente remota e difficile da raggiungere anche per i soccorritori più esperti: la morfologia del terreno, caratterizzata da colline, vegetazione intensa e l’assenza di infrastrutture agevoli, ha reso impossibile l’atterraggio diretto perfino ai velivoli di soccorso.

Le immagini che hanno fatto il giro del mondo brevi spezzoni pubblicati sui social media e ripresi dai notiziari locali mostrano colonne di fumo che si alzano nel verde fitto della foresta, con pezzi dell’aeromobile disseminati tra gli alberi e le fiamme ancora attive all’arrivo della prima squadra di soccorso. Lo scenario si è immediatamente prospettato devastante, con le autorità dell’Amur che hanno dichiarato lo stato di massima emergenza e l’attivazione di hotline dedicate per informare familiari e parenti delle vittime.

Il volo era partito da Blagoveshchensk, capoluogo regionale al confine con la Cina, ed era diretto alla cittadina di Tynda, approdo strategico della linea ferroviaria Baikal-Amur, cuore logistico dell’Estremo Oriente russo. Secondo le ricostruzioni preliminari, il contatto radio si è interrotto mentre l’aereo stava iniziando le manovre di discesa. A bordo—oltre ai numerosi passeggeri, uomini, donne e bambini—figuravano componenti dell’equipaggio, tra cui pilota e copilota, che secondo quanto riportato, non hanno mai avuto il tempo o la possibilità di lanciare un segnale di emergenza né di riferire anomalie tecniche comunicabili alle torri di controllo.

I primi dettagli sull’accaduto sono giunti dopo che il centro operativo della difesa civile aveva disposto il decollo di elicotteri di ricerca, i quali hanno sorvolato l’area individuando ben presto i resti del velivolo. Le indagini si sono subito concentrate sulle condizioni meteorologiche e sulle dinamiche dell’atterraggio. Secondo quanto riferito dalla procura dei trasporti della regione, l’aereo avrebbe tentato un secondo avvicinamento alla pista dopo un primo tentativo fallito, probabilmente a causa di scarsissima visibilità e forti venti. È stato proprio durante questa manovra, apparentemente senza alcuna richiesta di aiuto, che i radar hanno perso il segnale del velivolo.

L’Antonov An-24 coinvolto nell’incidente era uno degli esemplari storici dell’aviazione sovietica, entrato in servizio decenni fa, con alle spalle numerosi voli per la compagnia di bandiera Aeroflot prima e per varie compagnie regionali dopo la dissoluzione dell’URSS. Nonostante l’età, il velivolo risultava in regola con le certificazioni di volo, secondo quanto riportato da fonti dell’aviazione russa; tuttavia, l’elevata anzianità della flotta civile russa in zone isolate rappresenta una costante fonte di preoccupazione per esperti e associazioni di settore, che nuovamente invocano interventi strutturali per il rinnovo del parco mezzi, soprattutto sulle tratte periferiche dove l’usura e la difficoltà di manutenzione si fanno sentire di più.

L’intera operazione di ricerca e recupero ha richiesto ore tra ostacoli naturali e condizioni meteorologiche avverse, con squadre specializzate che hanno lavorato incessantemente tra i fumi ancora attivi dell’incendio. “È stato complicato atterrare sul sito dello schianto”, ha dichiarato un responsabile dei soccorsi citato dall’agenzia TASS. “Abbiamo riscontrato subito assenza di sopravvissuti”.

Le autorità hanno deciso di avviare, nel frattempo, un’indagine penale ipotizzando la violazione delle norme di sicurezza del volo: una prassi obbligata in Russia nel caso di incidenti mortali dell’aviazione civile, che mira a stabilire con precisione le responsabilità e a produrre raccomandazioni per prevenire catastrofi simili. Fra le ipotesi prese in esame, oltre all’errore umano e alle difficili condizioni del meteo, non viene esclusa la possibilità di un improvviso guasto tecnico dovuto all’età della macchina.

Profondo è il dolore nella regione dell’Amur e in tutta la comunità dell’Estremo Oriente russo, tuttora impreparata a confrontarsi con la portata di una simile tragedia: Tynda, la destinazione finale del volo, è una cittadina di dimensioni contenute, autentico crocevia ferroviario e aereo di frontiera, toccata raramente dalle cronache nazionali se non per casi come questi. Familiari delle vittime, colleghi e amici si sono radunati nelle ore successive presso l’aeroporto e gli ospedali della zona, mentre le autorità locali hanno allestito supporti psicologici e centri di assistenza per i parenti colpiti dalla perdita.

Il disastro dell’An-24 dell’Angara Airlines riapre, ancora una volta, il dibattito sulla sicurezza nei cieli periferici della Russia, un Paese vastissimo in cui spesso la manutenzione e il ricambio della flotta si scontrano con la realtà logistica e i costi proibitivi delle operazioni nelle regioni più isolate. La presenza di aerei dal progetto sovietico ormai vetusto, insieme all’assenza di segnalazioni di malfunzionamento o avviso immediato di avaria, mette sotto esame tutti gli anelli della catena: dalla formazione degli equipaggi alle strategie di approccio agli aeroporti più esposti a condizioni critiche.

L’opinione pubblica russa già scossa da precedenti catastrofi aeree e incidenti in zone periferiche esprime rabbia e smarrimento, mentre le indagini proseguono senza sosta. Il lutto che ha investito la regione dell’Amur si riflette sulle politiche dell’intero Paese, laddove la questione delle infrastrutture e della sicurezza civile e industriale torna prepotentemente al centro dell’attenzione nazionale. La speranza di qualche segnale di vita si è spenta definitivamente quando anche le ultime squadre di soccorso hanno confermato che non c’era nessuna possibilità di trovare superstiti.

Ancora una volta, la tragedia richiama la necessità di rinnovare e rafforzare i sistemi di trasporto in territori poco serviti, ove la sicurezza non può essere affidata solo alla storicità o alla fama di progetti ingegneristici del passato ma necessita di interventi continui, controlli serrati e risorse adeguate. La gravità dell’incidente e il dolore delle famiglie delle vittime resteranno un monito vivissimo per il sistema aeronautico russo e per le comunità che, nel silenzio delle loro foreste e steppe, continuano a scommettere sulla connettività aerea per non restare isolate dal resto del Paese. Solo la massima attenzione alla prevenzione, all’addestramento e allo stato dei velivoli potrà, forse, evitare che tragedie come quella del 24 luglio 2025 si ripetano.

Germania 2025: blatte spia, robot e IA, così cambia la guerra del futuro

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Nella Germania del 2025, la rivoluzione bellica non si combatte più solo con carri armati e cannoni: i protagonisti di questa nuova corsa agli armamenti sono intelligenza artificiale avanzata, droni autonomi e persino “blatte spia” inviate tra le linee nemiche. Sull’onda lunga del conflitto in Ucraina e della crescente incertezza geopolitica internazionale, Berlino ha avviato una trasformazione profonda della sua difesa, investendo miliardi di euro in tecnologie che fino a pochi anni fa sembravano fantascienza.

La svolta è sotto gli occhi di tutti: la Bundeswehr, forze armate tedesche, si apre sempre di più alle start-up innovative e ai nuovi attori del settore, accorciando drasticamente i tempi della burocrazia per favorire la rapida adozione delle tecnologie più all’avanguardia. “La trasformazione che portano sul campo di battaglia i droni e l’intelligenza artificiale è paragonabile a quella introdotta a suo tempo dalla mitragliatrice o dal carro armato”, ha dichiarato Annetta LeigkEmden, a capo del potente organismo che gestisce la spesa militare tedesca. In questa corsa all’innovazione, ad esempio, il Cyber Innovation Hub, acceleratore ufficiale della Bundeswehr, riceve ora decine di proposte di collaborazione ogni giorno, spaziando dallo sviluppo della robotica militare fino agli infestanti dotati di microchip.

Le blatte “cyborg”: natura e tecnologia per la guerra e il soccorso

Tra le idee più sorprendenti emerse in Germania figura quella di utilizzare vere blatte, equipaggiate con minuscoli zaini elettronici, come strumento per la sorveglianza in ambienti ostili. Queste “spy cockroaches” sono in grado di essere manovrate a distanza, inviate in edifici o sotterranei per raccogliere informazioni tramite telecamere miniaturizzate e sensori. La start-up tedesca Swarm Biotactics, con laboratori a Kassel, punta dichiaratamente a creare stormi di insetti telecomandati per infiltrare le basi nemiche o localizzare persone rimaste intrappolate in scenari di catastrofe.

Il funzionamento è tanto ingegnoso quanto inquietante: un piccolo modulo elettronico, impiantato sul dorso di ogni insetto, stimola elettricamente i movimenti della blatta, guidandola secondo necessità. A differenza che con i mammiferi, la normativa tedesca non proibisce questo tipo di manipolazione sugli insetti, una zona grigia della legge che sta facilitando la sperimentazione di sistemi davvero fuori dall’ordinario. L’obiettivo degli sviluppatori è ambizioso: non solo militarizzare sciami di insetti per lo spionaggio, ma impiegarli anche nell’industria (per rilevare fughe di gas) o nelle operazioni di salvataggio, dove uomini e droni faticherebbero a penetrare in luoghi troppo stretti o insicuri2.

L’intelligenza artificiale e la trasparenza del campo di battaglia

La corsa della Bundeswehr non si ferma però alla biotecnologia. Il nuovo sistema “Uranos KI” punta a creare un vero e proprio campo di battaglia trasparente: la frontiera è quella della sorveglianza capillare grazie a sensori e algoritmi. L’IA analizzerà masse di dati in tempo reale, consentendo di prevedere e identificare ogni mossa dell’avversario, dai movimenti dei carri armati fino alle manovre furtive dei droni.

Secondo fonti della difesa, i primi test pratici in Germania hanno già permesso di dimezzare i tempi necessari per neutralizzare veicoli nemici e di risparmiare fino a un terzo delle munizioni utilizzate in addestramento. La direzione è chiara: la Germania vuole dotarsi di sistemi automatizzati che, nel giro di pochi anni, possano guidare in tempo reale le decisioni tattiche dei soldati sul campo.

Alla base di questa svolta vi è anche una crescente collaborazione tra settore pubblico e imprese innovative: come nel caso di Helsing, la start-up da 12 miliardi di dollari protagonista nello sviluppo di IA bellica e di droni d’attacco, o di ARX Robotics, che lavora su sistemi di terra autonomi. Il governo di Berlino sta cambiando radicalmente le regole del gioco: semplificazioni delle gare d’appalto, anticipi per le PMI e priorità ai fornitori europei sono le nuove linee guida per il procurement militare.

Il cambiamento è così profondo che la “Mittelstand”, la tradizionale classe di piccole e medie imprese tedesche in passato fortemente legata al settore automobilistico, sta progressivamente riconvertendo la produzione verso componenti per la difesa. L’obiettivo governativo è triplicare il budget militare entro il 2029, fino a 175 miliardi di dollari, con particolare attenzione alle tecnologie dirompenti come l’IA e la robotica.

Le implicazioni geopolitiche: una Germania “armi-tech leader”

Questa trasformazione è figlia anche del mutato clima geopolitico. L’invasione russa dell’Ucraina ha scosso profondamente la società e la politica tedesca, abbattendo molti dei tabù storici sull’impiego della forza e sul riarmo. Oggi la Germania non si limita più a sostenere l’Ucraina come donatore, ma intende porsi come leader della nuova difesa europea. Basti pensare che, per la prima volta da decenni, l’Europa nel suo complesso ha superato gli Stati Uniti per spesa in procurement militare, secondo le recenti rilevazioni della Commissione Europea. Questo significa anche una maggiore autonomia strategica rispetto alla Nato e un rafforzamento degli strumenti per affrontare le minacce alle frontiere orientali dell’Alleanza.

Il piano tedesco si inserisce inoltre in un più ampio programma di riarmo europeo, che prevede un’iniezione di 800 miliardi di euro nei prossimi anni per la costruzione di difese anti-aeree e l’ammodernamento delle infrastrutture critiche. Start-up, venture capital e grandi colossi come Rheinmetall o Hensoldt sono ormai coinvolti direttamente nei processi decisionali e nella ricerca di soluzioni che accelerino l’integrazione di queste nuove tecnologie nella filiera difensiva continentale.

Il futuro della guerra: tra etica, innovazione e tecnosorveglianza

L’avvento di sistemi basati su intelligenza artificiale, strumenti cibernetici e “organismi cyborg” pone enormi questioni etiche e strategiche. Il vantaggio degli animali-cyborg? Non vengono rilevati dai radar, hanno energia praticamente illimitata (si nutrono da soli) e, se dotati dei giusti sensori, possono raccogliere dati ovunque sia impossibile arrivare per qualsiasi altra macchina o essere umano. Ma tutto ciò solleva interrogativi profondi: fin dove la tecnologia può spingersi prima che gli stessi principi fondamentali della guerra e della privacy vengano messi in discussione?

Berlino ne è consapevole. Ma in una stagione segnata da crisi e da una crescente pressione ai confini orientali europei, la priorità sembra essere quella di non restare indietro in una corsa tecnologica che ormai definisce non solo la sicurezza nazionale, ma il bilanciamento dei poteri mondiali.

Italia e Algeria, un nuovo patto strategico: tra contrasto al terrorismo e migrazioni

Nella splendida cornice di Villa Doria Pamphili a Roma, si è svolto un cruciale vertice intergovernativo tra Italia e Algeria che segna una svolta nelle relazioni bilaterali tra i due Paesi. L’incontro, che ha visto protagonisti la Presidente del Consiglio italiana Giorgia Meloni e il Presidente algerino Abdelmadjid Tebboune, ha prodotto una serie di accordi fondamentali, incentrati sulla lotta al terrorismo internazionale, sul contenimento dei flussi migratori e sul rafforzamento della cooperazione economica, soprattutto nei settori dell’energia e delle telecomunicazioni.

Il vertice arriva in un delicato momento storico per l’area mediterranea, segnato da sfide complesse come l’instabilità del Nord Africa e la pressione esercitata dalle migrazioni verso l’Europa. Il documento siglato dalle delegazioni di Roma e Algeri prevede la formalizzazione di un memorandum d’intesa specificamente dedicato al contrasto del terrorismo e al blocco dei suoi canali di finanziamento, anche se al momento non sono stati resi noti i dettagli operativi delle minacce che i due Paesi intendono affrontare congiuntamente.

Parallelamente, una delle principali linee di collaborazione riguarda la gestione delle migrazioni. L’Italia, guidata dal governo Meloni dal 2022, ha infatti fatto della riduzione degli sbarchi e della lotta ai traffici dei migranti una delle sue priorità politiche. L’accordo prevede una strategia di coordinamento rafforzato nei soccorsi e nelle operazioni di salvataggio nel Mediterraneo, rotta tristemente nota per i numerosi naufragi di migranti in fuga dal Nord Africa. Questo impegno mira a rendere più efficace la risposta congiunta nella gestione delle emergenze e a salvare vite umane, oltre a erodere i margini di azione delle organizzazioni criminali che lucrano sulla disperazione dei migranti.

Il legame tra Italia e Algeria, in particolare, assume una valenza cruciale anche dal punto di vista energetico ed economico. L’Algeria è attualmente il principale partner commerciale dell’Italia in Africa, con scambi bilaterali che hanno superato i 14 miliardi di euro negli ultimi dodici mesi e investimenti italiani in territorio algerino che ammontano a circa 8,5 miliardi di euro. Nel corso del summit sono stati siglati numerosi nuovi contratti, tra cui spicca l’accordo tra il colosso energetico italiano Eni e l’azienda statale algerina Sonatrach, del valore di circa 1,3 miliardi di dollari, destinato all’esplorazione e allo sviluppo di risorse idrocarburiche nel paese nordafricano. Questa collaborazione energetica non solo consolida il ruolo dell’Italia come primo cliente del gas algerino, ma si inserisce nel contesto più ampio del cosiddetto “Piano Mattei”, la strategia italiana per rafforzare i legami economici e infrastrutturali con l’Africa, ridisegnando gli equilibri dell’approvvigionamento energetico europeo in una fase post-dipendenza dal gas russo.

Il vertice ha rappresentato anche l’occasione per intensificare i rapporti su molteplici fronti: sono stati stipulati oltre dieci accordi intergovernativi, dal contrasto al terrorismo alla cooperazione culturale, passando per il commercio e la sicurezza. Le delegazioni hanno inoltre discusso temi di rilievo globale, tra cui la situazione in Ucraina, le crisi in Medio Oriente, le tensioni in Libia e il coinvolgimento nell’area del Sahel: dossier che confermano la necessità di una sinergia sempre più estesa tra le due sponde del Mediterraneo e sottolineano come Algeria e Italia lavorino fianco a fianco per garantire stabilità regionale, anche grazie al contributo del settore privato e delle oltre 150 aziende italiane operanti in Algeria.

La cooperazione in tema di sicurezza, con un accento particolare sul contrasto ai traffici illeciti, è vista da entrambi i governi come il pilastro per una crescita economica sostenibile e una migliore gestione delle frontiere. L’accordo recentemente firmato dai ministri degli Interni di Italia e Algeria amplia infatti le aree investigative e introduce nuove forme di collaborazione contro la criminalità organizzata, la cybercrime, la tratta di esseri umani e il traffico di droga, con un’attenzione specifica alle minacce emergenti dalla crisi del Sahel e dall’instabilità nei confini orientali algerini, soprattutto con la Libia.

Da sottolineare una dichiarazione del ministro dell’Interno algerino Brahim Merad, secondo cui “al momento (in Italia) non ci sono migranti provenienti dall’Algeria, ed è grazie alla nostra visione comune”. Un risultato che Merad attribuisce anche alla chiusura e al controllo rafforzato delle frontiere meridionali, necessario alla luce dei rischi crescenti derivanti dall’espansione dei traffici da sud e dalla penetrazione del terrorismo nella regione. Si tratta, come ha sottolineato il rappresentante algerino, di un modello di collaborazione che va oltre la semplice gestione emergenziale e punta a una prevenzione strutturale delle dinamiche criminali internazionali.

Dal punto di vista geopolitico, questa rinnovata intesa apre prospettive concrete per la costruzione di una partnership euro-africana moderna, più equa e orientata allo sviluppo reciproco. La visione della Presidenza italiana mira infatti a superare la tradizionale logica di “aiuti dall’alto”, per abbracciare una strategia di cooperazione paritaria che favorisca investimenti, scambi tecnologici e crescita sostenibile su entrambi i versanti del Mediterraneo. Meloni ha spesso sottolineato la necessità di abbandonare l’arroganza occidentale nelle relazioni con l’Africa, promuovendo invece rapporti di fiducia reciproca e progetti concreti in grado di incidere sul benessere delle comunità locali, contribuendo così a ridurre le stesse radici delle migrazioni forzate.

Non manca nell’agenda comune l’attenzione al futuro: dalla lotta al cambiamento climatico ai nuovi modelli di sviluppo agricolo, dalle energie rinnovabili all’innovazione tecnologica, i governi italiano e algerino si sono impegnati a creare nuove opportunità per giovani e imprese, incentivando progetti di ricerca e formazione condivisa.

Il summit di Villa Doria Pamphili non è dunque soltanto un evento simbolico, ma rappresenta l’avvio di una fase operativa in cui la diplomazia mediterranea si traduce in azioni concrete e misurabili. Gli operatori economici guardano con interesse ai nuovi scenari aperti dalla partnership Roma-Algeri, mentre le istituzioni sottolineano la necessità di garantire continuità agli impegni presi. La comunità internazionale osserva con attenzione l’esito dell’intesa, consapevole che la stabilità e la crescita del Mediterraneo passano oggi più che mai attraverso la capacità di agire insieme, di affrontare vecchie emergenze con strumenti nuovi e di utilizzare la cooperazione come leva per costruire sicurezza e prosperità condivise.

Turchia pronta a intervenire contro ogni tentativo di divisione della Siria

La Turchia non resterà spettatrice dinanzi a tentativi di divisione della Siria. Il recente annuncio di Ankara rappresenta una svolta sostanziale nel quadro del conflitto siriano e della geopolitica regionale, accendendo nuovamente i riflettori su una questione che, dopo la caduta improvvisa del regime di Bashar al-Assad, rimane cruciale per l’equilibrio del Medio Oriente. Le dichiarazioni ufficiali della leadership turca, reiterate nelle ultime settimane dal presidente Recep Tayyip Erdoğan e dal ministro degli Esteri Hakan Fidan, sono inequivocabili: qualsiasi tentativo di frammentazione della Siria, o di concedere autonomia a realtà ritenute ostili — in particolare i gruppi curdi vicini al PKK—sarà considerato una minaccia diretta alla sicurezza nazionale turca e incontrerà una pronta risposta militare.

Il contesto del nuovo interventismo turco si è delineato chiaramente dopo l’offensiva che ha portato la coalizione ribelle guidata da Hayat Tahrir al-Sham (HTS) a rovesciare il regime di Assad, creando una situazione di grande instabilità. Ankara, che ha manifestato il proprio sostegno ai gruppi ribelli, impone oggi una posizione di assoluta fermezza sul futuro di Damasco e sulla necessità di garantire l’integrità territoriale siriana, ponendo come linea rossa ogni avanzata separatista da parte delle milizie curde affiliate al YPG, considerate da sempre una diretta emanazione del PKK.

La questione curda emerge infatti come uno degli aspetti più sensibili e divisivi. La leadership turca considera la presenza e l’eventuale consolidamento di autonomie curde nel nord della Siria una minaccia esistenziale, rischiando di aprire la strada a fenomeni imitativi sulle proprie province sudorientali. La Turchia ha più volte lanciato operazioni militari oltre confine — l’ultima delle quali ha contribuito all’attuale assetto frammentato della regione — proprio per impedire la formazione di uno Stato curdo de facto. Erdoğan ha sottolineato che tutte le forze politiche, inclusa la nuova leadership di Damasco e i suoi alleati internazionali, devono comprendere che Ankara è pronta a intervenire “in una notte”, qualora il rischio di divisione si materializzasse.

Ma l’avvertimento turco non è rivolto soltanto ai curdi. Ankara ha più volte accusato Israele di voler mantenere la Siria in uno stato di instabilità cronica, scommettendo sulla frammentazione etnica e religiosa per accrescere la propria influenza. L’ultimo ciclo di scontri nella provincia meridionale di Sweida, tra drusi e beduini, con il coinvolgimento di forze esterne e il proseguimento dei raid israeliani su Damasco e altre città, viene visto da Ankara come il risultato di queste strategie di “sabotaggio”, alle quali intende rispondere con una politica opposta: il rafforzamento delle istituzioni siriane, la stabilizzazione e l’allontanamento di ogni presenza terroristica o di forze secessioniste.

Il nuovo governo transitorio siriano, guidato dal leader ribelle Ahmed al-Sharaa e sostenuto dagli stessi turchi, rappresenta oggi uno snodo centrale per la ricostruzione del paese e dei delicatissimi equilibri internazionali. Ankara, proprio in virtù del suo peso politico e militare, si è ritagliata un ruolo di “abilitatore, costruttore e garante” della stabilità della Siria post-Assad, gestendo direttamente sicurezza delle frontiere, sviluppo amministrativo e dialogo con i gruppi di opposizione. Tale influenza non è priva di rischi: numerosi analisti sollevano dubbi sulla possibilità che la Turchia adotti un modello di governance eccessivamente centralizzato e conservatore, proiettando la propria visione interna sull’intero contesto siriano e marginalizzando minoranze e componenti etniche diverse.

La linea turca trova una sponda naturale anche tra i nuovi attori regionali. La convergenza di interessi tra Turchia e Arabia Saudita — che fornisce risorse finanziarie e cerca di limitare l’influenza iraniana — favorisce infatti la creazione di un fronte stabile a sostegno del nuovo assetto siriano. Se la Turchia garantisce la sicurezza e la ricostruzione delle istituzioni, Riad si propone come partner per lo sviluppo economico e la reintegrazione della Siria nella comunità internazionale, anche attraverso la rimozione delle sanzioni internazionali che bloccano la ripresa.

Non meno importante è il rapporto con le potenze occidentali, in particolare gli Stati Uniti e le nazioni europee, coinvolte nella lotta contro l’ISIS e preoccupate per le sorti delle comunità minoritarie all’interno del paese. Ankara, pur riaffermando il suo impegno contro il terrorismo jihadista, rifiuta categorizzazioni strumentali che a suo avviso coprono il sostegno occidentale al YPG/SDF, richiamando la necessità di disarmare tutte le milizie non controllate da Damasco e di garantire che “nessuna provincia siriana possa muoversi verso autonomie di tipo federale o confederale”.

La Turchia tratta con chiunque non sia divisivo

Sul piano diplomatico, la Turchia ribadisce la disponibilità a trattare con qualsiasi attore o gruppo siriano che non persegua obiettivi divisivi, ma mantiene un approccio intransigente su ogni ulteriore avanzata separatista. “Discutete tutto ciò che volete, fate tutte le richieste che considerate legittime: la Turchia vi assisterà. Ma nessuno può permettersi di superare la nostra linea rossa, che è la difesa dell’unità della Siria”, ha dichiarato il ministro degli Esteri Fidan, evidenziando il peso del dossier mediorientale nelle future relazioni tra Ankara e le capitali mondiali.

Il nuovo corso della crisi siriana si gioca, dunque, su una pluralità di livelli: militare, con la minaccia di nuove operazioni oltreconfine e il posizionamento di truppe turche nei territori chiave; politico e diplomatico, con pressioni continue su Damasco e sugli alleati occidentali; economico, con la ricostruzione e la messa in sicurezza delle infrastrutture danneggiate dalla guerra. Ankara sottolinea che “non accetterà mai che la Siria sia divisa o che il suo tessuto sociale venga alterato da forze esterne”. Il suo impegno per la sicurezza e l’integrità territoriale del vicino è, secondo i funzionari turchi, una garanzia non solo per la stabilità del paese, ma anche per quella dell’intera regione, esposta da anni a guerre, terrorismo e ondate migratorie.

Nel frattempo, il nuovo governo di Damasco si trova a dover gestire una fase di transizione complessissima, dovendo integrare ex-oppositori, minoranze, curdi e drusi in un quadro istituzionale che scongiuri spinte separatiste, ma al tempo stesso soddisfi le esigenze di rappresentanza delle varie componenti sociali. Proprio la presenza di oltre tre milioni di rifugiati siriani in Turchia e la paura che un fallimento del processo di stabilizzazione provochi nuove ondate migratorie spingono Ankara a vigilare con attenzione, affinché Damasco non diventi terreno fertile per “ogni progetto eversivo o miliziano”.

Erdogan: abbiamo i mezzi per intervenire

Le parole di Erdoğan, “abbiamo i mezzi per intervenire in ogni momento”, restano il segno tangibile della volontà turca di essere protagonista e garante del nuovo ordine mediorientale. Il messaggio rivolto ai vari attori locali e internazionali è chiaro: la Turchia veglierà sulla Siria e proteggerà i propri confini, senza esitare a intensificare la propria presenza ove necessario, nel quadro di una strategia regionale in costante evoluzione.

Il futuro della Siria resta segnato da incognite geopolitiche, con le grandi potenze chiamate a trovare un difficile equilibrio tra sicurezza, rappresentanza e sviluppo. Ma una certezza ormai si è affermata: la Turchia non tollererà alcuna ipotesi di divisione o autonomia che possa compromettere la stabilità del proprio territorio e dell’intero Levante.

Gaza: il cardinale Pizzaballa entra con 500 tonnellate di aiuti. Il Papa chiama Netanyahu 

La Striscia di Gaza è nuovamente sotto i riflettori della cronaca internazionale per un episodio che ha scosso profondamente la comunità cristiana mondiale e riacceso il dibattito sulla protezione dei civili durante i conflitti armati. Il 17 luglio 2025, la chiesa cattolica della Sacra Famiglia a Gaza City è stata colpita da un raid israeliano, provocando tre morti e diversi feriti tra cui il parroco Gabriel Romanelli.

L’attacco, descritto dalle autorità israeliane come “un errore di tiro”, ha suscitato immediate reazioni a livello diplomatico. Il premier israeliano Benjamin Netanyahu, dopo una telefonata con il presidente americano Donald Trump, ha definito l’accaduto “un tragico incidente in cui munizioni vaganti hanno colpito accidentalmente la chiesa”. La portavoce della Casa Bianca Karoline Leavitt ha confermato che “la reazione di Trump ai bombardamenti non è stata positiva” e che il presidente ha chiamato Netanyahu per affrontare direttamente la questione.

All’indomani del bombardamento, una missione senza precedenti ha preso il via verso Gaza. Il cardinale Pierbattista Pizzaballa, patriarca latino di Gerusalemme, accompagnato dal patriarca greco-ortodosso Teofilo III, è entrato nella Striscia con un carico di 500 tonnellate di aiuti umanitari. Questa iniziativa rappresenta un gesto ecumenico di grande valore simbolico, unendo le due principali confessioni cristiane presenti in Terra Santa in un momento di estrema difficoltà per la comunità locale.

Durante il loro viaggio verso Gaza, i due patriarchi hanno ricevuto una chiamata di sostegno direttamente da Papa Leone XIV, che ha espresso “il suo sostegno, la sua vicinanza e le sue preghiere” per l’importante missione. Il pontefice, che si trovava nella residenza estiva di Castel Gandolfo, ha anche avuto un colloquio telefonico con Netanyahu, durante il quale ha “rinnovato il suo appello affinché venga ridato slancio all’azione negoziale e si raggiunga un cessate il fuoco e la fine della guerra”. Leone XIV ha inoltre espresso “preoccupazione per la drammatica situazione umanitaria della popolazione a Gaza, il cui prezzo straziante è pagato in modo particolare da bambini, anziani, persone malate”.

La missione dei patriarchi ha avuto obiettivi molteplici e di grande rilevanza umanitaria. Come riportato dal Patriarcato Latino, “la delegazione incontrerà i membri della comunità cristiana locale, porgerà le condoglianze e la solidarietà e sarà al fianco di coloro che sono stati colpiti dai recenti eventi”. Il cardinale Pizzaballa ha potuto “valutare personalmente le esigenze umanitarie e pastorali della comunità, per contribuire e guidare la presenza e la risposta continua della Chiesa”.

Gli aiuti trasportati nella Striscia comprendevano “centinaia di tonnellate di scorte alimentari, nonché kit di pronto soccorso e attrezzature mediche di urgente necessità”. Significativamente, il Patriarcato ha garantito che “l’accesso per la consegna di aiuti non solo alla comunità cristiana, ma anche al maggior numero possibile di famiglie” fosse assicurato. Inoltre, è stata organizzata “l’evacuazione delle persone ferite nell’attacco verso strutture mediche fuori Gaza” per garantire loro cure adeguate.

Il raid sulla chiesa della Sacra Famiglia rappresenta purtroppo solo l’ultimo di una serie di attacchi che hanno colpito luoghi di culto cristiani a Gaza. Il patriarcato greco-ortodosso ha ricordato i precedenti bombardamenti: “l’Ospedale Battista il 17 ottobre 2023; il bombardamento alla chiesa di San Porfirio il 19 ottobre 2023; l’attacco a colpi di arma da fuoco contro i fedeli nella chiesa della Sacra Famiglia il 16 dicembre 2023”.

La figura di padre Gabriel Romanelli, il parroco ferito nell’attacco, merita particolare attenzione. Il sacerdote argentino di 56 anni, originario di Buenos Aires ma di origine italiana, appartiene all’Istituto del Verbo Incarnato e vive in Medio Oriente da 30 anni. Nonostante il ferimento alla gamba destra riportato nel raid, padre Romanelli ha continuato ad assistere la sua comunità, che comprende circa 500 sfollati cristiani ospitati nella parrocchia.

Le reazioni internazionali all’attacco sono state immediate e ferme. La premier italiana Giorgia Meloni ha dichiarato “inaccettabili gli attacchi contro la popolazione civile che Israele sta portando avanti da mesi”. Il ministro degli Esteri Antonio Tajani ha definito gli attacchi “non più ammissibili” e ha sottolineato la necessità di “garantire in maniera totale la sicurezza dei due inviati nella loro importante missione”. Anche la Francia ha condannato duramente l’accaduto, con il ministro Jean-Noel Barrot che ha definito “inaccettabile il bombardamento della chiesa cattolica della Sacra Famiglia a Gaza, posta sotto la protezione storica della Francia”.

Hamas, dal canto suo, ha denunciato che “prendere di mira moschee, chiese, ospedali e strutture civili a Gaza è un crimine di guerra che richiede una presa di posizione da parte della comunità internazionale”. L’organizzazione palestinese ha definito l’attacco “un nuovo crimine commesso contro i luoghi di culto e gli sfollati”.

La situazione generale a Gaza rimane drammatica, con continue operazioni militari che colpiscono anche i civili in fila per ricevere aiuti umanitari. Secondo le autorità palestinesi, “almeno 48 persone sono state uccise dall’alba, oltre la metà delle quali colpite mentre erano in fila per gli aiuti”. I raid hanno colpito principalmente “i siti per la consegna nei pressi di Rafah e Khan Younis”, mentre “i feriti sarebbero oltre 100”.

Parallelamente agli eventi a Gaza, si registrano sviluppi significativi nei tentativi di raggiungere un cessate il fuoco. Le trattative tra Israele e Hamas continuano con la mediazione di Qatar, Egitto e Stati Uniti, anche se “la risposta di Hamas è stata sostanzialmente negativa, ma le distanze sono ridotte” secondo fonti israeliane. Trump ha dichiarato ottimisticamente che “presto liberi altri dieci ostaggi a Gaza” e che si spera di “concludere rapidamente” i negoziati.

L’iniziativa dei patriarchi rappresenta un momento di straordinaria rilevanza per la Chiesa universale e per la diplomazia religiosa. Come sottolineato da Teofilo III, “essere a Gaza è un dovere sacro” che nasce dalla “fede incrollabile” della Chiesa ortodossa nel “rimanere salda nella sua sacra missione di essere presente, spiritualmente e umanamente, in tempo di guerra”. Il patriarca ha aggiunto che “tale presenza è un obbligo religioso e morale, un dovere sacro, che non sarà abbandonato”.

Il cardinale Pizzaballa, dal canto suo, ha ribadito l’impegno della Chiesa latina affermando che “certamente non li lasceremo mai soli”, riferendosi alla comunità cristiana di Gaza. Le sue parole risuonano come un messaggio di speranza in un contesto dominato dalla violenza e dalla distruzione.

La missione di pace e solidarietà dei due patriarchi assume un valore ancora più significativo considerando il contesto in cui si è svolta. “Morte, sofferenza e distruzione sono ovunque” a Gaza, come ha osservato il Patriarcato Latino, sottolineando che “questa tragedia non è più grave o più terribile delle tante altre che hanno colpito Gaza”. Tuttavia, l’attacco alla chiesa ha rappresentato un simbolo particolare della vulnerabilità dei civili e dei luoghi sacri durante il conflitto.

La presenza fisica dei rappresentanti ecclesiastici a Gaza, “oltre le unanimi parole di condanna internazionali”, costituisce un esempio concreto di come la diplomazia religiosa possa operare in situazioni di estrema tensione. Come ha osservato un commentatore, “esserci, a Gaza, materialmente, con le braccia spalancate, esserci con il proprio corpo” rappresenta una forma di testimonianza che va oltre le dichiarazioni di principio.

L’episodio ha anche messo in evidenza le contraddizioni e le difficoltà della situazione mediorientale. Mentre da un lato si moltiplicano gli appelli internazionali per la protezione dei civili e dei luoghi sacri, dall’altro continuano le operazioni militari che inevitabilmente coinvolgono la popolazione inerme. L’Idf ha dichiarato di aver “colpito circa 90 obiettivi a Gaza nell’ultimo giorno”, confermando l’intensità delle operazioni in corso.

La missione umanitaria si è svolta in un momento particolarmente delicato per i rapporti tra le diverse confessioni religiose e le autorità politiche della regione. Il fatto che Papa Leone XIV abbia chiamato personalmente i patriarchi durante il loro ingresso a Gaza dimostra l’attenzione del Vaticano per questa iniziativa e la volontà di mantenere un dialogo aperto con tutte le parti coinvolte nel conflitto.

L’impegno della Chiesa in Terra Santa, rappresentato simbolicamente dai “500 tonnellate di aiuti” portati dai patriarchi, evidenzia il ruolo che le istituzioni religiose possono svolgere nell’alleviare le sofferenze umanitarie anche in contesti di guerra. La dichiarazione finale del Patriarcato Latino, “Non saranno dimenticati, né abbandonati”, costituisce un impegno solenne che va oltre l’emergenza del momento e guarda al futuro della presenza cristiana in quella terra martoriata.

Alle radici della strana alleanza PD–M5S

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La politica italiana sta vivendo una stagione cruciale, fatta di dialoghi sotterranei, trattative estenuanti e alleanze che, fino a poco tempo fa, sarebbero state considerate improbabili. Uno dei più emblematici esempi di questo nuovo corso politico è il rapporto tra Paola Taverna e Igor Taruffi, ribattezzati da molti come la strana coppia incaricata di guidare le trattative tra Partito Democratico e Movimento 5 Stelle per la scelta dei candidati alle prossime elezioni regionali. Figure centrali, diverse per biografia e temperamento, che si trovano ora al centro di una partita destinata a segnare il futuro del centrosinistra italiano.

Igor Taruffi

All’interno di questo scenario così complesso, Igor Taruffi rappresenta il volto pragmatico e ragionevole del Partito Democratico guidato da Elly Schlein. Cresciuto politicamente in Emilia-Romagna, Taruffi viene spesso dipinto come il “braccio destro” della segretaria, colui che sa mischiare la determinazione al dialogo, grazie anche a una certa bonomia personale che lo rende abile mediatore. Schlein, consapevole delle sfide che l’attendono, ha affidato proprio a lui il compito di tessere la tela delle alleanze locali: “Testardamente unitari” è il mantra che accompagna il team di Taruffi, convinto che, in tutte le regioni chiamate al voto, l’intesa tra PD e M5S sia la sola strada possibile per competere realmente contro il centrodestra.

Paola Taverna

Sul fronte opposto, ma solo apparentemente, c’è Paola Taverna, ex vicepresidente del Senato e storica esponente pentastellata, ora assunta ufficialmente dallo stesso Movimento dopo aver esaurito i mandati parlamentari. Figura molto popolare tra la base grillina e dotata di una forte capacità di rappresentanza, Taverna si muove con disciplina rigida, determinata a non concedere alcuna subordinazione rispetto agli alleati del PD. La sua presenza nella trattativa, voluta esplicitamente da Giuseppe Conte, ha lo scopo di rafforzare il profilo di autonomia del Movimento, ormai deciso a non accettare passivamente ogni proposta proveniente dal Nazareno, pur senza precludere la via del dialogo.

La peculiarità di questo tandem risiede proprio nelle loro differenze. Se Taruffi viene da Porretta Terme, portando con sé i saperi e le pratiche della “vecchia scuola” dell’Emilia rossa, Taverna è il volto spigoloso e popolare della periferia romana, cresciuta fra la gente di Torre Maura, un quartiere non facile e che ne ha forgiato le doti di combattente. Insieme, si trovano a dover affrontare la sfida di una convergenza politica dove le differenze programmatiche e culturali rischiano di pesare più delle eventuali intese personali.

Trattative e mediazioni

Nei numerosi incontri riservati che si svolgono tra Roma e le varie capitali regionali, i due portano avanti una trattativa fatta di continue mediazioni, protagonisti di lunghi confronti su candidati, programmi e priorità. La regola non scritta del confronto tra Taverna e Taruffi è che nulla viene dato per scontato: ogni candidatura, ogni formula programmatica deve essere discussa, pesata, valutata rispetto alle ripercussioni sulla rispettiva base elettorale. Questo lavorìo capillare riflette sia la fragilità che il potenziale di una coalizione che può rappresentare, per la prima volta in maniera credibile, un’alternativa ad anni di dominio del centrodestra.

Agli osservatori più attenti non sfugge come il “campo largo” promosso da Schlein abbia bisogno, oggi più che mai, di interpreti capaci di tenere insieme sensibilità apparentemente inconciliabili: il rischio, certamente concreto, è quello di un’alleanza semplicemente aritmetica e non realmente politica, cioè incapace di tradursi in un progetto unitario e riconoscibile agli occhi degli elettori. Eppure, le ultime tornate elettorali hanno dimostrato che la somma tra le forze del centrosinistra e del M5S, unita alle sigle minori e agli ambientalisti, può effettivamente insidiare una destra che appare compatta soprattutto nelle urne, non altrettanto nei confronti delle emergenze sociali, economiche e ambientali.

Nel retroscena di queste trattative, si trovano mille dettagli curiosi che restituiscono il clima delle infinite discussioni tra Paola e Igor. Si racconta, ad esempio, della caparbietà con cui Taruffi riesce a mantenere la calma anche nei momenti di più alta tensione, oppure della fermezza con cui Taverna sa porre il veto su candidature che non ritiene all’altezza delle aspettative del Movimento 5 Stelle. In tutto questo, nessuno dei due perde mai di vista l’obiettivo di fondo: mostrare al proprio elettorato che l’alleanza è una scelta strategica, non una sottomissione reciproca, ma un compromesso necessario per contendere il governo delle Regioni e, più in là, del Paese.

Il banco di prova della collaborazione

La missione dei due negoziatori non è priva di ostacoli: nell’ultima stagione politica, il centrosinistra si è spesso trasformato in un vero e proprio laboratorio di alchimie instabili, dove alla fine ha prevalso il senso di responsabilità verso il destino di un’opposizione che non può più permettersi divisioni sterili. Tuttavia, nessuno ha dimenticato i tanti segnali di insofferenza provenienti soprattutto dalla componente più movimentista del M5S, poco incline a sottostare agli equilibri imposti da un partito considerato, ancora oggi, “di sistema”. Per questo motivo, la partita delle regionali rappresenta molto di più di una semplice tornata amministrativa: è il vero banco di prova per una collaborazione che può ridefinire i rapporti a sinistra e dare un senso compiuto all’idea di alternativa alla destra populista e sovranista che governa il Paese.

Durante i conciliaboli di questi giorni, risulta chiaro come la posta in gioco sia particolarmente alta: le Regioni coinvolte sono strategiche non solo sul piano politico, ma anche su quello simbolico. Qui si misura la capacità di riaccendere la partecipazione, assottigliare il fenomeno dell’astensione e, soprattutto, presentarsi come una coalizione capace di governare e non solo di opporsi. Nelle dichiarazioni ufficiali, sia dal Nazareno che dal quartier generale pentastellato, si ribadisce la volontà di andare oltre la mera sommatoria delle sigle, puntando su candidati di alto profilo, credibili e radicati nei rispettivi territori.

La leadership di Elly Schlein spinge verso una linea di chiarezza e unità. Dal canto suo, il Movimento guidato da Conte vede nella partecipazione al processo di selezione dei candidati la possibilità di riaffermare la centralità della propria azione politica, al di là delle difficoltà incontrate negli ultimi mesi. Schlein e Conte, pur con tutte le differenze di percorso e stile, condividono la consapevolezza che l’elettorato chiede una risposta nuova alle mille emergenze sociali ancora irrisolte.

Mentre le trattative procedono, si moltiplicano anche le indiscrezioni su possibili nomi e strategie. Nessuno dei due leader, però, si lascia sfuggire nemmeno un commento fuori posto. Il compito di comunicare i progressi e, se necessario, i momenti di stallo è solo dei due mediatori. Un equilibrio delicatissimo, che impone a entrambi di non apparire mai troppo arrendevoli, ma nemmeno pronti allo scontro frontale che nuocerebbe irrimediabilmente alla costruzione di una credibile alleanza di governo.

La posta in gioco, quindi, non riguarda più soltanto le posizioni o le candidature, ma il futuro dei due principali soggetti dell’opposizione, chiamati a superare una storica diffidenza reciproca per cogliere la sfida di una stagione politica segnata da incertezza e crisi della rappresentanza. Il lavoro oscuro di Paola Taverna e Igor Taruffi resterà probabilmente nell’ombra, ma il suo esito sarà determinante per il progetto di “campo largo” che tanti auspicano e che oggi appare, per la prima volta dopo molto tempo, una possibilità concreta e non solo uno slogan da campagna elettorale.

L’Unione Europea approva un nuovo pacchetto di sanzioni contro la Russia

Il 18 luglio 2025 segna un nuovo punto di svolta nella strategia dell’Unione Europea verso la Russia. A Bruxelles, dopo settimane di intense negoziazioni e grazie allo sblocco decisivo del veto slovacco, i Paesi membri hanno dato il via libera a un nuovo pacchetto di sanzioni contro Mosca, una misura che, per portata e profondità, viene già definita dagli stessi funzionari europei “la più ambiziosa e severa mai concepita dal blocco comunitario”.

L’obiettivo centrale resta quello di colpire in modo sistematico le fondamenta finanziarie ed energetiche della macchina bellica russa, indebolendo la capacità di Mosca di sostenere economicamente e logisticamente l’aggressione all’Ucraina. Questa nuova tornata di sanzioni arriva in un momento cruciale, mentre la guerra in Ucraina è ormai entrata nel suo quarto anno e il Cremlino mostra segni di pressione, ma non accenna a ridurre la portata delle operazioni militari.

La trattativa Ue

La decisione della UE è maturata attraverso una trattativa estenuante, in cui la Slovacchia, strettamente legata alle forniture di gas russo, ha posto ripetutamente il proprio veto. Solo il raggiungimento di specifiche garanzie in merito al graduale phase-out delle importazioni di gas da Mosca ha permesso di superare lo stallo e portare l’intesa sul tavolo del Consiglio Europeo. Non meno fondamentale è stato il lavoro diplomatico portato avanti dalle principali cancellerie europee, determinate a ribadire la fermezza occidentale di fronte all’aggressione russa e a mantenere l’unità del blocco nonostante le divergenze interne.

Uno dei pilastri del nuovo pacchetto riguarda il rafforzamento delle misure sul settore energetico russo, cuore pulsante delle entrate statali della Federazione. La novità di maggiore rilievo è la fissazione di un nuovo price cap sul petrolio russo: il tetto per il greggio viene abbassato dagli storici 60 dollari a 47,6 dollari al barile, con una formula dinamica che garantirà un livello pari al 15% in meno rispetto alla media di mercato e sarà aggiornata ogni sei mesi, o più frequentemente in caso di forti variazioni del mercato globale. Questa misura, sostenuta dalla UE e dai partner G7 (anche se senza il sostegno statunitense), intende tagliare alle radici una delle principali fonti di valuta pregiata per Mosca e ridurre la capacità del Cremlino di finanziare il conflitto.

Tecnicamente, il meccanismo si traduce in una paralisi logistica e assicurativa per tutte le spedizioni di greggio russo che supereranno il nuovo tetto, poiché sarà vietato alle compagnie di navigazione e assicurazione con sede nella UE, in Canada e nel Regno Unito prestare assistenza a queste transazioni. Il target? Una cosiddetta shadow fleet di oltre 400 petroliere, la flotta “ombra” utilizzata da Mosca per eludere le restrizioni e piazzare il proprio greggio nei mercati di Asia, Africa e Medio Oriente. Altri 105 tankers sono stati aggiunti alla lista nera e perderanno il diritto di attraccare nei porti UE o ricevere servizi da soggetti europei. È un colpo destinato a produrre effetti potenzialmente devastanti non solo sulle entrate russe, ma anche sulla capacità operativa della flotta commerciale di Mosca.

Un altro punto nodale riguarda la messa al bando di tutte le operazioni collegate ai gasdotti Nord Stream, ormai non più attivi ma il cui riavvio era ritenuto da Bruxelles una minaccia concreta in future fasi di crisi energetica. Con queste nuove regole, nessun operatore europeo potrà più intrattenere rapporti, diretti o indiretti, legati alla struttura dei gasdotti. È la chiusura definitiva di un capitolo della storia energetica continentale e un chiaro segnale politico di irreversibilità della rottura tra UE e Mosca almeno sul fronte delle infrastrutture.

Blocco totale delle transazioni

Il braccio finanziario delle sanzioni prosegue con il blocco totale delle transazioni con ben 22 istituti bancari russi, tra cui il Russian Direct Investment Fund e le sue società controllate. Si rafforza inoltre l’embargo sulle esportazioni di beni a doppio uso, quelli cioè dotati di possibili applicazioni militari, e si amplia la lista delle tecnologie vietate alla Russia, in particolare nei comparti strategici che spaziano dall’elettronica alla meccanica di precisione fino ai componenti sofisticati per l’industria della difesa. Anche il settore delle telecomunicazioni viene colpito dal nuovo giro di vite, con la sospensione delle licenze di trasmissione per diverse testate parte della macchina di propaganda russa.

Da segnalare anche l’introduzione di misure secondarie riguardanti la lotta all’elusione delle sanzioni da parte di intermediari di Paesi terzi, in particolare due banche cinesi e una delle principali raffinerie indiane di proprietà di Rosneft. La UE, adottando questo approccio, mira a limitare la capacità di Mosca di aggirare i divieti, sfruttando triangolazioni o la complicità di attori economici internazionali restii ad allinearsi spontaneamente alle scelte occidentali.

Questa nuova offensiva economica non ha tardato a produrre reazioni a livello internazionale. Dalla Russia, come prevedibile, si sollevano accuse di “interferenza” e “guerra economica”, ma dagli ambienti vicini al Cremlino traspare anche una crescente preoccupazione per gli effetti sulle entrate statali e sull’accesso alle tecnologie avanzate, già messe a dura prova dai precedenti pacchetti. Gli analisti osservano che la strategia della UE si fonda su un meccanismo di pressione crescente e di adattamento continuo delle sanzioni, nella speranza di erodere nel medio termine la resilienza del sistema russo e incentivare una svolta diplomatica che resta lontana.

Particolarmente rilevante il fatto che siano stati colpiti anche i soggetti responsabili, secondo Bruxelles, della deportazione e indottrinamento di minori ucraini nelle aree occupate: una mossa che sottolinea la centralità della dimensione dei diritti umani nella risposta europea alla crisi ucraina e ribadisce la volontà di colpire ogni anello della catena repressiva russa. Ad arricchire il ventaglio delle misure approvate, figurano infine nuove restrizioni su porti, aeroporti e sulle compagnie aeree russe attive nei voli domestici, aumentando così il grado d’isolamento della Russia rispetto alle reti occidentali.

Zelensky è soddisfatto

Il presidente ucraino Volodymyr Zelensky ha accolto favorevolmente la decisione, definendola “essenziale e tempestiva”. Si tratta di una presa di posizione in linea con quanto più volte auspicato da Kiev, che aveva chiesto con forza un rafforzamento della pressione internazionale su Mosca e l’inclusione nel pacchetto di restrizioni al settore energetico, bancario e alle cosiddette flotte ombra. Zelensky ha dichiarato che “ogni nuova misura toglie un pezzo di capacità all’aggressore”, sottolineando che la coerenza europea costringerà gradualmente il Cremlino a “scegliere la diplomazia al posto della violenza”. Dal governo ucraino si sottolinea come le sanzioni siano uno strumento cruciale non solo per rallentare la macchina bellica russa, ma anche per mantenere vivo lo spirito di solidarietà euro-atlantica verso Kiev.

Il peso geopolitico di questo nuovo pacchetto è amplificato dal fatto che arriva in una fase di rinnovato coordinamento transatlantico, nonostante alcune divergenze manifestate dagli Stati Uniti, che non hanno aderito in questa fase all’ulteriore taglio del price cap. Ottawa e Londra, invece, confermano pieno sostegno. Sullo sfondo resta l’incognita sull’effettiva efficacia nel medio periodo di questa nuova tornata di sanzioni: se da un lato i dati mostrano una progressiva contrazione dell’economia russa e la perdita di “miliardi di introiti petroliferi” dal 2022 ad oggi, dall’altro il sistema russo ha dimostrato sinora notevoli capacità di adattamento e l’Occidente dovrà continuare a monitorare l’efficacia di ciascun provvedimento nel tempo.

Il lavoro degli ambasciatori dell’UE e degli organismi tecnici continuerà nelle prossime settimane, sia per assicurarsi che ogni misura venga implementata senza falle, sia per identificare eventuali ulteriori segmenti dell’economia russa cui applicare sanzioni mirate nella prospettiva della prosecuzione del conflitto. Il pacchetto ratificato segna la determinazione della UE a non abbassare la guardia e a proseguire, in sinergia con Kiev, sulla strada della pressione sistematica fino a quando Mosca non offrirà segnali di un serio cambiamento di rotta, sia sul terreno che al tavolo negoziale.