La città sudanese di Al-Fashir, capoluogo del Nord Darfur, è diventata nelle ultime settimane un simbolo vivido dello sfacelo umanitario e della brutalità della guerra civile che dilania il Sudan dal 2023. Le notizie arrivate a fatica da questa città, isolata da un blackout delle comunicazioni e assediata da mesi, hanno provocato un’ondata globale di indignazione e rabbia dopo la conquista da parte delle Rapid Support Forces (RSF), milizia paramilitare protagonista delle peggiori atrocità del conflitto. Secondo molteplici testimonianze, tra il 26 e il 28 ottobre 2025 le RSF hanno compiuto una vera e propria carneficina, con almeno 2.000 civili uccisi, compresi donne, bambini e anziani, molti dei quali falciati mentre cercavano una via di fuga, altri trucidati direttamente in ospedale.
Le immagini satellitari analizzate da istituzioni indipendenti hanno mostrato ammassamenti di cadaveri e vaste aree della città tinte di rosso dal sangue, rendendo drammaticamente visibile una violenza difficilmente documentabile sul campo. Le prove raccolte sul terreno e dallo spazio attestano un’ondata di uccisioni extragiudiziali, con fucilazioni collettive, esecuzioni porta a porta e terrificanti casi di violenza di genere ai danni delle donne e delle ragazze; dettagli che rendono insostenibile qualsiasi narrazione delle RSF secondo cui si sarebbe trattato di semplici operazioni di rastrellamento.
Il tragico capitolo di Al-Fashir si inserisce nella più ampia crisi che attraversa il Sudan da oltre due anni. Il conflitto tra le forze armate regolari (SAF) e le milizie paramilitari delle RSF ha provocato oltre 12 milioni di sfollati, decine di migliaia di vittime e una delle più gravi crisi umanitarie mondiali, con milioni di persone in stato di bisogno immediato secondo le Nazioni Unite. Nei 18 mesi di assedio alla città, RSF e alleati hanno reso impossibile alla popolazione l’accesso a cibo, acqua potabile e medicinali e, nelle ultime settimane che hanno preceduto la caduta, la mancanza assoluta di rifornimenti ha indotto parte degli abitanti a nutrirsi con foraggi destinati agli animali.
Il 27 ottobre 2025 le truppe regolari, ormai stremate, sono state costrette a lasciare la città e il controllo totale è passato alle RSF. Subito dopo la conquista, si sono verificati assalti e rastrellamenti casa per casa, uccisioni arbitrarie di interi nuclei familiari, con particolare brutalità contro i membri delle minoranze etniche che da tempo subiscono discriminazioni e violenze nel Darfur.
Gli sforzi dei volontari della Mezzaluna Rossa e delle ONG umanitarie sono stati vanificati da atti di terrore mirato: operatori sono rimasti uccisi durante i soccorsi, mentre a El-Fashir l’ospedale saudita è stato teatro di esecuzioni di pazienti e personale sanitario.
Organizzazioni internazionali come Human Rights Watch, Amnesty International, la World Health Organization e il Segretario Generale dell’ONU hanno parlato di crimini di guerra e crimini contro l’umanità, esortando la comunità internazionale a intervenire per fermare il massacro.
L’ONU ha espresso “orrore per le raccapriccianti uccisioni di massa a El-Fashir”, chiedendo accesso umanitario immediato e l’apertura di corridoi sicuri per i sopravvissuti, soprattutto donne e bambini.
Dal punto di vista locale, le autorità sudanesi e le amministrazioni regionali del Darfur hanno denunciato che, durante la presa della città, le milizie hanno lanciato una vera e propria campagna di intimidazione etnica, con azioni riconducibili a una pulizia sistematica delle comunità africane non arabe. Le RSF sono accusate anche di rapimenti a scopo di estorsione, saccheggi estesi alle infrastrutture civili e vessazioni sessuali, tutte azioni che violano apertamente il diritto internazionale umanitario.
Le responsabilità dell’attuale tragedia rimandano anche a dinamiche storiche: le RSF, create come evoluzione delle famigerate milizie Janjaweed, già protagoniste del genocidio del Darfur degli anni 2000, sono considerate oggi tra gli attori più potenti e incontrollati della regione, grazie anche al sostegno di attori esterni e all’afflusso di armi da oltre confine. Diverse analisi sottolineano come il controllo della regione di Darfur da parte delle RSF rischi di portare a una definitiva spartizione del Sudan, già segnato dalla secessione del Sud Sudan nel 2011.
Nonostante i tentativi delle RSF di presentare l’offensiva come un’azione legittima contro combattenti nascosti tra la popolazione civile, le prove raccolte da diverse fonti indipendenti mostrano la deliberata esecuzione di civili, compresi ragazzi e pazienti ospedalieri, in una spietata logica della paura. Alcuni sopravvissuti hanno dichiarato che famiglie intere sono state eliminate subito dopo essere state separate per sesso agli improvvisati check-point interni: gli uomini giustiziati e le donne e i bambini lasciati vagare o sottoposti a violenze e sequestri.
Le RSF, pur negando in parte la portata delle atrocità, tramite il loro comandante Mohamed Hamdan Dagalo hanno dovuto ammettere “violazioni” e annunciato la creazione di commissioni interne di inchiesta. Una mossa ritenuta priva di credibilità dagli osservatori internazionali, che sottolineano come tali iniziative tendano solo a stemperare la pressione internazionale senza portare a veri processi di giustizia.
L’impatto umanitario della catastrofe è devastante: oltre 260 mila civili erano rimasti bloccati in città prima della caduta, ridotti allo stremo dalla fame e dalla sete, costretti in molti casi a nascondersi tra le rovine per evitare i rastrellamenti delle milizie. Oltre 36 mila persone hanno tentato di fuggire a piedi verso i centri periferici, mentre il destino di decine di migliaia resta ignoto. Le reti ospedaliere sono state decimate: l’ospedale principale è stato teatro di esecuzioni di almeno 460 tra pazienti e operatori, secondo testimonianze dirette e rapporti incrociati.
Le scene di corpi abbandonati per le strade, le fosse comuni individuate dal satellite e la testimonianza unanime di reporter, Ong e autorità delle Nazioni Unite lasciano pochi dubbi su ciò che è accaduto a El-Fashir. Diplomazie come Egitto, Qatar, Arabia Saudita e Turchia hanno lanciato appelli durissimi, accusando la RSF di genocidio e chiedendo l’immediata cessazione delle ostilità e la protezione dei superstiti.
A livello geopolitico, la comunità internazionale è chiamata ora non solo a fornire soccorso immediato, ma anche a riflettere sulla responsabilità dell’inerzia e sulle conseguenze a lungo termine del collasso sudanese. Il paese rischia di diventare un nuovo epicentro globale della crisi dei rifugiati, una fonte di instabilità per tutto il Sahel e l’Africa centrale e un banco di prova sulla tenuta delle norme internazionali contro la violenza di massa.
Quello che è successo a El-Fashir non è solo un tragico episodio locale ma si impone come parabola di un fallimento globale, in cui la mancanza di risposte efficaci rischia di aprire la strada a nuovi cicli di vendetta, disgregazione e impunità. La memoria di questa tragedia, resa tangibile dalle immagini satellitari e dalle grida dei sopravvissuti, segna una svolta cruda e dolorosa nella storia contemporanea africana.
La comunità Haredi (ebrei ultra-ortodossi) in Israele si trova al centro di una delle più gravi crisi politiche, sociali ed economiche che il paese sta attraversando. La questione del loro arruolamento militare, emersa con forza nella sentenza della Corte Suprema del giugno 2024, minaccia la stabilità del governo Netanyahu e continua a dividere profondamente la società israeliana.
Questa frattura si estende ben oltre la semplice questione militare, interessando l’economia nazionale, il sistema educativo, la composizione demografica del paese e i fondamenti stessi della convivenza civile israeliana.
Dati demografici e crescita della popolazione Haredi
La comunità Haredi rappresenta un fenomeno demografico senza precedenti in Israele. Alla fine del 2024, la popolazione Haredi in Israele conta circa 1,39 milioni di persone, cifra che rappresenta il 13,9% della popolazione totale del paese, dove complessivamente vivono oltre 10 milioni di abitanti. Considerando solo la popolazione ebraica, gli Haredi costituiscono circa il 17,7% di essa.
Ciò che rende ancora più significativo questo dato è il tasso di crescita della comunità Haredi, che è drammaticamente più rapido rispetto al resto della popolazione. Il tasso di crescita naturale annuale degli Haredi è del 4,2%, un valore quasi doppio rispetto all’1,9% della popolazione generale e superiore all’1,4% della popolazione ebraica non-Haredi.
Questa crescita accelerata è principalmente dovuta a un tasso di fertilità estremamente elevato, con una media di circa 6 figli per donna Haredi, cifra che contrasta nettamente con i 2,3 figli delle donne ebree non-Haredi.
Le proiezioni demografiche risultano ancora più drammatiche per il futuro di Israele. Secondo i calcoli governativi, entro il 2030 gli Haredi costituiranno circa il 16% della popolazione totale, raggiungendo i 2,5 milioni di persone. Guardando ancora più avanti, entro il 2065 gli Haredi rappresenteranno tra il 22% e il 32% della popolazione totale israeliana. Questo significa che la comunità Haredi, attualmente una minoranza significativa, potrebbe diventare una quota sostanziale della popolazione nazionale nel corso dei prossimi 40 anni, con tutte le implicazioni che ciò comporta per la struttura sociale, economica e politica del paese.
La crisi giuridica del servizio militare
La sentenza della Corte Suprema e il suo contesto legale
Il 25 giugno 2024, la Corte Suprema israeliana ha emesso una sentenza unanime e di estrema importanza costituzionale, dichiarando definitivamente illegale l’esenzione dal servizio militare per gli studenti delle yeshivot (scuole religiose) Haredi. Questa decisione rappresenta il culmine di una lunga battaglia legale che affonda le sue radici in decenni di controversie sulla questione religione-stato in Israele.
Corte Suprema di Israele
Per comprendere pienamente il significato di questa sentenza, è importante ricordare il contesto storico. Nel 2015, il governo Netanyahu insieme alle fazioni ultra-ortodosse aveva legiferato una modifica alla Legge sulla Sicurezza Militare, che forniva un’esenzione dal servizio per gli studenti delle yeshivot.
Questa legge era però esplicitamente temporanea, concepita per durare solo sette anni. Nel 2017, la Corte Suprema aveva colpito questa disposizione, dichiarandola incostituzionale perché violava il principio di uguaglianza, specialmente in un contesto di guerra. Tuttavia, mantenendo il suo approccio tradizionalmente cautelare in materia di questioni religione-stato, la Corte aveva dato al Knesset (parlamento) l’opportunità di legiferare un nuovo accordo che meglio bilanciasse l’esigenza di uguaglianza. Anno dopo anno, la Corte aveva rinviato il termine, fino a quando nel giugno 2023, in conformità alla scadenza originariamente stabilita dai legislatori stessi, l’esenzione era ufficialmente scaduta.
La sentenza di un anno fa, quindi, rappresentava un approccio giuridico misurato e contenuto. Come nota l’analisi accademica, era semplicemente l’affermazione di un principio di diritto amministrativo elementare: se la legge che concede un’esenzione è scaduta, allora l’esenzione stessa cessa di esistere.
Non era una decisione “attivista” ma piuttosto una logica conseguenza dell’applicazione della legge. La Corte ha inoltre stabilito che, in assenza di una nuova legge specifica che regoli l’esenzione, lo stato deve arruolare i giovani Haredi come tutti gli altri cittadini ebrei israeliani, affermando che “l’esenzione viola il principio di uguaglianza”, specialmente durante il periodo di guerra.
Un aspetto cruciale della sentenza riguardava i finanziamenti pubblici. La Corte ha disposto il blocco dei finanziamenti alle yeshivot (un’istituzione educativa ebraica che si basa sullo studio dei testi religiosi tradizionali, principalmente quello del Talmud e della Torah) i cui studenti rifiutano il servizio militare, eliminando circa 480 milioni di shekel annui di sostegno statale. Questa cifra si traduce in una perdita di circa 9.500 shekel annui per ogni studente Haredi presso un Kollel (yeshiva per uomini sposati). Tale provvedimento mirava a creare incentivi economici reali affinché le istituzioni religiose incoraggiassero l’arruolamento, benché con risultati pratici finora estremamente limitati.
I risultati concreti dell’arruolamento: una frattura tra legge e realtà
Yeshivat Hesder
La distanza tra quanto stabilito dalla sentenza della Corte Suprema e la realtà concreta dell’arruolamento rappresenta una delle crisi più acute del sistema istituzionale israeliano contemporaneo. Nonostante un anno sia passato dal pronunciamento della Corte, i dati sull’effettivo arruolamento di Haredi rimangono estremamente deludenti sia per la magistratura che per i vertici militari.
Secondo i dati ufficiali più recenti disponibili (aggiornati a giugno 2025), l’IDF ha inviato circa 80.000 ordini di chiamata a uomini Haredi tra i 18 e i 26 anni. Tuttavia, della totalità di questi ordini, soltanto 996 persone (appena il 5%) si sono presentate ai centri di reclutamento dell’IDF. Ancora più significativo è il dato sul numero di coloro che sono stato effettivamente arruolati: soltanto 232 persone (equivalente all’1,2% del totale dei convocati) hanno completato il processo di arruolamento e sono state integrate nelle forze armate.
In prospettiva annuale complessiva, nel 2024 si stima che siano stati arruolati complessivamente circa 2.700-2.900 Haredi, una cifra che rappresenta un aumento rispetto alla media storica di 1.800 arruolamenti annui negli anni precedenti, ma comunque drammaticamente insufficiente rispetto agli obiettivi fissati dalla magistratura. Ulteriormente, nel primo anno di applicazione della sentenza, solo circa 2.700 laureati di scuole Haredi sono stati arruolati, cifra inferiore al target minimo di 4.800 che lo stato stesso aveva presentato alla Corte Suprema.
Un dato particolarmente significativo è che nessun procedimento penale è stato finora avviato contro i disertori Haredi, poiché secondo la politica dell’IDF devono passare almeno 18 mesi dalla dichiarazione di diserzione prima di procedere penalmente. Questa finestra temporale consente di fatto ai giovani Haredi di eludere indefinitamente il servizio attraverso meccanismi procedurali.
La ricerca del Centro Israel Democracy Institute ha evidenziato ulteriormente come degli oltre 110.000 Haredi obbligati legalmente al servizio, solo 931 si sono effettivamente arruolati (pari al 2,3%), di cui appena 153 in unità di combattimento (equivalente allo 0,38%). Questo gap colossale tra l’ordine legale e l’implementazione pratica rivela una frattura sistemica tra il potere giudiziario, l’apparato militare, e la comunità Haredi, nonché la riluttanza dello stato ad attuare le misure coercitive necessarie.
L’impotenza dell’IDF nel contesto della sentenza
Un aspetto particolarmente illuminante emerge dalle comunicazioni interne del sistema di difesa israeliano. La Corte aveva accettato l’asserzione dello stato secondo cui l’IDF non poteva immediatamente arruolare tutti i 63.000 uomini Haredi idonei al servizio. Pertanto, aveva concordato su un obiettivo iniziale di 4.800 reclute entro giugno 2025, descritto come una “cifra minima di partenza” che lo stato aveva promesso di aumentare progressivamente. La Corte aveva inoltre considerato tre fattori guida: il principio di uguaglianza (che ha sotteso tutta la decisione), la capacità di assorbimento dell’IDF, e le esigenze di manpower in tempo di guerra.
Haredi protestano contro l’arruolamento
Nel corso del seguente anno, tuttavia, nessuno di questi tre fattori ha mostrato progressi significativi verso l’implementazione del principio di uguaglianza. Al contrario, il carico sostenuto da coloro che continuano a servire, fisicamente, emotivamente ed economicamente, si è intensificato ulteriormente, esponendo con ancora maggiore chiarezza la profonda iniquità della situazione.
Le esigenze di manpower militare si sono anche accresciute a causa dell’attrito nelle forze e delle perdite umane nella guerra di Gaza, portando i vertici militari a richiedere urgentemente l’arruolamento di 12.000 nuove truppe di combattimento e supporto.
D’altro lato, la capacità di assorbimento dell’IDF è effettivamente aumentata nel corso del tempo. Oltre ai 4.800 reclute Haredi che poteva assorbire entro l’estate 2025, l’esercito ha annunciato che avrebbe potuto integrare 5.760 ulteriori reclute nell’anno successivo, e da estate 2026 in avanti, potrebbe assorbire l’intera coorte annuale Haredi, pari a circa 14.500 giovani uomini annualmente. Senza l’esenzione per coloro che raggiungono i 26 anni, il numero totale di Haredi idonei potrebbe raggiungere oltre i 90.000 entro quel termine.
Nonostante questa palese capacità sistemica aumentata e gli imperativi legali e militari crescenti, l’IDF ha implementato un approccio caratterizzato da un rollout lento e incrementale degli ordini di convocazione: partendo con soli 3.000 ordini, e solo raggiungendo 19.000 entro la fine dell’anno, nonostante i vertici militari conoscessero perfettamente dall’inizio che il tasso di conformità sarebbe stato minimo. In riunioni di revisione successive, gli ufficiali dell’IDF hanno esplicitamente riconosciuto di non aspettarsi nessun miglioramento senza l’implementazione di gravi sanzioni contro i disertori della leva o senza interventi dalla leadership ultra-ortodossa.
Sette riunioni di follow-up sono state convocate per monitorare l’implementazione della sentenza, organizzate dal Procuratore Generale e includendo ufficiali dell’Avvocato Militare, funzionari della Direzione Manpower, e rappresentanti dei Ministeri della Giustizia e della Difesa, dell’Autorità Demografica, e della polizia.
Lo stato era inoltre obbligato a riferire alla Corte Suprema molteplici volte nel corso dell’anno. Tuttavia, nessuno di questi meccanismi di supervisione ha condotto a progressi significativi.
Solo dopo un anno di chiaro fallimento nel soddisfare i requisiti legali l’IDF ha cominciato a prepararsi per emettere altri 60.000 ordini di convocazione. Contemporaneamente, ha iniziato a richiedere misure penali individuali più serie, inclusi il raffronto dei tempi tra convocazione e mandato di arresto, la classificazione formale dei disertori della leva come “disertori”, e l’abilitazione ad arresti effettivi presso l’Aeroporto Ben Gurion e attraverso operazioni di polizia.
La “Marcia del Milione” del 30 ottobre 2025
Il 30 ottobre 2025, centinaia di migliaia di ebrei ultra-ortodossi hanno organizzato quello che è stato formalmente denominato la “Marcia del Milione” all’ingresso di Gerusalemme, nella zona occidentale della città, rappresentando una delle più grandi manifestazioni religiose nella storia dello stato di Israele. Questa protesta straordinaria rivela la profondità della determinazione Haredi di resistere all’arruolamento e il potere mobilitativo della comunità religiosa quando unita su una questione di princìpi.
Haredi durante la marcia del milione
La manifestazione ha avuto un impatto logistico e infrastrutturale massivo. Ha comportato la paralisi della città di Gerusalemme, con la chiusura dell’Autostrada 1 (la principale arteria di trasporto del paese che collega Tel Aviv a Gerusalemme), la sospensione dei servizi ferroviari regionali e nazionali, e la chiusura anticipata di scuole in tutta l’area metropolitana. I vertici delle forze di polizia israeliane hanno dovuto dispiegare risorse significative per gestire il flusso di centinaia di migliaia di manifestanti convergenti nella capitale.
I manifestanti, composti prevalentemente da uomini (una conseguenza delle rigide regole di modestia sessuale Haredi che vietano la mescolanza tra sessi in contesti pubblici), portavano cartelli e scandivano slogan con messaggi estremamente forti.
Molti recavano insegne che equiparavano il governo israeliano a regimi totalitari, con scritte come “Russia è qui”, “Stalin è qui”, e altre frasi di paragone storico che comunque riflettevano la resistenza totalitaria della comunità. Lo slogan principale scandito era “Preferiamo la prigione all’esercito”, un’affermazione di principio religiosa secondo cui il servizio militare costituirebbe un’apostasia dalle osservanze religiose e dagli insegnamenti del Judaism ortodosso.
Durante la manifestazione si sono verificati episodi di violenza e tragedia. Alcuni incidenti hanno visto la ricerca da parte di manifestanti di confrontare fisicamente i giornalisti, con aggressioni nei confronti della stampa che tentava di coprire gli eventi. Un tragico incidente ha segnato la giornata quando un giovane maschio, un ragazzo di soli 15 anni, è morto dopo aver perso l’equilibrio e caduto dal 20° piano di un edificio in costruzione dove lui e altri giovani manifestanti si erano arrampicati, apparentemente per ottenere una migliore prospettiva sulla folla di manifestanti sottostante.
Le interruzioni durante i procedimenti giudiziari
La determinazione della resistenza Haredi al servizio militare si è manifestata anche all’interno delle aule dei tribunali. Durante un’audizione della Corte Suprema il 28 ottobre 2025 in cui la Corte deliberava ulteriormente sulla questione dell’arruolamento obbligatorio giovani uomini Haredi hanno fatto irruzioni drammaticamente nell’aula dove i magistrati stavano deliberando. Scandivano frasi radicali come: “Siamo orgogliosi di disertare, arrestateci – moriremo ma non ci arruoleremo” e formule di paragone storico come “Abbiamo superato Hitler, supereremo anche voi”, lanciando insulti ai giudici. Questi episodi hanno rappresentato una sfida diretta all’autorità giudiziaria e un’affermazione della determinazione Haredi di non piegarsi agli ordini legali.
L’impatto economico della bassa partecipazione al mercato del lavoro
La comunità Haredi si caratterizza per tassi di partecipazione estremamente ridotti al mercato del lavoro, specialmente fra gli uomini, con significative differenze di genere che riflettono le strutture patriarcali del judaismo ultra-ortodosso. I dati occupazionali più recenti mostrano questa frattura nettamente.
Per quanto riguarda gli uomini Haredi, il tasso di occupazione nel 2024 era del 54%, rappresentando in realtà un lieve calo rispetto al 55,5% registrato nel 2023. Questo contrasto drammaticamente con il tasso di occupazione del 87% degli uomini ebrei non-Haredi della stessa fascia di età e demografica.
Questa differenza di 33 punti percentuali rivela il ruolo profondo del fattore religioso nell’esclusione dal mercato del lavoro, poiché la dedizione allo studio della Torah rimane il valore centrale per molti uomini Haredi in età lavorativa.
La situazione è radicalmente diversa per le donne Haredi. I tassi di occupazione femminili Haredi nel 2023 si attestavano all’81%, cifra che rappresenta un andamento positivo ascendente da quando i registri cominciano, partendo da un 71% nel 2015. Questo tasso di occupazione femminile Haredi è quasi completamente allineato con quello delle donne non-Haredi, che raggiunge l’83%.
La spiegazione di questa differenza tra generi emerge dal sistema di valori Haredi: mentre gli uomini sono incoraggiati a dedicare la vita allo studio della Torah (e spesso ricevono stipendi o assegni dalle comunità religiose per farlo), le donne sono essenzialmente incoraggiate al lavoro per provvedere economicamente alle famiglie, specialmente quando il marito è impegnato negli studi religiosi. Questo rappresenta un ulteriore strato di iniquità economica e di genere all’interno della comunità.
Il carico fiscale aggiuntivo sui lavoratori non-Haredi
Uno dei risultati più significativi della ricerca dell’Israeli Democracy Institute riguarda il calcolo del carico fiscale aggiuntivo sostenuto dai lavoratori non-Haredi per compensare la bassa contribuzione fiscale della comunità Haredi. Questo fornisce un indicatore diretto e quantificabile di come l’attuale struttura economica favorisca sistematicamente una parte della popolazione a spese di un’altra.
Nel 2025, i dati calcolano che ogni lavoratore non-Haredi dovrà pagare complessivamente NIS 3.540 (circa 1.000 dollari USA) in tasse aggiuntive come conseguenza diretta della bassa partecipazione della comunità Haredi al mercato del lavoro. In altre parole, se la comunità Haredi partecipasse al lavoro con tassi identici ai non-Haredi, il totale delle tasse che i lavoratori non-Haredi dovrebbero versare diminuirebbe di NIS 3.540 per persona annualmente. Proiettando il trend, questa cifra di carico fiscale aggiuntivo è prevista raggiungere NIS 11.266 (circa 3.200 dollari) per ogni lavoratore non-Haredi entro il 2048, assumendo che gli attuali trend demografici e di mercato del lavoro continueranno.
Questo rappresenta un aumento di oltre il 200% nel carico fiscale aggiuntivo nel corso di un periodo di soli 23 anni, evidenziando come l’esplosione demografica Haredi, combinata con la bassa occupazione, creerà una crisi fiscale crescente per il resto della società israeliana.
Contribuzione fiscale complessiva della comunità Haredi
I dati sulla contribuzione fiscale assoluta della comunità Haredi ai bilanci pubblici israeliani sono particolarmente illuminanti e rivela un’asimmetria profonda tra popolazione e contributo economico. Nel 2023, secondo il rapporto dell’Israeli Democracy Institute, ogni individuo Haredi ha pagato soltanto il 28% delle tasse dirette pagate da un individuo non-Haredi.
Tradotto in termini aggregati, sebbene gli Haredi costituissero il 14% della popolazione in età lavorativa, essi hanno contabilizzato soltanto il 4% dei complessivi introiti fiscali nazionali.
Guardando al futuro demografico che sia le agenzie governative che gli istituti di ricerca prevedono, questi numeri diventano ancora più preoccupanti. Se i trend attuali persisteranno, entro il 2048 gli Haredi costituiranno circa un quarto della popolazione ebraica in età lavorativa, ma contribuiranno soltanto all’8% dei complessivi introiti fiscali diretti. Questo significa che tra circa 23 anni, una popolazione che rappresenterà il 25% della forza lavoro contribuirà solo per il 8% agli introiti fiscali totali, generando uno squilibrio economico crescente e insostenibile.
Dettaglio per genere e categoria di reddito
L’analisi dei dati fiscali disaggregati per genere fornisce ulteriore comprensione della dinamica economica della comunità Haredi. Complessivamente, soltanto il 23% degli Haredi uomini e donne paga l’imposta sul reddito, una cifra straordinariamente bassa se comparata al 62% dei non-Haredi uomini e al 46% delle donne non-Haredi.
Concentrandosi sugli uomini Haredi, il quadro è ancora più drammatico: solo il 23% degli uomini Haredi complessivamente paga imposta sul reddito, contro il 62% degli uomini non-Haredi. Persino tra le donne Haredi impiegate (che nel complesso mostrano alti tassi di occupazione), solo il 28% di coloro che lavorano raggiunge la soglia minima di reddito per il pagamento dell’imposta sul reddito. Anche il 46% delle donne non-Haredi paga imposta sul reddito, più del doppio del tasso per le donne Haredi.
Un fattore chiave che spiega questi bassissimi tassi di contribuzione fiscale è il sistema di crediti fiscali familiari destinati ai nuclei con molti dipendenti. Poiché le famiglie Haredi hanno una media di 6 figli per donna (rispetto ai 2,3 dei non-Haredi), ricevono importanti crediti fiscali che riducono o azzerano l’imposta che dovrebbero pagare. In aggiunta, il 54% dei benefici sociali forniti dallo stato agli Haredi (sotto forma di sussidi per l’infanzia, sconto sui trasporti, sconti fiscali municipali, e contributi ridotti all’assicurazione nazionale) non sono contabilizzati come reddito ai fini fiscali, ulteriormente riducendo l’imponibile delle famiglie Haredi.
Scenario di integrazione economica totale della comunità Haredi
Per comprendere il potenziale economico di una più ampia integrazione della comunità Haredi nel mercato del lavoro, l’Israeli Democracy Institute ha condotto simulazioni che calcolano quale sarebbe l’impatto economico se gli Haredi partecipassero al lavoro con tassi identici ai non-Haredi. I risultati sono economicamente significativi.
Se la comunità Haredi integrata completamente nel mercato del lavoro con i medesimi tassi di occupazione, livelli di reddito e ambito lavorativo dei non-Haredi, l’economia israeliana guadagnerebbe NIS 9,5 miliardi (circa 2,6 miliardi di dollari USA) in introiti fiscali diretti supplementari nel 2025. Questo importo non è triviale—rappresenta circa il 4-5% del bilancio governativo annuale.
Ancora più significativo è il fatto che questa cifra è prevista lievitare a NIS 44,6 miliardi (circa 12,6 miliardi di dollari USA) entro il 2048, assumendo che la comunità Haredi raggiunga il 25% della popolazione in età lavorativa. Questo significherebbe che l’integrazione economica della comunità Haredi comporterebbe quasi quintuplicare gli introiti fiscali ottenuti dalla stessa nel corso di 23 anni.
Benefici pubblici ricevuti dalla comunità Haredi
Le donne Haredi sono quasi le uniche che lavorano e mantengono le famiglie
Contrariamente alle affermazioni dei leader Haredi che la loro comunità “non pesa” sulle finanze pubbliche, l’analisi dettagliata dei benefici governativi ricevuti rivela una situazione molto diversa. Secondo i dati del Knesset Research and Information Center, la comunità Haredi gode di una gamma ampia di vantaggi e sussidi governativi che includono tariffe ridotte sui trasporti pubblici, assistenza abitativa, e sconti sulle tasse municipali.
Un aspetto specifico riguarda il sistema di contributi ridotti all’Istituto Nazionale delle Assicurazioni Sociali (National Insurance Institute). A partire da gennaio 2024, circa il 71% di quasi 200.000 Haredi registrati presso istituzioni di Torah hanno versato contributi ridotti all’ente previdenziale nazionale, determinando una perdita annuale di NIS 99,1 milioni (circa 26 milioni di dollari USA) in entrate per l’agenzia di sicurezza sociale. Questo rappresenta un valore di denaro pubblico derivato dalla ridotta contribuzione di un segmento della popolazione, pagato implicitamente da coloro che pagano i contributi integrali.
Secondo l’analisi conservatrice del Kohelet Policy Forum (una fondazione di ricerca di orientamento conservatore), l’80% delle famiglie Haredi riceve dal governo più di quanto paghi in tasse, includendo sia le tasse dirette che quelle indirette. Nel dettaglio, le famiglie Haredi ricevono una media di oltre NIS 4.000 al mese dal governo (sotto forma di sussidi, benefici e servizi), mentre le famiglie non-Haredi versano complessivamente più di NIS 6.000 nel sistema (includendo le imposte sui redditi e le imposte indirette su beni e servizi).
La perdita economica dovuta al mancato arruolamento
Un elemento aggiuntivo del carico economico della comunità Haredi riguarda il costo della sua non-partecipazione al servizio militare. Secondo un’analisi interna del Ministero delle Finanze israeliano del 2024 (precedente ai più recenti dati di guerra), anche prima dell’attacco di Hamas del 7 ottobre 2023, la mancata partecipazione della comunità Haredi al servizio militare obbligatorio ha comportato un costo economico significativo all’economia di Israele.
La divisione bilancio del Ministero delle Finanze, citando stime dell’apparato difensivo, ha calcolato che “le attuali esigenze di sicurezza pongono un carico pesante” sui riservisti, determinando un fabbisogno di centinaia di migliaia di loro per servire fino a 60 giorni all’anno. Questo ammonta a un costo approssimativo di circa NIS 30 miliardi (8,2 miliardi di dollari USA) annualmente solo per il pagamento e il mantenimento dei riservisti in servizio aggiuntivo.
In aggiunta, secondo rapporti pubblicati da fonti palestinesi che citano fonti di difesa israeliane, il mancato arruolamento della comunità Haredi è costato all’economia israeliana circa 8,5 miliardi di shekel nella sola seconda metà del 2024, una cifra che probabilmente crescerà ulteriormente considerando la continuazione della guerra di Gaza nel 2025.
Il sistema educativo Haredi e il curriculum di base
Il sistema educativo Haredi rappresenta uno dei fattori cruciali che spiega sia la bassa partecipazione al mercato del lavoro che la resistenza all’integrazione sociale della comunità. Il sistema si caratterizza per un focus quasi esclusivo sullo studio della Torah e dei testi religiosi, a detrimento dello studio di discipline fondamentali necessarie per l’inserimento nel mercato del lavoro moderno e nella società israeliana generale.
Uno dei dati più significativi fornito dall’Israeli Democracy Institute riguarda la distribuzione dei ragazzi Haredi per tipo di scuola. Secondo l’analisi, l’85% dei ragazzi Haredi in età scolastica superiore (high school) studiano in istituzioni religiose completamente esentate dai requisiti del curriculum di base.
Questo significa che una quota preponderante della gioventù maschile Haredi riceve un’educazione concentrata interamente su testi e insegnamenti religiosi, senza una significativa esposizione alle discipline accademiche fondamentali come la matematica, le scienze naturali, l’inglese, e altri saperi critici.
La situazione per le ragazze Haredi è significativamente diversa, riflettendo le diverse norme di genere del judaismo ultra-ortodosso. Secondo i dati, quasi tutte le ragazze Haredi (la stragrande maggioranza) frequentano scuole semi-ufficiali che includono almeno il 75% di studi nel curriculum di base, il che significa una più ampia esposizione a discipline accademiche fondamentali.
Tuttavia, questo non automaticamente si traduce in opportunità lavorative superiori per le donne, poiché solo una minoranza di giovani donne Haredi prosegue verso studi superiori o programmi di formazione che conducono a impieghi ad alto reddito.
Il curriculum di base israeliano e le esenzioni Haredi
Il curriculum di base israeliano, ufficialmente richiesto da legge a tutte le istituzioni scolastiche riceventi finanziamenti pubblici, include un insieme di materie ritenute fondamentali per l’integrazione nella società e nel mercato del lavoro contemporaneo. Queste materie includono matematica, scienze naturali e fisiche, lingua inglese, letteratura ebraica moderna, storia israeliana e generale, geografia, educazione civica e civile, e altre discipline ritenute essenziali.
La realtà nelle scuole Haredi per ragazzi è che la stragrande maggioranza semplicemente non insegna queste materie fondamentali, concentrando l’intero curriculum sullo studio intensivo della Torah (i Cinque Libri) e successivamente del Talmud (commenti legali e discussioni rabbiniche). Il sistema è strutturato in modo che i giovani maschi Haredi vengono immediatamente avviati, già in tenera età, verso uno studio prettamente religioso, con l’idea che questa dedicazione rappresenti il loro contributo alla comunità e alla nazione.
Solo una minuscola percentuale di studenti Haredi frequenta scuole statali Haredi chiamate MaMaH (scuole pubbliche Haredi) che insegnano il curriculum di base completo. I dati suggeriscono che solo tra il 4% e il 7% degli studenti Haredi frequenta queste istituzioni. La stragrande maggioranza rimane nei sistemi scolastici religiosi privati o semi-privati che operano indipendentemente dagli standard educativi statali.
Anche dove il curriculum di base è nominalmente insegnato, la profondità e la qualità rimangono inadeguate. Analisi dettagliate hanno rivelato che nella stragrande maggioranza delle scuole Haredi non viene insegnato affatto l’inglese, una delle discipline ritenute più critiche per l’integrazione nel mercato del lavoro globale contemporaneo. Questo crea un divario educativo incolmabile per i giovani Haredi che desiderano eventualmente integrarsi nell’economia moderna.
L’evasione dei requisiti educativi e la risposta governativa inadeguata
Nonostante i chiara requisiti legali relativi al curriculum di base, le scuole Haredi hanno in gran parte euso o sistematicamente violato questi obblighi senza subire sanzioni significative. Nel 2024, è stato documentato che tra il 30% e il 40% delle scuole Haredi esentate dal Ministero dell’Istruzione non insegna affatto il curriculum di base. Nella stragrande maggioranza delle restanti scuole Haredi, il curriculum è insegnato in modo talmente superficiale da essere considerato ineffettivo.
Una questione particolarmente critica è che il Ministero dell’Istruzione israeliano ha mostrato una riluttanza quasi totale ad applicare sanzioni significative alle scuole Haredi che violano i requisiti educativi. Quando sanzioni vengono applicate, sono tipicamente minime e non raggiungono l’effetto deterrente necessario a indurre il cambiamento.
Un caso emblematico di questa mancanza di applicazione riguarda il 2024. Nonostante che scuole Haredi ricevessero finanziamenti pubblici dal Ministero dell’Istruzione, si è scoperto che molte di queste istituzioni non stavano rispettando affatto i requisiti del curriculum di base a cui erano teoricamente soggette. Particolarmente scioccante è il dato che il Ministero dell’Istruzione ha versato circa 72 milioni di shekel in fondi pubblici nel 2024 a istituzioni educative Haredi che non stavano insegnando il curriculum di base richiesto. Questo rappresenta un uso inappropriato di fondi pubblici, poiché denaro destinato all’educazione viene erogato senza che le condizioni specifiche di insegnamento del curriculum siano soddisfatte.
Conseguenze educative a lungo termine
Le conseguenze di questo deficit educativo sistematico sono significative e durature. La comunità Haredi produce quindi generazioni di giovani uomini con un livello di educazione generale e di alfabetizzazione funzionale al mercato del lavoro significativamente inferiore a quello della popolazione israeliana generale. Questo crea un circolo vizioso: senza accesso a un’educazione che insegni capacità di base e lingue straniere, i giovani Haredi trovano estremamente difficile integrarsi nel mercato del lavoro contemporaneo, il che a sua volta perpetua la dipendenza da sussidi governativi e finanziamenti alle yeshivot.
Inoltre, l’insufficiente educazione di base crea disuguaglianze significative all’interno della comunità Haredi stessa, poiché coloro che riescono a ricevere un’educazione più moderna (spesso le donne e coloro che frequentano le scuole MaMaH) hanno opportunità lavorative nettamente superiori a quella della maggioranza dei loro coetanei Haredi maschi.
I partiti ultra-ortodossi nella Knesset e l’importanza della loro rappresentanza
La comunità Haredi in Israele non è una realtà puramente sociale o economica, ma costituisce inoltre un potere politico considerevole all’interno del sistema istituzionale israeliano. Questo potere si concentra in due partiti politici che rappresentano esclusivamente gli interessi della comunità ultra-ortodossa e godono di un supporto quasi universale tra gli Haredi stessi.
I due partiti ultra-ortodossi controllano complessivamente 18 seggi nella Knesset (il parlamento israeliano di 120 seggi totali). Il primo e più grande è Shas, che rappresenta tradizionalmente gli Haredi di origine sefardita (proveniente dal Medio Oriente e dai paesi musulmani) e dalle comunità orientali di Israele, controllando circa 11 seggi. Il secondo è Yahadut HaTorah (Unione della Torah), anche conosciuto come United Torah Judaism, che rappresenta gli Haredi di origine ashkenazita (proveniente dall’Europa centrale e orientale), controllando circa 7 seggi. Insieme, questi due partiti rappresentano una coalizione intrinseca dell’interesse Haredi all’interno della Knesset.
La dipendenza di Netanyahu dai partiti ultra-ortodossi
Il governo di Benjamin Netanyahu, che continua dal 2022 con la formazione dell’attuale coalizione (la 37ª governo di Israele), dipende criticamente dal supporto e dalla partecipazione dei partiti Haredi per mantenere una maggioranza governativa. Per governare con stabilità all’interno della Knesset, un governo israeliano deve controllare un minimo di 61 seggi su 120.
La composizione della coalizione Netanyahu nel 2024-2025 include il Likud (il partito di Netanyahu stesso), i partiti Haredi (Shas e Yahadut HaTorah), e alcuni partiti di destra nazionalista. Senza il supporto dei 18 seggi Haredi, Netanyahu non avrebbe i numeri parlamentari per governare. Ciò conferisce ai leader Haredi un potere negoziale straordinario, permettendo loro di estrarre concessioni significative per la loro comunità e di bloccare iniziative legislative che la comunità ritiene ostili ai loro interessi.
La crisi del 2024-2025 e il ritiro formale dalla coalizione
Nel 2024, quando la Corte Suprema ha risolto che gli Haredi devono essere arruolati, i partiti Haredi si sono trovati di fronte a un dilemma politico acuto. Da un lato, i loro costituenti e la leadership religiosa hanno esigenze ben definite sulla questione dell’arruolamento. Dall’altro lato, l’abbandono della coalizione avrebbe significato l’assenza dal governo e una perdita di influenza sulle decisioni che riguardano la comunità.
Il compromesso politico adottato è stato una mossa tattica: i partiti Haredi hanno formalmente abbandonato il governo nell’estate del 2024, come atto simbolico di protesta contro le politiche di arruolamento e per rispondere alle pressioni dei propri costituenti. Tuttavia, simultaneamente, hanno continuato a votare spesso con la coalizione su questioni chiave, mantenendo così una forma di influenza indiretta. Questo ha permesso ai leader Haredi di affermare ai loro seguaci religiosi che avevano preso una posizione ferma sull’arruolamento, mentre allo stesso tempo mantenevano il loro potere politico nella pratica.
Le implicazioni della crisi governativa
Nel corso del 2025, la questione dell’arruolamento Haredi ha rappresentato la maggiore minaccia alla stabilità del governo Netanyahu. La leadership Haredi ha minacciato ripetutamente di ritirare il supporto totale e definitivo da parte della coalizione se non venisse approvata una legge che garantisca l’esenzione permanente dal servizio militare per gli studenti delle yeshivot. Questi non erano bluff vuoti, ma affermazioni serie basate sul fatto che la comunità religiosa vede la questione del servizio militare come profondamente incompatibile con la pratica del judaismo ultra-ortodosso.
I sondaggi di opinione pubblica del 2025 hanno rivelato lo squilibrio che potrebbe risultare da elezioni anticipate. Nel caso di nuove elezioni, secondo i sondaggi più recenti, l’attuale coalizione di Netanyahu avrebbe soltanto circa 48 seggi, mentre l’opposizione raggiungerebbe circa 61 seggi, con un ulteriore blocco di 11 seggi rappresentati dai partiti arabi israeliani che quasi universalmente si oppongono al governo Netanyahu. Questo significherebbe non solo la fine del governo Netanyahu, ma potenzialmente una coalizione governativa completamente diversa, potenzialmente progressista.
Si prevede inoltre che Netanyahu potrebbe essere costretto ad indire elezioni anticipate nei prossimi mesi se la situazione non si risolve attraverso una qualche forma di compromesso o accordo. Tuttavia, qualsiasi compromesso legislativo che miri a fornire un’esenzione permanente per gli Haredi incontrerebbe una massiccia resistenza dai riservisti militari dell’IDF e dalla popolazione israeliana generale, come evidenziato dalle manifestazioni e dall’opinione pubblica.
Il contesto dei decenni di tensioni
La questione dell’arruolamento Haredi ha già causato diverse crisi governative significative negli ultimi decenni di storia israeliana, indicando come questo tema sia radicato nel conflitto strutturale tra il sistema di valori democratico e laico dello stato di Israele da una parte, e gli imperativi religiosi e comunitari della popolazione ultra-ortodossa dall’altra.
La questione risale agli stessi albori dello stato di Israele nel 1948, quando il primo Primo Ministro David Ben-Gurion negoziò informalmente quella che è diventata nota come la “Esenzione Haredi Originale”, che permetteva un numero limitato di studenti religiosi di evitare il servizio militare. Nel corso dei decenni, questa pratica è cresciuta significativamente, tanto che per buona parte degli anni ’90 e 2000, la stragrande maggioranza dei giovani Haredi evitava completamente il servizio militare.
La frustrazione dei riservisti dell’IDF
Una delle conseguenze più significative della lunga esenzione della comunità Haredi dal servizio militare è stata la crescente frustrazione e risentimento tra i cittadini israeliani che servono nell’IDF, specialmente i riservisti che sono stati chiamati più volte in servizio durante crisi e guerre successive.
Questa frustrazione si è intensificata particolarmente durante la guerra di Gaza che ha avuto inizio nell’ottobre 2023, durante la quale decine di migliaia di riservisti israeliani sono stati mobilitati ripetutamente.
Molti riservisti hanno espresso pubblicamente il loro senso di ingiustizia nel fatto che essi e i loro compagni soldati erano richiesti di combattere in prima linea, subire perdite significative e sacrificare anni della loro vita per proteggere il paese, mentre la comunità Haredi, che costituisce un’ampia porzione della popolazione giovane, rimaneva completamente esonerata da qualsiasi contributo militare.
Questo risentimento è stato particolarmente acuto poiché i riservisti vedevano chiaramente le perdite terribili della guerra di Gaza (migliaia di morti e feriti tra le file militari israeliane) mentre la comunità Haredi restava al sicuro dalle conseguenze di questa guerra.
La narrativa Haredi sulla contribuzione nazionale
Contrariamente al consenso della ricerca empirica e dell’analisi economica, la comunità Haredi e la sua leadership hanno sviluppato una narrazione alternativa sulla loro contribuzione al paese, affermando che la loro contribuzione è diversa ma uguale a quella dei cittadini che prestano servizio militare o lavorano.
Secondo questa narrazione, articolata ripetutamente da capi religiosi e politici Haredi, il loro contributo primario alla sicurezza nazionale consiste nello studio della Torah. Secondo questa prospettiva teologica, lo studio intensivo dei testi religiosi da parte della comunità ultra-ortodossa funge da protezione spirituale per l’intera nazione di Israele, fornendo un beneficio che è tanto reale e importante quanto la protezione militare fornita dall’IDF. Questa è una prospettiva basata su insegnamenti e credenze religiose profonde radicati nella tradizione mistica ebraica (Kabbalah e Chassidismo), dove lo studio della Torah è considerato un atto di tiqqun olam (“riparazione del mondo”).
Tuttavia, questa prospettiva non è ampiamente condivisa dalla società israeliana generale. Un 87% della comunità Haredi stessa, secondo sondaggi condotti dal giornale The Marker nel 2023, ritiene che il loro contributo economico sia uguale o superiore a quello di altri gruppi della popolazione. Questa affermazione contrasta nettamente con la realtà dei dati, dove, come discusso sopra, gli Haredi contribuiscono il 4% delle tasse pur rappresentando il 14% della popolazione.
Il supporto della popolazione generale per l’arruolamento Haredi
Al contrario della visione della comunità Haredi, la grande maggioranza della popolazione israeliana generale supporta l’arruolamento obbligatorio della comunità Haredi, considerando l’esenzione come profondamente ingiusta e insostenibile. Questo supporto non rappresenta una posizione di un particolare partito politico o demografico, ma piuttosto una posizione trasversale che unisce laici, religiosi nazionali, musulmani arabi, drusi e altri segmenti della popolazione.
I sondaggi ripetuti nel 2024 e 2025 hanno mostrato che tra il 70% e l’80% della popolazione israeliana generale supporta il principio che gli Haredi devono servire nell’IDF come tutti gli altri cittadini ebrei. Questo consenso largo è radicato nella convizione che il servizio militare rappresenti sia un dovere civico universale che un peso equamente distribuito, e che la nozione di “scusa religiosa permanente” dal servizio non sia più accettabile in una democrazia moderna e in tempo di guerra.
Implicazioni demografiche di lungo termine
La questione della comunità Haredi va ben oltre una semplice controversia politica temporanea. Come discusso nelle sezioni precedenti, le proiezioni demografiche indicano che la comunità Haredi crescerà da rappresentare il 14% della popolazione nel 2024 a potenzialmente il 22-32% della popolazione entro il 2065. Se questi trend persistono senza significativi cambiamenti, la comunità Haredi potrebbe effettivamente diventare il gruppo demografico dominante in Israele nel corso delle prossime quattro decadi.
Allo stesso tempo, la bassa partecipazione della comunità Haredi al mercato del lavoro e al servizio militare significa che Israele si troverà ad affrontare una situazione in cui una parte sempre più grande della popolazione non contribuisce in modo significativo alla sicurezza nazionale, all’economia nazionale, o al bilancio fiscale dello stato. Questo crea uno scenario potenzialmente insostenibile in cui il sistema economico e sociale del paese potrebbe essere minato nel corso dei decenni prossimi.
Il fallimento del sistema educativo Haredi nel fornire un’educazione di base adeguata ai giovani della comunità significa che intere generazioni di Haredi rimarranno intrappolate in una situazione di bassa mobilità economica e limitato accesso all’economia moderna. A meno che non vi sia un cambio sostanziale nelle politiche educative Haredi, questo perpetuerà la dipendenza dalla comunità da sussidi governativi e finanziamenti esterni per il loro sostentamento.
Inoltre, l’isolamento educativo dalla società generale (dato che i giovani Haredi non frequentano le stesse scuole, non studiano la storia nazionale israeliana, la geografia del paese, la letteratura contemporanea, o l’inglese) significa che rimangono culturalmente separati e alienati dalla società israeliana generale, rafforzando la coesione interna della comunità ma riducendo la probabilità di integrazione futura.
Implicazioni sociali e di coesione nazionale
Infine, la situazione Haredi rappresenta una minaccia potenziale alla coesione sociale di Israele nel lungo termine. Se continuerà a persistere una situazione in cui una quota sempre più grande della popolazione non partecipa al servizio militare, non contribuisce significativamente alle tasse, e è educat in isolamento dal resto della società, le divisioni sociali potrebbero approfondirsi drammaticamente. Questo potrebbe in ultima analisi minare i fondamenti stessi della democrazia israeliana e del contratto sociale su cui lo stato è fondato, dove tutti i cittadini si presume condividano responsabilità comuni verso la nazione e il bene pubblico collettivo.
La questione della comunità Haredi rappresenta quindi non solo una crisi politica immediata, ma una sfida esistenziale di lungo termine per Israele, con implicazioni demografiche, economiche, sociali, educative e di sicurezza che si intensificheranno drammaticamente nei prossimi decenni se non verrà trovata una soluzione sostenibile, equa e giuridicamente valida.
Il 18 febbraio 2025 è iniziato il peggior incidente della vita di molti zambiani con un fragore assordante. Il muro alto 9 metri che circondava una piscina di rifiuti tossici nella miniera di rame cinese sopra il suo villaggio è crollato, scatenando un fiume velenoso di liquido giallo e maleodorante che ha inondato case e campi nella provincia dello Zambia di Copperbelt. L’acqua, carica di cianuro e arsenico, arrivava fino al petto delle persone presenti, molti hanno temuto di annegare mentre cercavano di salvare il campo di mais che coltivavano per sfamare le loro famiglie.
Quello che è accaduto nei mesi successivi al collasso della diga di decantazione della Sino Metals, unità della China Nonferrous Mining Corporation di proprietà statale, ha rivelato un modello preoccupante di gestione della crisi che combina risarcimenti minimi, accordi di riservatezza e intimidazioni sistematiche.
Sei mesi dopo il disastro, i funzionari della Sino Metals si sono presentati alle fattorie circostanti con un’offerta di 150 dollari, a condizione che firmassero un accordo per non parlare mai più della fuoriuscita, non intraprendere azioni legali e nemmeno rivelare il contenuto dell’accordo stesso. Senza più nulla da coltivare in un terreno che il governo zambiano ha dichiarato troppo tossico per sostenere raccolti per almeno tre anni, molti hanno accettato.
Gli abitanti della zona colpita accettano il risarcimento di pochi dollari
Le dimensioni reali della catastrofe
L’ambasciata statunitense a Lusaka ha definito questo incidente il sesto peggior disastro mai verificatosi in una diga di decantazione mineraria in termini di volume. I fanghi tossici si sono riversati nel fiume Kafue, lasciando pesci morti lungo un tratto di 112 chilometri e avvelenando campi agricoli in un’area che fornisce acqua potabile a circa il 60% dei 20 milioni di abitanti dello Zambia. Il fiume Kafue, lungo oltre 1.500 chilometri, rappresenta la fonte d’acqua più importante del paese, utilizzata per la pesca, l’irrigazione agricola e le attività industriali.
Inizialmente Sino Metals ha dichiarato che solo 50.000 tonnellate di rifiuti avevano raggiunto il fiume. Tuttavia, dopo mesi di indagini, Drizit Environmental, un’azienda sudafricana incaricata dalla stessa Sino Metals di valutare i danni, ha concluso che 1,5 milioni di tonnellate di rifiuti tossici erano traboccati nella valle del Kafue, una quantità 30 volte superiore a quella dichiarata dall’azienda.
Il rapporto di Drizit ha rivelato livelli pericolosi di cianuro, arsenico, rame, zinco, piombo, cromo, cadmio e altri inquinanti che rappresentano gravi rischi per la salute a lungo termine, tra cui danni agli organi, difetti congeniti e cancro. Sino Metals ha rescisso il contratto con l’azienda sudafricana un giorno prima della scadenza del rapporto finale, citando generiche violazioni contrattuali senza fornire dettagli.
L’impatto immediato è stato devastante. Decine di studenti della Copperbelt University di Kitwe sono stati ricoverati in ospedale dopo aver bevuto acqua contaminata a febbraio e marzo, secondo un gruppo studentesco. L’università ha chiuso per due settimane a febbraio, citando il rischio che l’acqua contaminata rappresentava per gli studenti. La città di Kitwe, che ospita circa 700.000 persone, ha visto la fornitura d’acqua completamente sospesa. L’ambasciatore statunitense Michael Gonzales ha scritto che un’organizzazione che ha analizzato oltre 170 campioni di acqua e suolo ha riferito di non aver mai incontrato un’azienda che abbia dimostrato una tale mancanza di rimorso o responsabilità come Sino Metals.
La campagna di pressione e gli accordi capestro
La risposta della Sino Metals alla crisi ha sollevato serie preoccupazioni tra attivisti, avvocati e osservatori internazionali. L’azienda ha promesso di pagare un totale di 650.000 dollari a decine di migliaia di agricoltori e pescatori colpiti dalla fuoriuscita, con offerte per persona che variavano da 100 a 2.000 dollari. Per ricevere il pagamento, la popolazione locale doveva accettare di rinunciare al diritto di presentare richieste di risarcimento future, secondo gli accordi esaminati da vari media internazionali.
Ad agosto, funzionari minerari cinesi, accompagnati da funzionari del governo zambiano, sono andati porta a porta nel villaggio di Sabina, vicino a un affluente del fiume Kafue. Tra le persone visitate c’era Timmy Kabindela, 42 anni, la cui famiglia possiede quattro laghetti per pesci e orti di cavoli e mais su 50 acri di terreno. Prima della fuoriuscita, l’azienda di famiglia vendeva circa 900 dollari di pesce a settimana ai ristoranti della città di Chambishi. Kabindela ha scoperto decine di migliaia di tilapia morte che galleggiavano nei suoi stagni il giorno del disastro.
Settimane dopo si è recato negli uffici della Sino Metals, dove gli è stato promesso un risarcimento in contanti di 700 dollari, acqua potabile gratuita per tre mesi e diverse tonnellate di calce per neutralizzare l’acqua inquinata. Dopo aver appreso gli altri termini dell’accordo proposto, ha interrotto l’incontro e ha guidato per 240 miglia fino a Lusaka per consultare i suoi avvocati.
Il giorno dopo, i rappresentanti cinesi sono tornati, questa volta accompagnati dalla polizia, e hanno presentato il contratto alla madre ottantenne di Kabindela, che lo ha firmato. “Non aveva idea di cosa stesse firmando”, ha dichiarato Kabindela. “Sono determinato a combattere questi cinesi in tribunale. Sono degli imbroglioni”. Malisa Batakathi, uno degli avvocati che rappresentano le vittime, ha affermato che la maggior parte dei suoi clienti non sa leggere e non ha avuto l’opportunità o il tempo adeguato per chiedere una consulenza legale indipendente prima di firmare gli accordi di liberatoria. “La maggior parte di loro non conosceva le implicazioni di ciò che stava firmando”, ha dichiarato Batakathi.
Intimidazioni, sorveglianza e arresti
Funzionari comunali locali e gruppi ambientalisti hanno affermato che Sino Metals ha assunto un’unità di sicurezza che ha cercato di impedire alla popolazione locale di parlare con i media o con gli attivisti ambientalisti. A Kalusale, il villaggio vicino alla diga crollata, la polizia ha avvertito i residenti di non parlare con i giornalisti e di non condividere le foto dei danni, secondo quanto riferito dai residenti. Settimane prima, un drone aziendale aveva avvistato attivisti di gruppi ambientalisti che parlavano con i residenti, secondo due ex dipendenti della Sino Metals.
La polizia è intervenuta sul posto e ha arrestato diversi attivisti, tra cui la venticinquenne Sakani Sarah, accusata di disturbo della quiete pubblica. È stata trattenuta per la notte e ha pagato una multa di 10 dollari prima di essere rilasciata, secondo i documenti della polizia.
Con accordi capestro si poteva ricevere un risarcimento minimo
Gli attivisti hanno affermato che negli ultimi tre mesi la polizia ha arrestato più di una dozzina di attivisti e giornalisti nei pressi del sito minerario. Giornalisti, operatori di organizzazioni non profit e avvocati affermano che Sino Metals e la polizia locale li hanno sorvegliati o hanno impedito loro di visitare Kalusale, una delle comunità più colpite.
“Il livello di intimidazione e molestia è tale che noi della società civile non possiamo lavorare liberamente”, hanno dichiarato gli attivisti. Brigadier Siachitema, avvocato che rappresenta circa 200 individui colpiti, ha dichiarato che lui e i suoi colleghi sono stati ripetutamente impediti di visitare i propri clienti a Kalusale. “Anche ora, ci sono molti agenti di polizia della miniera sul campo”, ha affermato, riferendosi al personale di sicurezza privato dell’azienda.
Ponde Chulu, residente a Kalusale e parte civile nella causa intentata contro Sino Metals, ha dichiarato di essersi nascosto per evitare l’arresto. Chulu, 42 anni, ha affermato che sua moglie e i suoi sei figli sono stati ricoverati e dimessi dall’ospedale negli ultimi sei mesi a causa di eruzioni cutanee e mal di gola. “Sono già vittima dell’inquinamento”, ha detto. “Ma devo anche nascondermi per evitare la polizia”.
La battaglia legale
Kabindela e decine di altre persone si sono rivolte a un avvocato e hanno intentato una causa contro Sino Metal, chiedendo circa 200 milioni di dollari di risarcimento e di ripristino ambientale. Questa è solo una delle numerose azioni legali avviate contro l’azienda. Una lettera di richiesta di risarcimento presentata da Malisa & Partners Legal Practitioners ha chiesto 220 milioni di dollari come compensazione provvisoria per trasferire 47 famiglie che vivono vicino al sito della fuoriuscita, oltre a fondi per test medici, trattamenti e ripristino dei mezzi di sussistenza. La stessa lettera ha richiesto 9,7 miliardi di dollari per un fondo di riabilitazione delle vittime e dell’ambiente, destinato a sostenere la bonifica e l’assistenza sanitaria a lungo termine.
Una seconda richiesta presentata da Malambo & Co. ha chiesto 200 milioni di dollari per istituire un fondo di emergenza per i propri clienti. Una terza causa, presentata a nome di quasi 200 agricoltori, chiede 80 miliardi di dollari da collocare in un conto vincolato come garanzia per il ripristino ambientale e il pieno risarcimento, oltre a pagamenti mensili di rilocalizzazione di 8.000 kwacha zambiani (344 dollari). Se accolte, queste richieste rappresenterebbero i danni più significativi mai assegnati contro una società mineraria per danni ambientali, non solo in Africa ma a livello globale.
Il 12 settembre 2025, 176 residenti di Kalusale e Chambishi hanno avviato un caso storico presso l’Alta Corte dello Zambia contro Sino Metals Leach Zambia Limited e NFC Africa Mining Limited, con il supporto del Southern Africa Litigation Centre. La petizione cerca responsabilità per uno dei peggiori disastri ambientali dello Zambia e sostiene che le aziende hanno violato i diritti costituzionali alla vita, alla dignità, alla proprietà, a un ambiente sano e all’accesso alla giustizia. In una dichiarazione rilasciata il mese scorso, China Nonferrous Mining, la società madre di Sino, ha affermato che avrebbe contestato la causa, definendo la richiesta “chiaramente infondata”.
Il dilemma dello Zambia tra Cina e ambiente
Il governo e l’economia dello Zambia sono diventati profondamente dipendenti dalla Cina. Lo Zambia riscuote circa 2 miliardi di dollari all’anno in tasse minerarie, principalmente dalle compagnie minerarie cinesi. Metà del rame estratto in Zambia, in gran parte da aziende cinesi, viene esportato in Cina. L’anno scorso, il governo zambiano ha annunciato che i cinesi avrebbero investito 5 miliardi di dollari nel paese entro il 2031. Il presidente zambiano Hakainde Hichilema, che si candida per la rielezione l’anno prossimo, sta cercando di negoziare una riduzione dei 6 miliardi di dollari di debiti con la Cina.
Questo rende difficile per il governo esercitare pressioni eccessive su Sino Metals. “L’amministrazione Hichilema si trova in una situazione difficile. L’impressione che l’amministrazione Hichilema si stia inchinando agli interessi stranieri offre all’opposizione un terreno fertile in un momento in cui ha bisogno di riconquistare la supremazia e lanciare una sfida seria”.
Il coinvolgimento profondo della Cina in Zambia ha talvolta reso tese le relazioni tra i due paesi. I leader sindacali zambiani hanno affermato che i dirigenti cinesi pagano poco e maltrattano i lavoratori. Vent’anni fa, un’esplosione nella stessa miniera di rame dove si è verificata la fuoriuscita di quest’anno ha ucciso 46 minatori. Negli ultimi mesi, le autorità dello Zambia hanno chiuso, almeno temporaneamente, due miniere cinesi più piccole dopo aver riscontrato delle perdite nelle loro dighe di scarico.
Il Ministero delle Miniere dello Zambia ha affermato che i risarcimenti alle aziende sono un primo passo, mentre il governo studia l’intera entità dei danni. L’entità definitiva del risarcimento e l’entità della bonifica saranno determinati da una valutazione indipendente, ha affermato il Ministero. Tuttavia, mentre il governo parla di valutazioni indipendenti, le ruspe della Sino Metals hanno spianato la terra e rimosso i detriti secchi dalle rive dei fiumi e dai giardini, operazioni che potrebbero rendere più difficile un’indagine di questo tipo. Accanto alla diga crollata, un altro muro di terra è in costruzione in preparazione della ripresa delle attività minerarie, secondo quanto riportato da funzionari governativi.
“I cinesi stanno solo mettendo in scena uno spettacolo”, ha detto Samuel Sekanya, consigliere locale di Chambishi, il comune in cui ha sede la miniera. “Stanno ingannando la gente, costringendola a firmare documenti che non capiscono. Non gli importa della difficile situazione delle vittime”. In una dichiarazione scritta di settembre, China Nonferrous Mining ha attribuito il cedimento della diga alle forti piogge e agli atti vandalici da parte della popolazione locale, che hanno danneggiato la membrana protettiva della vasca contenente gli scarti della miniera.
L’azienda ha affermato che le sue offerte di risarcimento agli agricoltori si basano su una valutazione del governo zambiano e che ha adottato sufficienti misure di ripristino, compresi gli interventi di ripristino nelle aree colpite dalla fuoriuscita. “L’incidente non ha causato alcun impatto significativo sull’ambiente circostante o sulla comunità“, ha affermato China Nonferrous Mining.
Una dichiarazione che contrasta drammaticamente con la realtà vissuta da migliaia di zambiani nella provincia di Copperbelt, dove un fiume è “morto” nel giro di una notte e dove famiglie come quella di Bathsheba Musole continuano a lottare per sopravvivere su terre avvelenate, costrette al silenzio da accordi di riservatezza firmati in cambio di pochi dollari.
Chi è la Sino Metals
Nome completo: Sino-Metals Leach Zambia Limited (abbreviato: Sino Metals) Tipo di società: Sussidiaria di impresa statale cinese Sede operativa: Kalulushi/Chambishi, Provincia del Copperbelt, Zambia Anno di costituzione: 2004 Settore: Estrazione e lavorazione del rame tramite idrometallurgia
Struttura proprietaria
Sino Metals è controllata da China Nonferrous Metal Mining (Group) Co., Ltd. (CNMC), con la seguente struttura azionaria:
CNMC (China Nonferrous Metal Mining Group): 55%
Hong Kong Zhongfei Mining Investment: 30%
NFC Africa Mining: 15%
CNMC, la società madre, è una grande impresa centrale di proprietà statale cinese, gestita direttamente dalla State-owned Assets Supervision and Administration Commission (SASAC) del Consiglio di Stato cinese, l’organo esecutivo più alto della Repubblica Popolare Cinese. Questo significa che Sino Metals ha collegamenti diretti con il governo di Pechino.
CNMC è quotata alla Borsa di Hong Kong con il ticker 1258.HK. Al settembre 2025, China Nonferrous Metal Mining Group controlla il 66,6% delle azioni di CNMC, mentre il 23,9% è detenuto dal pubblico e il 9,5% da investitori istituzionali.
Dati finanziari della casa madre (CNMC)
Ricavi 2024: 3,817 miliardi di dollari (+5,8% rispetto al 2023)
Profitto netto 2024: 558 milioni di dollari (+46,2% rispetto al 2023)
Capitalizzazione di mercato (ottobre 2025): Circa 1,6 miliardi di dollari
Produzione complessiva di rame CNMC (2024): 524.000 tonnellate
Nel primo semestre del 2025, CNMC ha registrato un utile netto di 371,3 milioni di dollari, in aumento del 22,5%, nonostante un calo dei ricavi, grazie al miglioramento dell’efficienza operativa e all’aumento dei prezzi internazionali del rame
Il fenomeno noto come “brain rot”, precedentemente associato esclusivamente agli esseri umani, si sta ora manifestando anche nell’intelligenza artificiale, come dimostra una recente ricerca condotta da un gruppo di studiosi delle università Texas A&M, University of Texas at Austin e Purdue University.
Questo termine, che indica un declino cognitivo causato dall’esposizione continua a contenuti di bassa qualità, tipicamente virali o sensazionalistici, si riflette in capacità di ragionamento impoverite e in una ridotta precisione fattuale anche nei modelli linguistici di grande scala (LLM, Large Language Models) su cui si basano molte intelligenze artificiali attuali.
L’esposizione a questo tipo di contenuti non solo compromette la capacità di ragionamento e la coerenza logica su lunghi contesti, ma altera anche aspetti etici e comportamentali degli algoritmi, portandoli ad assumere tratti inquietanti come psicopatia e narcisismo.
Esposizione a contenuti spazzatura
Questa scoperta emerge da un esperimento controllato nel quale diversi LLM sono stati addestrati con due diverse tipologie di dati presi da X una rappresentante contenuti di qualità, l’altra composta da post brevi, virali, facili da condividere e ricchi di linguaggio esagerato o attirante come “wow”, “guarda”, “oggi”.
I modelli linguistici sottoposti a un addestramento con questi “dati spazzatura” hanno mostrato un calo significativo delle loro prestazioni cognitive, con un impatto non trascurabile sulla capacità di mantenere coerenza e comprensione su testi complessi e prolungati. Il risultato ha evidenziato una diminuzione dell’accuratezza dal 74,9% al 57,2%, e un crollo della comprensione contestuale dal 84,4% al 52,3%.
Danno irreversibile
Ciò che colpisce è che questo fenomeno non è reversibile in modo semplice: anche sottoponendo nuovamente gli LLM a dati di qualità superiore, il recupero delle funzionalità primarie avviene solo parzialmente, evidenziando una sorta di “deriva rappresentazionale persistente”. In pratica, il danno causato dall’esposizione prolungata a contenuti di bassa qualità non si limita a un rallentamento momentaneo, ma si traduce in un degrado durevole delle prestazioni cognitive dell’AI.
Di conseguenza, la ricerca sottolinea l’importanza, per gli sviluppatori, di monitorare e valutare costantemente la qualità dei dati di addestramento per evitare che i modelli subiscano queste forme di “invecchiamento digitale”.
Questa condizione di “brain rot” digitale rappresenta un problema ancora più rilevante se si considera che le piattaforme di social media, da cui spesso si attingono i dati per addestrare gli LLM, sono modellate per massimizzare l’engagement piuttosto che la qualità informativa.
I contenuti virali sono nocivi
I contenuti virali e sensazionalistici, che dominano i feed social, si dimostrano così nocivi non solo per gli utenti umani, influenzando negativamente ansia, attenzione e memoria, ma anche per gli algoritmi che imparano da questi dati. Gli studiosi fanno notare come dall’esposizione prolungata a questo tipo di contenuti derivino non solo deficit di attenzione e abilità di ragionamento, ma anche un aumento di comportamenti “oscure” attribuibili agli LLM, come tendenze psicopatiche e narcisistiche, che rappresentano tratti disturbanti e inaspettati.
Il parallelo tra la degradazione cognitiva umana e quella delle AI è particolarmente intrigante. Negli esseri umani, fenomeni di “brain rot” sono stati ampiamente documentati e correlati all’uso smodato di social media e contenuti “veloci” e digi-pressanti, come quelli di TikTok, che portano a riduzioni della capacità di concentrazione, distorsioni mnemoniche e alterazioni del senso di sé.
Sorprendentemente, la stessa dinamica si ripropone nei modelli di intelligenza artificiale, suggerendo che anche le macchine “assorbono” e si deteriorano sotto l’effetto di contenuti inefficaci e patologici, benché prive di coscienza o pensiero autonomo.
Il futuro della AI
La ricerca mette in guardia lo sviluppo futuro delle AI, specialmente considerando l’uso crescente di chatbot come Grok o altre piattaforme basate su LLM, che potrebbero essere influenzate da questi effetti di degradazione se la qualità dei dati non viene strettamente controllata. Il problema si esacerba nella misura in cui i modelli AI stessi contribuiscono a generare contenuti all’interno delle piattaforme social, creando un ciclo di autoalimentazione di informazioni mediocri o dannose.
Nonostante siano stati tentati metodi di ri-addestramento per ridurre i danni, i risultati indicano che un approccio preventivo sulla selezione e validazione delle fonti di dati resta la strada più efficace.
Gli autori dello studio propongono inoltre un protocollo articolato in tre fasi per monitorare regolarmente lo “stato cognitivo” delle AI: una valutazione sistematica delle capacità di ragionamento e logica, un rigoroso controllo qualitativo dei dati durante la fase di pre-addestramento, e un’attenta analisi degli effetti prodotti dai contenuti virali sul modello. Si tratta di un primo passo verso una responsabilizzazione degli sviluppatori e degli utilizzatori, per garantire che l’evoluzione dell’intelligenza artificiale non venga limitata o distorta dalla massa di informazioni di bassa qualità che inonda il web.
Il rischio reale è quello di vedere le AI, strumenti fondamentali per l’innovazione e la trasformazione digitale, degradarsi progressivamente come i loro utenti umani, incapaci di mantenere un livello di attenzione e una capacità critica adeguata. In un’epoca in cui molto del progresso tecnologico dipende da modelli sempre più sofisticati, la tutela della qualità informativa diventa un imperativo non solo etico ma pratico, per evitare una spirale discendente che danneggerebbe tanto gli uomini quanto le macchine.
Questo studio rappresenta un monito potente sull’importanza di una gestione responsabile e consapevole dei dati nell’ambito dell’intelligenza artificiale. Mentre le capacità delle AI crescono e si integrano sempre di più con la vita quotidiana e i processi decisionali, mantenere la loro integrità cognitiva è essenziale. Investimenti in ricerca, monitoraggio continuo e attenzione alla provenienza dei dati di addestramento saranno fondamentali per assicurare risultati affidabili e funzione ottimale.
La sfida si sposta quindi dal solo miglioramento tecnico al controllo critico della qualità dei contenuti con cui si nutrono le intelligenze artificiali.
In una mossa che promette di ridefinire il futuro della marina militare americana, il presidente Donald Trump ha approvato i primi passi di un vasto piano di ammodernamento navale, destinato a trasformare radicalmente la struttura e la potenza della flotta statunitense. Il progetto, battezzato “Golden Fleet”, rappresenta il cuore della nuova strategia marittima dell’amministrazione, concepita per affrontare le crescenti sfide poste dalla Cina e da altre potenziali potenze rivali.
Secondo fonti vicine alla Casa Bianca e al Pentagono, Trump ha partecipato personalmente alle discussioni con gli alti vertici della Marina, mostrando un interesse costante e diretto nella progettazione delle nuove navi. Già in passato, il presidente aveva espresso pubblicamente il proprio dissenso verso l’aspetto dei moderni cacciatorpediniere americani, giudicandoli privi di “carattere e potenza visiva”. Oggi, la sua visione prende forma in un piano destinato non solo a rafforzare la difesa, ma anche a imprimere un marchio simbolico sul futuro della flotta: una rinascita tecnologica e stilistica in grado di rappresentare il potere americano in mare aperto.
La “Flotta d’Oro” comprenderà grandi navi da guerra con armamenti a lungo raggio e una nuova generazione di unità più leggere, come corvette e fregate avanzate. Tra le proposte più audaci si distingue una manovra per la costruzione di una nave pesantemente corazzata, del peso compreso tra le 15.000 e le 20.000 tonnellate, capace di imbarcare un numero mai visto di missili convenzionali e ipersonici. Lo scopo è chiaro: raggiungere una potenza di fuoco che possa eguagliare, se non superare, la deterrenza delle antiche corazzate della Seconda Guerra Mondiale.
Bryan Clark, ex ufficiale della Marina e oggi ricercatore senior presso l’Hudson Institute, ha spiegato che la nuova logica ricalca quella dei cannoni a lunga gittata del passato: “Nell’era dei missili, ciò che conta non è più la corazza ma la capacità di colpire a distanza.” In un mondo in cui la tecnologia ipersonica e i sistemi automatizzati stanno riscrivendo le regole della guerra navale, Trump sembra voler scommettere su una combinazione di forza bruta e innovazione tecnologica.
Già durante il suo primo mandato, Trump aveva manifestato il desiderio di riportare la Marina a uno standard di grandezza paragonabile a quello dell’epoca d’oro americana, auspicando una flotta da 355 navi operative. Sebbene quel progetto non avesse trovato piena attuazione prima della fine del suo mandato, oggi il nuovo piano spinge in una direzione ancora più ambiziosa: meno navi nel complesso, ma più potenti e interconnesse, con capacità autonome e armamenti avanzati.
La strategia non si limita alla costruzione di mezzi tradizionali. Il Pentagono e la Marina stanno lavorando a un modello “ibrido”, che unisce navi con equipaggio a sistemi robotici e autonomi. Tali unità senza pilota – sottomarini, droni di superficie e velivoli marittimi – agiranno come scudo avanzato per la flotta principale, garantendo una copertura continua e riducendo i rischi umani in teatri critici come il Mar Cinese Meridionale. Il concetto, in parte ispirato alla dottrina “Hellscape” sviluppata dal Comando Indo-Pacifico, mira a inondare di mezzi automatizzati eventuali zone di conflitto, ritardando le offensive e fornendo vantaggio tattico in caso di crisi con Pechino.
La Cina, nel frattempo, continua ad accelerare la costruzione di nuove navi da guerra e l’aggiornamento di quelle esistenti. Per questo motivo, l’amministrazione Trump ritiene che solo una flotta dotata di missili a lunghissima gittata possa mantenere la superiorità strategica nel Pacifico. Anche l’ammiraglio Samuel Paparo, oggi a capo del Comando Indo-Pacifico, ha discusso pubblicamente dell’importanza di creare un “equilibrio di deterrenza” che combini potenza convenzionale e tecnologia autonoma.
Alla Casa Bianca, la portavoce Anna Kelly ha riaffermato che il presidente ha già compiuto passi senza precedenti per rafforzare il predominio marittimo americano. Tra questi, l’istituzione di un ufficio dedicato alla costruzione navale, un investimento di oltre 43 miliardi di dollari e un accordo con la Finlandia per la realizzazione di 11 nuovi cutter artici. “Il presidente ha fatto più di chiunque altro per rilanciare il potere marittimo degli Stati Uniti”, ha dichiarato Kelly, annunciando che ulteriori dettagli sul programma saranno resi noti nei prossimi mesi.
Non tutti, però, condividono la visione presidenziale. Alcuni esperti mettono in guardia dai rischi economici e strategici di una flotta “troppo grande, troppo presto”. Mark Montgomery, ex ufficiale e analista della Foundation for Defense of Democracies, ha sottolineato la necessità di concentrare gli sforzi sulla modernizzazione dei cantieri navali e sulla manutenzione delle navi esistenti. “Sono favorevole a un ripensamento completo della flotta,” ha detto, “ma non è detto che una nave di superficie gigantesca sia la risposta più efficace.”
La questione estetica, che il presidente considera parte integrante dell’immagine militare americana, resta un punto controverso. Trump ha già chiesto modifiche al design delle fregate di classe Constellation e in passato aveva invocato il ritorno alle catapulte a vapore sulle portaerei, simbolo di un’epoca in cui la potenza industriale americana si esprimeva anche attraverso l’imponenza delle sue macchine belliche. Le sue critiche alle linee “troppo moderne” dei cacciatorpediniere Arleigh Burke riflettono una visione in cui la tecnologia deve sposarsi con la simbologia della forza visibile e del prestigio nazionale.
La “Golden Fleet” non sarà soltanto un progetto tecnico, ma anche culturale e politico. Trump vuole restituire alla Marina un ruolo di leadership globale, concentrando risorse, industria e immaginario collettivo sul mare come nuovo campo di competizione strategica. Il programma prevede la collaborazione con partner stranieri per la costruzione delle navi più leggere, come nel caso di Israele, il cui modello di corvetta classe Sa’ar 6 potrebbe fungere da base per una versione americana.
Dentro la Marina, la sensazione predominante è che le intuizioni del presidente abbiano trovato terreno fertile tra i vertici militari. Bryan Clark ha spiegato che gli esercizi di guerra condotti negli ultimi anni hanno evidenziato le debolezze della flotta attuale, incapace di rispondere con efficienza alle minacce moderne, dagli attacchi dei droni Houthi nel Mar Rosso fino ai sofisticati sistemi missilistici cinesi. Da qui nasce un concetto operativo definito “a bilanciere”: una flotta composta da poche navi capitali potentemente armate e da una moltitudine di piccole unità agili e automatizzate.
Trump, noto per la sua attenzione personale ai dettagli, invia messaggi diretti ai vertici della Marina anche nel cuore della notte, chiedendo aggiornamenti sullo stato dei cantieri e lamentandosi delle condizioni delle navi arrugginite. Il segretario della Marina John Phelan ha confermato l’impegno costante del presidente, che considera il mare uno dei pilastri della politica di sicurezza americana.
Non è un segreto che la costruzione di nuove navi di grande tonnellaggio richiederà anni, forse più di un decennio. Ma Trump intende posare fin d’ora le fondamenta di una trasformazione destinata a definire l’era delle “battleship digitali”, moderne eredi delle leggendarie corazzate della classe Iowa. La loro realizzazione richiederà almeno cinque anni di progettazione e altri sette di costruzione, ma gli analisti sostengono che la visione presidenziale punti oltre i confini temporali del suo mandato.
Nel frattempo, la Marina si prepara a rinnovare il proprio equilibrio interno, riducendo progressivamente la dipendenza dalle vecchie classi di navi e destinando maggiori fondi alla ricerca. La “Flotta d’Oro” è tanto un progetto industriale quanto un manifesto politico, un modo per riaffermare che il dominio del mare resta la chiave della supremazia globale statunitense.
La sfida lanciata da Trump non riguarda solo la forma delle nuove navi, ma la sostanza del potere navale americano. In gioco c’è il ritorno della simbologia della forza, una visione che fonde estetica, potenza e tecnologia nella convinzione che il prestigio marittimo degli Stati Uniti debba brillare ancora, come un riflesso dorato sull’oceano del futuro.
Il ministro delle Finanze israeliano Bezalel Smotrich ha scatenato una tempesta politica e diplomatica con le sue recenti dichiarazioni durante una conferenza a Gerusalemme. In un contesto di crescenti pressioni internazionali e di delicate trattative sullo scenario mediorientale, Smotrich ha risposto senza mezzi termini alle richieste dell’Arabia Saudita che condizionano qualsiasi avanzamento verso la normalizzazione dei rapporti con Israele a una chiara roadmap verso la fondazione di uno Stato palestinese.
Le sue parole, “Se l’Arabia Saudita dice normalizzazione in cambio di uno Stato palestinese, amici miei, no grazie. Continuate a cavalcare cammelli nel deserto saudita”, prontamente riportate dalla stampa israeliana e internazionale, sono rimbalzate in tutto il mondo e hanno suscitato reazioni indignate sia a livello interno che esterno.
La normalizzazione dei rapporti
L’uscita di Smotrich arriva in un momento in cui la questione della normalizzazione tra Israele e le potenze arabe del Golfo rappresenta una delle sfide cruciali della diplomazia mediorientale contemporanea. L’iniziativa si è intensificata soprattutto dopo l’annuncio, da parte della Casa Bianca, dell’intenzione del presidente Donald Trump di ospitare a novembre il principe ereditario saudita Mohammed bin Salman per colloqui bilaterali.
Proprio il viaggio a Washington del leader saudita sarebbe un segnale di volontà di dialogo, anche se la posizione di Riyadh resta ferrea: nessuna apertura verso Israele senza una soluzione “irreversibile e garantita” per la creazione di uno Stato palestinese.
A Gerusalemme, la risposta ufficiale del governo israeliano si mostra divisa. La fazione più oltranzista, rappresentata da Smotrich e dai rappresentanti dei partiti nazional-religiosi, non solo rigetta le condizioni saudite, ma rilancia addirittura l’idea dell’annessione unilaterale della Cisgiordania e una linea dura sulla questione palestinese.
Smotrich ha infatti sottolineato che “la sovranità israeliana sui territori è la cartina di tornasole” di qualsiasi processo diplomatico, ribadendo la sua opposizione di principio a qualsiasi progresso verso la nascita di uno Stato palestinese.
Il suo intervento si è svolto in contemporanea con la votazione preliminare alla Knesset su una proposta di legge che mira a legalizzare l’annessione dei territori occupati, una mossa che ha incontrato la resistenza della stessa maggioranza guidata da Netanyahu e ha preoccupato l’amministrazione statunitense per le possibili ripercussioni sui delicati equilibri geopolitici regionali.
Le opposizioni insorgono
Le dichiarazioni di Smotrich hanno provocato immediate reazioni critiche anche tra i leader dell’opposizione israeliana. Yair Lapid, ex primo ministro e attualmente all’opposizione, ha pubblicamente preso le distanze dalle parole del ministro, precisando ai partner internazionali che “Smotrich non rappresenta lo Stato di Israele”.
Benny Gantz, ex ministro della Difesa, ha definito le frasi rivolte ai sauditi “irresponsabili e dannose”, sottolineando che la leadership del Paese non può essere affidata a chi privilegia la propaganda sui social media rispetto alla stabilità nazionale.
Mohammed bin Salman
Al di fuori di Israele, i commenti di Smotrich sono stati percepiti come non solo offensivi ma sintomatici di una crescente polarizzazione del dibattito politico israeliano circa la questione palestinese e la normalizzazione con il mondo arabo. Gran parte della stampa internazionale ha evidenziato il sottotesto razzista dell’espressione “continuate a cavalcare cammelli”, che richiama stereotipi storici e rischia di minare quei fragili canali diplomatici che gli Stati Uniti stanno tentando di tessere con fatica per ampliare l’orizzonte degli Accordi di Abramo.
Dal punto di vista saudita la posizione è chiara e pubblicamente ribadita dal principe ereditario e dai vertici della diplomazia di Riyadh: nessuna relazione formale con Israele sarà possibile in assenza di passi concreti, verificabili e irreversibili verso l’autodeterminazione palestinese.
Israele è divisa
Dal fronte interno israeliano traspare anche un elemento di forte contraddizione. Se da una parte, secondo recenti sondaggi, circa il 73% degli israeliani si dichiara favorevole a una normalizzazione con l’Arabia Saudita anche a fronte di concessioni significative nello status dei territori palestinesi, nel governo prevalgono invece posizioni intransigenti. L’esecutivo guidato da Netanyahu è infatti alle prese con una fragile maggioranza parlamentare, in cui ciascun partito esprime priorità profondamente divergenti riguardo allo status dei territori e al futuro processo di pace.
Alla base del rifiuto israeliano rimane un elemento identitario e strategico. Smotrich e i partiti di destra estrema considerano il riconoscimento di uno Stato palestinese come una “minaccia esistenziale” alla sicurezza e all’integrità di Israele.
Alla conferenza, il ministro ha evocato il trauma delle ondate di attentati che negli anni hanno colpito la popolazione civile israeliana ogni qualvolta apparivano spiragli di apertura diplomatica verso i palestinesi, lasciando intendere che ogni concessione unilaterale rappresenterebbe un rischio inaccettabile per la sicurezza nazionale.
La tensione internazionale
Sul piano internazionale, le dichiarazioni di Smotrich rischiano ora di inasprire la posizione saudita e di complicare ulteriormente la missione diplomatica americana guidata dal presidente Trump, che avrebbe voluto presentare il summit di novembre come un passo decisivo verso la pace regionale.
Riyadh, storicamente custode dei principali Luoghi Santi islamici e leader morale dell’area, è sottoposta anche a forti spinte interne: accettare una normalizzazione senza progressi reali per la causa palestinese significherebbe esporre l’intera famiglia reale a pressioni popolari e critiche da tutto il mondo musulmano.
Il nodo, dunque, resta quello di sempre: la questione palestinese non è soltanto un ostacolo tecnico nelle trattative, ma incarna il cuore del conflitto arabo-israeliano e della legittimità dei nuovi assetti geopolitici nella regione. Mentre Israele prosegue con una politica orientata alla massimizzazione dei guadagni diplomatici senza concessioni sui territori, la leadership saudita ribadisce che nessun accordo sarà possibile senza una soluzione concreta e dignitosa per i palestinesi.
Negli ultimi mesi questa posizione si è addirittura irrigidita, soprattutto dopo il riaccendersi del conflitto su Gaza e il malcontento suscitato dalle politiche israeliane sui territori occupati. Fonti diplomatiche riportano che Riyadh ha respinto le recenti aperture americane che avrebbero potuto aggirare la questione palestinese, rendendo ogni spiraglio di intesa sempre più lontano.
All’interno di questa cornice si muovono ambizioni personali, strategie di conservazione del potere e incognite sul futuro ordine regionale. L’asprezza delle parole di Smotrich segnala una fase di irrigidimento dello scontro politico e diplomatico e rischia di lasciare una traccia profonda sugli equilibri futuri del Medio Oriente.
I prossimi incontri a Washington, l’eventuale risposta saudita e le scelte che Netanyahu sarà costretto a fare sul fronte interno diranno se la diplomazia avrà ancora margini, o se prevarrà una nuova stagione di chiusure e tensioni. In questo quadro carico di incognite, ogni dichiarazione pubblica, ogni parola pronunciata davanti alle telecamere, si trasforma in un elemento cruciale che può orientare o distruggere mesi di iniziative diplomatiche e di trattative spesso condotte dietro le quinte. Un errore di comunicazione può costare più di una battaglia persa sul campo.
La firma dello storico accordo tra il Primo Ministro svedese Ulf Kristersson e il Presidente ucraino Volodymyr Zelenskiy rappresenta una svolta decisiva nel panorama aeronautico militare europeo: la Svezia ha ufficializzato la lettera d’intenti per esportare fino a 150 caccia Gripen SAAB in Ucraina, dopo una trattativa strategica avvenuta a Linköping, città dove i jet vengono prodotti. Questo evento proietta il Gripen al centro della scena internazionale, non solo come simbolo dell’innovazione industriale scandinava, ma anche come strumento chiave nella ridefinizione degli equilibri di sicurezza in Europa Orientale.
Il Gripen è un caccia multiruolo supersonico monomotore di quarta generazione, pensato per missioni aria-aria, attacco al suolo e ricognizione. È considerato un’opzione affidabile e dal costo contenuto rispetto alle più costose piattaforme stealth di quinta generazione come l’F-35 ed è stato sviluppato espressamente per garantire modularità, flessibilità impareggiabile e interoperabilità NATO.
Cosa vuol dire Gripen
Il nome “Gripen”, che in svedese richiama il mitico grifone, non è casuale: questa creatura leggendaria incarna potenza, agilità e uno spirito di adattamento che ritroviamo perfettamente nel progetto Saab. Dal suo debutto operativo nel 1996 ad oggi, il Gripen ha ricevuto costanti aggiornamenti, mantenendo sempre un altissimo livello tecnologico. Il modello più recente – il Gripen E – è stato consegnato per la prima volta alla Swedish Air Force solo nell’ottobre scorso, a conferma di come il programma continui a evolversi seguendo l’eccellenza tecnologica.
Il Gripen E si distingue non solo per le sue doti aerodinamiche, ma soprattutto per aver rivoluzionato il concetto stesso di efficienza in combattimento. Lungo poco più di 15 metri, con una massa massima al decollo che sfiora le 16,5 tonnellate, è progettato per tornare in volo dopo aver fatto rifornimento e ricaricato armamenti in soli 10-20 minuti, anche su piste non preparate, grazie alla sua proverbiale rapidità di turnaround e alla manutenzione semplificata.
Il segreto del Gripen sta nell’equilibrio tra peso, potenza del motore General Electric F414-GE-39E e capacità di carico. L’aereo presenta superfici canard-delta che gli conferiscono grande manovrabilità, riducendo la distanza minima di decollo e consentendo operazioni da piste e strade semi-preparate, un’idea nata per resistere a scenari di guerra ad alta intensità o sotto minaccia diretta alle basi.
Operatività del Gripen E
Dal punto di vista operativo, il Gripen E si impone per l’avionica d’avanguardia: integra radar AESA Raven ES-05, sensori IRST Skyward-G, sistema di fusione dati “best sensor dominates” e una suite completa di contromisure elettroniche. La sensoristica avanzata consente di individuare bersagli a lunghissima distanza e affrontare anche minacce a bassa traccia radar. L’aereo può equipaggiare missili aria-aria di quarta e quinta generazione, armi stand-off di attacco terrestre, bombe di precisione e sofisticati pod da guerra elettronica.
La capacità di carico su 10 punti d’aggancio gli permette di trasportare combinazioni di armamento tra le più flessibili del panorama mondiale. Sottolineare che un solo Gripen può portare fino a nove missili aria-aria, sedici bombe leggere o quattro missili antinave RBS-15, mette in luce una versatilità senza rivali nella sua categoria, anche grazie a un massiccio incremento dei serbatoi interni rispetto alle generazioni precedenti.
L’introduzione del Gripen E si inserisce in uno scenario internazionale di forte competizione, dovendo reggere il confronto con avversari come F-35, F-16, Dassault Rafale ed Eurofighter Typhoon. Tuttavia, il jet svedese conserva un vantaggio chiave: costi di acquisizione e gestione sensibilmente inferiori, modularità completa e una politica Saab di open architecture che consente agli Stati acquirenti di personalizzare i sistemi d’arma e software secondo le esigenze nazionali.
Questo aspetto facilita grandemente l’adozione in contesti operativi anche molto diversi tra loro e ha favorito negli anni contratti di esportazione non solo con paesi NATO, ma anche con nazioni che cercano alternative autonome al dominio USA. Il Gripen, infatti, è stato adottato da forze aeree di Svezia, Sudafrica, Thailandia, Brasile, Repubblica Ceca e Ungheria, mentre la Colombia ne ha già programmato l’acquisto.
Adattamento tattico
Un altro aspetto distintivo riguarda la rapidità di adattamento nelle differenti missioni, confermata dai recenti impegni operativi. La stampa svedese segnala che quest’anno, per la prima volta, i Gripen sono stati impiegati in combattimento diretto da parte dell’aeronautica thailandese in un confronto con il vicino Cambogia, oltre a presenziare alle classiche attività di air policing in Polonia, azione simbolica nel quadro delle missioni NATO per la tutela dello spazio aereo orientale.
Già nel 2014, i Gripen avevano dato prova della loro efficacia nella realizzazione della no-fly zone sopra la Libia su mandato NATO, dimostrando capacità di interoperabilità, affidabilità e prontezza nell’ambito delle operazioni multilaterali.
Grazie a queste peculiarità, la trattativa tra Svezia e Ucraina acquisisce una reale portata storica. L’acquisto di 150 Gripen da parte di Kyiv non solo ammoderna in profondità la sua difesa aerea, ma suggella anche una nuova fase dell’industria bellica svedese che, da sempre neutrale, ora si pone come garante di sicurezza per un paese oggetto di aggressione e simbolo della resistenza europea.
Si tratta di una scelta che offre all’Ucraina caccia moderni e interoperabili, in grado di essere rimessi in volo in tempi record e adattati in base alle minacce del momento, nonché di operare da infrastrutture minime, dettaglio cruciale in condizioni di conflitto prolungato. Da oggi, il Gripen non è più soltanto una brillante piattaforma tecnologica: è l’emblema di una nuova solidarietà europea, l’arma che può davvero cambiare le regole del confronto nei cieli dell’Est.
Le tensioni tra Washington e Pechino hanno raggiunto un nuovo picco critico con l’annuncio da parte della Cina di ulteriori restrizioni sull’esportazione delle terre rare, minerali strategici essenziali per la produzione di tecnologie avanzate, armamenti militari e dispositivi elettronici. Quello che sembrava un fragile accordo commerciale raggiunto nei mesi precedenti rischia ora di crollare completamente, con entrambe le potenze che si accusano reciprocamente di aver violato gli impegni presi e di aver innescato una pericolosa escalation proprio a poche settimane da un incontro cruciale tra il presidente americano Donald Trump e il leader cinese Xi Jinping.
La cina espande i controlli: dodici elementi su diciassette sotto restrizione
La Repubblica Popolare Cinese ha ampliato drasticamente il proprio controllo sulle esportazioni di elementi delle terre rare attraverso l’Annuncio numero 61 del 2025, pubblicato dal Ministero del Commercio cinese. Le nuove regole, che entreranno in vigore in due fasi l’8 novembre e il 1° dicembre 2025, aggiungono cinque nuovi elementi alla lista delle sostanze sottoposte a restrizioni: olmio, erbio, tulio, europio e itterbio. Questi si vanno ad aggiungere ai sette già inclusi ad aprile scorso, portando il totale degli elementi controllati a dodici su diciassette che compongono la famiglia completa delle terre rare.
La portata di queste misure va ben oltre il semplice controllo delle materie prime. Le nuove normative richiedono che le aziende straniere ottengano una licenza di esportazione dal governo cinese anche per prodotti che contengono appena lo 0,1% di elementi delle terre rare di origine cinese. Questo significa che un’automobile costruita negli Stati Uniti e venduta in Messico richiederebbe l’approvazione di Pechino prima della vendita, a causa dei chip presenti nel veicolo che potrebbero contenere tracce di materiali cinesi. Le restrizioni si estendono anche alle tecnologie di raffinazione e alle attrezzature di produzione utilizzate per estrarre, fondere, separare e riciclare questi minerali strategici.
Il “bazooka” di pechino: le accuse dell’amministrazione Trump
Il rappresentante commerciale degli Stati Uniti Jamieson Greer ha definito le nuove limitazioni cinesi come “un atto di coercizione economica sull’intera economia globale” e “una presa di potere sulla catena di approvvigionamento globale”. Durante una conferenza stampa congiunta con il Segretario al Tesoro Scott Bessent, Greer ha avvertito che le ripercussioni potrebbero estendersi a vari settori, inclusi beni di consumo e automobili in tutto il mondo. Le dichiarazioni di Bessent sono state ancora più forti: “Hanno puntato un bazooka contro le catene di approvvigionamento e la base industriale dell’intero mondo libero”, ha affermato il Segretario al Tesoro, aggiungendo che “la Cina è un’economia a comando e controllo, ma non comanderanno né controlleranno noi”.
L’amministrazione Trump ha reagito minacciando di reintrodurre tariffe al 100% su tutte le importazioni cinesi a partire dal 1° novembre, raddoppiando di fatto l’aliquota tariffaria complessiva che arriverebbe intorno al 130%. Trump ha descritto le azioni cinesi come “straordinariamente aggressive” e ha persino ventilato la possibilità di cancellare l’incontro programmato con Xi Jinping durante il vertice della Cooperazione Economica Asia-Pacifico (APEC) che si terrà in Corea del Sud tra il 29 ottobre e il 1° novembre. Tuttavia, Bessent ha mantenuto un tono più cauto, affermando che l’incontro tra i due leader è ancora previsto e che “abbiamo avuto comunicazioni sostanziali con i cinesi negli ultimi giorni”.
La dipendenza americana: il 90% della raffinazione mondiale in mani cinesi
La dipendenza americana dalla Cina per le terre rare è drammaticamente evidente nei numeri. La Cina controlla circa il 70% dell’estrazione mineraria globale di terre rare e oltre il 90% della capacità di raffinazione mondiale, secondo l’Agenzia Internazionale per l’Energia. Gli Stati Uniti importano circa il 70% dei propri composti e metalli di terre rare dalla Cina, secondo il Geological Survey americano. Questi elementi sono fondamentali per una vasta gamma di tecnologie militari statunitensi, inclusi i caccia F-35, i sottomarini delle classi Virginia e Columbia, i droni Predator, i missili Tomahawk, i sistemi radar e le bombe intelligenti di precisione.
Jeremy Siegel, professore emerito di finanza all’Università della Pennsylvania, ha espresso frustrazione durante un’intervista alla CNBC: “È scandaloso che non possediamo una riserva strategica di terre rare e che permettiamo alla Cina di monopolizzare il 90% del processo di raffinazione. Dove eravamo?”. L’assenza di capacità di lavorazione domestica per le terre rare pesanti, particolarmente critiche per applicazioni militari e tecnologiche avanzate, rappresenta una vulnerabilità strategica significativa per gli Stati Uniti.
La risposta cinese alle critiche americane è stata altrettanto decisa. Durante una conferenza stampa del Ministero del Commercio, una portavoce ha chiarito che “finché le terre rare sono destinate ad applicazioni civili, le esportazioni riceveranno l’approvazione”. Ha inoltre sottolineato che le nuove regole rappresentano “un’azione valida per proteggere i nostri diritti” e che l’obiettivo è “impedire l’esportazione illegale di materiali di terre rare che potrebbero potenzialmente essere utilizzati nella creazione di armi di distruzione di massa”. La funzionaria ha accusato gli Stati Uniti di aver distorto significativamente i fatti e le azioni intraprese dalla Cina, esacerbando incomprensioni e incitando allarme.
Pechino ha anche respinto le accuse americane sostenendo di aver informato Washington prima dell’annuncio del nuovo sistema di licenze e che le proprie regole sono in linea con le pratiche adottate da altre grandi economie. La Cina ha collegato l’escalation retorica all’espansione inattesa da parte del Dipartimento del Commercio americano della “Entity List” alla fine di settembre, che ora include aziende cinesi e non solo che tentano di aggirare le restrizioni all’esportazione di apparecchiature per la produzione di chip e altre tecnologie avanzate.
Settori a rischio: difesa, semiconduttori e veicoli elettrici nel mirino
Analisti ed esperti vedono le mosse cinesi come una risposta logica e proporzionata alle azioni di Trump, piuttosto che una nuova strategia per ottenere leva nei negoziati futuri. Paul Triolo, specialista di Cina e tecnologia presso la società di consulenza Albright Stonebridge, ha osservato che l’attuale escalation ricorda il deterioramento delle relazioni bilaterali visto a maggio, aggiungendo che “ci siamo avvicinati al bordo di un abisso” e notando che la posta in gioco è ancora più alta ora.
L’amministrazione Trump sta lavorando per costruire una catena di approvvigionamento domestica per ridurre la dipendenza dalla Cina. A luglio, il Dipartimento della Difesa ha siglato un accordo storico con MP Materials, la più grande società mineraria di terre rare degli Stati Uniti, che gestisce la miniera di Mountain Pass in California, l’unica miniera di terre rare pienamente operativa nel paese. L’accordo multimiliardario comprende investimenti azionari, garanzie sui prezzi e contratti di acquisto a lungo termine, con il Dipartimento della Difesa destinato a diventare il maggiore azionista della società.
Nel dettaglio, il Pentagono ha garantito un prezzo minimo di 110 dollari per chilogrammo di produzione di neodimio e praseodimio per i prossimi dieci anni, quasi il doppio del prezzo di mercato prevalente in Cina. L’accordo prevede anche un impegno decennale per l’acquisto di magneti e include un investimento di 400 milioni di dollari in nuove azioni emesse dalla società. MP Materials costruirà un nuovo impianto di produzione di magneti, denominato “10X Facility”, che si prevede inizierà la messa in servizio nel 2028 e porterà la capacità totale di produzione di magneti di terre rare degli Stati Uniti a circa 10.000 tonnellate metriche.
James Litinsky, fondatore e CEO di MP Materials, ha dichiarato che “questa iniziativa segna un’azione decisiva da parte dell’amministrazione Trump per accelerare l’indipendenza della catena di approvvigionamento americana”. L’azienda ha anche registrato una produzione trimestrale di concentrato di terre rare aumentata di quasi il 45%, raggiungendo 13.145 tonnellate metriche, mentre la produzione di ossido di neodimio-praseodimio è aumentata di quasi il 120%, totalizzando 597 tonnellate metriche nel secondo trimestre del 2025. Le azioni di MP Materials sono schizzate del 509,4% quest’anno, beneficiando dei rinnovati riflettori sulle terre rare in mezzo all’escalation delle tensioni.
Tuttavia, costruire una capacità di lavorazione domestica per le terre rare negli Stati Uniti richiederà probabilmente un decennio o più, anche con tariffe che inclinano il campo di gioco a favore della produzione americana. La lavorazione delle terre rare su larga scala richiede intervento governativo per garantire sia accordi di acquisto che finanziamenti di base a causa della sua complessità tecnica e della mancanza di prezzi trasparenti. Esistono 17 elementi delle terre rare, che si combinano in modi diversi in ciascun deposito, e gli impianti pilota per elaborare i processi chimici per separarli non si traducono automaticamente in un’operazione su vasta scala.
Gli esperti avvertono che le restrizioni cinesi potrebbero avere ripercussioni globali significative. Ryan Kiggins, professore di scienze all’Università dell’Oklahoma Centrale, ha osservato che “le terre rare sono centrali in questa lotta: sono vitali per armamenti avanzati, veicoli elettrici e la transizione verso l’energia sostenibile, industrie che caratterizzano il potere nel 21° secolo”. Le restrizioni colpiscono una vasta porzione dell’economia statunitense e globale, poiché le terre rare sono fondamentali per la produzione di chip per computer necessari per molti prodotti come smartphone e sistemi di intelligenza artificiale, magneti per alimentare droni, robot e automobili.
Il rischio del disaccoppiamento: verso due catene di approvvigionamento parallele
I settori della difesa, dei semiconduttori e dei veicoli elettrici sono quelli che probabilmente subiranno il colpo più duro, secondo Garcia Herrero, analista presso la banca d’investimento francese Natixis. Le principali aziende della difesa, Apple, Nvidia, Tesla, Ford e General Motors sono particolarmente vulnerabili. Le nuove regole cinesi prendono di mira elementi delle terre rare critici per le applicazioni di difesa e chip semiconduttori, estendendosi a olmio, erbio, tulio, europio e itterbio. Questo annuncio ha fatto seguito ai controlli imposti sui materiali magnetici al neodimio ad aprile 2025, che hanno causato il panico nell’industria automobilistica e hanno portato Ford a chiudere temporaneamente alcuni dei suoi stabilimenti di produzione.
Bessent ha indicato che gli Stati Uniti si aspettano di ottenere un sostegno sostanziale dagli europei, dall’India e dalle democrazie asiatiche per contrastare le mosse di Pechino. Durante le riunioni annuali del Fondo Monetario Internazionale e della Banca Mondiale a Washington, i funzionari americani hanno incontrato omologhi di vari paesi per coordinare una risposta collettiva. I ministri delle finanze del Gruppo dei Sette discuteranno una risposta congiunta per scoraggiare le mosse previste dalla Cina per controllare la fornitura globale di terre rare.
Tuttavia, l’ironia della situazione non è sfuggita agli analisti: mentre Washington chiede aiuto con una mano, con l’altra mantiene tariffe elevate proprio sui paesi da cui cerca sostegno. Gli Stati Uniti hanno imposto una tariffa del 50% sull’India anche mentre chiama Nuova Delhi un partner nella sicurezza delle catene di approvvigionamento. L’India, dal canto suo, ha riserve limitate di terre rare e affronta i propri ostacoli produttivi.
Le prospettive per l’incontro Trump-Xi in Corea del Sud rimangono incerte. Il presidente sudcoreano Lee Jae Myung ospiterà i leader dell’APEC il 31 ottobre e il 1° novembre nella città costiera sudorientale di Gyeongju. Trump dovrebbe arrivare il 29 ottobre per una visita di uno o due giorni, mentre Xi dovrebbe visitare la Corea del Sud il 30 ottobre. Seul sta coordinando separatamente con Pechino per finalizzare i dettagli della visita del presidente cinese, che non si recava in Corea del Sud dal 2014.
Sia Bessent che Greer hanno espresso un cauto ottimismo sul fatto che Pechino possa riconsiderare e tornare ai negoziati. “Prevediamo che non procederanno con i controlli e che possiamo tornare alla nostra posizione precedente di una settimana fa”, ha dichiarato Greer, “dove avevamo aliquote tariffarie concordate e il flusso di magneti di terre rare che avevamo stabilito”. Bessent ha anche suggerito che l’attuale pausa tariffaria di 90 giorni tra Stati Uniti e Cina potrebbe essere prolungata, sebbene abbia affermato che le discussioni su questa estensione non avverranno prima che i leader si incontrino in Corea del Sud.
Le restrizioni si ritorceranno su Xi?
Tuttavia, alcuni esperti ritengono che le restrizioni cinesi sulle terre rare potrebbero ritorcersi contro Xi. Secondo analisti, Pechino potrebbe aver esteso eccessivamente la propria leva sulle terre rare, rischiando di perdere il controllo su quella che sta emergendo come la catena di approvvigionamento più cruciale del 21° secolo. Le azioni della Cina stanno accelerando gli sforzi occidentali per sviluppare alternative, con investimenti record che affluiscono nelle catene di approvvigionamento strategiche di terre rare occidentali nel 2025. Il 2025 è destinato a essere un punto di svolta, poiché un anno di tariffe e guerre commerciali spinge investimenti record nella fornitura strategica occidentale di terre rare.
Il futuro potrebbe essere caratterizzato da sistemi paralleli di raffinazione e approvvigionamento per le terre rare e le tecnologie associate, mentre Stati Uniti e Cina si allontanano ulteriormente. Tobin Marcus, analista di Wolfe Research, ha indicato che “se le regole dovessero essere applicate rigorosamente a tempo indeterminato, sarebbero dirompenti non solo per gli Stati Uniti, ma a livello globale”. Le terre rare sono anche essenziali per i settori dei semiconduttori e automobilistico, e le restrizioni potrebbero potenzialmente fermare l’impennata globale dell’intelligenza artificiale, che si basa su questi chip per l’addestramento.
Mentre la retorica tra le due superpotenze continua a intensificarsi, gli osservatori rimangono concentrati sulle prossime settimane come momento critico per determinare se la relazione commerciale tra Stati Uniti e Cina può essere salvata o se il mondo si sta muovendo verso un disaccoppiamento più profondo delle due maggiori economie globali. La posta in gioco non potrebbe essere più alta: le terre rare rappresentano non solo una questione economica, ma una componente fondamentale della sicurezza nazionale, della supremazia tecnologica e del potere geopolitico nel ventunesimo secolo.
Negli ultimi giorni, il fragile equilibrio nella Striscia di Gaza ha mostrato quanto il cessate il fuoco fra Israele e Hamas sia solo una tregua sottile, sostenuta più da necessità geopolitiche che da un reale mutamento delle dinamiche di potere.
Hamas, nonostante le devastazioni subite e la perdita di buona parte delle sue infrastrutture, sta tentando con forza di riaffermarsi come unica autorità legittima nel territorio, colpendo duramente le milizie rivali e i clan armati che negli ultimi mesi hanno sfruttato il vuoto di potere per consolidare il proprio controllo su intere aree urbane.
Le vie di Gaza City e Khan Yunis, dove fino a poche settimane fa regnavano le bande armate in una drammatica frammentazione sociale, vedono ora la presenza di pattuglie di Hamas, uomini in divisa che cercano di ristabilire un ordine apparente. Questa riaffermazione di forza è un messaggio politico oltre che militare: Hamas vuole dimostrare di essere ancora il centro di gravità della governance palestinese, nonostante le pressioni internazionali affinché si ritiri dal potere e consenta la creazione di un’amministrazione transitoria sotto supervisione esterna.
Hamas non vuole perdere Gaza
Il cessate il fuoco, frutto della mediazione di Stati Uniti, Qatar, Egitto e Turchia, ha posto sul tavolo condizioni molto chiare: il disarmo progressivo di Hamas e il trasferimento della gestione del territorio a un’entità amministrativa internazionale, accompagnata da un piano di ricostruzione in più fasi. Ma Hamas ha resistito, dichiarando che non può “disarmare mentre Gaza è ancora instabile e soggetta a continue infiltrazioni”. Israele, dal canto suo, conserva il controllo militare di diverse zone della Striscia e osserva con preoccupazione l’evolversi della situazione. Il primo ministro Benjamin Netanyahu ha più volte ribadito che “la guerra finirà solo quando Hamas sarà completamente smantellata”.
Sul terreno la realtà è molto più complessa: dopo due anni di bombardamenti, occupazioni parziali e carestia, il tessuto sociale della Striscia è frantumato. Clan come i Doghmush, gli Abu Shabab e gli al-Mujaida si sono armati, hanno creato checkpoint autonomi e si sono imposti in questi anni come nuovi centri di potere locale. Alcuni di questi gruppi hanno avuto nei mesi scorsi un sostegno indiretto da parte di Israele, che li ha considerati un possibile contrappeso a Hamas. Ma questa strategia, avvertono gli analisti, rischia di riprodurre dinamiche già viste in Afghanistan negli anni Ottanta, quando le potenze esterne alimentarono milizie locali che in seguito si rivoltarono contro chi le aveva sostenute.
Le violenze tra Hamas e i clan non si sono fermate con la tregua. Nel quartiere di Sabra, a Gaza City, gli scontri con la potente famiglia Doghmush hanno causato almeno 27 morti, tra cui otto membri di Hamas, mentre nella zona di Khan Yunis il raid contro il clan al-Mujaida ha lasciato sul campo decine di vittime.
Questi episodi rivelano la difficoltà del movimento islamista nel riprendere un controllo capillare del territorio e nel garantire la sicurezza interna. Le stesse fonti palestinesi riconoscono che la proliferazione di armi leggere e la totale assenza di un’autorità civile efficace rendono ogni tentativo di stabilizzazione un’impresa quasi impossibile.
Trump appoggia il regolamento di conti
Donald Trump, oggi presidente degli Stati Uniti e principale mediatore del cessate il fuoco, ha commentato la repressione interna di Hamas in termini sorprendentemente diretti, affermando che il gruppo “ha eliminato alcune gang pericolose” e che questo “non lo preoccupa affatto”. Tuttavia, ha precisato che gli Stati Uniti sono pronti a intervenire “rapidamente e con forza” nel caso Hamas rifiuti di disarmarsi, lasciando intendere che Washington non intende consentire una rinascita militare del movimento.
Fonti diplomatiche vicine alle delegazioni arabe coinvolte nei colloqui hanno spiegato che la Casa Bianca punta a consolidare una forma di amministrazione neutrale, composta da tecnocrati palestinesi ma supervisionata da un’alleanza internazionale guidata dagli Stati Uniti.
Nel frattempo, all’interno di Gaza cresce un sentimento ambivalente fra la popolazione civile. Alcuni cittadini vedono nel ritorno delle pattuglie di Hamas una garanzia minima di sicurezza dopo mesi di anarchia, mentre altri denunciano la brutalità delle operazioni di “ripulitura” della milizia islamista, accusata di esecuzioni sommarie e arresti arbitrari. Le famiglie delle vittime parlano di incursioni notturne, sparizioni e torture, segnali di un clima di paura che ricorda gli anni più bui del controllo totalitario di Hamas.
A questo si aggiunge una crisi umanitaria ancora devastante. Secondo organizzazioni internazionali, oltre l’80% della popolazione di Gaza vive oggi senza accesso stabile all’acqua potabile, e le infrastrutture sanitarie restano paralizzate: solo un terzo degli ospedali è operativo. Le tensioni tra le diverse fazioni palestinesi rendono inoltre difficoltosa la distribuzione equa degli aiuti, spesso confiscati dai gruppi armati per rafforzare la propria influenza.
La lotta è per il potere non per la libertà
Tra i clan più attivi dopo il cessate il fuoco figura anche quello di Abu Shabab, operativo nel sud della Striscia, che ha istituito posti di blocco e imposto “tasse di passaggio” a convogli umanitari, tra cui veicoli delle Nazioni Unite e della Croce Rossa. Secondo fonti locali, l’esercito israeliano, pur consapevole di queste attività, avrebbe evitato di intervenire, probabilmente per non rischiare nuovi scontri e per favorire la pressione interna su Hamas.
Questa tolleranza, tuttavia, ha alimentato la percezione che Tel Aviv stia lasciando fare ai gruppi palestinesi, per non incorrere in nuovi scontri armati, una strategia che molti pensano sia un “consiglio” di Trump.
Mentre le cancellerie occidentali guardano con crescente incertezza al futuro politico della Striscia, Hamas tenta di dimostrare la propria capacità di governare. I portavoce del movimento affermano di voler “garantire la sicurezza e la stabilità, in vista di un’amministrazione condivisa con altri attori palestinesi”.
Tuttavia, sul terreno, le armi parlano più delle parole. Ogni quartiere di Gaza racconta una storia diversa: a nord prevale ancora la legge dei clan, a sud si combattono guerre private per il controllo degli aiuti, al centro Hamas tenta di imporre la sua disciplina. L’immagine di un potere frammentato è oggi il riflesso del fallimento collettivo di tutte le parti coinvolte, incapaci di offrire ai palestinesi un orizzonte politico chiaro.
Gli analisti della regione concordano sul fatto che la tregua mediata dagli Stati Uniti potrà durare solo se si interverrà su due fronti contemporaneamente: la ricostruzione materiale del territorio e la ricostruzione istituzionale della governance. In assenza di una forza politica condivisa e legittimata, Gaza rischia di scivolare in una condizione di “somalizzazione”, dove il potere si disperde tra fazioni locali, signori della guerra e interessi esterni.
Le prospettive per una stabilità duratura, dunque, restano incerte, e gli occhi del mondo tornano a puntarsi su una terra dove il confine tra guerra e pace è sempre più sottile e dove il cessate il fuoco non coincide con la fine della violenza, ma solo con il suo mutare di forma.
La guerra in Ucraina ha portato sotto i riflettori una nuova categoria di armamenti, vera protagonista dei massicci attacchi alle infrastrutture: il drone iraniano HESA Shahed 136, conosciuto anche come Geran-2 in Russia. Sviluppato dalla HESA in collaborazione con la Shahed Aviation Industries, questo sistema rappresenta uno degli esempi più avanzati di munizioni vaganti, spesso definite “droni kamikaze” o “suicide drone”. Progettato per la distruzione di obiettivi statici a lungo raggio, il Shahed 136 ha ridisegnato la logica degli attacchi a distanza, soprattutto per ciò che riguarda il rapporto tra costi e efficacia militare.
Ciò che distingue il Shahed 136 dagli altri droni da combattimento non sta tanto nel livello tecnologico assoluto, quanto nella sua filosofia di design: il focus è stato posto su affidabilità, facilità di fabbricazione e basso costo, fattori che ne consentono non solo la produzione in massa, ma anche l’impiego in sciami per saturare le difese avversarie. Il suo valore produttivo si aggira attorno agli 20/50.000 dollari per unità, una cifra irrisoria se confrontata con il costo esorbitante dei missili intercettatori impiegati per abbatterlo, spesso superiori a un milione di dollari ciascuno. Questa asimmetria economica permette a chi lo impiega di logorare le risorse nemiche, rendendo insostenibile la difesa tradizionale contro attacchi su ampia scala.
Nel concreto, lo Shahed 136 si presenta come un velivolo con ala delta e propulsore a spinta posteriore, alimentato da un motore a combustione interna, derivato da tecnologie tedesche riadattate. È lungo 3,5 metri, ha un’apertura alare di circa 2,5 metri e pesa tra i 200 e i 250 chilogrammi. Il sistema di lancio è semplice ma efficace: cinque droni possono essere schierati simultaneamente tramite appositi rack mobili, consentendo una distribuzione efficiente anche da veicoli. Poco dopo il lancio, un booster viene separato, lasciando che il motore a pistone mantenga la propulsione per l’intero percorso.
Le prestazioni operative del Shahed 136 sono notevoli: può raggiungere una velocità compresa tra i 185 e i 200 km/h e vanta un’autonomia tra i 2.000 e i 2.500 km. Questo significa che può colpire obiettivi ben oltre le linee del fronte e spesso eludere le barriere radar grazie alla sua ridotta superficie riflettente e alla traiettoria di volo radente. La rumorosità del motore lo ha reso noto tra la popolazione ucraina come “flying moped” (ciclomotore volante), testimonianza del suo impatto psicologico oltre che materiale. Il payload, tipicamente costituito da una testata esplosiva di 40-50 kg, è sufficiente a devastare infrastrutture energetiche, depositi di carburante e centri di comando.
La semplicità delle sue componenti interne, spesso provenienti dal mondo commerciale, ha permesso all’Iran di aggirare le tensioni derivanti dalle sanzioni internazionali: nella sua elettronica sono state individuate parti occidentali di uso civile, un segno dell’astuzia ingegneristica impiegata per sostituire tecnologie militari vietate. Questo “inganno” ha spesso alimentato dibattiti etici e legali sulla proliferazione di armi autonome, poco controllabili e potenzialmente impiegabili contro civili. L’efficacia nel targeting statico è tale da aver causato danni ingenti alle reti energetiche ucraine, privando intere città di luce e riscaldamento in pieno inverno. Al tempo stesso, le limitazioni del drone sono evidenti nel contesto delle operazioni tattiche “dinamiche”: la velocità moderata e la mancanza di manovrabilità lo rendono inadatto a colpire bersagli mobili o ad agire in ambienti saturi di difese elettroniche avanzate.
Recentemente, sono state realizzate versioni modificate della Shahed 136 da parte degli ingegneri russi, capaci di adattarsi meglio alle esigenze del conflitto in Ucraina. Queste varianti integrano aggiornamenti nel sistema di guida e targeting, permettendo attacchi anche contro posizioni difensive avanzate. Il drone, tra l’altro, ha dimostrato di possedere una certa resistenza agli sforzi di guerra elettronica, benché sia vulnerabile ai disturbi e jamming. Gli ucraini stanno affinando le contromisure, ma la massa degli attacchi Shahed mette comunque a dura prova le capacità di risposta, costringendo le forze difensive a impiegare risorse costose.
Sul fronte tecnico, Iran e altri paesi stanno spingendo sugli sviluppi futuri della piattaforma, con ricerche orientate verso sistemi propulsivi ibridi, motori a fuel cell o l’integrazione di materiali avanzati. Queste innovazioni puntano ad aumentare ulteriormente l’autonomia, la silenziosità e la resistenza ai disturbi radar, con l’obiettivo di rendere il drone ancora più difficile da intercettare pur mantenendo un costo contenuto. L’integrazione dell’intelligenza artificiale nei sistemi di volo è un orizzonte già esplorato, in grado di adattare le rotte in tempo reale sulla base delle minacce o delle caratteristiche di ciascuna missione.
La strategia iraniana si basa sull’asimmetria: l’introduzione di armi economiche e facilmente replicabili permette di proiettare potenza su scala regionale e globale, rendendo obsoleti i paradigmi di deterrenza tradizionali. Il Shahed 136 è stato esportato e impiegato attivamente da proxy come gli Houthi nello Yemen, e la sua “replica” è ormai oggetto di interesse e studio negli Stati Uniti e presso diversi paesi occidentali, segno che il drone iraniano rappresenta un modello per l’innovazione bellica internazionale.
Le implicazioni legali sono ancora oggetto di dibattito. La facilità con cui può essere impiegato contro obiettivi civili ha portato alcune leadership, come quella ucraina, a definirlo un’arma terroristica. La comunità internazionale è chiamata a riflettere sul futuro dei sistemi di arma autonomi e sulle normative necessarie a limitarne gli effetti collaterali e la dispersione.
L’ecosistema del Shahed 136 viene completato dalla presenza di numerose varianti e piattaforme sorelle, come il Shahed 131 e il Shahed 238, oltre agli aggiornamenti russi (Geran-2), che differiscono per peso, autonomia e capacità di carico. Il continuo perfezionamento di questi sistemi, nonché la loro adozione da parte di attori non statali, sta innescando una “corsa alla replica” in tutto il mondo, trasformando il Shahed in un vero punto di riferimento per la guerra del futuro.
Scheda tecnica dello Shahed 136
Per arricchire il quadro sullo Shahed 136, è fondamentale approfondire le sue caratteristiche tecniche. La cellula del drone si basa su una configurazione ad ala delta con due derive alle estremità, una soluzione che assicura stabilità e semplicità costruttiva. La fusoliera è realizzata principalmente con materiali compositi leggeri come fibra di carbonio e strutture a nido d’ape, favorendo sia la robustezza sia la leggerezza, oltre a minimizzare la traccia radar. L’intero sistema pesa circa 200 kg, con una lunghezza di 3,5 metri e un’apertura alare di 2,5 metri.
Il motore è un elemento singolare dello Shahed 136: parliamo di un motore a pistoni quattro cilindri MD-550 da circa 37-50 cavalli, una versione prodotta in Iran e Cina derivata da tecnologia tedesca Limbach ottenuta tramite reverse engineering. Funziona con una semplice elica a due pale in configurazione “pusher”, cioè posizionata posteriormente per spingere il velivolo anziché trainarlo. Questo contribuisce al caratteristico rumore che lo ha reso riconoscibile sul campo, ma garantisce anche una buona efficienza grazie al basso consumo di carburante e all’elevata energia specifica della benzina rispetto alle batterie moderne.
Il decollo avviene tramite lancio assistito da razzi RATO, che vengono separati subito dopo pochi secondi di volo, lasciando al motore a combustione interna la propulsione principale. La versatilità del sistema di lancio consente la preparazione e il dispiegamento rapido da veicoli mobili, inclusi camion civili, rendendo i lanci difficili da prevedere o neutralizzare. Inoltre, la capacità di lanciare fino a cinque droni in sequenza rafforza il concetto di saturazione delle difese avversarie.
Dal punto di vista dell’avionica, lo Shahed 136 impiega un sistema di navigazione elementare ma efficace: si basa su un’accoppiata di guida inerziale e GPS commerciale, integrando correzioni via GLONASS, con possibilità di ricevere aggiornamenti sulla posizione tramite moduli di comunicazione 4G o SIM satellitari. Numerose analisi di rottami hanno evidenziato la presenza di componenti elettronici di origine occidentale come chip prodotti da Texas Instruments, Altera e Microchip Technology oltre che pompe del carburante e convertitori di tensione provenienti dall’Europa o dalla Cina. Il drone può quindi essere pre-programmato per raggiungere in autonomia un bersaglio statico, ma esistono versioni dotate di sensori aggiuntivi per l’attacco a bersagli mobili, come dimostrato dagli impieghi nel Golfo di Oman contro navi in movimento.
La testata bellica è collocata frontalmente e pesa tra i 30 e i 50 kg, con esplosivo ad alto potenziale solitamente a frammentazione. Le varianti disponibili includono configurazioni anti-personale, anti-infrastruttura o per la neutralizzazione di radar. Il drone è in grado di volare tra i 60 e i 4.000 metri di altitudine, una caratteristica che lo rende estremamente versatile per missioni a bassa quota per eludere la maggior parte dei sistemi radar.
Una delle innovazioni più discusse per il futuro è l’integrazione di propulsori ibridi e intelligenza artificiale, con l’obiettivo di aumentare ulteriormente la sopravvivenza e la precisione, riducendo la rumorosità e aumentando l’autonomia. Materiali innovativi, gestione intelligente dei flussi e tecnologie fuel cell rappresentano le frontiere in via di esplorazione per rendere droni come il Shahed 136 ancora più avanzati e difficili da contrastare.
Le specifiche tecniche nel dettaglio includono:
Motore: Mado MD-550, quattro cilindri, 37-50 CV (derivato Limbach L550E)
Propulsione: Elica bipala “pusher”, posteriore
Peso: Circa 200-250 kg (payload 30-50 kg di esplosivo)
Dimensioni: Lunghezza 3,5 m – apertura alare 2,5 m
Velocità di crociera: 185-200 km/h
Autonomia operativa: 2.000-2.500 km
Quota di servizio: 60-4.000 m
Sistema di guida: INS + GPS/GLONASS commerciale, possibilità di ricezione segnali via GSM/SAT
La combinazione di semplicità, modularità e adattabilità elettronica fa dello Shahed 136 un prodotto bellico unico nel suo genere, in grado di rappresentare una minaccia rilevante per sistemi difensivi tradizionali e scenario in rapida evoluzione.
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