01 Luglio 2025
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Xi Jinping e Vladimir Putin presentano un fronte unito sulla crisi Israele-Iran

Nel contesto di una crisi mediorientale sempre più grave, i leader di Cina e Russia hanno deciso di mostrarsi come voci di ragione e di moderazione, chiamando alla de-escalation del conflitto tra Israele e Iran, mentre gli Stati Uniti valutano la possibilità di intervenire militarmente.

Durante una telefonata avvenuta giovedì 19 giugno 2025, il presidente cinese Xi Jinping e il presidente russo Vladimir Putin hanno discusso la situazione in Medio Oriente, esprimendo preoccupazione per l’escalation di violenza dopo l’attacco israeliano alle strutture nucleari iraniane del 13 giugno. Entrambi i leader hanno condannato le azioni di Israele, definendole contrarie alla Carta delle Nazioni Unite e al diritto internazionale, e hanno sottolineato la necessità di una soluzione diplomatica piuttosto che militare per la questione nucleare iraniana.

Il Cremlino ha riferito che Putin e Xi sono d’accordo sul fatto che le preoccupazioni di Israele e dell’Occidente riguardo al programma nucleare iraniano non possano essere risolte con la forza, ma solo attraverso il dialogo e la negoziazione. Xi, in particolare, ha sostenuto gli sforzi di mediazione della Russia e ha evidenziato che “le grandi potenze” con influenza sulle parti in conflitto dovrebbero lavorare per calmare la situazione, non per aggravarla.

Tuttavia, mentre la Russia ha rilasciato dichiarazioni forti contro Israele, Pechino ha mantenuto un tono più misurato. Il comunicato ufficiale cinese ha evitato una condanna esplicita di Israele, a differenza del ministro degli Esteri cinese che, in una precedente conversazione con il collega iraniano, aveva invece espresso una posizione più netta. Xi ha comunque esortato tutte le parti, “in particolare Israele”, a fermare le ostilità il prima possibile per evitare ulteriori escalation e ricadute regionali.

Il messaggio di Xi e Putin appare anche come una risposta indiretta alle mosse degli Stati Uniti, dove il presidente Donald Trump sta valutando di unirsi a Israele in un’azione militare contro l’Iran. In questo scenario, la crisi offre a Pechino e Mosca l’opportunità di presentarsi come alternative credibili all’influenza americana nel Medio Oriente.

Xi ha inoltre ribadito che la priorità assoluta deve essere il cessate il fuoco, sottolineando che l’uso della forza non è la soluzione ai conflitti internazionali e che solo il dialogo può garantire una pace duratura. Ha anche chiesto che venga garantita la sicurezza dei civili e che le parti rispettino il diritto internazionale, facilitando l’evacuazione dei cittadini di paesi terzi.

La telefonata tra i due leader conferma l’intenzione di Cina e Russia di mantenere una comunicazione stretta e di coordinare gli sforzi per raffreddare la situazione e salvaguardare la stabilità regionale. Entrambi hanno espresso la volontà di giocare un ruolo costruttivo nel ripristino della pace in Medio Oriente, invitando il Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite a svolgere un ruolo più attivo.

La crisi tra Israele e Iran, la più grave degli ultimi anni, continua a preoccupare la comunità internazionale, mentre il mondo sembra entrare in una nuova fase di turbolenza e trasformazione geopolitica.

Quanto tempo può andare avanti l’iran in questa guerra?

Gli alleati potrebbero fare la differenza.

Negli ultimi mesi, l’Iran ha lanciato un numero significativo di missili balistici a medio raggio contro Israele, riducendo le proprie scorte a una cifra stimata tra alcune centinaia e poco più di un migliaio di unità. Questa riduzione è stata accelerata dai recenti attacchi aerei israeliani, che hanno distrutto almeno un terzo dei lanciatori e colpito duramente le infrastrutture di produzione dei motori per missili. Secondo alcuni analisti, l’Iran potrebbe ora disporre di una quantità di missili balistici a medio raggio che rischia di scendere sotto la soglia critica per la deterrenza strategica di Teheran.

La capacità dell’Iran di sostenere una guerra a lungo raggio dipende non solo dalle scorte residue, ma anche dalla possibilità di ricostituirle. Gli attacchi israeliani hanno compromesso la produzione interna, distruggendo i principali impianti per la fabbricazione dei motori dei missili.

Tuttavia, Teheran sta cercando di aggirare queste difficoltà ricorrendo a fornitori esterni: recenti rapporti indicano che l’Iran ha ordinato dalla Cina grandi quantità di materiali chiave, tra cui ammonio perclorato, sufficiente a produrre centinaia di nuovi missili. La spedizione di questi materiali è attesa nei prossimi mesi e potrebbe essere destinata anche ai gruppi alleati nella regione.

Il ruolo della Cina e la minaccia futura

La Cina si conferma un attore cruciale nel supporto al programma missilistico iraniano, fornendo non solo materie prime, ma anche componenti tecnologici, carburanti solidi e persino assistenza tecnica diretta.

Questo sostegno potrebbe consentire all’Iran di ripristinare la propria capacità produttiva nel medio termine, nonostante i danni subiti. Il primo ministro israeliano Netanyahu ha dichiarato che Teheran punta a produrre centinaia di missili balistici al mese, ma questa cifra non trova conferme indipendenti ed è considerata da molti analisti come un’ipotesi ottimistica.

Prospettive di guerra a lungo raggio

Nonostante le perdite subite, l’Iran mantiene il più vasto arsenale di missili balistici del Medio Oriente, con vettori capaci di colpire a distanze tra mille e oltre duemila chilometri, come i modelli Sejil, Kheibar e Haj Qasem. Questi sistemi, insieme alla capacità di disperdere i missili in depositi sotterranei e di lanciare attacchi da diverse piattaforme, garantiscono ancora a Teheran una certa capacità di proiezione a lungo raggio, anche se limitata rispetto all’inizio del conflitto.

Renzi: con noi il centrosinistra vince. Ma è vero?

Facile. Si vince con i voti e non con i veti. Spero che questo sia chiaro a tutti. Naturalmente il merito del successo è di Silvia Salis che ha fatto una campagna perfetta e insieme a lei di tutte le liste. Ma il fatto è che alle regionali hanno messo il veto su di noi e hanno perso. E alle comunali hanno tolto il veto e abbiamo vinto. E questo fatto è inoppugnabile” – Matteo Renzi al Secolo XIX

Per verificare se le affermazioni di Matteo Renzi siano aderenti alla realtà abbiamo fatto una piccola ricerca dal 2020 ad oggi.

Negli ultimi cinque anni, la partecipazione di Italia Viva alle elezioni locali e regionali ha rappresentato una cartina di tornasole della capacità del centrosinistra di innovare e aggregare nuove forze alle tradizionali coalizioni. Dal 2020 a oggi, il partito di Matteo Renzi ha attraversato fasi diverse, ma ha mantenuto una presenza costante, sia come alleato del centrosinistra sia come soggetto autonomo, in molte consultazioni elettorali.

Partiamo dalle elezioni regionali del 2020, quando Italia Viva si è presentata in sette regioni, spesso sostenendo i candidati del centrosinistra o, in alcuni casi, presentando liste civiche. In regioni come Toscana e Campania, la presenza di Italia Viva ha partecipato alla vittoria della coalizione di centrosinistra, anche se il ruolo del partito non è stato sempre determinante.

In Liguria, Veneto e Marche, invece, dove Italia Viva si è presentata con liste autonome o in coalizioni più eterogenee, il centrosinistra spesso non è riuscito a prevalere. In Puglia, la coalizione con Azione e +Europa ha visto Italia Viva parte di un fronte più ampio, ma non centrale rispetto alla vittoria finale della coalizione.

Un caso emblematico è quello dell’Emilia-Romagna nel 2024. Qui Italia Viva ha partecipato alla coalizione di centrosinistra che ha riconfermato il presidente uscente. Nonostante la vittoria della coalizione, Italia Viva non ha eletto alcun consigliere regionale, segnalando una difficoltà di penetrazione elettorale in un territorio storicamente controllato dal Partito Democratico e dalle sue alleanze tradizionali.

Le elezioni comunali del 2025 hanno invece mostrato una maggiore efficacia della presenza di Italia Viva. In città come Genova e Ravenna, il partito ha fatto parte della coalizione di centrosinistra che ha vinto già al primo turno. Matteo Renzi, in diverse occasioni, ha sottolineato come il contributo di Italia Viva sia stato determinante per evitare il ballottaggio in alcune città, dimostrando che in realtà urbane complesse la capacità di attrarre voti oltre le tradizionali basi elettorali può fare la differenza. Anche in comuni come Giugliano, la presenza di Italia Viva ha accompagnato la vittoria del candidato di centrosinistra.

La partecipazione di Italia Viva alle elezioni locali e regionali dal 2020 a oggi racconta una storia di alleanze in evoluzione. Il partito di Renzi è stato spesso parte della coalizione vincente, anche se non sempre in modo decisivo, e ha dimostrato di poter essere un tassello utile per il centrosinistra, soprattutto nelle città dove la competizione elettorale si fa più serrata.

Le ragioni strategiche che guidano l’alleanza tra Italia Viva e il centrosinistra

Ricerca di rilevanza e uscita dalla marginalità politica: Dopo i risultati elettorali deludenti e la crescente marginalizzazione, Italia Viva ha bisogno di alleanze per mantenere visibilità e influenza. Un accordo con il centrosinistra rappresenta una via per tornare a contare nel panorama politico italiano, soprattutto in vista di sfide elettorali decisive.

Obiettivo di costruire un’alternativa al centrodestra: Italia Viva, come altre forze di opposizione, mira a costruire una coalizione sufficientemente ampia e credibile per sfidare la destra al governo. L’alleanza con il centrosinistra è vista come un passo necessario per offrire una proposta unitaria e attrattiva agli elettori, soprattutto nei collegi marginali dove pochi voti possono fare la differenza.

Superamento dei veti e delle divisioni interne: I leader di Italia Viva insistono sulla necessità di dialogare e costruire progetti condivisi, superando le barriere ideologiche e personali che spesso dividono le forze di opposizione. L’inclusione di Italia Viva nella coalizione è considerata un segnale di coesione e serietà politica, fondamentale per conquistare la fiducia degli elettori.

Riconoscimento del valore aritmetico e strategico: Italia Viva, seppur minoritaria, può essere determinante in alcuni contesti elettorali, soprattutto nelle città e nelle regioni dove la competizione è serrata e pochi punti percentuali possono decidere l’esito del voto. Matteo Renzi sottolinea spesso che anche un 2-3% può essere decisivo nei collegi marginali.

Ricerca di una nuova identità riformista e moderata nel centrosinistra: Italia Viva aspira a essere il traino di una ricostruzione del centro-sinistra, attirando quell’elettorato moderato e riformista che non si riconosce nei toni più radicali di altre componenti della coalizione. Questa prospettiva è vista come una fase costituente per rilanciare il centrosinistra e offrire un’alternativa credibile al centrodestra.

L’analisi della situazione

Come abbiamo potuto vedere dai dati, la presenza di Italia Viva spesso si è dimostrata attiva ma poco determinante, con numeri sempre minoritari e con una marginalità dei dati grave.

L’alleanza con il centro sinistra dimostra anche però che la vittoria è più aritmetica che politica, se si mettono insieme tutte le varianti politiche si raccoglie un successo ma non una coesione politica. L’avversione del Movimento 5 Stelle per Italia Viva ha portato spesso a divisioni, liti e incapacità di agire politicamente come un gruppo coeso.

L’essere presente non sempre ha aggiunto valore, come in Emilia Romagna. Il problema più grande del centro sinistra in questo momento pare non avere una propria identità, perché, come anche ha evidenziato l’elezione del sindaco di Genova, l’entrata in campo di Italia Viva non ha aggiunto quasi nessun voto alla coalizione che l’aveva esclusa nel 2024 nelle regionali.

Forse il problema principale è che i partiti pensano a vincere e non a convincere.

G7 in Canada: tra tensioni e speranze di dialogo

I leader del G7 si riuniscono nella località montana di Kananaskis, nelle Canadian Rockies, a circa 90 chilometri a ovest di Calgary, per un summit che si annuncia già come uno dei più delicati degli ultimi anni. Al centro dell’attenzione, oltre alle crisi internazionali che agitano il Medio Oriente e l’Ucraina, c’è la presenza di Donald Trump, presidente degli Stati Uniti, che rischia di catalizzare tensioni e divisioni tra i partner occidentali.

Le priorità di Carney e l’ombra di Trump

Il primo ministro canadese Mark Carney ha dichiarato di voler puntare su tre obiettivi principali: rafforzare la pace e la sicurezza, costruire catene di approvvigionamento di minerali critici e promuovere la creazione di posti di lavoro. Tuttavia, queste priorità rischiano di essere oscurate dalle questioni più urgenti e divisive, come i dazi imposti dagli Stati Uniti e la gestione dei conflitti in Medio Oriente e Ucraina.

La presenza di Trump rappresenta una variabile imprevedibile: il presidente americano, noto per il suo approccio diretto e spesso provocatorio, ha già in passato sconvolto i vertici del G7, come accaduto nel 2018, quando lasciò il summit canadese prima della conclusione, definendo l’allora primo ministro Justin Trudeau “molto disonesto e debole” e ordinando alla delegazione statunitense di ritirare il sostegno al comunicato finale.

Il vertice arriva in un momento di estrema incertezza. Giovedì scorso, Israele ha lanciato una serie di attacchi contro l’Iran, colpendo duramente gli sforzi diplomatici per evitare un’escalation militare. Il conflitto in Medio Oriente è diventato così un altro punto di frizione tra gli alleati, con il Regno Unito che ha già annunciato l’invio di supporto militare nella regione. Il premier britannico Keir Starmer, in viaggio verso il Canada, ha sottolineato la necessità di de-escalation, ma ha anche riconosciuto il diritto di Israele a difendersi.

Anche la guerra in Ucraina rimane un tema centrale, con il presidente Volodymyr Zelenskyy presente al summit e atteso un faccia a faccia con Trump, dopo il loro precedente incontro controverso alla Casa Bianca.

Il ruolo di Giorgia Meloni e la posizione italiana

La presidente del Consiglio Giorgia Meloni è arrivata a Kananaskis con l’obiettivo di rafforzare il profilo internazionale dell’Italia e portare al tavolo le priorità nazionali, a partire dalla gestione dei flussi migratori e dalla sicurezza. Meloni introdurrà la sessione dedicata alle “comunità sicure”, puntando a valorizzare l’approccio italiano basato su partenariati con i Paesi africani, accordi bilaterali per il controllo delle partenze e investimenti mirati alla stabilizzazione delle aree di origine, in continuità con il Piano Mattei. L’Italia, inoltre, ha avviato una coalizione G7 contro il traffico di migranti, sostenuta da Stati Uniti e Regno Unito, che punta sulla cooperazione in ambito di intelligence e sul sequestro dei proventi illeciti.

Meloni si propone come ponte tra l’amministrazione Trump e il resto dell’Europa, cercando di mediare sulle questioni dei dazi e di mantenere un profilo credibile sia verso Washington sia verso Bruxelles. Prima della partenza per il Canada, la premier ha tenuto consultazioni con i ministri e i vertici dell’intelligence, oltre a colloqui telefonici con Trump, il cancelliere tedesco Friedrich Merz e la presidente della Commissione europea Ursula von der Leyen, dimostrando l’attenzione italiana verso la diplomazia multilaterale e la ricerca di soluzioni condivise.

La strategia del Canada e il clima del vertice

Il Canada, da paese ospitante, cerca di evitare scontri frontali con Trump, consapevole che ogni parola o gesto del presidente americano potrebbe avere conseguenze imprevedibili. Un esperto di affari internazionali e già consigliere dell’ex premier Justin Trudeau ha dichiarato: “Questo incontro sarà considerato un successo se Donald Trump non avrà un’esplosione che metta sottosopra l’intera riunione. Qualsiasi cosa oltre questo sarà un bonus”.

Un analista di economia internazionale e già funzionario della Casa Bianca ha aggiunto: “Lo scenario migliore è che non ci siano vere e proprie esplosioni alla fine del vertice”.

Un summit senza comunicato finale

Per la prima volta, il Canada ha deciso di rinunciare alla tradizionale dichiarazione congiunta alla fine del summit, una scelta che riflette il clima di divisione e la difficoltà di trovare una posizione comune su questioni come i dazi e le crisi internazionali. Saranno invece diffuse sette dichiarazioni brevi, ciascuna relativa a uno dei temi chiave: finanziamento dello sviluppo, intelligenza artificiale, tecnologie quantistiche, contrasto agli incendi, minerali strategici, repressione transnazionale e lotta al traffico di migranti.

Il G7 2025 si apre dunque all’insegna della cautela e della speranza di evitare scontri, ma con la consapevolezza che la presenza di Trump e le crisi globali potrebbero riscrivere gli equilibri e le dinamiche del summit. La posta in gioco è alta: non solo la coesione tra alleati, ma anche la capacità di affrontare insieme le sfide più urgenti del pianeta. Il ruolo dell’Italia, in questa cornice, si conferma centrale per la mediazione e la ricerca di soluzioni pragmatiche ai grandi dossier internazionali.

Israele decapita la mente atomica dell’Iran

Nove nomi. Nove bersagli. Nove eliminazioni simultanee. Con l’operazione Rising Lion, Israele ha colpito il cuore scientifico del programma nucleare iraniano. Non depositi, non centrifughe: le menti. Tutti gli esperti considerati essenziali per la costruzione di una bomba atomica sono stati uccisi tra giovedì e venerdì notte in una serie di raid chirurgici condotti nei pressi di Teheran e in altri siti sensibili del Paese.

Le vittime non sono figure secondarie. Si tratta di scienziati di primissimo livello: ingegneri nucleari, fisici teorici, specialisti in arricchimento dell’uranio. Nomi che fino a ieri rappresentavano l’élite tecnica della Repubblica islamica. Alcuni erano considerati gli eredi diretti di Mohsen Fakhrizadeh, l’architetto del programma atomico iraniano ucciso nel 2020.

L’elenco, reso pubblico direttamente dalle forze armate israeliane, include tra gli altri Fereydoun Abbasi, già a capo dell’Organizzazione per l’Energia Atomica dell’Iran e sopravvissuto a un attentato nel 2010. Ogni bersaglio è stato localizzato con estrema precisione, raggiunto nei suoi alloggi e ucciso in operazioni parallele. Nessuno è sopravvissuto.

Secondo fonti militari, l’eliminazione coordinata dei nove scienziati ha richiesto un anno di sorveglianza e raccolta di intelligence. Il risultato: la completa rimozione del team tecnico in grado di portare l’Iran alla costruzione di un ordigno nucleare operativo. «Il danno inflitto alla capacità del regime è incalcolabile», ha dichiarato un portavoce dell’esercito israeliano.

L’attacco rappresenta un salto di livello nella guerra ombra tra Israele e Iran. Non più singoli sabotaggi o misteriosi incidenti: stavolta è stato un colpo diretto, frontale, alla componente umana del progetto nucleare. Israele non ha colpito solo infrastrutture, ma l’intera architettura intellettuale che poteva trasformare uranio arricchito in una bomba.

Il messaggio è chiaro: non è solo la tecnologia ad essere sotto attacco, ma chi la rende possibile. E per Teheran, la ricostruzione del know-how scientifico potrebbe richiedere anni. Sempre che ci sia ancora tempo.

Israele contro l’Iran: attacco al cuore del nucleare

L’alba del conflitto diretto tra Israele e Iran potrebbe essere già cominciata, non con una dichiarazione ufficiale di guerra, ma con una serie di attacchi chirurgici, tecnologicamente sofisticati e politicamente incendiari. Per la prima volta, Israele ha sferrato un’offensiva coordinata e simultanea contro i tre principali siti nucleari iraniani: Natanz, Isfahan e Fordow. Un’operazione di precisione, dal potenziale devastante, che ha segnato un punto di svolta nello scontro tra due potenze regionali ormai apertamente in rotta di collisione.

Dietro l’azione militare, l’obiettivo – esplicito – è stato uno solo: rallentare, se non disintegrare, il controverso programma nucleare iraniano, che secondo l’intelligence israeliana è ormai prossimo alla realizzazione di un’arma atomica. “Siamo a un punto chiave: se non ci riusciamo, non avremo modo di impedire all’Iran di sviluppare armi nucleari che minacceranno la nostra esistenza”, ha dichiarato senza mezzi termini il ministro della Difesa israeliano, Israel Katz. Parole che suonano come una giustificazione premeditata a un’azione che ha pochi precedenti nella storia recente del Medio Oriente.

L’attacco a Natanz: cuore tecnologico e simbolico del programma nucleare iraniano

Il sito di Natanz è uno dei più noti e sorvegliati dell’Iran. Situato nel centro del Paese, rappresenta il fulcro delle attività di arricchimento dell’uranio, un processo necessario per produrre combustibile nucleare e, in forma più avanzata, materiale da bomba.

Secondo fonti israeliane e statunitensi, l’attacco ha avuto un successo significativo. Due funzionari americani, citati dalla CNN, parlano di un’operazione estremamente efficace: l’infrastruttura elettrica che alimenta le centrifughe sotterranee sarebbe stata completamente distrutta, lasciando al buio i livelli inferiori dove si svolgono le operazioni più sensibili. Un colpo strategico, perché molte strutture di Natanz sono fortificate e interrate: colpirle direttamente è difficile, ma interromperne l’alimentazione elettrica equivale a paralizzarle.

La distruzione ha riguardato anche l’impianto pilota di arricchimento e sei edifici fuori terra. L’AIEA (Agenzia Internazionale per l’Energia Atomica) ha confermato che l’impianto ha subito danni importanti e che all’interno si registrano contaminazioni radiologiche e chimiche. Tuttavia, l’agenzia ha rassicurato sull’assenza di impatti radioattivi esterni al sito. Nonostante questo, la morte di nove esperti nucleari iraniani è stata confermata da Teheran, che però minimizza i danni e mantiene la linea ufficiale: il programma è pacifico e sotto supervisione internazionale.

L’azienda statunitense Umbra ha fornito immagini radar che mostrano chiaramente la portata dei danni: colonne di fumo nero si alzano da più punti, mentre altre foto satellitari analizzate da esperti indicano una distruzione sistematica delle infrastrutture energetiche e logistiche.

Isfahan: la complessità di una struttura multidisciplinare

Se Natanz è il braccio operativo, Isfahan può essere considerato il cervello del programma nucleare iraniano. Qui si concentra la ricerca scientifica, lo sviluppo delle tecnologie e la produzione di combustibile.

Il sito è stato colpito duramente, almeno secondo le fonti israeliane. Un funzionario dell’IDF (Forze di Difesa Israeliane) ha dichiarato durante un briefing che “i danni sono stati ingenti”, sostenendo di avere prove concrete del fatto che l’Iran stesse “procedendo verso una bomba nucleare” proprio attraverso questo impianto.

L’Iran ha invece dichiarato che i danni sono stati limitati, che le attrezzature principali erano già state spostate prima dell’attacco, e che solo un capannone è andato a fuoco. Nessun rischio di contaminazione, secondo Teheran. Tuttavia, le dimensioni del sito e la sua importanza strategica lasciano intendere che anche un danno parziale possa avere effetti rilevanti.

Costruito con l’aiuto della Cina e operativo dal 1984, Isfahan è il più grande centro di ricerca nucleare del Paese. Ospita tre reattori forniti da Pechino, un impianto di conversione dell’uranio, uno per la produzione di combustibile, un centro di rivestimento in zirconio e numerosi laboratori. Ci lavorano circa 3.000 scienziati. L’organizzazione Nuclear Threat Initiative, tra le più autorevoli in materia, sospetta che proprio qui sia situato il cuore scientifico del programma nucleare iraniano.

Fordow: il bunker tra le montagne

Il terzo bersaglio dell’offensiva è Fordow, il sito più misterioso e inaccessibile. Situato nei pressi di Qom e protetto dalle montagne, è un impianto sotterraneo costruito per resistere ad attacchi aerei. Qui si arricchisce uranio ad altissima purezza, in alcuni casi vicino all’83,7%, secondo quanto rilevato dall’AIEA nel 2023. Livelli che si avvicinano pericolosamente al 90%, la soglia per uso militare.

Israele ha provato a colpire anche Fordow, ma secondo l’AIEA il sito non ha subito danni. Le forze iraniane hanno dichiarato di aver abbattuto un drone israeliano nei pressi della struttura. L’IDF non ha rivendicato danni diretti.

Secondo James M. Acton, esperto del Carnegie Endowment for International Peace, Fordow è il vero ago della bilancia. Se resterà operativo, l’intero attacco israeliano rischia di non alterare sostanzialmente il progresso dell’Iran verso la bomba. Acton ipotizza che Israele potrebbe tentare di far crollare gli ingressi della struttura, ma distruggere l’impianto nel suo complesso richiederebbe capacità belliche ben superiori.

Israele cambia strategia: dal contenimento all’attacco diretto

Per anni Israele ha adottato una strategia di contenimento: colpire indirettamente, sabotare, rallentare. Attacchi informatici, eliminazioni mirate di scienziati, pressioni diplomatiche. Ma il salto di qualità è evidente: ora si passa all’attacco diretto.

Secondo Israele, i negoziati internazionali sul nucleare si sono dimostrati inefficaci, e il tempo è scaduto. Il programma nucleare iraniano è avanzato, capillare, distribuito su più siti e dotato di fortificazioni difficili da penetrare. Di fronte a questo scenario, l’azione militare è diventata, per Tel Aviv, una scelta obbligata.

L’Iran, dal canto suo, continua a dichiarare che il proprio programma ha scopi esclusivamente civili. Ma le prove tecniche, i livelli di arricchimento dell’uranio e le strutture segrete alimentano sospetti sempre più solidi.

L’entità reale dei danni – al di là delle dichiarazioni ufficiali – emergerà solo con il tempo. Ma gli effetti politici sono già evidenti. L’equilibrio del Medio Oriente è più fragile che mai. Le reazioni internazionali sono ancora contenute, ma l’ombra di un conflitto aperto incombe.

Israele ha alzato la posta. L’Iran dovrà decidere se rispondere militarmente o giocare la carta della diplomazia. Nel frattempo, la comunità internazionale si trova di fronte a una scelta complessa: rimanere spettatrice o intervenire per evitare che una guerra silenziosa diventi una guerra totale.

Attacco di Israele all’Iran: una notte di fuoco che rischia di cambiare il Medio Oriente

Alle prime luci di venerdì 13 giugno 2025, il Medio Oriente si è svegliato alle prese con una delle crisi più gravi degli ultimi decenni. Israele ha portato a termine un’operazione militare su vasta scala contro l’Iran, colpendo decine di obiettivi strategici nel cuore del Paese persiano. L’attacco, denominato “Operation Rising Lion”, è stato definito dal governo di Gerusalemme come un intervento preventivo necessario per bloccare lo sviluppo di armi nucleari da parte di Teheran. Le esplosioni hanno squarciato la notte a Teheran, Isfahan, Khondab e Khorramabad, mentre il mondo si interroga sulle conseguenze di una mossa che rischia di innescare una spirale di violenza senza precedenti.

Il racconto della notte si snoda tra sirene di allarme, ordini di evacuazione e una tensione palpabile che si respirava già da giorni nelle capitali mediorientali. Secondo fonti israeliane, oltre 200 aerei da guerra hanno sganciato più di 330 munizioni su circa 100 obiettivi, tra cui impianti nucleari, installazioni militari e residenze di alti ufficiali e scienziati iraniani. Il Mossad, il servizio segreto israeliano, avrebbe condotto anche operazioni di sabotaggio contro le difese aeree e l’infrastruttura missilistica del nemico, rendendo ancor più difficile la risposta iraniana. L’obiettivo dichiarato era quello di impedire all’Iran di produrre fino a 15 testate nucleari in pochi giorni, una minaccia che secondo l’intelligence israeliana sarebbe stata imminente.

A Teheran, la popolazione si è svegliata nel caos. Le esplosioni hanno colpito diversi quartieri residenziali, oltre a basi militari e centri di comando strategici. Tra le vittime di rilievo, il comandante dei Guardiani della Rivoluzione, Hossein Salami, e il capo di stato maggiore delle Forze Armate, Mohammad Bagheri, entrambi uccisi negli attacchi.

Anche Gholamali Rashid, comandante del Quartier Generale Khatam al-Anbiya, e Fereydoon Abbasi, ex capo dell’Organizzazione per l’Energia Atomica iraniana, sono morti negli scontri. Non è stato risparmiato neppure il mondo accademico: Mohammad Mehdi Tehranchi, fisico nucleare e presidente dell’Università Azad, è rimasto ucciso. Ali Shamkhani, ex capo del Consiglio Supremo di Sicurezza Nazionale e consigliere del leader supremo, sarebbe stato gravemente ferito, anche se alcune fonti riportano la sua morte.

La reazione del leader supremo iraniano, Ali Khamenei, non si è fatta attendere. In un messaggio trasmesso dalle televisioni di Stato, Khamenei ha promesso una “punizione amara e dolorosa” a Israele, definendo l’attacco un atto di aggressione che non resterà impunito. Le forze armate iraniane sono state messe in stato di massima allerta e si attende una rappresaglia con missili e droni. Nel frattempo, le strade di Teheran sono state presidiate da unità militari e paramilitari, mentre la popolazione è stata esortata a rimanere in casa.

Israele, dal canto suo, ha reagito con una chiusura totale delle frontiere. Il Primo Ministro Benjamin Netanyahu ha dichiarato che l’operazione continuerà “per tutti i giorni necessari” per eliminare la minaccia nucleare iraniana. Lo Stato ebraico è stato messo in stato di emergenza nazionale, con sirene di allarme attivate in tutto il territorio e la chiusura dell’aeroporto Ben Gurion di Tel Aviv. Le scuole sono state chiuse e i cittadini sono stati invitati a restare in casa, mentre le forze armate israeliane sono schierate lungo i confini in attesa di una possibile risposta iraniana.

La comunità internazionale ha reagito con preoccupazione. Gli Stati Uniti hanno chiarito di non essere coinvolti nell’attacco e hanno esortato tutte le parti a evitare un’ulteriore escalation. Numerosi Paesi, tra cui Francia, Germania e Regno Unito, hanno espresso preoccupazione per il rischio di una guerra su larga scala e hanno chiesto la de-escalation. L’ONU ha convocato una riunione d’urgenza del Consiglio di Sicurezza, mentre i mercati finanziari hanno registrato un crollo delle borse asiatiche ed europee.

La notizia dell’attacco ha dominato i notiziari di tutto il mondo, con agenzie di stampa e reti televisive che hanno trasmesso immagini di esplosioni, edifici in fiamme e ambulanze che sfrecciavano per le strade di Teheran. I social media sono stati inondati di video e testimonianze di cittadini iraniani, che raccontavano il panico e la paura di quella notte. Molti hanno espresso rabbia e incredulità, chiedendo giustizia e una risposta decisa da parte del governo.

Il conflitto tra Israele e Iran non è una novità. Da anni i due Paesi si fronteggiano in una guerra fredda fatta di attacchi cibernetici, sabotaggi e operazioni segrete. Ma l’attacco di oggi rappresenta un salto di qualità, con una escalation militare che non ha precedenti negli ultimi decenni. Le tensioni erano già alte da mesi, dopo che l’Iran aveva annunciato di aver raggiunto un livello avanzato nello sviluppo di armi nucleari. Israele, da sempre contrario al programma nucleare iraniano, aveva minacciato più volte un intervento militare se la comunità internazionale non avesse assunto una posizione più dura.

La questione nucleare iraniana è al centro delle preoccupazioni della diplomazia mondiale da anni. Nonostante gli accordi internazionali e le pressioni delle Nazioni Unite, Teheran ha continuato a sviluppare il proprio programma atomico, sostenendo che si tratta di un diritto sovrano e che le sue attività sono esclusivamente pacifiche. Israele e molti Paesi occidentali, però, non hanno mai creduto a queste rassicurazioni e hanno ripetutamente denunciato il rischio di un Iran nucleare. L’attacco di oggi sembra essere la risposta più netta a queste preoccupazioni, ma rischia di aprire una nuova fase di instabilità nel Medio Oriente.

Le conseguenze dell’operazione israeliana sono ancora difficili da valutare. Da un lato, l’Iran potrebbe decidere di rispondere con un attacco su larga scala, scatenando una guerra regionale che coinvolgerebbe anche gli alleati di entrambe le parti. Dall’altro, la comunità internazionale potrebbe intervenire con sanzioni o pressioni diplomatiche per evitare che la situazione degeneri. Intanto, la popolazione civile di entrambi i Paesi si trova a pagare il prezzo più alto, con morti, feriti e un clima di paura che si diffonde rapidamente.

La notizia dell’attacco ha avuto ripercussioni immediate anche sui mercati internazionali. Le borse asiatiche hanno registrato un crollo dei titoli energetici e tecnologici, mentre il prezzo del petrolio è salito alle stelle. Gli investitori temono che un conflitto su larga scala nel Golfo Persico possa interrompere le forniture di greggio e destabilizzare l’economia globale. Anche le compagnie aeree hanno annunciato la sospensione dei voli verso Israele e Iran, mentre molti Paesi hanno invitato i propri cittadini a lasciare la regione.

In Israele, la tensione è palpabile. Le strade di Tel Aviv e Gerusalemme sono quasi deserte, mentre le autorità hanno rafforzato i controlli di sicurezza in tutti i punti nevralgici del Paese. I cittadini sono stati esortati a restare vigili e a seguire le indicazioni delle forze dell’ordine. Molti israeliani hanno espresso solidarietà alle vittime degli attacchi in Iran, ma anche preoccupazione per una possibile escalation che potrebbe coinvolgere direttamente il loro Paese.

In Iran, la situazione è ancora più drammatica. Oltre alle vittime civili e militari, il Paese si trova a dover affrontare una crisi sanitaria e logistica. Gli ospedali di Teheran sono stati invasi da feriti, mentre le autorità hanno dichiarato lo stato di emergenza in diverse province. Le comunicazioni sono state parzialmente interrotte e molti cittadini hanno difficoltà a contattare i propri cari. Le scuole e le università sono state chiuse, mentre le forze di sicurezza pattugliano le strade per evitare disordini.

La reazione internazionale è stata immediata. L’ONU ha convocato una riunione d’urgenza del Consiglio di Sicurezza, mentre i leader mondiali hanno espresso preoccupazione per il rischio di una guerra su larga scala. Il Segretario Generale delle Nazioni Unite ha chiesto a tutte le parti di mostrare moderazione e di evitare ulteriori azioni che possano aggravare la situazione. Anche l’Unione Europea ha condannato l’attacco israeliano, pur riconoscendo la legittima preoccupazione di Israele per la sicurezza nazionale.

La situazione è resa ancora più complessa dalle alleanze regionali. L’Iran può contare sul sostegno di gruppi armati come Hezbollah in Libano e gli Houthi in Yemen, che potrebbero essere coinvolti in una risposta militare contro Israele. Dall’altra parte, Israele gode dell’appoggio degli Stati Uniti e di molti Paesi occidentali, anche se questa volta Washington ha chiarito di non essere coinvolta nell’attacco. La posizione degli Stati Uniti è cruciale: una loro eventuale partecipazione diretta potrebbe trasformare il conflitto in una guerra globale.

Intanto, la diplomazia si muove freneticamente dietro le quinte. Numerosi Paesi hanno avviato contatti bilaterali per cercare di mediare tra le parti e evitare un’ulteriore escalation. La Turchia, la Russia e la Cina hanno espresso preoccupazione per la situazione e hanno offerto la propria mediazione. Anche i Paesi del Golfo, tradizionalmente ostili all’Iran, si sono mostrati cauti, temendo che una guerra regionale possa destabilizzare l’intera area.

La notizia dell’attacco ha sollevato anche interrogativi sul futuro del processo di pace in Medio Oriente. Con la crescente tensione tra Israele e Iran, la possibilità di una soluzione diplomatica al conflitto israelo-palestinese sembra ancora più lontana. I gruppi palestinesi, che da anni guardano all’Iran come a un alleato strategico, potrebbero essere tentati di approfittare della situazione per intensificare la propria azione contro Israele.

Il racconto di questa notte di fuoco non può limitarsi alle cifre e ai nomi dei leader uccisi. Dietro ogni numero c’è una storia, una famiglia, un futuro che rischia di essere cancellato. La cronaca giornalistica ha il dovere di raccontare anche questo, di dare voce a chi non ha voce e di ricordare che la guerra non è mai una soluzione, ma solo una tragedia senza vincitori.

Referendum. Crollo dell’affluenza

Il referendum abrogativo dell’8 e 9 giugno 2025 si è chiuso con un esito chiaro: il quorum non è stato raggiunto e, di fatto, nessuno dei cinque quesiti su lavoro e cittadinanza avrà effetto. L’affluenza si è attestata intorno al 30%, ben al di sotto della soglia del 50% più uno necessaria per la validità della consultazione. In particolare, il dato più alto di partecipazione si è registrato in Toscana, mentre il Trentino-Alto Adige è stato il fanalino di coda.

Dai risultati parziali emerge che il “Sì” ha prevalso largamente sui quattro quesiti sul lavoro, superando l’80% dei voti espressi, mentre per il quesito sulla cittadinanza,  che proponeva di ridurre da 10 a 5 anni il tempo necessario agli stranieri per richiedere la cittadinanza italiana, il “Sì” si è fermato intorno al 60-65%. Uno scarto significativo che riflette una diversa percezione da parte degli elettori rispetto ai temi del lavoro e dell’integrazione.

Le reazioni dei proponenti

Maurizio Landini, segretario generale della Cgil e principale promotore dei referendum, ha ammesso la sconfitta, ma ha sottolineato che l’obiettivo era quello di riportare al centro i diritti e le condizioni lavorative. “Il nostro obiettivo era raggiungere il quorum per cambiare le leggi, questo obiettivo non l’abbiamo raggiunto. Oggi non è una giornata di vittoria. Ma oltre 14 milioni di persone hanno votato: un numero importante, un punto di partenza. Non abbiamo nessuna intenzione di cambiare la nostra strategia”, ha dichiarato Landini.

Pina Picierno, eurodeputata Pd e vicepresidente dell’Eurocamera, ha definito il risultato “una sconfitta profonda, seria, evitabile. Purtroppo un regalo enorme a Giorgia Meloni e alle destre. Ora serve maturità, serietà e ascolto, evitando acrobazie assolutorie sui numeri”.

Le reazioni del No

La maggioranza di governo e i partiti di centrodestra hanno accolto con soddisfazione l’esito del referendum. Giovanbattista Fazzolari, sottosegretario alla Presidenza del Consiglio, ha dichiarato: “Le opposizioni hanno voluto trasformare i 5 referendum in un referendum sul governo Meloni. Il responso appare molto chiaro: il governo ne esce ulteriormente rafforzato e la sinistra ulteriormente indebolita”. Anche il ministro dell’ambiente Gilberto Pichetto Fratin ha sottolineato che “anche il non voto era una scelta di voto, perché io credo che i quesiti sono stati bocciati dalla maggioranza degli italiani”.

Sui social di Fratelli d’Italia è apparso un messaggio netto: “Avete perso: gli italiani vi hanno fatto cadere”. Il senatore Michele Barcaiuolo (FdI) ha aggiunto: “Il dato che emerge dal quesito sulla cittadinanza è politicamente impietoso e certifica il fallimento totale della proposta della sinistra. Gli italiani lo hanno ribadito con chiarezza: la cittadinanza non è un regalo, ma un traguardo che si conquista”.

I temi posti dai referendum restano aperti, ma il confronto politico si sposta ora su altri terreni.

Nomine portuali: il punto sulle scelte del governo Meloni

Il governo Meloni si trova in questi giorni al centro di una delicata e controversa partita sulle nomine dei presidenti delle Autorità di Sistema Portuale (AdSP) italiane. Dopo mesi di stallo e tensioni interne alla maggioranza, la questione è diventata urgente per il settore portuale e logistico nazionale, che chiede a gran voce una governance stabile e competente per affrontare le sfide infrastrutturali e di mercato.

Le procedure di nomina si sono sbloccate solo parzialmente, con alcuni nomi già proposti dal Ministero delle Infrastrutture e dei Trasporti e in attesa di ratifica parlamentare o del via libera definitivo delle Regioni:

  • Antonio Gurrieri (AdSP Mare Adriatico Orientale – Trieste e Monfalcone)
  • Francesco Benevolo (AdSP Adriatico Centro Settentrionale – Ravenna)
  • Francesco Mastro (AdSP Mare Adriatico Meridionale – Bari, Brindisi, Barletta, Manfredonia, Monopoli, Termoli)
  • Giovanni Gugliotti (AdSP Mare Ionio – Taranto)
  • Davide Gariglio (AdSP Mar Tirreno Settentrionale – Livorno, Capraia, Piombino, Portoferraio, Rio Marina, Cavo)
  • Matteo Paroli (AdSP Mar Ligure Occidentale – Genova e Savona)

Alcune di queste nomine hanno già ricevuto il parere favorevole delle Regioni di riferimento, come nel caso di Mastro e Gariglio, mentre altre sono ancora bloccate da trattative politiche e audizioni parlamentari.

Le cause dello stallo: scontri politici e spartizione tra partiti

Il ritardo nelle nomine è dovuto principalmente a un braccio di ferro interno alla maggioranza di governo, in particolare tra Fratelli d’Italia e Lega, che puntano a “mettere la bandierina” sui porti più strategici. La situazione è ulteriormente complicata da:

  • Inchieste giudiziarie (come quella sul porto di Genova), che hanno imposto maggiore cautela nelle scelte.
  • Necessità di allineare le scadenze dei presidenti in carica, per procedere a un rinnovo complessivo e non frammentato.
  • Accuse di spartizione politica e mancanza di competenze specifiche nei candidati, con alcuni nomi considerati troppo vicini a vecchie gestioni o a logiche di partito, e altri che rischiano di non rispettare i requisiti anagrafici previsti dalla legge.

Le principali associazioni del cluster marittimo-portuale (Alis, Ancip, Assiterminal, Assologistica, Confitarma, Federagenti, Uniport) hanno inviato un appello urgente al governo e al ministro Salvini affinché si proceda rapidamente alle nomine, sottolineando come la mancanza di presidenti effettivi stia rallentando opere infrastrutturali e la gestione dei porti.

Per sbloccare la situazione, si valuta la nomina temporanea dei candidati come commissari straordinari, in attesa della ratifica parlamentare.

Le polemiche sulle scelte e il rischio di “resa politica”

Le scelte del governo sono finite nel mirino di stampa e opposizione, che denunciano una “svendita” della governance portuale a logiche di spartizione partitica e la presenza di candidati senza esperienza manageriale portuale o addirittura in conflitto con i limiti di età previsti6. In particolare, viene criticata la conferma o la candidatura di figure considerate troppo legate al passato o a logiche di partito, sia di centrosinistra che di centrodestra.

Esempi di nomine contestate

Porto/AdSPCandidatoCriticità evidenziate
Genova/Savona (Mar Ligure Occ.)Matteo ParoliEsperienza manageriale diretta contestata
Livorno (Mar Tirreno Sett.)Davide GariglioVicinanza a PD, competenze logistiche dubbie
Bari (Adriatico Meridionale)Francesco MastroNomina politica, vicino a Emiliano
Ravenna (Adriatico Centro Sett.)Francesco BenevoloBurocrate ministeriale, critico col centrodestra
Trieste (Adriatico Orientale)Antonio GurrieriLegato a vecchie gestioni di centrosinistra
Napoli/CivitavecchiaAnnunziata/PetriRischio superamento limiti di età

Il dossier nomine portuali rappresenta una delle principali criticità politiche e gestionali per il governo Meloni in queste settimane. La scelta dei nuovi presidenti delle Autorità di Sistema Portuale è bloccata da scontri interni alla maggioranza, accuse di spartizione e timori legati a inchieste giudiziarie. Il settore chiede una rapida soluzione per garantire la piena operatività dei porti, mentre il governo valuta soluzioni-ponte in attesa di un difficile compromesso politico.

Putin, Trump e il Papa: la pace in Ucraina resta lontana

Negli ultimi giorni, il conflitto in Ucraina ha visto un nuovo sviluppo diplomatico di rilievo: Vladimir Putin ha avuto colloqui telefonici sia con il presidente statunitense Donald Trump sia con Papa Leone XIV. Tuttavia, dalle dichiarazioni dei protagonisti emerge chiaramente che una soluzione di pace immediata resta, al momento, fuori portata.

Il colloquio tra Putin e Trump

La telefonata tra Putin e Trump, durata circa un’ora e un quarto, ha avuto come tema centrale l’attacco ucraino alle basi aeree russe che ospitavano bombardieri strategici, avvenuto lo scorso fine settimana. Trump, attraverso un messaggio su Truth Social, ha definito la conversazione “buona”, ma ha sottolineato che non produrrà una pace immediata. I due leader hanno discusso non solo degli attacchi agli aerei russi, ma anche di altre azioni militari compiute da entrambe le parti.

Putin, dal canto suo, ha ribadito la volontà della Russia di rispondere agli attacchi ucraini, mentre Trump ha riconosciuto che la situazione resta estremamente complessa e che il dialogo, per quanto utile, non ha portato a risultati concreti sul fronte del cessate il fuoco.

Il ruolo del Papa e la diplomazia

Parallelamente, Putin ha avuto un primo dialogo con Papa Leone XIV dall’elezione del pontefice. Il presidente russo si è dichiarato favorevole a una soluzione diplomatica del conflitto, ma ha accusato il regime di Kiev di degenerare in un’organizzazione terroristica. Il Papa, pur auspicando una soluzione pacifica, non sembra aver ottenuto aperture significative da Mosca.

Sul fronte ucraino, il presidente Volodymyr Zelensky ha accusato la Russia di utilizzare i colloqui solo per guadagnare tempo ed evitare nuove sanzioni internazionali. Secondo Kiev, Mosca non sarebbe realmente interessata a un cessate il fuoco e starebbe manipolando i negoziati per i propri interessi strategici.

Nel frattempo, la situazione militare resta tesa: l’Ucraina ha rivendicato l’abbattimento di numerosi droni russi e la Gran Bretagna ha annunciato un nuovo pacchetto di aiuti militari, con la fornitura di 100.000 droni entro il 2026. Sul piano diplomatico, Istanbul continuerà a essere la sede dei colloqui tra Russia e Ucraina, anche se la delegazione ucraina accusa Mosca di temporeggiare e di non voler realmente negoziare.

Un piccolo segnale di distensione arriva dall’annuncio di uno scambio di 500 prigionieri per parte previsto per il fine settimana, ma il clima generale resta di profonda sfiducia reciproca e di preparazione a nuovi scontri.

“È stata una buona conversazione, ma non produrrà una pace immediata”, ha dichiarato Trump dopo la telefonata con Putin.

Nonostante i recenti tentativi di dialogo ad alto livello, la guerra in Ucraina sembra destinata a proseguire ancora a lungo. Le posizioni restano distanti: la Russia insiste su una risposta militare agli attacchi ucraini, mentre Kiev chiede un vero cessate il fuoco e il rafforzamento delle sanzioni. La diplomazia internazionale, compresa quella vaticana, fatica a trovare spazi di manovra concreti. La pace, almeno per ora, resta un obiettivo lontano e incerto.