26 Novembre 2025
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Scolmatore del Bisagno: la Super-Talpa cinese è pronta

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Il primo ottobre 2025 segnerà una data storica per la sicurezza idrogeologica di Genova: entrerà in funzione la colossale TBM (Tunnel Boring Machine), la talpa meccanica arrivata dalla Cina che accelererà drasticamente i lavori di scavo della galleria dello scolmatore del torrente Bisagno. L’annuncio è arrivato al termine della riunione settimanale tra le aziende dell’ATI e l’assessore regionale alla Difesa del suolo Giacomo Raul Giampedrone.

Marco Bucci, presidente della Regione Liguria e commissario di governo per le opere contro il dissesto idrogeologico, insieme a Giampedrone, ha sottolineato la portata storica di questo momento: “È un traguardo frutto della grande determinazione e volontà della struttura commissariale. Di fronte a tante polemiche da parte di chi non ci ha mai creduto, abbiamo lavorato sempre per superare le difficoltà, guardando avanti anche nei momenti più critici”.

La TBM rappresenta una vera e propria rivoluzione tecnologica per il cantiere genovese. Con un peso complessivo di 1.280 tonnellate, la macchina arriva smontata dalla Cina, con il pezzo più pesante che raggiunge le 198 tonnellate. Il gigantesco macchinario, una volta a regime, riuscirà a scavare circa 20 metri al giorno, quintuplicando la velocità rispetto ai tradizionali metodi di scavo che permettevano di avanzare mediamente tre o quattro metri quotidiani.

Le operazioni di montaggio del colosso meccanico sono ormai in fase conclusiva. La talpa è arrivata nel porto di Genova nella prima metà di gennaio 2025, dopo un lungo viaggio dalla Cina attraverso la circumnavigazione dell’Africa. Il trasporto dalla Cina ha dovuto seguire questa rotta alternativa a causa del peggioramento della situazione geopolitica nei Paesi che si affacciano sul Mar Rosso, costringendo la nave della compagnia Cosco a doppiare il Capo di Buona Speranza.

L’impiego della TBM rappresenta una variante migliorativa introdotta nel progetto originale che ha permesso di ridurre i costi dell’opera di circa 800.000 euro e garantire il rispetto dei tempi contrattuali. La nuova macchina è completamente scudata, contenuta in un grande cilindro che comprende anche i meccanismi di posa automatica dei grandi conci di calcestruzzo durante la fase di avanzamento, garantendo maggiore sicurezza per i lavoratori e velocità di esecuzione.

Lo scolmatore del Bisagno rappresenta uno dei cantieri più importanti d’Italia e il principale della Liguria tra quelli attualmente in corso. L’opera, con un costo complessivo di oltre 200 milioni di euro, prevede la realizzazione di una galleria di circa 6,5 chilometri che collegherà la zona della Sciorba con il mare in corso Italia, permettendo di deviare le acque del torrente Bisagno e dei suoi affluenti Fereggiano, Rovare e Noce durante le piene.

La TBM cinese è stata acquistata per circa 20 milioni di euro, inclusi macchina e trasporto, mentre i costi lievitano a 25-30 milioni considerando i nastri necessari per raccogliere e destinare in discarica il materiale prodotto dallo scavo. L’appalto complessivo dello scolmatore ammonta a oltre 206 milioni di euro, gestito dal consorzio Research, capofila delle aziende costruttrici dell’opera.

Il progetto dello scolmatore ha origini lontane, risalendo agli anni 2000, e fu finanziato con il piano ‘Italia sicura’ nel 2015 dall’allora governo Renzi. I lavori sono iniziati concretamente nel maggio 2020, ma hanno subito rallentamenti significativi a causa di un’interdittiva antimafia poi rivelatasi infondata e successivamente rimossa.

L’importanza strategica dell’opera per la sicurezza di Genova è incommensurabile. Lo scolmatore avrà la funzione di diminuire la portata di piena idraulica del torrente Bisagno, deviandone una parte in galleria verso il mare. Questa infrastruttura avrebbe potuto evitare le tragiche alluvioni del passato: i 43 morti dell’alluvione del 1970 e le sei donne uccise dal Fereggiano nel 2011.

Il sistema dello scolmatore funzionerà in abbinamento con quello del Fereggiano, più piccolo e già attivo dal 2019, creando una rete di protezione idraulica sotterranea che garantirà sicurezza a migliaia di persone. L’opera sarà completamente invisibile una volta terminata, ma rappresenterà un’infrastruttura vitale per la città.

Giampedrone ha evidenziato l’accelerazione che l’avvio della TBM comporterà: “L’avvio della talpa segna una svolta nelle operazioni di scavo, che subiranno una forte accelerazione, con la necessità anche di ricalibrare costantemente i tempi di completamento dell’opera”. L’obiettivo è chiaro: portare a termine l’opera senza ulteriori rallentamenti.

Il cantiere in Valbisagno procede contemporaneamente su più fronti. Oltre al montaggio della TBM, proseguono i lavori con la realizzazione dei tre blocchi della sella per il posizionamento della talpa nella camera di lancio. Si sta inoltre riconfigurando l’arco rovescio in corrispondenza del camerone di montaggio, con getti che si sono protratti fino al dicembre 2024.

Una volta completato il progetto, la TBM potrà essere rivenduta ai cinesi al 20% del suo prezzo originale o riutilizzata per altri lavori, rappresentando anche un investimento tecnologico sostenibile per il futuro. Le previsioni indicano il completamento dell’opera entro giugno 2026, se non si verificheranno ulteriori imprevisti.

L’intero progetto prevede anche interventi complementari: oltre alla galleria principale, sono inclusi il ripascimento degli arenili e il ripristino ambientale e paesaggistico. L’opera rappresenta quindi un intervento complessivo di riqualificazione del territorio che va oltre la semplice messa in sicurezza idraulica.

L’entrata in funzione della talpa il primo ottobre rappresenta quindi molto più di un semplice avvio di cantiere: simboleggia la determinazione delle istituzioni liguri nel portare a termine un’opera strategica che cambierà per sempre il rapporto tra Genova e il rischio idrogeologico, trasformando una minaccia storica in una certezza di sicurezza per le generazioni future.

GRAB ai Parioli: quando la mobilità sostenibile divide i cittadini

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Roma si risveglia dall’estate con una protesta digitale senza precedenti nei quartieri Parioli e Flaminio. Al rientro dalle vacanze, centinaia di residenti hanno trovato cartelli e recinzioni di cantiere che annunciavano l’avvio dei lavori per il GRAB, il Grande Raccordo Anulare delle Biciclette, scatenando una tempesta di oltre 500 PEC inviate al Dipartimento Mobilità del Comune.

Il progetto che dovrebbe trasformare Roma in una città più sostenibile si sta scontrando con la realtà di un territorio densamente popolato e già congestionato dal traffico. I lavori, iniziati nel quadrante nord della capitale, interessano arterie cruciali come via Panama, piazza Ungheria, viale delle Belle Arti, via Flaminia, via Guido Reni e viale Beato Angelico, fino ad arrivare a piazza Cavour.

Una protesta che nasce dalle preoccupazioni concrete

La rabbia dei residenti non è solo simbolica ma poggia su problemi concreti che temono di dover affrontare nei prossimi mesi. Il principale motivo di allarme riguarda il restringimento delle carreggiate stradali, conseguenza diretta dei cantieri attivi. Questo cambiamento, secondo i cittadini, renderà il transito dei veicoli più lento e congestionato, soprattutto con la riapertura delle scuole e il ritorno a pieno regime della vita

Le strade coinvolte nei lavori sono arterie fondamentali per la circolazione nel quadrante nord di Roma. Il restringimento di queste vie potrebbe creare un effetto domino su tutto il sistema viario circostante, rendendo i tragitti quotidiani particolarmente difficoltosi. I residenti parlano apertamente di “caos completo” e di situazioni che diventeranno “inaffrontabili”.

La questione parcheggi: numeri che fanno paura

Oltre ai problemi di viabilità, la questione dei parcheggi rappresenta forse l’aspetto più controverso dell’intera operazione. Il progetto del GRAB comporta infatti la sottrazione di centinaia di posti auto lungo il suo percorso. I numeri sono impressionanti: solo su via Guido Reni si parla di un taglio di oltre 230 parcheggi sui 410 disponibili fino a prima dell’estate. Anche via Panama subirà una diminuzione significativa, con la perdita stimata di almeno settanta posti

Questa drastica riduzione delle aree di sosta sta generando notevole disagio tra i residenti, che già si trovano quotidianamente a lottare per trovare un posto per le proprie auto. La filosofia del progetto prevede che i cittadini, trovandosi di fronte alla riduzione dei parcheggi, siano incentivati a scegliere la bicicletta evitando l’uso dell’automobile. Una strategia che, almeno sulla carta, dovrebbe portare benefici ambientali e di mobilità sostenibile.

La risposta dell’amministrazione: no ai ripensamenti

L’assessore alla Mobilità del Campidoglio, Eugenio Patanè, ha risposto alle proteste direttamente da Atlanta, dove si trova per partecipare al congresso mondiale sui sistemi di trasporto intelligenti. La sua posizione è chiara e inflessibile: il progetto del GRAB è ormai in fase di attuazione, con un contratto già firmato con l’impresa esecutrice, e non è possibile tornare indietro o apportare modifiche sostanziali.

Patanè ha sottolineato che interrompere i lavori comporterebbe un danno erariale, specificando che la fase progettuale è definitivamente conclusa. Tuttavia, l’assessore ha aperto a un dialogo con i residenti, ma solo per affrontare la questione della viabilità e delle “compensazioni” in termini di soluzioni alternative per il traffico. Un incontro per discutere queste misure è stato programmato per i primi di settembre, prima dell’inizio dell’anno scolastico e dell’ulteriore aumento del traffico previsto.

Il GRAB: un progetto da 38 milioni di euro

Il Grande Raccordo Anulare delle Biciclette rappresenta uno degli investimenti più importanti nella mobilità sostenibile romana degli ultimi anni. Il progetto prevede un percorso ciclabile di circa 50 chilometri che attraversa i luoghi più significativi di Roma, dal centro alla periferia, collegando monumenti iconici come il Colosseo, il Palatino, le Terme di Caracalla, l’Appia Antica e numerosi parchi urbani.

L’investimento complessivo ammonta a circa 38 milioni di euro, finanziato in parte dai fondi del Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza (PNRR). Il progetto è stato suddiviso in 6 lotti, ognuno con caratteristiche specifiche. I lavori sono stati affidati ad Astral, la società pubblica regionale che si occupa di strade e ferrovie.

Le contraddizioni di un quartiere privilegiato

La protesta dei Parioli solleva questioni che vanno oltre la semplice opposizione a una ciclabile. Il quartiere, tradizionalmente considerato tra i più benestanti della capitale, presenta caratteristiche che lo rendono diverso dal resto della città. Come emerge da alcune discussioni online, i Parioli godono di una pulizia e di una manutenzione superiore rispetto ad altri quartieri romani.

Le motivazioni della protesta diventano così più complesse: da un lato c’è la legittima preoccupazione per i disagi che i cantieri possono comportare, dall’altro emerge una certa resistenza al cambiamento da parte di una popolazione abituata a standard di comfort urbano elevati. La presenza dell’università LUISS nella zona aggiunge un ulteriore elemento di complessità, con la perdita di parcheggi che potrebbe impattare su studenti e personale universitario.

I precedenti e le lezioni apprese

Non è la prima volta che Roma si trova ad affrontare proteste legate alla realizzazione di infrastrutture ciclabili. Il GRAB stesso ha una storia lunga e travagliata, iniziata con l’amministrazione Raggi e proseguita con quella Gualtieri. Il progetto ha subito diverse modifiche nel corso degli anni, adattandosi alle esigenze del territorio e alle interferenze con altri cantieri, compresi quelli giubilari.

L’esperienza di altri progetti simili in Europa dimostra che le resistenze iniziali spesso si trasformano in apprezzamento una volta completate le opere. Tuttavia, il successo di questi interventi dipende molto dalla qualità della realizzazione e dalla capacità di minimizzare i disagi durante la fase di cantiere.

Una città che cambia volto

Il caso del GRAB ai Parioli rappresenta in miniatura le sfide che Roma deve affrontare per diventare una metropoli più sostenibile. La transizione verso forme di mobilità più ecologiche richiede inevitabilmente dei sacrifici e dei cambiamenti nelle abitudini consolidate dei cittadini. La resistenza di una parte della popolazione riflette le difficoltà di questo processo di trasformazione urbana.

D’altra parte, i sostenitori del progetto sottolineano i benefici a lungo termine: riduzione dell’inquinamento atmoserico, miglioramento della qualità della vita, valorizzazione del patrimonio storico e ambientale della città. Il GRAB, una volta completato, potrebbe diventare uno dei percorsi ciclabili urbani più spettacolari d’Europa, collegando in un unico anello alcuni dei siti archeologici e paesaggistici più importanti al mondo.

La sfida per l’amministrazione capitolina sarà quella di gestire questa fase di transizione minimizzando i disagi per i residenti e dimostrando che i benefici del progetto supereranno le difficoltà temporanee. Il dialogo annunciato dall’assessore Patanè rappresenta un primo passo in questa direzione, ma sarà fondamentale trovare soluzioni concrete per le preoccupazioni legittime espresse dai cittadini. Solo così il GRAB potrà trasformarsi da motivo di protesta a simbolo di una Roma più moderna e sostenibile.

Bielorussia e la Russia preparano le esercitazioni “Zapad 2025”

In un panorama geopolitico già estremamente fragile, la decisione di Russia e Bielorussia di condurre esercitazioni militari congiunte dal 12 al 16 settembre 2025 ha sollevato un’ondata di preoccupazioni internazionali che attraversa l’intera Europa orientale. Le esercitazioni “Zapad 2025”, il cui nome significa “Ovest” in russo, rappresentano la prima operazione di questo tipo e di questa portata dal 2021, segnando un ritorno alle grandi manovre militari dopo l’invasione russa dell’Ucraina del febbraio 2022.

La decisione di riprendere queste esercitazioni arriva in un momento particolarmente delicato. Il maggiore generale bielorusso Valery Revenko ha dichiarato che l’obiettivo principale delle manovre è quello di “testare le capacità di Russia e Bielorussia nell’assicurare la sicurezza militare dello Stato dell’Unione e la loro prontezza a respingere possibili aggressioni”. Lo Stato dell’Unione rappresenta l’alleanza senza confini tra le due ex repubbliche sovietiche, un’intesa che negli ultimi anni ha assunto contorni sempre più marcatamente militari.

La controversia sui numeri e le reali dimensioni

Una delle questioni più controverse riguarda l’effettivo numero di partecipanti alle esercitazioni. Mentre il Ministero della Difesa bielorusso sostiene che parteciperanno circa 13.000 militari di entrambi i paesi, valutazioni indipendenti del Ministero della Difesa lettone suggeriscono che il numero reale di soldati coinvolti potrebbe oscillare tra 100.000 e 150.000 unità. Questa discrepanza numerica ha immediatamente allarmato le forze NATO e l’Ucraina, che vedono in questi dati contrastanti un tentativo di minimizzare l’impatto reale delle operazioni.

Il contrasto è particolarmente significativo se confrontato con le precedenti esercitazioni Zapad del 2021, che videro la partecipazione di circa 200.000 militari. Tuttavia, anche una cifra ridotta mantiene un peso geopolitico considerevole, soprattutto considerando il precedente storico di queste manovre. Nel febbraio 2022, proprio dopo esercitazioni militari congiunte simili, la Russia utilizzò il territorio bielorusso come trampolino di lancio per l’offensiva su Kiev.

Le preoccupazioni dell’Ucraina e la risposta di Zelensky

Il presidente ucraino Volodymyr Zelensky ha espresso in più occasioni serie preoccupazioni riguardo alle attività militari russe in Bielorussia. “La Russia sta preparando qualcosa in Bielorussia sotto la copertura di esercitazioni militari di routine”, ha dichiarato Zelensky, sottolineando come queste manovre siano storicamente state utilizzate come pretesto per mobilitare azioni militari aggressive. Il leader ucraino ha inoltre evidenziato la necessità che i servizi di intelligence occidentali mantengano alta l’attenzione su quello che la Russia realmente intende fare attraverso queste operazioni.

L’esperienza del 2022 pesa enormemente sulle valutazioni strategiche di Kiev. Le truppe russe penetrarono in Ucraina dal territorio bielorusso il 24 febbraio 2022, proprio dopo aver condotto esercitazioni militari congiunte con l’esercito bielorusso. Questa coincidenza temporale non è sfuggita agli analisti militari, che vedono nelle attuali esercitazioni un potenziale scenario di replica.

Secondo il comandante in capo delle Forze Armate ucraine, Oleksandr Syrskyi, uno degli obiettivi delle esercitazioni Zapad-2025 potrebbe essere la formazione segreta di raggruppamenti di truppe offensive. Questa valutazione trova eco nell’analisi dell’esperto militare israeliano David Sharp, che ha osservato come un significativo dispiegamento di forze russe in Bielorussia per le esercitazioni autunnali potrebbe teoricamente indicare preparativi per una nuova offensiva.

La strategia di Lukashenko e il riposizionamento geografico

In risposta alle crescenti pressioni internazionali, il presidente bielorusso Alexander Lukashenko ha annunciato una modifica significativa nella pianificazione delle esercitazioni. Lukashenko ha rivelato di aver deciso di spostare le esercitazioni militari congiunte lontano dai confini occidentali della Bielorussia con i paesi dell’Unione Europea, citando preoccupazioni di sicurezza sollevate da Polonia e Stati baltici.

Lukashenko ha categoricamente negato l’idea che la Bielorussia utilizzerebbe le esercitazioni per attaccare i tre paesi baltici e la Polonia, definendo tali speculazioni “completa assurdità”. Il leader bielorusso ha spiegato che lo spostamento delle operazioni verso l’interno del paese mira a non fornire alcun pretesto per accusare Minsk di pianificare attacchi contro i paesi orientali dell’UE, in particolare Polonia, Stati baltici e soprattutto Ucraina.

Questa mossa strategica può essere interpretata come un tentativo di ridurre le tensioni, ma anche come una risposta alle pressioni ucraine. Secondo fonti dell’intelligence ucraina, Lukashenko teme che l’Ucraina possa considerare la presenza del contingente russo alle esercitazioni come una preparazione per azioni offensive, specialmente dopo le operazioni ucraine nella regione di Kursk.

La risposta militare della NATO

L’annuncio delle esercitazioni russo-bielorusse ha innescato una risposta coordinata da parte della NATO e dei paesi membri più esposti geograficamente. La Polonia ha annunciato che condurrà esercitazioni militari congiunte con gli alleati NATO in risposta alle manovre Zapad, con il vice ministro della Difesa polacco Cezary Tomczyk che ha dichiarato che si tratterà di “una risposta proporzionale al coinvolgimento delle truppe russe e bielorusse”.

La Germania ha dispiegato caccia Eurofighter e 150 soldati presso una base aerea polacca come chiaro segnale di solidarietà dell’alleanza. Secondo l’Aeronautica tedesca, il dispiegamento è iniziato per rafforzare la difesa collettiva della NATO e scoraggiare potenziali minacce da est. Il generale Carsten Breuer, capo delle forze armate tedesche, ha stimato che la Russia dispiegerà 13.000 truppe in Bielorussia e altre 30.000 in Russia durante l’esercitazione.

Le preoccupazioni si estendono oltre i confini tedeschi e polacchi. Gli Stati baltici, in particolare Lituania, Lettonia ed Estonia, mantengono un livello di allerta elevato considerando la loro posizione geografica strategica. Il generale polacco Leon Komornicki ha espresso l’opinione che le esercitazioni potrebbero rappresentare una sorta di preludio o scenario di possibile aggressione contro gli Stati baltici, specificamente la Lituania.

Il contesto storico delle esercitazioni Zapad

Le esercitazioni Zapad hanno una lunga storia che risale al periodo sovietico, ma la loro evoluzione recente ne ha modificato significativamente il carattere e le implicazioni geopolitiche. Dal 2009, queste manovre si svolgono regolarmente ogni due anni nel quadro dello “Stato dell’Unione” tra Russia e Bielorussia. Tuttavia, la loro portata e intensità sono aumentate drammaticamente negli ultimi anni, riflettendo l’approfondimento della cooperazione militare tra Mosca e Minsk.

La versione del 2021 delle esercitazioni Zapad coinvolse circa 200.000 persone tra militari e personale di supporto, oltre a 80 aeromobili ed elicotteri. Queste cifre rappresentavano all’epoca una delle più grandi concentrazioni di forze militari nell’Europa orientale dalla fine della Guerra Fredda. Le esercitazioni del 2021 furono caratterizzate da scenari che simulavano attacchi contro posizioni NATO, alimentando già allora significative preoccupazioni tra i paesi dell’alleanza atlantica.

Le dimensioni della cooperazione militare russo-bielorussa

Al di là delle esercitazioni Zapad, la cooperazione militare tra Russia e Bielorussia ha raggiunto livelli senza precedenti. Il piano di cooperazione dei ministeri della difesa di Bielorussia e Russia prevede oltre 160 eventi congiunti, come annunciato dal ministro della Difesa bielorusso Viktor Khrenin. Questa intensa agenda di attività militari congiunte include non solo esercitazioni su larga scala, ma anche programmi di addestramento, sviluppo di capacità congiunte e scambio di tecnologie militari.

La dipendenza della Bielorussia dalla Russia in ambito militare è diventata particolarmente evidente dopo le proteste del 2020 che contestavano i risultati delle elezioni presidenziali fraudolente. La repressione brutale delle manifestazioni ha portato la Bielorussia ad essere quasi completamente isolata dall’Occidente, aumentando sostanzialmente la sua dipendenza dalla Russia per il supporto politico, di sicurezza, logistico e finanziario.

Attualmente, oltre 300 militari bielorussi stanno ricevendo addestramento nelle istituzioni di istruzione superiore militari russe, mentre la Russia continua a fornire equipaggiamento militare moderno e programmi di formazione specializzata. Questo trasferimento di conoscenze include lezioni apprese dall’operazione militare speciale russa in Ucraina, in particolare nell’uso di sistemi di droni, che stanno diventando sempre più rilevanti nei conflitti moderni.

Le implicazioni nucleari e strategiche

Un aspetto particolarmente preoccupante delle esercitazioni Zapad 2025 riguarda la componente nucleare delle manovre. Secondo il ministro della Difesa bielorusso, le esercitazioni includeranno test di prontezza nucleare ed esercitazioni che coinvolgono missili ipersonici russi Oreshnik. Questa dimensione nucleare aggiunge un ulteriore livello di complessità e preoccupazione alle già tese relazioni regionali.

La Russia ha già dispiegato armi nucleari tattiche in territorio bielorusso, una mossa che rappresenta la prima volta dalla caduta dell’Unione Sovietica che armi nucleari russe vengono posizionate al di fuori dei confini della Federazione Russa. Lukashenko ha confermato l’inizio del servizio di combattimento dei sistemi missilistici balistici a corto raggio Iskander-M, capaci di trasportare testate nucleari, insieme al sistema missilistico di difesa aerea S-400

Putin ha inoltre confermato che la Russia fornirà addestramento ai piloti bielorussi di aerei in grado di trasportare armi nucleari, sebbene la Bielorussia non possieda arsenali nucleari propri. Questa cooperazione nel settore nucleare rappresenta un’escalation significativa che modifica l’equilibrio strategico regionale.epthinktank

L’aspetto più complesso di queste dinamiche riguarda la crescente integrazione delle capacità di difesa dei due paesi. In dicembre 2022, Putin e Lukashenko hanno concordato la creazione di uno “spazio di difesa comune”, che si traduce in attività di difesa congiunta ancora più strette e pianificazione, con una presenza militare russa permanente in Bielorussia. Questo sviluppo ha implicazioni profonde per la stabilità regionale e l’equilibrio delle forze in Europa orientale.

Le esercitazioni Zapad 2025 si inseriscono quindi in un quadro più ampio di trasformazione militare e geopolitica che va ben oltre le manovre periodiche di routine. Rappresentano piuttosto una manifestazione tangibile dell’approfondimento dell’alleanza militare russo-bielorussa in un momento di crescenti tensioni internazionali. La comunità internazionale rimane in allerta, consapevole che i precedenti storici hanno dimostrato come esercitazioni apparentemente difensive possano trasformarsi rapidamente in piattaforme per azioni militari aggressive. La vigilanza e la preparazione diplomatica rimangono strumenti essenziali per navigare questa fase delicata della sicurezza europea.

Spazio NATO sotto attacco: la Polonia abbatte droni russi

La notte tra il 9 e il 10 settembre 2025 resterà impressa come un momento di tensione estrema per la Polonia e, indirettamente, per tutta l’Alleanza Atlantica. I caccia polacchi hanno abbattuto diversi droni russi che avevano violato lo spazio aereo nazionale, durante quello che è stato definito dalle autorità un “atto di aggressione” senza precedenti, in concomitanza con un massiccio attacco russo all’Ucraina occidentale. L’incidente ha generato allarme immediato: le difese polacche e i sistemi radar alleati hanno intercettato una decina di velivoli, molti dei quali sono stati neutralizzati, portando nell’immediato alla chiusura temporanea di quattro aeroporti, inclusi lo strategico Chopin di Varsavia e quello di Rzeszów-Jasionka, fondamentali non solo per il traffico civile, ma anche per il transito di aiuti militari verso Kiev.

Le autorità polacche hanno parlato chiaramente di minaccia alla sicurezza dei cittadini, sottolineando che si è trattato di una violazione dello spazio aereo “senza precedenti”. Le telecomunicazioni e l’allerta sono state immediate: “Durante la notte si sono verificati incidenti con l’uso di droni stranieri. Questi oggetti, che costituivano una minaccia, sono stati abbattuti”, ha dichiarato il ministero degli Interni. Le difese aeree con l’uso di radar sono entrati in stato di massima allerta, e le autorità sono state subito coinvolte con operazioni coordinate nelle province orientali minacciate dall’incursione.

Il premier Donald Tusk ha seguito personalmente le operazioni, condividendo aggiornamenti sui social e dichiarando di aver informato subito la Nato sull’accaduto. “È in corso un’operazione relativa a molteplici violazioni dello spazio aereo da parte della Russia; i militari hanno utilizzato armi contro gli obiettivi identificati come droni”, ha confermato Tusk, che ha inoltre convocato una riunione d’emergenza con i vertici della sicurezza nazionale. Il ministro della Difesa, Wladyslaw Kosiniak-Kamysz, ha chiesto alla popolazione di mantenere la calma e attenersi scrupolosamente agli annunci ufficiali, rivelando anche che le postazioni radar e i sistemi di difesa aerea erano al massimo livello di allerta.

L’operazione, come ribadito dal Comando delle Forze Armate polacche, ha visto il coinvolgimento attivo di caccia F-35 alleati, tra cui quelli olandesi, in uno sforzo congiunto per garantire la sicurezza dei cieli polacchi e NATO. Le procedure di difesa sono state immediate: i sistemi radar polacchi e alleati hanno monitorato in tempo reale gli oggetti volanti ritenuti pericolosi, intervenendo dopo averli individuati. “Mosca mette sempre alla prova i limiti del possibile: oggi c’è stato un altro passo di escalation”, ha dichiarato il presidente ucraino Volodymyr Zelensky, sottolineando che almeno otto droni d’attacco russo-iraniani hanno operato nello spazio aereo della Polonia, definendo ciò “un precedente estremamente pericoloso per l’Europa”.

Gli aeroporti di Varsavia e Rzeszów sono stati riaperti dopo qualche ora, segno che la risposta della difesa polacca è stata rapida ma prudente. Il traffico aereo è stato sospeso per sicurezza, coinvolgendo migliaia di viaggiatori, ma soprattutto garantendo la piena operatività delle operazioni militari. Non è la prima volta che la Polonia si trova ad affrontare tensioni lungo il confine orientale: già nel novembre 2022 un missile, poi attribuito alla difesa ucraina, cadde in territorio polacco, provocando due vittime. Questa volta, però, l’entità e la natura della minaccia sono diverse: Mosca, secondo Varsavia, sta testando la determinazione dei governi europei e della NATO.

Le reazioni internazionali non si sono fatte attendere. “Siamo in costante contatto con il comando della NATO”, ha ribadito il ministro della Difesa polacco, ricordando che ogni passo della crisi è stato condiviso con i partner europei, in particolare il premier olandese Mark Rutte e altri leader di Francia, Regno Unito, Italia e Germania. Ministeri, esercito e servizi di sicurezza hanno collaborato intensamente per proteggere la popolazione e mettere in sicurezza le aree interessate dai possibili schianti dei droni.

La tensione ha avuto risvolti immediati tra la popolazione. Nelle province più esposte, le autorità locali hanno invitato gli abitanti a restare in casa e ad attendere comunicazioni ufficiali, mentre le forze dell’ordine pattugliavano l’area per individuare sia i rottami che eventuali ordigni rimasti intatti. Il ruolo dei servizi di sicurezza territoriali è stato essenziale nell’affiancare le operazioni militari.

A livello geopolitico, la vicenda rappresenta una delle sfide più gravi affrontate dalla Polonia dal 2022, ribadendo il suo ruolo di frontiera esposta sul fianco orientale dell’Europa. La scelta di neutralizzare la minaccia e informare immediatamente la NATO ha sottolineato la responsabilità di Varsavia, che ha voluto evitare qualsiasi rischio di escalation incontrollata.

Negli ultimi mesi erano già state segnalate numerose incursioni di droni nell’area di confine tra Ucraina e Polonia, ma mai con questa portata. Secondo le fonti polacche, la violazione ripetuta dello spazio aereo, accompagnata da una massiccia offensiva contro l’Ucraina occidentale, ha creato una situazione di emergenza senza precedenti. “La direzione del ministero dell’Interno è in costante contatto con il ministero della Difesa e le Forze armate della Repubblica Polacca. Collaboriamo con l’esercito nella ricerca e nella messa in sicurezza dei luoghi di caduta dei droni abbattuti: tutte le nostre azioni sono coordinate”, si legge in una nota ufficiale.

Il contesto internazionale è rapidamente cambiato: le dichiarazioni di condanna sono arrivate dall’Unione Europea e dagli Stati Uniti, mentre Mosca non ha commentato direttamente gli eventi, mantenendo un’ambiguità comunicativa. La Polonia, dal canto suo, ha confermato la propria linea: difesa attiva, pieno coinvolgimento della NATO, massima trasparenza informativa con la cittadinanza.

Il timore è che quella notte segni un passaggio chiave nell’inquietante escalation della guerra russo-ucraina. La presenza di droni russi in territorio polacco, anche se limitata e neutralizzata, rischia di aprire nuovi scenari. Varsavia, insieme agli alleati occidentali, ha richiesto una valutazione dettagliata dell’incidente e ha ribadito la necessità di rafforzare il coordinamento delle politiche di sicurezza e difesa regionale.

Questo episodio, apparentemente circoscritto, testimonia la crescente instabilità ai confini dell’Unione Europea e pone interrogativi decisivi sulle strategie di deterrenza e risposta comune della NATO. L’attenzione è ora rivolta alle prossime mosse di Mosca e alla tenuta del fronte orientale sotto la pressione di una guerra sempre più complessa e tecnologica.

Thaksin Shinawatra condannato: l’ex premier thailandese entra in carcere dopo anni di polemiche

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L’ex primo ministro thailandese Thaksin Shinawatra, figura controversa e centrale nella storia politica moderna del paese, entrerà in carcere per scontare una pena di un anno dopo una lunga vicenda giudiziaria durata quasi due decenni. La Corte Suprema di Bangkok ha imposto la detenzione effettiva in esecuzione della condanna pregressa, tra cui abuso di potere e corruzione risalenti al suo mandato. Il caso, che scuote nuovamente la Thailandia, accende un riflettore sulla tensione tra giustizia, potere e privilegio, mentre la società rimane divisa tra chi lo considera un perseguitato politico e chi riconosce nella condanna un raro gesto di equità istituzionale.

Thaksin, magnate delle telecomunicazioni e capo della “dinastia Shinawatra”, era fuggito all’estero nel 2008 dopo un colpo di stato del 2006 che l’aveva rimosso dalla guida del governo. Da allora aveva vissuto tra Dubai e Londra, tornando a Bangkok nel 2023 in circostanze che hanno sollevato dubbi e polemiche. I processi a suo carico, legati principalmente all’assegnazione irregolare di appalti pubblici e a una gestione dei poteri considerata personalistica, si sono accumulati negli anni, con una pena iniziale sommata di otto anni di reclusione, ridotta poi a un solo anno grazie alla grazia concessa dal re Maha Vajiralongkorn.

Il ritorno in patria di Thaksin era stato salutato da una folla divisiva: le strade di Bangkok erano affollate da sostenitori entusiasti, convinti che i giudici fossero mossi da intenti persecutori e che l’ex premier potesse portare nuova stabilità al paese. Subito dopo la sentenza, però, Thaksin aveva trascorso meno di ventiquattro ore in una cella ordinaria, lamentando problemi cardiaci e venendo trasferito in un reparto VIP dell’ospedale generale della polizia, dove sarebbe rimasto per sei mesi. Quella che venne giustificata come “detenzione sanitaria” suscitò indignazione e polemiche in tutto il paese, con sospetti di favoritismi e trattamenti privilegiati riservati alle élite politiche.

La Corte Suprema ha stabilito definitivamente che il periodo trascorso nell’ospedale non può essere considerato come pena scontata. I giudici hanno chiarito che Thaksin, pur soffrendo di patologie croniche, non versava in condizioni di emergenza e avrebbe potuto essere curato in regime ambulatoriale. La decisione segna un punto importante poiché numerosi attivisti e osservatori locali avevano criticato l’apparente impunità di Thaksin e contestavano la sua effettiva detenzione, vista più come privilegio che come punizione. Secondo la sentenza, l’ex premier dovrà essere condotto nel carcere di Bangkok, con l’impegno di ottemperare per un anno a tutti gli obblighi previsti dalla legge.

Alla lettura della sentenza, Thaksin ha pubblicato un messaggio sui social network, ribadendo di voler mantenere la forza necessaria per servire la monarchia e il popolo thailandese. Ha scritto: «Anche se perderò la mia libertà fisica, avrò comunque libertà di pensiero per il bene del mio Paese e del suo popolo», mostrando ancora una volta la sua abilità nel rivolgersi direttamente alla nazione e ai suoi sostenitori e rimarcando il proprio attaccamento al senso civico e alla monarchia.

La questione della sua salute rimane un tema controverso e dibattuto. Molti osservatori internazionali e una parte della stampa locale hanno avanzato dubbi sulla gravità delle sue condizioni, sottolineando che l’accesso a cure mediche private e a una sistemazione di lusso in ospedale non può in alcun modo essere equiparato alle dure condizioni carcerarie vissute dalla maggior parte dei detenuti. La stessa corte, nella motivazione del verdetto, ha rimarcato il rischio che comportamenti del genere indeboliscano la fiducia del pubblico nella giustizia.

Il destino della famiglia Shinawatra resta strettamente intrecciato alle sorti della politica thailandese. Paetongtarn Shinawatra, figlia di Thaksin, aveva assunto il ruolo di primo ministro nel 2024 ma è stata rimossa e sottoposta a indagine per presunte violazioni etiche. Durante il processo, Paetongtarn, circondata dai familiari e dai funzionari più fidati, ha ringraziato pubblicamente il re per la sua clemenza, sottolineando che il padre rimarrà un punto di riferimento “spirituale” per la nazione. Le sue parole, pronunciate davanti ai giornalisti, hanno consolidato l’immagine della dinastia come simbolo di un potere resiliente e capaci di affrontare le avversità.

Fin dal colpo di stato del 2006, la figura di Thaksin ha rappresentato il bersaglio di una parte dell’establishment militare e delle élite giudiziarie, ma ha continuato ad essere un polo di aggregazione popolare, soprattutto nelle regioni rurali e tra i ceti esclusi dai benefici dello sviluppo economico. Le politiche adottate durante il suo mandato, tra cui programmi di sanità pubblica, agevolazioni fiscali e riforme agricole, sono ancora oggi ricordati da gran parte della popolazione. Tuttavia, le sue alleanze con gli ambienti economici e la gestione fortemente personalistica del potere hanno finito per alienare il consenso di settori vitali della società.

La nuova condanna di Thaksin e l’esecuzione effettiva della pena rappresentano uno snodo cruciale anche per il futuro politico thailandese, aprendo importanti riflessioni sul rapporto tra giustizia, privilegio e democrazia. Con questa sentenza, la Corte Suprema lancia un segnale di autorevolezza destinato a influenzare non solo la carriera del magnate, ma anche quella degli altri esponenti politici e imprenditoriali che da anni si muovono tra le pieghe del potere ed i margini delle regole. Il timore, però, è che la crisi di fiducia verso le istituzioni non possa essere sanata da una sola sentenza e che il futuro della Thailandia debba passare per una riforma più profonda delle procedure giudiziarie e dei meccanismi di controllo democratico.

Nel frattempo, la Thailandia si prepara a una lunga stagione di incertezza. Il sistema politico appare profondamente polarizzato e una parte della popolazione, soprattutto fra i giovani, chiede da tempo maggiori meccanismi di trasparenza e tutela dei diritti civili. Il tentativo di Thaksin di rappresentare l’immagine di “padre della patria” appare oggi indebolito dai fatti ma anche dal logoramento di una presenza pubblica costantemente segnata dalla polemica e dalla contestazione.

La condanna di Thaksin Shinawatra suggella un capitolo importante nella storia della Thailandia, ma apre anche interrogativi radicali sulla possibilità del paese di trovare nuovi equilibri tra giustizia, potere e consenso popolare.

Il Nepal travolto dalle proteste contro il blocco dei social media: scende in strada l’esercito

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Il 10 settembre 2025 il Nepal si è ritrovato nel vortice di una crisi sociale e politica di proporzioni straordinarie, quando l’esercito è sceso nelle strade di Kathmandu per sedare le proteste esplose dopo il blocco dei social media. L’intervento militare, motivato dal tentativo del governo di contenere un’ondata di manifestazioni guidate dalla Generazione Z, ha reso ancora più esplosivo il clima di tensione diffuso nel Paese, portando alla proclamazione di un coprifuoco e alla chiusura di interi quartieri centrali della capitale.

La scintilla che ha innescato la rivolta è stata la decisione del governo nepalese di bloccare l’accesso a decine di piattaforme social, tra cui Facebook, X e YouTube, dopo che queste non avevano accettato di registrare una rappresentanza legale sul territorio e di sottoporre i contenuti a una supervisione governativa. Solo poche aziende, come TikTok, avevano aderito alla normativa, ma la maggior parte delle piattaforme preferite dai giovani è sparita dalle reti digitali del Nepal. Questo atto di censura, secondo i manifestanti e molte organizzazioni per i diritti umani, non rappresentava solo un tentativo di controllo delle informazioni, ma la punta dell’iceberg di un disagio più profondo, legato alla corruzione, al nepotismo e all’esclusione giovanile dal dibattito pubblico.

Le prime proteste sono divampate attorno al Parlamento di Kathmandu, con decine di migliaia di ragazzi arrabbiati che, l’8 settembre, hanno sfidato la polizia antisommossa superando le recinzioni e occupando il cuore istituzionale del Paese. Le forze di sicurezza hanno risposto con una repressione brutale: lacrimogeni, proiettili di gomma, cannoni ad acqua e persino colpi di arma da fuoco, causando la morte di manifestanti e centinaia di feriti. Il bilancio di questa vera e propria rivolta è stato il più drammatico nella storia recente del Nepal e ha lasciato il Paese sotto shock. Amnesty International e altre ONG hanno subito invocato indagini indipendenti sulla gestione delle proteste, bollandola come repressione mortale ai danni di cittadini che rivendicavano il diritto di manifestare e di esprimersi liberamente.

Nemmeno la revoca del blocco dei social media e le dimissioni del primo ministro K.P. Sharma Oli sono stati sufficienti a placare la rabbia della folla. Le proteste si sono estese anche fuori dalla capitale, toccando città come Pokhara, Biratnagar, Sunsari e Nepalgunj, dove sono stati segnalati altri scontri e vittime. Tra i politici nel mirino della popolazione vi sono stati ministri e parlamentari accusati di arricchimento personale, fino a episodi di vandalismo contro le proprietà di alcuni funzionari, con il Ministro delle Finanze Bishnu Prasad Paudel picchiato e, secondo alcune fonti, gettato in un fiume dai manifestanti.

La società nepalese, profondamente giovane, con la metà della popolazione sotto i 25 anni, si è presentata in piazza compatta e determinata. Gli slogan scanditi dai giovani hanno raccontato la profondità della crisi: “Fermate la censura, non i social media”, “Combattete la corruzione, non la libertà”, “Serve un governo libero da nepotismo e influenze esterne”. Le proteste, organizzate anche da reti civiche come il gruppo “Hami Nepal”, sono state caratterizzate da una forte autonomia dal sistema dei partiti, dando voce a un’esigenza trasversale di cambiamento radicale. La rivolta è stata letta da molti come il grido disperato di una generazione orfana di prospettive, costretta a emigrare per cercare una vita dignitosa e che si vede oggi ostacolata da un sistema politico impostato sulla corruzione e la difesa delle élite.

La crisi politica e sociale si è aggravata nel corso della giornata: mentre il coprifuoco veniva esteso a tutte le principali aree di Kathmandu e del Paese, centinaia di persone sono rimaste bloccate nelle case o costrette a cercare rifugio per timore di nuove violenze. Il governo ha revocato la misura più contestata, quella del blocco dei social, ma i giovani tornati online hanno continuato a coordinare manifestazioni e a condividere testimonianze della repressione, moltiplicando la comunicazione investigativa e la pressione sull’esecutivo.

Mentre il primo ministro e altri ministri si dimettevano per facilitare una soluzione politica, il vuoto di potere ha contribuito al caos. Il Parlamento è stato in parte incendiato il 9 settembre, le sedi di partiti devastate, e la capitale ha vissuto ore di angoscia e fibrillazione, con la polizia impegnata nel contenimento e l’esercito schierato a presidio di edifici pubblici e quartieri strategici. La popolazione, intanto, ha denunciato la difficoltà a reperire beni di prima necessità e il rallentamento di tutte le attività produttive, con molti che hanno paura di uscire di casa.

I gruppi per i diritti umani hanno richiesto la sospensione immediata delle misure repressive e la costituzione di una commissione parlamentare investigativa. Amnesty International ha ribadito l’appello a garantire giustizia per le vittime e ha invitato le autorità a dialogare con la società civile e con le rappresentanze giovanili piuttosto che ricorrere a nuovi giri di vite autoritari.

Il Nepal si trova ora davanti al bivio di una transizione delicatissima, con la Generazione Z che chiede a gran voce un nuovo patto sociale, una lotta contro la disuguaglianza e la fine di decenni di governi corrotti e inadeguati alle esigenze delle nuove generazioni.

Ucraina orientale in trincea: civili tra fuga e disperazione mentre la Russia avanza

Nell’Ucraina orientale, la disperazione e la distruzione sono diventate il filo conduttore dell’esistenza quotidiana per migliaia di civili, sopraffatti dall’avanzata russa che continua a stringere la morsa sulle rovine di Kramatorsk e Kostiantynivka. In queste fortificazioni martoriate, uomini, donne e bambini vivono in un costante stato di allerta, consapevoli che ogni strada, ogni casa e persino ogni momento di quiete può essere interrotto da un attacco improvviso.Le residue risorse umanitarie sono fortemente limitate, lasciando la popolazione in bilico tra la fuga e la resistenza.

Le ultime settimane hanno visto un’intensificazione drammatica degli attacchi. I bombardamenti russi hanno colpito centri nevralgici, come il villaggio di Yarova, dove un raid ha mietuto vittime proprio mentre diverse persone si erano radunate per ricevere la pensione mensile. Il bilancio ufficiale parla di morti e feriti, spesso anziani, colpiti mentre si trovavano in fila in un cortile sterrato, sorpresi dalle bombe plananti lanciate da caccia russi. Segni evidenti del terrore di questo conflitto si trovano nei corpi ancora sparsi nei prati, nella reazione tra soldati e soccorritori impegnati a documentare e cercare di dare una dignità alle vittime.

Nei sobborghi di Kostiantynivka e Kramatorsk, la paura è diventata una compagna fedele. Molte famiglie hanno deciso di evacuare, altre resistono, spinte dalla speranza di un ritorno imminente alla normalità. Case sventrate, ambulanze blindate che si muovono tra le strade devastate per recuperare feriti, volontari impegnati in turni estenuanti: ogni aspetto della vita civile è stato stravolto. Gli ospedali di retrovia sono un rifugio precario, spesso sovraffollati e costantemente messi alla prova dall’arrivo di nuovi feriti. I paramedici, in particolare, operano sotto il fuoco incrociato, rischiando la vita per stabilizzare e trasportare chi ha bisogno di cure urgenti. Il viaggio verso zone più sicure è pieno di incognite, ostacolato dai continui avvistamenti di droni e dalla difficoltà di attraversare le linee del fronte. Le autorità locali organizzano evacuazioni di massa, coordinando risorse ormai al limite e cercando di non abbandonare nessuno tra i fragili resti della comunità.

La devastazione investe anche le infrastrutture vitali. Interi villaggi sono stati privati di luce, gas e servizi essenziali: la vita quotidiana si è trasformata in una lotta per la sopravvivenza. La distribuzione degli aiuti umanitari è complicata sia dai continui raid che dal progressivo isolamento delle aree più colpite; chi riceve un pacco di viveri o medicine sa che potrebbe essere l’ultimo per giorni. I racconti dei residenti descrivono la fatica di vivere con il rumore costante delle sirene, delle esplosioni in lontananza e della paura che la prossima bomba non risparmi la propria casa.

La pressione militare si traduce in una massiccia mobilitazione, con interi gruppi di uomini costretti ad arruolarsi per difendere le città e contenere l’offensiva russa. Ma il sistema difensivo ucraino è sempre più sotto stress: mancano armi, mancano uomini, e la forte pressione mobilitativa alimenta l’esodo di chi vuole evitare di finire in prima linea. Le testimonianze parlano di residenti dispersi, fuggiti o nascosti per non essere costretti alle armi. Le truppe russe, intanto, rafforzano ogni giorno la loro presenza su più fronti, dalla regione di Lugansk fino agli ultimi baluardi ucraini.

Fra attacchi con missili, droni teleguidati e bombardamenti a tappeto, la popolazione soffre una condizione di assedio perpetuo. Le scuole sono chiuse, gli asili distrutti, gli ospedali funzionano a capacità ridotta e intere città rischiano di essere cancellate dalle mappe. Nonostante tutto, la solidarietà fra civili, volontari e operatori sanitari non viene meno: la resistenza si traduce in piccoli gesti quotidiani, nella cura reciproca e nella volontà di conservare il più possibile la dignità umana.

Il governo ucraino, consapevole della gravità della situazione, insiste sulla necessità di nuovi aiuti internazionali e della continuazione delle sanzioni contro Mosca. I vertici europei hanno condannato ripetutamente i bombardamenti indiscriminati, chiedendo una reazione forte e coordinata per fermare la campagna di terrore. La diplomazia di Kiev è costantemente impegnata nel tentativo di mobilitare la comunità internazionale, dal Consiglio europeo al G20, per rafforzare gli aiuti e arginare la crisi.

Le ultime notizie dal fronte rivelano che la Russia, nell’intento di soffocare ogni resistenza, intensifica gli sforzi sulle arterie logistiche ucraine e punta a isolare completamente i centri nevralgici. La conquista di nuovi villaggi e l’aumento degli scontri quotidiani rivelano la strategia russa di logoramento, mentre gli ucraini cercano di difendere ogni metro di territorio. La crisi non investe solo le grandi città: anche zone rurali e villaggi vengono bersagliati dai raid, causando ondate di sfollati e devastazione.

Le storie di chi vive sotto assedio sono fatte di coraggio, paura e sacrificio. Una giovane volontaria diventata paramedico, intervistata, racconta di dover scegliere ogni giorno tra il rischio costante e il dovere di salvar vite. Le sue operazioni lungo la strada che porta a Kramatorsk si svolgono tra droni nemici e il timore che ogni ambulanza sia il prossimo obiettivo. Molti residenti rimasti nelle città colpite descrivono la solitudine, l’isolamento e la sensazione che il mondo li abbia dimenticati.

Il conflitto continua a segnare profondamente sia il tessuto sociale sia la memoria collettiva dell’Ucraina. La speranza di una soluzione diplomatica si scontra con la quotidianità violenta della guerra, mentre la popolazione civile, abbandonata a sé stessa, attende che il mondo trovi il modo di far cessare la distruzione. La crisi di Kramatorsk e Kostiantynivka è il simbolo di una resistenza che si oppone alla disperazione, aggrappandosi con ostinazione all’idea che il futuro possa tornare ad essere qualcosa di più di una semplice sopravvivenza.

La presidente von der Leyen propone sanzioni contro Israele: Bruxelles si schiera per Gaza

La crisi in corso nella Striscia di Gaza continua a scuotere la politica internazionale e questa settimana ha portato la presidente della Commissione Europea, Ursula von der Leyen, a proporre una svolta storica: sanzioni mirate contro ministri israeliani estremisti e coloni violenti, sospensione parziale dell’Accordo di Associazione commerciale UE-Israele e il blocco del sostegno bilaterale alle autorità israeliane. Le parole pronunciate a Strasburgo durante il discorso sullo stato dell’Unione sono state nette, segno di una situazione che non può più essere ignorata. “Ciò che sta accadendo a Gaza ha scosso la coscienza del mondo. Persone uccise mentre chiedevano cibo, madri che tengono in braccio bambini senza vita. Queste immagini sono semplicemente catastrofiche. La carestia provocata dall’uomo non potrà mai essere un’arma di guerra. Per il bene dei bambini, per il bene dell’umanità, questo deve finire”, ha ribadito von der Leyen prendendo posizione contro l’uso deliberato della fame come strumento politico e militare.

Le proposte della Commissione arrivano dopo mesi di pressioni interne e divisioni tra i governi degli Stati membri: alcuni paesi chiedono misure dure, come embargo sulle armi e sospensione totale dell’accordo, altri invece ostacolano ogni sanzione, temendo ritorsioni e ripercussioni diplomatiche. Il delicato equilibrio europeo si riflette nelle parole della presidente, che riconosce la difficoltà nell’ottenere una maggioranza in Consiglio e invita Parlamento, Consiglio e Commissione ad assumersi le proprie responsabilità. “So che qualsiasi azione sarà eccessiva per alcuni, troppo poco per altri. Ma dobbiamo tutti agire. Non possiamo rimanere paralizzati”, ha avvertito von der Leyen nel suo intervento.

Il piano di Bruxelles prevede la sospensione di tutti i fondi europei destinati al governo israeliano in forma bilaterale, senza compromettere l’appoggio alle organizzazioni civiche e di memoria israeliane, compreso lo storico Yad Vashem. La misura più concreta proposta sarà l’interruzione delle preferenze commerciali per i prodotti israeliani, toccando così un settore strategico dell’economia di Tel Aviv. Von der Leyen ha inoltre sottolineato la necessità di colpire direttamente i ministri coinvolti nelle politiche più estremiste, accanto ai responsabili delle violenze contro civili e alle azioni che mettono a rischio la prospettiva dei due Stati.

La presa di posizione europea raccoglie il sostegno di un fronte trasversale di eurodeputati, che nelle scorse settimane ha avanzato richieste di embargo e di inasprimento delle relazioni con Israele. A favorire la determinazione di Bruxelles sono anche le immagini diffuse dagli operatori umanitari della crisi a Gaza, con migliaia di vittime, bambini privati di acqua e cibo, e file interminabili presso i centri di distribuzione degli aiuti. Le proteste politiche non mancano: in sede europea la Spagna si è espressa per una sospensione immediata degli accordi, mentre Italia, Francia e Germania frenano su una linea più cauta e graduale.

La Commissione non dimentica la complessità della crisi israeliana e palestinese: von der Leyen ha condannato con forza le azioni di Hamas e la sua presenza nella striscia di Gaza, ma ha rimarcato che “l’unico piano di pace realistico è quello basato su due Stati che vivono fianco a fianco in pace e sicurezza, con un Israele protetto e una Palestina vitale, senza la piaga di Hamas”. Un concetto ribadito a ogni passaggio del discorso, in cui l’Europa viene chiamata ad assumere un ruolo attivo nelle future trattative.

Alle proposte di sanzione si aggiunge l’annuncio di un nuovo gruppo donatori internazionale per la ricostruzione palestinese, il “Palestine Donor Group”, pensato per rilanciare la speranza di aiuti concreti e affiancare il processo negoziale in modo autonomo dalle tensioni geopolitiche. Questa iniziativa guarda al coordinamento con i promotori regionali e alle conferenze organizzate a New York, sotto l’egida di Francia e Arabia Saudita, affinché la solidarietà possa tradursi in interventi sul terreno.

Le reazioni da Israele non si sono fatte attendere: il governo ha dichiarato “ostilità” alle nuove misure e ha avvertito l’Unione Europea di ripercussioni economiche e diplomatiche. Gli ambienti più radicali dell’esecutivo israeliano accusano Bruxelles di “cedere alle pressioni di Hamas” e di mettere a rischio la sicurezza collettiva. Il premier Netanyahu insiste sul diritto di difesa di Israele e sulla lotta contro il terrorismo, mentre gli esponenti dell’ala moderata invitano all’apertura di una nuova fase dialogica, soprattutto con quei paesi UE che mantengono canali di cooperazione attivi.

La mossa della Commissione segna uno spartiacque nel coinvolgimento europeo sulla crisi di Gaza: a fronte di un’escalation di violenza che ha suscitato indignazione globale, la leadership di von der Leyen cerca di superare la paralisi decisionale e di ribadire l’importanza dei valori europei nella difesa dei civili e nella lotta contro pratiche disumane come la fame provocata dall’uomo. La scelta di colpire soprattutto ministri e coloni rappresenta la volontà di isolare le posizioni più dure e proteggere le prospettive di una convivenza futura.

Il dibattito interno all’Unione resta acceso: partiti e governi si confrontano sulla natura e l’efficacia delle sanzioni, con la consapevolezza che le divisioni politiche possono prolungare la crisi. La Commissione continuerà a muoversi anche in autonomia, congelando fondi non indispensabili e investendo in programmi civili. La questione del consenso resta centrale: la sospensione degli accordi commerciali richiederà una maggioranza qualificata in Consiglio e la pressione sui partner europei continuerà nei prossimi mesi.

L’Europa si trova davanti a una prova storica, stretta tra la necessità di tutelare la popolazione di Gaza e i rapporti consolidati con Israele. La presidenza von der Leyen ha deciso di non voltarsi dall’altra parte e di avviare un cambiamento concreto, chiamando tutti gli Stati membri a un’assunzione collettiva di responsabilità. Le prossime settimane saranno decisive per capire se l’Unione saprà davvero tradurre le promesse in azioni e dare un contributo reale alla pace.

Raid israeliano senza precedenti a Doha contro i leader di Hamas

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La giornata del 9 settembre 2025 segnerà un nuovo capitolo nella storia del Medio Oriente: un raid israeliano ha colpito i vertici di Hamas a Doha, capitale del Qatar, durante un momento cruciale delle trattative per il cessate il fuoco nella Striscia di Gaza. L’attacco, avvenuto a Leqtaifiya, nell’area del West Bay, ha causato esplosioni violente, alte colonne di fumo visibili a grande distanza e danni significativi all’edificio dove si stava tenendo una riunione riservata dei dirigenti di Hamas. Secondo fonti israeliane, il raid era mirato a esponenti di spicco del movimento islamista, tra cui Khalil al-Hayya, coinvolti proprio nelle discussioni su una nuova proposta di tregua patrocinata dagli Stati Uniti.

Le informazioni sull’esito dell’attacco sono frammentarie e oggetto di forti contraddizioni: Israele ha rivendicato il colpo mirato sostenendo di aver neutralizzato “responsabili diretti dell’attacco del 7 ottobre e della guerra contro Israele”, mentre Hamas afferma che i membri del suo comitato direttivo sono rimasti illesi, pur confermando la morte di alcuni collaboratori e la devastazione della sede. Gli Stati Uniti hanno dichiarato di essere stati informati da Tel Aviv solo poco prima della missione. Secondo le prime stime, si registrano almeno sei morti, tra cui cinque membri di Hamas, ma tutti negano il decesso di leader di primo piano.

Il Qatar, ospite e mediatore nelle trattative tra Israele e Hamas, ha reagito con parole durissime: il governo ha accusato Israele di “terrorismo di Stato”, promettendo azioni diplomatiche e legali. “Non tollereremo questo comportamento sconsiderato – si legge nella nota ufficiale – né la manomissione continua della sicurezza regionale. Israele ha violato ogni principio del diritto internazionale e della sovranità territoriale del Qatar.” Il premier Mohammed bin Abdulrahman Al Thani ha ribadito l’intenzione di coinvolgere tutti i paesi della regione in una risposta congiunta, mentre l’esecutivo ha avviato una maxi-inchiesta a tutti i livelli istituzionali per chiarire le responsabilità del raid.

Gli osservatori descrivono il raid come “storico” e senza precedenti nelle relazioni tra Doha e Tel Aviv: è la prima volta, infatti, che l’aviazione israeliana colpisce direttamente il territorio qatariota, paese ospitante gran parte del vertice politico di Hamas e fondamentale crocevia delle mediazioni per la fine della guerra a Gaza. Il quartiere colpito, West Bay Lagoon, è noto anche per ospitare ambasciate, residenze di diplomatici e attività commerciali frequentate da cittadini e stranieri. Il raid ha generato panico tra la popolazione locale, c’è stato un massiccio intervento della polizia e l’area è stata isolata. Numerose testimonianze riportano finestre infrante per il potente spostamento d’aria e decine di residenti in fuga verso quartieri adiacenti.

Il raid arriva in un momento di gravissima crisi regionale, con migliaia di ostaggi ancora detenuti a Gaza e trattative congelate per uno scambio con prigionieri palestinesi. Secondo fonti di Hamas e la tv Al Jazeera, il raid avrebbe compromesso definitivamente il raggiungimento di un accordo globale per la liberazione degli ostaggi israeliani, vanificando mesi di negoziati. Le organizzazioni umanitarie temono che l’attacco possa pregiudicare anche l’arrivo di aiuti nel territorio assediato, già devastato da oltre 64.000 vittime dal 2023 e da una crisi umanitaria senza precedenti.

Dal punto di vista militare, lobiettivo era quello di minimizzare danni collaterali e vittime tra la popolazione civile, considerate le caratteristiche residenziali della zona colpita. I vertici dell’IDF hanno dichiarato che il raid aveva come scopo principale decapitare la leadership di Hamas presente all’estero e dimostrare che, anche fuori dai confini di Gaza, nessuna base è più sicura.

Le reazioni internazionali sono state immediate ed estremamente critiche: l’Unione Europea ha condannato il raid, sottolineando la pericolosità dell’escalation e del coinvolgimento di nazioni terze in una guerra sempre più globale. Gli Stati Uniti hanno ribadito che il raid “non ha avvicinato i negoziati di pace”, e che simili azioni rischiano di allontanare il rilascio degli ostaggi e qualsiasi prospettiva di dialogo futuro. Il Papa Leone XIV, in visita a Castel Gandolfo, ha definito la situazione “gravissima” e ha lanciato un appello al dialogo, invitando tutte le parti a evitare gesti disperati e a mettere fine alla spirale di violenza.

Nella capitale Doha la popolazione è rimasta scioccata: molte famiglie, anche straniere, hanno passato la notte in allerta, temendo nuovi attacchi. I media locali hanno raccontato scene di caos e agenti di sicurezza in assetto da guerra, mentre la diplomazia internazionale si muove per evitare il precipitare della crisi. Oman, Emirati, Arabia Saudita e Iran hanno denunciato con fermezza il raid, evocando il rischio per la stabilità di tutto il Golfo.

Sul fronte palestinese, il raid ha riacceso le tensioni infatti Hamas ha minacciato “vendetta” contro obiettivi israeliani in Medio Oriente e ha intensificato gli appelli alla resistenza. La leadership del movimento islamista, da anni ospite a Doha e Ankara, rappresenta la vera cabina di regia delle trattative e delle operazioni militari fuori dai territori palestinesi: la sua neutralizzazione sarebbe uno spartiacque sia per le sorti del conflitto sia per gli equilibri interni all’organizzazione.

La missione israeliana segna una svolta nelle tattiche del governo Netanyahu, che ha deciso di estendere la guerra anche fuori da Gaza, puntando al cuore delle reti politiche, finanziarie e strategiche di Hamas in diaspora. Secondo fonti politiche, la scelta di prendere di mira direttamente il Qatar è un messaggio alla comunità internazionale, soprattutto ai paesi che, negli anni, hanno garantito ospitalità e sostegno ai capi di Hamas.

In Israele, la notizia del raid ha diviso l’opinione pubblica: molte famiglie degli ostaggi hanno accusato Netanyahu di avere compromesso definitivamente ogni possibilità di accordo e di aver deciso per una dimostrazione di forza pur sapendo i rischi diplomatici. Il premier, dal canto suo, ha rivendicato la legittimità dell’azione definendola “imprescindibile per la sicurezza nazionale”.

L’attacco israeliano in Qatar potrebbe avere conseguenze durature e imprevedibili: la credibilità di Doha come mediatore viene messa a dura prova e i rapporti tra Israele e gli Stati del Golfo si fanno più tesi. Gli equilibri regionali, già fragili per effetto della guerra a Gaza, rischiano di subire nuove pressioni, con la possibilità che altri paesi siano coinvolti in future operazioni di forza.

Le ultime ore vedono la diplomazia globale in fermento, con riunioni d’emergenza della Lega Araba, l’ONU e il Consiglio di Sicurezza pronti a valutare sanzioni e incontri straordinari. La crisi, ormai non più esclusiva di Gaza, si sposta al centro politico del mondo arabo, con effetti che potrebbero ridefinire gli equilibri di potere nel Medio Oriente.

Hamas. Chi è Khalil al-Hayya: tra resistenza, negoziazioni e Jihad

Khalil Ismail Ibrahim al-Hayya, noto con il nome di battaglia “Abu Osama”, rappresenta una delle figure più influenti e complesse dell’attuale leadership di Hamas. Nato il 5 novembre 1960 nel quartiere di Shuja’iyya a Gaza, al-Hayya ha dedicato la sua vita alla causa palestinese, diventando il volto diplomatico di un movimento che combina resistenza armata e strategia politica internazionale.

La sua formazione accademica riflette il profondo radicamento nei valori islamici che caratterizzano Hamas. Dopo aver conseguito la laurea in Teologia presso l’Università Islamica di Gaza nel 1983, al-Hayya proseguì gli studi in Giordania, ottenendo un master in Scienze del Hadith presso l’Università Giordana nel 1989. Il culmine del suo percorso accademico arrivò nel 1997 con il dottorato in Scienze del Hadith e della Sunnah presso l’Università del Sacro Corano e delle Scienze Islamiche in Sudan, un’esperienza che gli permise di consolidare i legami con reti islamiste internazionali e, secondo fonti di intelligence, di sviluppare contatti con funzionari della Forza Quds dei Pasdaran iraniani.

Il percorso politico di al-Hayya iniziò negli anni ’80 durante la Prima Intifada, quando entrò a far parte della Fratellanza Musulmana presso l’Università Islamica di Gaza, per poi aderire a Hamas fin dalla sua fondazione nel 1987. La sua militanza gli costò cara: nei primi anni ’90 fu arrestato dalle forze israeliane e trascorse tre anni nelle prigioni israeliane per attività legate al terrorismo. Questa esperienza carceraria, comune a molti leader di Hamas, contribuì a forgiare la sua determinazione e a consolidare la sua posizione all’interno del movimento.

Al-Hayya ha attraversato decenni di tragiche perdite familiari che testimoniano il prezzo personale della sua militanza. Nel 2007, durante un tentativo di assassinio israeliano, sette membri della sua famiglia persero la vita, inclusi due fratelli, quattro nipoti e un cugino. Nel 2008, suo figlio Hamza, membro dell’ala militare di Hamas, fu ucciso in un attacco di droni israeliani. La tragedia più devastante arrivò nel 2014 durante l’operazione “Margine Protettivo”, quando forze israeliane colpirono la casa di suo figlio maggiore Osama nel quartiere di Shuja’iyya, uccidendo lui, sua moglie Hala Saqr Abu Hayn e i loro tre figli. In totale, diciannove membri della famiglia al-Hayya sono morti negli attacchi israeliani nel corso degli anni.

Nonostante queste tragedie personali, al-Hayya ha mantenuto una posizione di primo piano nella diplomazia di Hamas, diventando progressivamente il volto negoziale del movimento. La sua ascesa nella gerarchia di Hamas è stata costante: membro del Parlamento palestinese dal 2006, leader del blocco parlamentare di Hamas, e infine vice-leader di Hamas a Gaza nel 2017 sotto Yahya Sinwar. Questa posizione lo ha reso il principale interlocutore nelle delicate negoziazioni per i cessate il fuoco, ruolo che ha ricoperto durante i conflitti del 2012, 2014 e, più recentemente, nelle trattative successive al 7 ottobre 2023.

Al-Hayya era tra i pochi dirigenti di Hamas a conoscere in anticipo i piani dell’Operazione Alluvione di al-Aqsa del 7 ottobre 2023. Documenti segreti catturati dall’esercito israeliano e analizzati dal New York Times rivelano che faceva parte del “piccolo consiglio militare” convocato da Sinwar per due anni al fine di pianificare l’attacco. In particolare, nell’agosto 2023, al-Hayya incontrò l’alto comandante iraniano Mohammed Said Izadi per discutere il piano d’attacco, richiedendo assistenza iraniana per colpire siti critici durante la “prima ora” dell’assalto.

La sua capacità diplomatica si è manifestata chiaramente nel ruolo di mediatore regionale che ha assunto negli ultimi anni. Nel 2022, guidò una delegazione di Hamas a Damasco per incontrare il presidente siriano Bashar al-Assad, riuscendo a ricucire le relazioni tra Hamas e la Siria dopo un decennio di tensioni causate dalla guerra civile siriana. Questo incontro fu descritto come “storico” dallo stesso al-Hayya, che espresse rammarico per eventuali “azioni sbagliate” passate contro la Siria.

Attualmente, al-Hayya guida le delegazioni di Hamas nei negoziati indiretti con Israele, operando principalmente dal Qatar, dove si è trasferito prima dell’attacco del 7 ottobre. La sua base operativa a Doha lo ha reso il principale collegamento tra Hamas e paesi chiave come Qatar, Iran e Turchia. Dopo l’assassinio di Ismail Haniyeh nel luglio 2024 e di Yahya Sinwar nell’ottobre 2024, al-Hayya è emerso come una figura centrale nella leadership collettiva di Hamas, facendo parte del consiglio di cinque membri che attualmente guida il movimento.

Al-Hayya rappresenta l’ala più conservatrice di Hamas, descritta come il “braccio diplomatico della jihad”. Le sue dichiarazioni pubbliche riflettono questa dualità: da un lato gestisce complesse negoziazioni internazionali, dall’altro rivendica con orgoglio l’attacco del 7 ottobre, definendolo “un atto monumentale” che “ha svegliato il mondo dal suo profondo sonno”. In un’intervista, al-Hayya ha rivelato che l’attacco era inizialmente concepito come un’operazione limitata per catturare “un certo numero di soldati” da scambiare con prigionieri palestinesi, ma “l’unità dell’esercito sionista è completamente collassata”.

La sua visione strategica abbraccia un approccio regionale alla resistenza palestinese. Durante il suo discorso televisivo per annunciare il cessate il fuoco del gennaio 2025, al-Hayya ha lodato “i fronti di supporto” rappresentati da Hezbollah in Libano, gli Houthi nello Yemen, l’Iran e la resistenza irachena, descrivendoli come attori che “hanno superato i confini, cambiato le regole della guerra e della regione”. Questa retorica evidenzia la sua comprensione dell’interconnessione tra i vari fronti anti-israeliani nell’asse della resistenza guidato dall’Iran.

Al-Hayya ha mantenuto stretti legami con il defunto leader di Hezbollah Hassan Nasrallah e serve come collegamento chiave tra Hamas e l’Iran. Nel febbraio 2025, ha guidato una delegazione di Hamas a Teheran per incontrare la Guida Suprema Ali Khamenei, la prima visita di questo tipo dopo il cessate il fuoco a Gaza. Durante l’incontro, Khamenei ha elogiato Hamas per aver “vinto contro il regime sionista e, in realtà, contro gli Stati Uniti”.

La carriera di al-Hayya illustra l’evoluzione di Hamas da movimento di resistenza locale a organizzazione con ambizioni regionali. La sua capacità di navigare tra la militanza jihadista e la diplomazia internazionale lo ha reso indispensabile per Hamas, specialmente in un periodo in cui il movimento deve bilanciare la pressione militare israeliana con la necessità di mantenere il sostegno regionale e internazionale.

L’attentato israeliano del 9 settembre 2025 contro la leadership di Hamas a Doha, che ha preso di mira specificamente al-Hayya, sottolinea la sua importanza strategica. L’operazione ha causato vittime tra i membri della sua famiglia e del suo staff, aggiungendo un altro capitolo tragico alla sua storia personale segnata dalla violenza del conflitto israelo-palestinese.

Al-Hayya rappresenta quindi una figura emblematica del moderno Hamas: un intellettuale religioso che ha abbracciato la jihad, un negoziatore abile che non rinuncia alla retorica della resistenza, un leader pragmatico che opera in un contesto regionale complesso. La sua traiettoria biografica riflette le contraddizioni e le sfide di un movimento che deve conciliare ideologia religiosa, obiettivi nazionali palestinesi e dinamiche geopolitiche regionali, mantenendo al contempo la coerenza con i principi fondativi della resistenza islamica palestinese.