India e Pakistan sull’orlo del baratro: la notte in cui il Kashmir tremò

La notte tra il 6 e il 7 maggio 2025 ha segnato un punto di non ritorno nello storico conflitto tra India e Pakistan. Quello che è iniziato come uno scontro aereo nei cieli del Kashmir si è rapidamente trasformato in una crisi internazionale, riaccendendo paure sopite da decenni in una regione dove due potenze nucleari continuano a fronteggiarsi. Alle 23:47, i radar delle forze aeree di entrambi i paesi hanno iniziato a riempirsi di punti luminosi: 112 caccia, tra indiani e pakistani, si sono affrontati in un duello tecnologico durato oltre quattro ore, il più ampio dai tempi della Seconda Guerra Mondiale. Un evento che ha messo in luce non solo le capacità militari delle due nazioni, ma anche la fragilità di un equilibrio geopolitico sempre più precario.

Dalle montagne del Kashmir alla soglia dell’abisso

Tutto ha avuto inizio con l’attentato di Pahalgam, il 22 aprile, quando un commando armato ha ucciso 26 turisti, tra cui 14 cittadini cinesi. L’India ha puntato immediatamente il dito contro il Pakistan, accusandolo di fornire supporto logistico al gruppo Jaish-e-Mohammed, mentre Islamabad ha respinto le accuse definendole “una montatura per giustificare aggressioni future”. La tensione è salita alle stelle il 6 maggio, quando Nuova Delhi ha lanciato l’operazione “Sindoor”, un raid aereo contro presunti campi terroristici nella città pakistana di Kotli. Fonti indiane parlano di decine di miliziani neutralizzati, ma immagini satellitari diffuse da un drone turco hanno mostrato invece vittime civili, fornendo al Pakistan il pretesto per una risposta militare.

Quella che sarebbe potuta rimanere una scaramuccia di confine si è trasformata in uno scontro epocale grazie all’impiego di tecnologia avanzata. I caccia pakistani J-10C, di fabbricazione cinese, hanno ingaggiato i Rafale indiani a distanze superiori ai 150 chilometri, utilizzando missili PL-15 lanciati oltre la linea dell’orizzonte. Dal lato indiano, droni esca SWITCH hanno creato falsi bersagli, permettendo ai piloti di avvicinarsi abbastanza da lanciare i temibili meteor missile. Tra le nuvole del Kashmir, si è combattuta una partita a scacchi fatta di radar, algoritmi e segnali elettronici, dove ogni mossa poteva significare la distruzione di un aereo da 80 milioni di dollari.

Nelle ore successive allo scontro, il Pakistan ha rivendicato l’abbattimento di cinque caccia indiani, tra cui tre Rafale, mostrando video a infrarossi che ritraevano esplosioni in volo. Tuttavia, analisti indipendenti hanno notato incongruenze: due dei filmati diffusi dall’esercito pakistano corrispondevano a immagini di esercitazioni militari del 2023. L’India, da parte sua, ha mantenuto un silenzio ufficiale, limitandosi a pubblicare foto satellitari di un J-10C in fiamme vicino alla base di Skardu. L’unica certezza viene dai frammenti di un Rafale pakistano, identificato dal numero di serie PK-RA78, recuperati da una squadra francese sotto l’egida delle Nazioni Unite.

La propaganda ha giocato un ruolo cruciale nel alimentare la crisi. Sui social media pakistani, hashtag come #SteelWall e #InvincibleArmy hanno dominato le tendenze, mentre in India i media hanno esaltato la “supremazia tecnologica” dei Rafale. Dietro questa cortina fumogena, però, i militari di entrambi gli schieramenti si preparavano al passo successivo. Già nella mattinata del 10 maggio, razzi guidati indiani hanno colpito postazioni pakistane a Bhimber, uccidendo cinque soldati. La risposta è arrivata poche ore dopo con uno sciame di droni kamikaze che hanno sfondato le difese antiaeree di Jammu, dimostrando come la escalation stesse ormai seguendo una logica implacabile.

Gli spettatori invisibili

In questo pericoloso balletto, la Cina rappresenta l’elefante nella stanza. Pechino, principale fornitore di armi al Pakistan, ha mantenuto un silenzio calcolato, limitandosi a dichiarazioni generiche sulla “necessità di moderazione”. Eppure, secondo rapporti del Center for Strategic and International Studies, sette piloti cinesi in congedo temporaneo erano ai comandi dei J-10C durante lo scontro. Non solo: 48 ore prima dell’attacco, un cargo Y-20 dell’aeronautica cinese aveva consegnato a Rawalpindi una partita di lanciatori missilistici HQ-9B. Sul web cinese, intanto, l’entusiasmo popolare per le presunte vittorie pakistane ha raggiunto picchi inediti, con milioni di utenti che celebravano l’alleato come un baluardo contro l’“espansionismo indiano”.

L’Occidente, dal canto suo, appare diviso e incerto. Gli Stati Uniti hanno tentato di mediare, ma la proposta del Segretario alla Difesa Lloyd Austin si è scontrata con l’opposizione del Congresso, che chiede sanzioni contro il Pakistan per i suoi legami con i talebani afghani. In Europa, la Francia ha bloccato la consegna di otto Rafale all’India, temendo che possano essere utilizzati in operazioni offensive, mentre Germania e Italia hanno lanciato un piano di pace immediatamente boicottato da paesi come Polonia e Ungheria.

L’incubo nucleare

Quello che tiene svegli gli analisti militari, però, non sono i droni o i caccia di ultima generazione, ma i fantasmi del 1945. India e Pakistan possiedono complessivamente oltre 300 testate nucleari, con missili in grado di colpire le rispettive capitali in meno di dieci minuti. Il generale pakistano Pervez Musharraf, in un’intervista esclusiva, ha ricordato come già nel 2002 esistesse un piano per l’uso tattico di armi atomiche contro formazioni corazzate. “Quel piano – ha avvertito – non è mai stato cestinato. È lì, in qualche cassaforte, e potrebbe diventare realtà in poche ore”.

Mentre scriviamo, otto satelliti spia sorvolano il Kashmir, inviando dati in tempo reale a Washington, Mosca e Tel Aviv. Nei bunker di Nuova Delhi e Islamabad, leader politici e militari studiano mappe operative, consapevoli che ogni decisione potrebbe innescare una catena irreversibile. Il mondo trattiene il fiato, ricordando che in questa parte d’Asia, più che altrove, la differenza tra un incidente e un olocausto dipende dalla freddezza di un uomo davanti a uno schermo radar.