11 Novembre 2025
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La sfocatura dei confini: civili e militari nell’era della Cyberwarfare

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Il panorama dei conflitti moderni subisce una trasformazione radicale, invisibile ma pervasiva. Le tradizionali linee rosse che separavano obiettivi militari da infrastrutture civili si dissolvono progressivamente, creando una zona grigia in cui ospedali, reti elettriche e sistemi bancari diventano bersagli legittimi. Questo fenomeno, accelerato dalla convergenza digitale, espone società intere a rischi senza precedenti, ridefinendo il concetto stesso di “fronte”.

L’ambivalenza delle infrastrutture Dual-Use

Al cuore di questa evoluzione risiedono le infrastrutture “dual-use”, sistemi tecnologici che servono simultaneamente scopi civili e militari. I satelliti per comunicazioni ne sono l’esempio paradigmatico: garantiscono precisione alle operazioni militari, ma regolano anche il traffico aereo civile, i sistemi finanziari globali e le reti d’emergenza medica.

Un attacco mirato a comprometterne il funzionamento, come dimostrano ricerche del Centre for Strategic and International Studies (CSIS), non disabilita soltanto operazioni belliche ma paralizza intere comunità. Nel 2022, il jamming GPS in Ucraina orientale ha bloccato non solo droni militari ma anche ambulanze e consegne di farmaci salvavita, evidenziando l’impossibilità di separare gli effetti.

Il Diritto Internazionale alla prova del digitale

Questa sovrapposizione crea un vuoto normativo preoccupante. Il diritto internazionale umanitario, basato sulle Convenzioni di Ginevra, presuppone una chiara distinzione tra combattenti e civili. Tuttavia, quando un data center ospita sia servizi bancari che comandi militari, qualsiasi attacco viola inevitabilmente il principio di proporzionalità.

L’International Committee of the Red Cross (ICRC) segnala casi in cui malware progettato per colpire sistemi di difesa ha diffuso danni collaterali a impianti idrici cittadini, mettendo a rischio migliaia di civili. La “soglia d’attacco” diventa così un concetto sfumato: azioni come il phishing su dipendenti di aziende energetiche o l’iniezione di codici malevoli in software industriali operano in una zona al di sotto del conflitto armato tradizionale, ma con effetti potenzialmente letali.

Militare con in mano uno smartphone

Il paradosso più inquietante emerge quando i civili stessi diventano protagonisti attivi. Durante l’invasione russa dell’Ucraina nel 2022, migliaia di cittadini si sono uniti all'”IT Army”, un esercito digitale volontario coordinato via Telegram che ha lanciato attacchi DDoS contro infrastrutture russe.

Questo fenomeno, documentato dal Carnegie Endowment for International Peace, dissolve ulteriormente le categorie tradizionali: un cittadino con uno smartphone può ora partecipare a operazioni belliche senza addestramento formale, esponendo però intere reti civili a ritorsioni. Contemporaneamente, gruppi come Anonymous dimostrano come l’hacktivismo possa influenzare dinamiche geopolitiche, attaccando sia entità governative che aziende private coinvolte in conflitti.

L’effetto domino sulle Infrastrutture Critiche

Le conseguenze pratiche di questa convergenza sono tangibili in settori vitali. Le reti elettriche, ad esempio, rappresentano un bersaglio strategico per la loro natura ibrida: un rapporto del Centre for International Governance Innovation (CIGI) descrive come l’attacco del 2015 alla rete ucraina, attribuito a Sandworm, abbia lasciato al buio 230.000 persone durante l’inverno, danneggiando ospedali e sistemi di riscaldamento.

Analogamente, il settore finanziario subisce colpi a scopo destabilizzante: nel 2023, attacchi ransomware a banche polacche hanno interrotto pagamenti pensionistici e transazioni commerciali, mentre analisti di FireEye collegano l’episodio a gruppi legati a stati ostili. Persino dispositivi IoT domestici diventano armi: termostati intelligenti compromessi possono causare surriscaldamenti in impianti industriali, trasformando oggetti quotidiani in vettori d’attacco.

Verso nuovi paradigmi di difesa

Affrontare questa complessità richiede un ripensamento strutturale della sicurezza. In primo luogo, è urgente aggiornare i quadri giuridici internazionali. L’Tallinn Manual 3.0, redatto da esperti NATO, propone criteri per valutare la legittimità di attacchi a infrastrutture dual-use, ma manca un consenso globale sulla loro applicazione.

Parallelamente, la collaborazione pubblico-privato diventa essenziale: iniziative come il Cybersecurity and Infrastructure Security Agency (CISA) statunitense coinvolgono aziende tecnologiche nella protezione di reti critiche, condividendo intelligence in tempo reale. Microsoft, ad esempio, ha prevenuto attacchi a centrali idriche in Europa nel 2024 grazie a sistemi di threat detection sviluppati con governi.

La cyberwarfare non è più un campo riservato a eserciti e server militari. Ogni dispositivo connesso, ogni sistema cittadino, ogni banca dati ospedaliera è potenzialmente un fronte. Questa fusione tra sfera civile e militare crea vulnerabilità sistemiche che richiedono risposte altrettanto integrate: dalla formazione di cyber-difensori nelle comunità locali all’adozione di standard globali per la resilienza digitale.

Senza un’azione coordinata, il concetto stesso di “retrovia” potrebbe scomparire, esponendo ogni cittadino a rischi finora impensabili. La sfida per i prossimi anni sarà proteggere non solo le nazioni, ma l’infrastruttura stessa della civiltà interconnessa.

Fonti:

  • Centre for Strategic and International Studies (CSIS), “Satellite Vulnerability in Modern Conflicts” (2024)
  • International Committee of the Red Cross (ICRC), “Digital Threats to Civilians” (2023)
  • Carnegie Endowment for International Peace, “Civilian Cyber Militias” (2023)
  • Centre for International Governance Innovation (CIGI), “Critical Infrastructure Protection” (2024)
  • NATO Cooperative Cyber Defence Centre of Excellence, “Tallinn Manual 3.0” (2022)

Creatività oltre l’umano: come l’AI sta trasformando arte, musica e scrittura

L’intelligenza artificiale sta ridefinendo i confini della creatività umana, aprendo scenari inediti e sollevando domande fondamentali su cosa significhi davvero creare. Arte, musica e scrittura, ambiti tradizionalmente considerati dominio esclusivo dell’intuizione e dell’ispirazione umana, sono oggi terreno fertile per l’innovazione tecnologica. L’AI non solo assiste gli artisti, ma in alcuni casi diventa protagonista della produzione creativa, generando opere che sfidano le nostre categorie di autorialità e originalità.

L’arte generata dall’intelligenza artificiale

Uno dei campi più sorprendenti in cui l’AI si è affermata è quello delle arti visive. Le reti neurali generative, come i GAN (Generative Adversarial Networks), hanno dimostrato una capacità straordinaria di produrre immagini originali e affascinanti. In questi sistemi, due reti neurali “giocano” tra loro: una genera immagini, l’altra valuta quanto siano realistiche rispetto a un dataset di riferimento. Il risultato sono opere che spesso sorprendono per la loro qualità e originalità, tanto che alcune sono state esposte in gallerie d’arte e vendute all’asta.

Artisti come Mario Klingemann hanno sfruttato queste tecnologie per esplorare nuove frontiere dell’espressione visiva, creando opere che mescolano stili e iconografie in modo inedito. Strumenti come DeepArt, RunwayML e Artbreeder permettono a chiunque di trasformare fotografie in dipinti nello stile dei grandi maestri o di generare immagini completamente nuove, semplicemente descrivendo ciò che si desidera ottenere. Questo processo democratizza l’arte, rendendola accessibile anche a chi non ha competenze tecniche avanzate, ma solleva anche interrogativi sul ruolo dell’artista: chi è il vero autore di un’opera generata da un algoritmo?

La rivoluzione musicale dell’AI

Anche la musica sta vivendo una trasformazione radicale grazie all’intelligenza artificiale. Gli algoritmi di machine learning sono oggi in grado di comporre melodie, armonie e persino intere canzoni in stili diversi, adattandosi ai gusti e alle esigenze degli utenti. Piattaforme come Amper Music, AIVA e Udio permettono a chiunque di creare brani originali, anche senza conoscenze musicali approfondite. Basta descrivere il genere, gli strumenti o l’atmosfera desiderata, e l’AI genera una traccia completa, pronta per essere ascoltata o modificata.

Questa accessibilità sta democratizzando la produzione musicale, abbattendo barriere tecniche ed economiche che in passato limitavano la creatività a pochi eletti. Ora, chiunque può esprimersi musicalmente, sperimentare nuovi suoni e pubblicare le proprie composizioni online, spesso ottenendo anche riconoscimenti e guadagni. L’AI non solo assiste nella composizione, ma può anche analizzare enormi quantità di dati musicali per suggerire melodie uniche o arrangiamenti inaspettati, aiutando gli artisti a superare il blocco creativo e a esplorare nuovi territori sonori.

Tuttavia, l’ascesa dell’AI nella musica solleva questioni importanti sulla proprietà intellettuale e sul ruolo dell’artista. Se una canzone nasce dalla collaborazione tra un musicista e un algoritmo, chi detiene i diritti d’autore? E fino a che punto l’AI può essere considerata un co-autore o addirittura un autore indipendente? Questi interrogativi stanno animando il dibattito nel settore e costringendo legislatori, case discografiche e artisti a ripensare le regole del gioco.

Scrittura e storytelling con l’AI

La scrittura non è rimasta immune dall’influenza dell’intelligenza artificiale. Modelli di linguaggio come GPT-4 sono oggi in grado di generare testi coerenti, originali e spesso sorprendentemente creativi. Questi sistemi analizzano enormi quantità di dati testuali per imparare stili, toni e strutture narrative, permettendo loro di scrivere poesie, racconti, articoli e persino interi romanzi che imitano lo stile di autori famosi o inventano nuove forme di espressione.

Piattaforme come Botnik Studios sfruttano l’AI per co-creare storie insieme agli utenti, mescolando la creatività umana con quella artificiale. Il risultato sono opere spesso umoristiche, surreali o innovative, che sfidano le convenzioni narrative tradizionali. L’AI può anche essere utilizzata per generare idee, sviluppare personaggi o suggerire trame, diventando un prezioso alleato per scrittori professionisti e dilettanti.

Anche in questo ambito, però, sorgono domande sull’autenticità e l’originalità. Se un testo è generato da un algoritmo, può essere considerato una vera opera d’arte? E qual è il valore della creatività umana in un mondo in cui le macchine possono imitare, amplificare e talvolta superare le capacità espressive dell’uomo?

Implicazioni filosofiche e culturali

L’avvento dell’AI nella creatività ha profonde implicazioni filosofiche e culturali. Tradizionalmente, l’arte, la musica e la letteratura sono state viste come espressioni dell’anima umana, frutto di intuizione, emozione e intenzionalità. L’intelligenza artificiale sfida questo paradigma, sostituendo l’ispirazione con la computazione e separando l’autore dalla produzione artistica.

Si delineano tre principali prospettive sul ruolo dell’AI nella creatività: come strumento amplificatore della creatività umana, come entità creativa indipendente o come forza di sostituzione dell’umano. Nel primo caso, l’AI è vista come un’estensione delle capacità artistiche dell’uomo, che accelera e arricchisce il processo creativo. Nel secondo, si riconosce all’AI una forma di creatività emergente, basata su logiche diverse da quelle umane. Nel terzo, più critico, l’AI diventa il vero protagonista della produzione artistica, riducendo l’uomo a semplice fruitore o selezionatore di contenuti già generati.

Verso un futuro di collaborazione

Nonostante le sfide e le incertezze, il futuro della creatività sembra destinato a essere sempre più ibrido. L’AI offre agli artisti nuovi strumenti, nuove possibilità di espressione e nuovi modi di interagire con il pubblico. Collaborare con l’intelligenza artificiale significa unirsi a un partner innovativo che può espandere i confini della creatività, suggerire idee inaspettate e rendere l’arte più accessibile a tutti.

Tuttavia, è fondamentale non perdere di vista il valore della creatività umana. L’AI può analizzare, imitare e generare, ma è l’uomo che dà senso, emozione e profondità all’opera d’arte. Bilanciare innovazione tecnologica e visione artistica personale sarà la sfida dei prossimi anni, in un mondo in cui la creatività non conosce più confini tra umano e artificiale.

Esplosioni sopra Doha: Iran sferra attacco missilistico alla base americana di Al-Udeid in Qatar

La tensione nel Golfo è esplosa letteralmente in cielo questa sera, con un attacco missilistico iraniano diretto contro la base americana di Al-Udeid, la più grande installazione militare statunitense in Medio Oriente, situata a pochi chilometri dalla capitale qatariota. Secondo fonti ufficiali iraniane e report di agenzie internazionali, almeno sei, forse fino a dieci, missili sono stati lanciati verso la base in risposta ai bombardamenti americani su tre siti nucleari iraniani avvenuti nel fine settimana.

La reazione della difesa aerea qatariota è stata immediata: le autorità di Doha hanno confermato che tutti i missili sono stati intercettati e abbattuti, senza registrare vittime o danni significativi. “La difesa aerea della nazione ha respinto con successo l’attacco e salvaguardato la sicurezza dei cittadini, dei residenti e degli ospiti”, ha dichiarato il portavoce del ministero degli Esteri, sottolineando che “la sovranità e l’integrità territoriale di Qatar non saranno mai compromesse”.

L’attacco è stato rivendicato dal Corpo delle Guardie della Rivoluzione iraniana (IRGC), che ha definito la base di Al-Udeid “il più grande punto di forza strategico del terrorismo americano nella regione” e ha annunciato l’inizio dell’operazione “Bisharat al-Fath” (Annuncio della Vittoria). In un comunicato, l’IRGC ha minacciato ulteriori rappresaglie: “Ogni nuovo attacco sarà affrontato con una risposta che accelera il crollo delle istituzioni militari americane nella regione”.

La reazione americana e il contesto regionale

La Casa Bianca e il Pentagono hanno monitorato costantemente la situazione. Il presidente Donald Trump, già presente lo scorso mese alla base, ha ribadito che “qualsiasi ritorsione da parte dell’Iran sarà affrontata con una forza ancora maggiore rispetto a quella impiegata nei raid del weekend”. Le truppe americane, circa 10.000 unità, sono state messe in sicurezza e le ambasciate occidentali hanno invitato i propri cittadini a rimanere al chiuso e seguire le indicazioni delle autorità locali.

Qatar ha temporaneamente chiuso il proprio spazio aereo per precauzione, mentre le sirene d’allarme sono risuonate anche in Iraq, Kuwait e Bahrein, dove sono presenti altre basi americane. In Iraq, la difesa aerea ha intercettato missili diretti verso la base di Ain al-Asad, senza danni rilevanti.

Il rischio di escalation

L’attacco di questa sera rappresenta il secondo più grande attacco diretto dell’Iran contro obiettivi americani dopo la risposta all’uccisione del generale Qassem Soleimani nel 2020. Le fonti arabe sottolineano che la situazione rimane estremamente volatile: “Continuare con azioni militari di questo tipo rischia di trascinare la regione verso una spirale di violenza dagli esiti imprevedibili”, ha avvertito il ministero degli Esteri qatariota.

Il quadro diplomatico

Qatar, tradizionalmente attiva nella mediazione regionale, ha esortato tutte le parti a fermare le ostilità e tornare al tavolo del dialogo. “Solo la diplomazia può salvare la regione dalla catastrofe”, ha concluso il portavoce del governo.

L’attacco missilistico iraniano contro la base americana di Al-Udeid ha scosso il Golfo ma, grazie all’efficacia delle difese aeree qatariote, non ha provocato vittime. La minaccia di ulteriori ritorsioni rimane alta, mentre la comunità internazionale osserva con apprensione l’evolversi di una crisi che rischia di coinvolgere tutto il Medio Oriente.

Crisi in Medio Oriente, l’Italia alza il livello di allerta: oltre 29 mila obiettivi sotto vigilanza

L’operazione statunitense “Il martello di mezzanotte”, che ha colpito siti nucleari in Iran, ha innescato un’ondata globale di tensione. Anche l’Italia ha rafforzato le misure di sicurezza, già attive da giorni, portando l’allerta a un nuovo livello.

Nel mirino ci sono oltre 29 mila obiettivi sensibili, tra cui più di 10 mila infrastrutture critiche. Circa un migliaio gli interessi legati agli Stati Uniti e a Israele sotto sorveglianza speciale. La risposta italiana si è articolata in una lunga giornata di vertici istituzionali, aperta all’alba a Palazzo Chigi con una riunione tra la premier Giorgia Meloni, i ministri competenti e i vertici dell’intelligence.

I piani di sicurezza prevedono un presidio rafforzato nei luoghi pubblici più frequentati: musei, monumenti, eventi culturali, concerti, stadi e aree turistiche. Anche le amministrazioni locali sono state coinvolte nell’intensificazione dei controlli, in particolare nelle grandi città e nella Capitale.

Il Viminale, al termine di una serie di riunioni operative, ha aggiornato le direttive su prevenzione e contrasto al terrorismo. Il Comitato strategico antiterrorismo e il Comitato nazionale per l’ordine e la sicurezza pubblica, guidato dal ministro dell’Interno Matteo Piantedosi, hanno definito le nuove linee di intervento.

Secondo quanto riferito dal ministero, durante gli incontri sono stati esaminati i risultati delle recenti indagini e tracciate le priorità operative per contenere i rischi legati al deterioramento del quadro geopolitico. Particolare attenzione è rivolta agli obiettivi americani sul suolo italiano: le basi militari di Aviano e Sigonella sono state ulteriormente blindate, così come le sedi diplomatiche, le aziende statunitensi, le catene commerciali e i punti di interesse culturale.

Stretta anche sulla sicurezza dei militari USA presenti in Italia. Il rafforzamento dei controlli coincide con l’anno giubilare, rendendo ancora più sensibili aree come il Vaticano e i luoghi di culto nella Capitale. Massima vigilanza anche per gli eventi religiosi legati al Giubileo.

Infine, sotto osservazione rimangono circa 250 obiettivi legati alla comunità ebraica e israeliana, da sempre sorvegliati ma ora al centro di un’ulteriore intensificazione dei controlli.

Xi Jinping e Vladimir Putin presentano un fronte unito sulla crisi Israele-Iran

Nel contesto di una crisi mediorientale sempre più grave, i leader di Cina e Russia hanno deciso di mostrarsi come voci di ragione e di moderazione, chiamando alla de-escalation del conflitto tra Israele e Iran, mentre gli Stati Uniti valutano la possibilità di intervenire militarmente.

Durante una telefonata avvenuta giovedì 19 giugno 2025, il presidente cinese Xi Jinping e il presidente russo Vladimir Putin hanno discusso la situazione in Medio Oriente, esprimendo preoccupazione per l’escalation di violenza dopo l’attacco israeliano alle strutture nucleari iraniane del 13 giugno. Entrambi i leader hanno condannato le azioni di Israele, definendole contrarie alla Carta delle Nazioni Unite e al diritto internazionale, e hanno sottolineato la necessità di una soluzione diplomatica piuttosto che militare per la questione nucleare iraniana.

Il Cremlino ha riferito che Putin e Xi sono d’accordo sul fatto che le preoccupazioni di Israele e dell’Occidente riguardo al programma nucleare iraniano non possano essere risolte con la forza, ma solo attraverso il dialogo e la negoziazione. Xi, in particolare, ha sostenuto gli sforzi di mediazione della Russia e ha evidenziato che “le grandi potenze” con influenza sulle parti in conflitto dovrebbero lavorare per calmare la situazione, non per aggravarla.

Tuttavia, mentre la Russia ha rilasciato dichiarazioni forti contro Israele, Pechino ha mantenuto un tono più misurato. Il comunicato ufficiale cinese ha evitato una condanna esplicita di Israele, a differenza del ministro degli Esteri cinese che, in una precedente conversazione con il collega iraniano, aveva invece espresso una posizione più netta. Xi ha comunque esortato tutte le parti, “in particolare Israele”, a fermare le ostilità il prima possibile per evitare ulteriori escalation e ricadute regionali.

Il messaggio di Xi e Putin appare anche come una risposta indiretta alle mosse degli Stati Uniti, dove il presidente Donald Trump sta valutando di unirsi a Israele in un’azione militare contro l’Iran. In questo scenario, la crisi offre a Pechino e Mosca l’opportunità di presentarsi come alternative credibili all’influenza americana nel Medio Oriente.

Xi ha inoltre ribadito che la priorità assoluta deve essere il cessate il fuoco, sottolineando che l’uso della forza non è la soluzione ai conflitti internazionali e che solo il dialogo può garantire una pace duratura. Ha anche chiesto che venga garantita la sicurezza dei civili e che le parti rispettino il diritto internazionale, facilitando l’evacuazione dei cittadini di paesi terzi.

La telefonata tra i due leader conferma l’intenzione di Cina e Russia di mantenere una comunicazione stretta e di coordinare gli sforzi per raffreddare la situazione e salvaguardare la stabilità regionale. Entrambi hanno espresso la volontà di giocare un ruolo costruttivo nel ripristino della pace in Medio Oriente, invitando il Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite a svolgere un ruolo più attivo.

La crisi tra Israele e Iran, la più grave degli ultimi anni, continua a preoccupare la comunità internazionale, mentre il mondo sembra entrare in una nuova fase di turbolenza e trasformazione geopolitica.

Quanto tempo può andare avanti l’iran in questa guerra?

Gli alleati potrebbero fare la differenza.

Negli ultimi mesi, l’Iran ha lanciato un numero significativo di missili balistici a medio raggio contro Israele, riducendo le proprie scorte a una cifra stimata tra alcune centinaia e poco più di un migliaio di unità. Questa riduzione è stata accelerata dai recenti attacchi aerei israeliani, che hanno distrutto almeno un terzo dei lanciatori e colpito duramente le infrastrutture di produzione dei motori per missili. Secondo alcuni analisti, l’Iran potrebbe ora disporre di una quantità di missili balistici a medio raggio che rischia di scendere sotto la soglia critica per la deterrenza strategica di Teheran.

La capacità dell’Iran di sostenere una guerra a lungo raggio dipende non solo dalle scorte residue, ma anche dalla possibilità di ricostituirle. Gli attacchi israeliani hanno compromesso la produzione interna, distruggendo i principali impianti per la fabbricazione dei motori dei missili.

Tuttavia, Teheran sta cercando di aggirare queste difficoltà ricorrendo a fornitori esterni: recenti rapporti indicano che l’Iran ha ordinato dalla Cina grandi quantità di materiali chiave, tra cui ammonio perclorato, sufficiente a produrre centinaia di nuovi missili. La spedizione di questi materiali è attesa nei prossimi mesi e potrebbe essere destinata anche ai gruppi alleati nella regione.

Il ruolo della Cina e la minaccia futura

La Cina si conferma un attore cruciale nel supporto al programma missilistico iraniano, fornendo non solo materie prime, ma anche componenti tecnologici, carburanti solidi e persino assistenza tecnica diretta.

Questo sostegno potrebbe consentire all’Iran di ripristinare la propria capacità produttiva nel medio termine, nonostante i danni subiti. Il primo ministro israeliano Netanyahu ha dichiarato che Teheran punta a produrre centinaia di missili balistici al mese, ma questa cifra non trova conferme indipendenti ed è considerata da molti analisti come un’ipotesi ottimistica.

Prospettive di guerra a lungo raggio

Nonostante le perdite subite, l’Iran mantiene il più vasto arsenale di missili balistici del Medio Oriente, con vettori capaci di colpire a distanze tra mille e oltre duemila chilometri, come i modelli Sejil, Kheibar e Haj Qasem. Questi sistemi, insieme alla capacità di disperdere i missili in depositi sotterranei e di lanciare attacchi da diverse piattaforme, garantiscono ancora a Teheran una certa capacità di proiezione a lungo raggio, anche se limitata rispetto all’inizio del conflitto.

Renzi: con noi il centrosinistra vince. Ma è vero?

Facile. Si vince con i voti e non con i veti. Spero che questo sia chiaro a tutti. Naturalmente il merito del successo è di Silvia Salis che ha fatto una campagna perfetta e insieme a lei di tutte le liste. Ma il fatto è che alle regionali hanno messo il veto su di noi e hanno perso. E alle comunali hanno tolto il veto e abbiamo vinto. E questo fatto è inoppugnabile” – Matteo Renzi al Secolo XIX

Per verificare se le affermazioni di Matteo Renzi siano aderenti alla realtà abbiamo fatto una piccola ricerca dal 2020 ad oggi.

Negli ultimi cinque anni, la partecipazione di Italia Viva alle elezioni locali e regionali ha rappresentato una cartina di tornasole della capacità del centrosinistra di innovare e aggregare nuove forze alle tradizionali coalizioni. Dal 2020 a oggi, il partito di Matteo Renzi ha attraversato fasi diverse, ma ha mantenuto una presenza costante, sia come alleato del centrosinistra sia come soggetto autonomo, in molte consultazioni elettorali.

Partiamo dalle elezioni regionali del 2020, quando Italia Viva si è presentata in sette regioni, spesso sostenendo i candidati del centrosinistra o, in alcuni casi, presentando liste civiche. In regioni come Toscana e Campania, la presenza di Italia Viva ha partecipato alla vittoria della coalizione di centrosinistra, anche se il ruolo del partito non è stato sempre determinante.

In Liguria, Veneto e Marche, invece, dove Italia Viva si è presentata con liste autonome o in coalizioni più eterogenee, il centrosinistra spesso non è riuscito a prevalere. In Puglia, la coalizione con Azione e +Europa ha visto Italia Viva parte di un fronte più ampio, ma non centrale rispetto alla vittoria finale della coalizione.

Un caso emblematico è quello dell’Emilia-Romagna nel 2024. Qui Italia Viva ha partecipato alla coalizione di centrosinistra che ha riconfermato il presidente uscente. Nonostante la vittoria della coalizione, Italia Viva non ha eletto alcun consigliere regionale, segnalando una difficoltà di penetrazione elettorale in un territorio storicamente controllato dal Partito Democratico e dalle sue alleanze tradizionali.

Le elezioni comunali del 2025 hanno invece mostrato una maggiore efficacia della presenza di Italia Viva. In città come Genova e Ravenna, il partito ha fatto parte della coalizione di centrosinistra che ha vinto già al primo turno. Matteo Renzi, in diverse occasioni, ha sottolineato come il contributo di Italia Viva sia stato determinante per evitare il ballottaggio in alcune città, dimostrando che in realtà urbane complesse la capacità di attrarre voti oltre le tradizionali basi elettorali può fare la differenza. Anche in comuni come Giugliano, la presenza di Italia Viva ha accompagnato la vittoria del candidato di centrosinistra.

La partecipazione di Italia Viva alle elezioni locali e regionali dal 2020 a oggi racconta una storia di alleanze in evoluzione. Il partito di Renzi è stato spesso parte della coalizione vincente, anche se non sempre in modo decisivo, e ha dimostrato di poter essere un tassello utile per il centrosinistra, soprattutto nelle città dove la competizione elettorale si fa più serrata.

Le ragioni strategiche che guidano l’alleanza tra Italia Viva e il centrosinistra

Ricerca di rilevanza e uscita dalla marginalità politica: Dopo i risultati elettorali deludenti e la crescente marginalizzazione, Italia Viva ha bisogno di alleanze per mantenere visibilità e influenza. Un accordo con il centrosinistra rappresenta una via per tornare a contare nel panorama politico italiano, soprattutto in vista di sfide elettorali decisive.

Obiettivo di costruire un’alternativa al centrodestra: Italia Viva, come altre forze di opposizione, mira a costruire una coalizione sufficientemente ampia e credibile per sfidare la destra al governo. L’alleanza con il centrosinistra è vista come un passo necessario per offrire una proposta unitaria e attrattiva agli elettori, soprattutto nei collegi marginali dove pochi voti possono fare la differenza.

Superamento dei veti e delle divisioni interne: I leader di Italia Viva insistono sulla necessità di dialogare e costruire progetti condivisi, superando le barriere ideologiche e personali che spesso dividono le forze di opposizione. L’inclusione di Italia Viva nella coalizione è considerata un segnale di coesione e serietà politica, fondamentale per conquistare la fiducia degli elettori.

Riconoscimento del valore aritmetico e strategico: Italia Viva, seppur minoritaria, può essere determinante in alcuni contesti elettorali, soprattutto nelle città e nelle regioni dove la competizione è serrata e pochi punti percentuali possono decidere l’esito del voto. Matteo Renzi sottolinea spesso che anche un 2-3% può essere decisivo nei collegi marginali.

Ricerca di una nuova identità riformista e moderata nel centrosinistra: Italia Viva aspira a essere il traino di una ricostruzione del centro-sinistra, attirando quell’elettorato moderato e riformista che non si riconosce nei toni più radicali di altre componenti della coalizione. Questa prospettiva è vista come una fase costituente per rilanciare il centrosinistra e offrire un’alternativa credibile al centrodestra.

L’analisi della situazione

Come abbiamo potuto vedere dai dati, la presenza di Italia Viva spesso si è dimostrata attiva ma poco determinante, con numeri sempre minoritari e con una marginalità dei dati grave.

L’alleanza con il centro sinistra dimostra anche però che la vittoria è più aritmetica che politica, se si mettono insieme tutte le varianti politiche si raccoglie un successo ma non una coesione politica. L’avversione del Movimento 5 Stelle per Italia Viva ha portato spesso a divisioni, liti e incapacità di agire politicamente come un gruppo coeso.

L’essere presente non sempre ha aggiunto valore, come in Emilia Romagna. Il problema più grande del centro sinistra in questo momento pare non avere una propria identità, perché, come anche ha evidenziato l’elezione del sindaco di Genova, l’entrata in campo di Italia Viva non ha aggiunto quasi nessun voto alla coalizione che l’aveva esclusa nel 2024 nelle regionali.

Forse il problema principale è che i partiti pensano a vincere e non a convincere.

G7 in Canada: tra tensioni e speranze di dialogo

I leader del G7 si riuniscono nella località montana di Kananaskis, nelle Canadian Rockies, a circa 90 chilometri a ovest di Calgary, per un summit che si annuncia già come uno dei più delicati degli ultimi anni. Al centro dell’attenzione, oltre alle crisi internazionali che agitano il Medio Oriente e l’Ucraina, c’è la presenza di Donald Trump, presidente degli Stati Uniti, che rischia di catalizzare tensioni e divisioni tra i partner occidentali.

Le priorità di Carney e l’ombra di Trump

Il primo ministro canadese Mark Carney ha dichiarato di voler puntare su tre obiettivi principali: rafforzare la pace e la sicurezza, costruire catene di approvvigionamento di minerali critici e promuovere la creazione di posti di lavoro. Tuttavia, queste priorità rischiano di essere oscurate dalle questioni più urgenti e divisive, come i dazi imposti dagli Stati Uniti e la gestione dei conflitti in Medio Oriente e Ucraina.

La presenza di Trump rappresenta una variabile imprevedibile: il presidente americano, noto per il suo approccio diretto e spesso provocatorio, ha già in passato sconvolto i vertici del G7, come accaduto nel 2018, quando lasciò il summit canadese prima della conclusione, definendo l’allora primo ministro Justin Trudeau “molto disonesto e debole” e ordinando alla delegazione statunitense di ritirare il sostegno al comunicato finale.

Il vertice arriva in un momento di estrema incertezza. Giovedì scorso, Israele ha lanciato una serie di attacchi contro l’Iran, colpendo duramente gli sforzi diplomatici per evitare un’escalation militare. Il conflitto in Medio Oriente è diventato così un altro punto di frizione tra gli alleati, con il Regno Unito che ha già annunciato l’invio di supporto militare nella regione. Il premier britannico Keir Starmer, in viaggio verso il Canada, ha sottolineato la necessità di de-escalation, ma ha anche riconosciuto il diritto di Israele a difendersi.

Anche la guerra in Ucraina rimane un tema centrale, con il presidente Volodymyr Zelenskyy presente al summit e atteso un faccia a faccia con Trump, dopo il loro precedente incontro controverso alla Casa Bianca.

Il ruolo di Giorgia Meloni e la posizione italiana

La presidente del Consiglio Giorgia Meloni è arrivata a Kananaskis con l’obiettivo di rafforzare il profilo internazionale dell’Italia e portare al tavolo le priorità nazionali, a partire dalla gestione dei flussi migratori e dalla sicurezza. Meloni introdurrà la sessione dedicata alle “comunità sicure”, puntando a valorizzare l’approccio italiano basato su partenariati con i Paesi africani, accordi bilaterali per il controllo delle partenze e investimenti mirati alla stabilizzazione delle aree di origine, in continuità con il Piano Mattei. L’Italia, inoltre, ha avviato una coalizione G7 contro il traffico di migranti, sostenuta da Stati Uniti e Regno Unito, che punta sulla cooperazione in ambito di intelligence e sul sequestro dei proventi illeciti.

Meloni si propone come ponte tra l’amministrazione Trump e il resto dell’Europa, cercando di mediare sulle questioni dei dazi e di mantenere un profilo credibile sia verso Washington sia verso Bruxelles. Prima della partenza per il Canada, la premier ha tenuto consultazioni con i ministri e i vertici dell’intelligence, oltre a colloqui telefonici con Trump, il cancelliere tedesco Friedrich Merz e la presidente della Commissione europea Ursula von der Leyen, dimostrando l’attenzione italiana verso la diplomazia multilaterale e la ricerca di soluzioni condivise.

La strategia del Canada e il clima del vertice

Il Canada, da paese ospitante, cerca di evitare scontri frontali con Trump, consapevole che ogni parola o gesto del presidente americano potrebbe avere conseguenze imprevedibili. Un esperto di affari internazionali e già consigliere dell’ex premier Justin Trudeau ha dichiarato: “Questo incontro sarà considerato un successo se Donald Trump non avrà un’esplosione che metta sottosopra l’intera riunione. Qualsiasi cosa oltre questo sarà un bonus”.

Un analista di economia internazionale e già funzionario della Casa Bianca ha aggiunto: “Lo scenario migliore è che non ci siano vere e proprie esplosioni alla fine del vertice”.

Un summit senza comunicato finale

Per la prima volta, il Canada ha deciso di rinunciare alla tradizionale dichiarazione congiunta alla fine del summit, una scelta che riflette il clima di divisione e la difficoltà di trovare una posizione comune su questioni come i dazi e le crisi internazionali. Saranno invece diffuse sette dichiarazioni brevi, ciascuna relativa a uno dei temi chiave: finanziamento dello sviluppo, intelligenza artificiale, tecnologie quantistiche, contrasto agli incendi, minerali strategici, repressione transnazionale e lotta al traffico di migranti.

Il G7 2025 si apre dunque all’insegna della cautela e della speranza di evitare scontri, ma con la consapevolezza che la presenza di Trump e le crisi globali potrebbero riscrivere gli equilibri e le dinamiche del summit. La posta in gioco è alta: non solo la coesione tra alleati, ma anche la capacità di affrontare insieme le sfide più urgenti del pianeta. Il ruolo dell’Italia, in questa cornice, si conferma centrale per la mediazione e la ricerca di soluzioni pragmatiche ai grandi dossier internazionali.

Israele decapita la mente atomica dell’Iran

Nove nomi. Nove bersagli. Nove eliminazioni simultanee. Con l’operazione Rising Lion, Israele ha colpito il cuore scientifico del programma nucleare iraniano. Non depositi, non centrifughe: le menti. Tutti gli esperti considerati essenziali per la costruzione di una bomba atomica sono stati uccisi tra giovedì e venerdì notte in una serie di raid chirurgici condotti nei pressi di Teheran e in altri siti sensibili del Paese.

Le vittime non sono figure secondarie. Si tratta di scienziati di primissimo livello: ingegneri nucleari, fisici teorici, specialisti in arricchimento dell’uranio. Nomi che fino a ieri rappresentavano l’élite tecnica della Repubblica islamica. Alcuni erano considerati gli eredi diretti di Mohsen Fakhrizadeh, l’architetto del programma atomico iraniano ucciso nel 2020.

L’elenco, reso pubblico direttamente dalle forze armate israeliane, include tra gli altri Fereydoun Abbasi, già a capo dell’Organizzazione per l’Energia Atomica dell’Iran e sopravvissuto a un attentato nel 2010. Ogni bersaglio è stato localizzato con estrema precisione, raggiunto nei suoi alloggi e ucciso in operazioni parallele. Nessuno è sopravvissuto.

Secondo fonti militari, l’eliminazione coordinata dei nove scienziati ha richiesto un anno di sorveglianza e raccolta di intelligence. Il risultato: la completa rimozione del team tecnico in grado di portare l’Iran alla costruzione di un ordigno nucleare operativo. «Il danno inflitto alla capacità del regime è incalcolabile», ha dichiarato un portavoce dell’esercito israeliano.

L’attacco rappresenta un salto di livello nella guerra ombra tra Israele e Iran. Non più singoli sabotaggi o misteriosi incidenti: stavolta è stato un colpo diretto, frontale, alla componente umana del progetto nucleare. Israele non ha colpito solo infrastrutture, ma l’intera architettura intellettuale che poteva trasformare uranio arricchito in una bomba.

Il messaggio è chiaro: non è solo la tecnologia ad essere sotto attacco, ma chi la rende possibile. E per Teheran, la ricostruzione del know-how scientifico potrebbe richiedere anni. Sempre che ci sia ancora tempo.

Israele contro l’Iran: attacco al cuore del nucleare

L’alba del conflitto diretto tra Israele e Iran potrebbe essere già cominciata, non con una dichiarazione ufficiale di guerra, ma con una serie di attacchi chirurgici, tecnologicamente sofisticati e politicamente incendiari. Per la prima volta, Israele ha sferrato un’offensiva coordinata e simultanea contro i tre principali siti nucleari iraniani: Natanz, Isfahan e Fordow. Un’operazione di precisione, dal potenziale devastante, che ha segnato un punto di svolta nello scontro tra due potenze regionali ormai apertamente in rotta di collisione.

Dietro l’azione militare, l’obiettivo – esplicito – è stato uno solo: rallentare, se non disintegrare, il controverso programma nucleare iraniano, che secondo l’intelligence israeliana è ormai prossimo alla realizzazione di un’arma atomica. “Siamo a un punto chiave: se non ci riusciamo, non avremo modo di impedire all’Iran di sviluppare armi nucleari che minacceranno la nostra esistenza”, ha dichiarato senza mezzi termini il ministro della Difesa israeliano, Israel Katz. Parole che suonano come una giustificazione premeditata a un’azione che ha pochi precedenti nella storia recente del Medio Oriente.

L’attacco a Natanz: cuore tecnologico e simbolico del programma nucleare iraniano

Il sito di Natanz è uno dei più noti e sorvegliati dell’Iran. Situato nel centro del Paese, rappresenta il fulcro delle attività di arricchimento dell’uranio, un processo necessario per produrre combustibile nucleare e, in forma più avanzata, materiale da bomba.

Secondo fonti israeliane e statunitensi, l’attacco ha avuto un successo significativo. Due funzionari americani, citati dalla CNN, parlano di un’operazione estremamente efficace: l’infrastruttura elettrica che alimenta le centrifughe sotterranee sarebbe stata completamente distrutta, lasciando al buio i livelli inferiori dove si svolgono le operazioni più sensibili. Un colpo strategico, perché molte strutture di Natanz sono fortificate e interrate: colpirle direttamente è difficile, ma interromperne l’alimentazione elettrica equivale a paralizzarle.

La distruzione ha riguardato anche l’impianto pilota di arricchimento e sei edifici fuori terra. L’AIEA (Agenzia Internazionale per l’Energia Atomica) ha confermato che l’impianto ha subito danni importanti e che all’interno si registrano contaminazioni radiologiche e chimiche. Tuttavia, l’agenzia ha rassicurato sull’assenza di impatti radioattivi esterni al sito. Nonostante questo, la morte di nove esperti nucleari iraniani è stata confermata da Teheran, che però minimizza i danni e mantiene la linea ufficiale: il programma è pacifico e sotto supervisione internazionale.

L’azienda statunitense Umbra ha fornito immagini radar che mostrano chiaramente la portata dei danni: colonne di fumo nero si alzano da più punti, mentre altre foto satellitari analizzate da esperti indicano una distruzione sistematica delle infrastrutture energetiche e logistiche.

Isfahan: la complessità di una struttura multidisciplinare

Se Natanz è il braccio operativo, Isfahan può essere considerato il cervello del programma nucleare iraniano. Qui si concentra la ricerca scientifica, lo sviluppo delle tecnologie e la produzione di combustibile.

Il sito è stato colpito duramente, almeno secondo le fonti israeliane. Un funzionario dell’IDF (Forze di Difesa Israeliane) ha dichiarato durante un briefing che “i danni sono stati ingenti”, sostenendo di avere prove concrete del fatto che l’Iran stesse “procedendo verso una bomba nucleare” proprio attraverso questo impianto.

L’Iran ha invece dichiarato che i danni sono stati limitati, che le attrezzature principali erano già state spostate prima dell’attacco, e che solo un capannone è andato a fuoco. Nessun rischio di contaminazione, secondo Teheran. Tuttavia, le dimensioni del sito e la sua importanza strategica lasciano intendere che anche un danno parziale possa avere effetti rilevanti.

Costruito con l’aiuto della Cina e operativo dal 1984, Isfahan è il più grande centro di ricerca nucleare del Paese. Ospita tre reattori forniti da Pechino, un impianto di conversione dell’uranio, uno per la produzione di combustibile, un centro di rivestimento in zirconio e numerosi laboratori. Ci lavorano circa 3.000 scienziati. L’organizzazione Nuclear Threat Initiative, tra le più autorevoli in materia, sospetta che proprio qui sia situato il cuore scientifico del programma nucleare iraniano.

Fordow: il bunker tra le montagne

Il terzo bersaglio dell’offensiva è Fordow, il sito più misterioso e inaccessibile. Situato nei pressi di Qom e protetto dalle montagne, è un impianto sotterraneo costruito per resistere ad attacchi aerei. Qui si arricchisce uranio ad altissima purezza, in alcuni casi vicino all’83,7%, secondo quanto rilevato dall’AIEA nel 2023. Livelli che si avvicinano pericolosamente al 90%, la soglia per uso militare.

Israele ha provato a colpire anche Fordow, ma secondo l’AIEA il sito non ha subito danni. Le forze iraniane hanno dichiarato di aver abbattuto un drone israeliano nei pressi della struttura. L’IDF non ha rivendicato danni diretti.

Secondo James M. Acton, esperto del Carnegie Endowment for International Peace, Fordow è il vero ago della bilancia. Se resterà operativo, l’intero attacco israeliano rischia di non alterare sostanzialmente il progresso dell’Iran verso la bomba. Acton ipotizza che Israele potrebbe tentare di far crollare gli ingressi della struttura, ma distruggere l’impianto nel suo complesso richiederebbe capacità belliche ben superiori.

Israele cambia strategia: dal contenimento all’attacco diretto

Per anni Israele ha adottato una strategia di contenimento: colpire indirettamente, sabotare, rallentare. Attacchi informatici, eliminazioni mirate di scienziati, pressioni diplomatiche. Ma il salto di qualità è evidente: ora si passa all’attacco diretto.

Secondo Israele, i negoziati internazionali sul nucleare si sono dimostrati inefficaci, e il tempo è scaduto. Il programma nucleare iraniano è avanzato, capillare, distribuito su più siti e dotato di fortificazioni difficili da penetrare. Di fronte a questo scenario, l’azione militare è diventata, per Tel Aviv, una scelta obbligata.

L’Iran, dal canto suo, continua a dichiarare che il proprio programma ha scopi esclusivamente civili. Ma le prove tecniche, i livelli di arricchimento dell’uranio e le strutture segrete alimentano sospetti sempre più solidi.

L’entità reale dei danni – al di là delle dichiarazioni ufficiali – emergerà solo con il tempo. Ma gli effetti politici sono già evidenti. L’equilibrio del Medio Oriente è più fragile che mai. Le reazioni internazionali sono ancora contenute, ma l’ombra di un conflitto aperto incombe.

Israele ha alzato la posta. L’Iran dovrà decidere se rispondere militarmente o giocare la carta della diplomazia. Nel frattempo, la comunità internazionale si trova di fronte a una scelta complessa: rimanere spettatrice o intervenire per evitare che una guerra silenziosa diventi una guerra totale.