11 Dicembre 2025
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Dossier. La riforma del consenso sessuale

L’evoluzione del Diritto Penale Sessuale e l’ancoraggio Italiano

L’approvazione recente di una proposta di legge da parte della Camera dei deputati italiana, incentrata sull’introduzione del requisito del “consenso libero e attuale” per la configurazione dei reati di violenza sessuale , segna una svolta storica per l’ordinamento penale nazionale. Tradizionalmente, la legge penale italiana, come quella di molti altri Paesi europei, definiva la violenza sessuale primariamente attraverso la prova dell’esercizio della forza, della minaccia o della costrizione da parte dell’aggressore. Il nuovo impianto normativo sposta radicalmente il focus dall’azione violenta dell’aggressore alla libertà di autodeterminazione sessuale della persona offesa e alla manifestazione positiva della sua volontà.

Questo cambiamento di paradigma proietta l’Italia in un movimento globale e in linea con le raccomandazioni internazionali. Il principio guida è che l’attività sessuale debba essere caratterizzata dalla manifestazione positiva di volontà. Questo recepimento, seppur parziale, si inserisce nel più ampio sforzo di allineare il diritto penale interno agli standard della Convenzione di Istanbul, la quale promuove l’idea fondamentale che qualsiasi atto sessuale non consensuale debba essere perseguito.

L’Imperativo Internazionale: la convenzione di Istanbul e l’UE

A livello europeo, il dibattito sul consenso è stato intenso, sebbene i risultati in termini di armonizzazione vincolante siano stati limitati. La Direttiva 2012/29/UE ha stabilito norme minime cruciali in materia di diritti, assistenza e protezione delle vittime di reato. Più recentemente, la Proposta di Direttiva sulla lotta alla violenza contro le donne ha evidenziato la drammatica diffusione della violenza sessuale, con statistiche che indicano come una donna su dieci nell’UE abbia riferito di esserne stata vittima.

Nonostante il chiaro impegno politico, l’Unione Europea si è scontrata con una notevole resistenza culturale e politica degli Stati membri nell’armonizzare la definizione di stupro basata sul consenso affermativo. Il Parlamento europeo aveva inizialmente proposto di definire il reato di aggressione sessuale (come atto non consensuale diverso dallo stupro) basandosi sul principio del consenso. Tuttavia, la direttiva adottata ha incluso solo definizioni a livello comunitario per reati specifici come la mutilazione genitale femminile e il matrimonio forzato, classificati come forme di sfruttamento sessuale delle donne. La mancata imposizione di una definizione paneuropea di stupro basata sul consenso è un segnale che l’adozione di tale modello non è semplicemente un atto tecnico-legislativo, ma una profonda sfida strutturale contro i sistemi penali tradizionali di tipo force-based predominanti nella maggior parte dei Paesi membri.

Tipologie di consenso nel diritto comparato

Il diritto penale comparato in materia di reati sessuali si articola attorno a due modelli principali:

  1. Modello Tradizionale (Force-Based): Questo modello, ancora prevalente nella maggioranza degli Stati dell’UE , richiede che l’accusa provi oggettivamente l’uso di violenza, la minaccia o la coercizione. In questo schema, la passività o il silenzio della vittima sono spesso erroneamente interpretati come un consenso passivo, rendendo il sistema probatorio estremamente gravoso per la persona offesa, che deve dimostrare di aver opposto una resistenza significativa.
  2. Modello del Consenso Affermativo (Consent-Based): Adottato da Paesi come Svezia e Spagna, richiede una manifestazione positiva, attiva, reversibile e specifica di volontà. L’iniziativa italiana, con il requisito del “consenso libero e attuale” , si muove in questa direzione, ponendo la mancanza di consenso al centro della fattispecie criminosa, indipendentemente dall’uso della forza.

Il Modello Svedese (2018): pioniere del consenso attivo

Il modello svedese, riformato nel 2018, rappresenta un riferimento cruciale in Europa per l’istituzione del consenso esplicito come elemento discriminante nella definizione dello stupro.

La Riforma Svedese: contesto e testo normativo

La legge svedese del 2018 ha stabilito in modo inequivocabile che qualsiasi attività sessuale compiuta in assenza di consenso esplicito costituisce stupro.6 La normativa ha superato il tradizionale requisito della forza, stabilendo che per la configurazione della violenza sessuale non è necessario l’uso di modalità violente o minacciose. Fino a quel momento, molte aggressioni sessuali non potevano essere perseguite come stupro se mancavano le caratteristiche di violenza, minaccia o costrizione.6

La Svezia, adottando questo principio, è diventata solamente il decimo stato in Europa a disancorare la definizione di stupro dalla forza fisica, con Amnesty International che ha definito la posizione predominante degli altri Stati membri come basata su una definizione “obsoleta”.5 Questo cambiamento legislativo è stato fortemente influenzato dalla pressione sociale e dalla campagna globale #MeToo.6

Giurisprudenza Svedese: la prova del non-consenso attivo

L’applicazione giudiziaria del modello svedese si concentra sulla valutazione della volontarietà e della libertà della partecipazione all’atto sessuale. La passività o il silenzio non sono mai sufficienti a stabilire il consenso valido. La giurisprudenza svedese è tenuta a indagare se la volontà della persona offesa sia stata manifestata in modo positivo e reversibile.

L’adozione del modello svedese ha avuto implicazioni dirette sul piano statistico, ampliando l’ambito del reato. I dati mostrano che circa un quinto degli stupri denunciati in Svezia riguarda atti sessuali che non implicano la penetrazione (vagina, ano o bocca). Questo dato dimostra che il passaggio da un sistema basato sulla forza a uno basato sul consenso ha permesso di classificare come stupro (la categoria di reato più grave) condotte che in precedenza sarebbero state relegate a reati minori o, in alcuni Paesi, non perseguite affatto. L’introduzione di un modello simile in Italia, che espanda la portata del reato includendo atti non penetrativi o non violenti, aumenterebbe l’efficacia protettiva del sistema penale, ma al contempo richiederebbe una notevole cautela nella comparazione statistica internazionale dei tassi di criminalità.

Sfide e classificazione dei reati contro i minori

Un ulteriore elemento di complessità nell’analisi del modello svedese riguarda la classificazione dei reati contro i minori. In Svezia, dove l’età del consenso è fissata a 15 anni, lo stupro minorile è incluso nelle statistiche generali di stupro. Questo approccio contrasta marcatamente con la prassi di molti altri Stati europei (dieci Paesi, tra cui Germania, Finlandia e Polonia) che escludono le attività sessuali con minori dalla definizione statistica di stupro.

La differenza di classificazione ha un impatto statistico indiscutibile. Ad esempio, in Svezia circa un terzo degli stupri denunciati tra il 2013 e il 2017 riguardava minori. La Germania, se avesse incluso nelle proprie statistiche di stupro gli atti che per la legge svedese rientrerebbero in tale categoria, avrebbe di fatto raddoppiato il numero di denunce. Questo evidenzia che la definizione legale del consenso (o la sua assenza per via dell’età) è un fattore determinante che influenza non solo la perseguibilità ma anche la percezione pubblica dell’incidenza della violenza sessuale in una nazione.

Il Modello Spagnolo (2022): riforma integrale e crisi giurisprudenziale

La Ley Orgánica 10/2022, universalmente nota come “Ley del solo sí es sí”, è l’esempio più ambizioso e al contempo problematico di riforma basata sul consenso in Europa. È stata concepita come una riforma integrale della libertà sessuale.

La Ley Orgánica 10/2022: la rivoluzione del reato unico

Il principio cardine della legge spagnola è che “solo sì significa sì”. Questo principio è stato tradotto in un’innovazione tecnica di vasta portata: l’eliminazione del reato di abuso sexual (atti sessuali senza consenso ma senza violenza o intimidazione) e la sua fusione in un’unica categoria denominata agresión sexual. In precedenza, l’agresión sexual richiedeva la prova della violenza o dell’intimidazione.

L’obiettivo normativo di questa unificazione era chiaro: garantire che l’attenzione processuale fosse concentrata esclusivamente sulla mancanza di consenso, indipendentemente dal fatto che l’aggressore avesse usato forza fisica o minaccia. La legge prevedeva inoltre misure complementari come l’aumento delle pene per lo stupro di gruppo e i reati sessuali che coinvolgono droghe, e l’elevazione di condotte come il catcalling a crimini.

La Falla Tecnica: la controversia sulle pene e la retroattività favorevole

Nonostante le intenzioni lodevoli, l’applicazione della Ley del solo sí es sí ha scatenato una grave crisi giurisprudenziale in Spagna. La riorganizzazione dei reati ha richiesto, come conseguenza tecnica, una revisione delle cornici edittali. Per poter inglobare il meno grave abuso sexual all’interno della più ampia categoria di agresión sexual senza incorrere in una sproporzione punitiva per le condotte meno violente, il legislatore ha abbassato il minimo edittale di pena per il reato unificato.

L’abbassamento dei minimi edittali ha innescato una conseguenza legale devastante e non prevista dal legislatore: l’applicazione del principio di retroattività della legge penale più favorevole (favor rei). Ciò ha permesso ai condannati per reati sessuali commessi prima dell’entrata in vigore della Legge 10/2022 di chiedere e ottenere la revisione delle loro sentenze sulla base dei nuovi, più bassi, minimi edittali. Ciò ha portato a centinaia di riduzioni di pena e, in alcuni casi, al rilascio anticipato di aggressori.

La dottrina ha criticato la riforma definendola espressione di “populismo punitivo”. La polemica è stata tale che il Primo Ministro spagnolo, Pedro Sánchez, ha dovuto scusarsi pubblicamente con le vittime di reati sessuali per le riduzioni di pena. La Relatrice Speciale delle Nazioni Unite sulla violenza contro le donne e le ragazze ha sottolineato che la legge era stata approvata con troppa fretta e che le sue conseguenze negative avrebbero potuto essere evitate con una migliore consultazione tecnica.

L’esperienza spagnola offre un monito fondamentale per l’Italia. La controversia strutturale dimostra che la fusione di reati che sono qualitativamente diversi (atti sessuali con e senza violenza o intimidazione) sotto un’unica categoria basata sul consenso, se accompagnata dalla revisione delle cornici edittali, può generare una crisi nel principio di proporzionalità della pena e, soprattutto, scatenare conseguenze catastrofiche di diritto intertemporale. Il legislatore italiano, nell’adottare il requisito del “consenso libero e attuale” , deve necessariamente evitare di alterare la struttura edittale in modo tale da favorire involontariamente la riduzione delle pene per i condannati preesistenti.

III.3. Misure Complementari: Riparazione e Prevenzione

Un aspetto positivo del modello spagnolo risiede nel suo approccio “integrale”. La legge non si limita al solo codice penale, ma introduce significative disposizioni di supporto per le vittime. Queste includono l’erogazione di aiuti economici per le vittime che si trovano sotto una soglia minima di reddito, l’accesso prioritario al patrimonio abitativo pubblico e il “diritto alla riparazione”, che prevede il risarcimento per la perdita di opportunità di lavoro e prestazioni sociali.

Inoltre, la Spagna ha riconosciuto che l’efficacia della legge penale dipende dalla sua applicazione culturale e pratica. Per questo sono stati introdotti specifici obblighi formativi per magistrati, appartenenti alle forze dell’ordine e personale della pubblica amministrazione, oltre alla promozione di campagne di sensibilizzazione.

L’Eterogeneità normativa e l’armonizzazione difficile

Nonostante i progressi compiuti da Svezia, Spagna e altri Paesi che hanno adottato il modello del consenso, l’approccio force-based rimane lo standard dominante nella maggioranza degli ordinamenti europei.5 Questa eterogeneità normativa comporta una grande disomogeneità nella classificazione e punizione degli atti sessuali non consensuali.

Questa frammentazione è ulteriormente complicata dalle differenze nelle definizioni legali dell’età del consenso, che costituiscono un punto di non ritorno per la validità del consenso stesso. Ad esempio, l’età del consenso varia da 14 anni in Germania e Austria, a 16 anni in Svizzera. Tali variazioni incidono direttamente sulle modalità con cui i reati contro i minori vengono classificati e, di conseguenza, su come vengono rappresentati nelle statistiche criminali europee.

La Questione Statistica e la Visibilità del Crimine

L’analisi comparata dimostra che la definizione di stupro e la classificazione degli atti sessuali hanno una relazione diretta con i dati criminali registrati. La decisione di molti Stati di escludere lo stupro minorile o gli atti sessuali non penetrativi dalla definizione di stupro (in contrasto con la Svezia) ha l’effetto di mascherare la reale incidenza della violenza sessuale nel Paese.

I Paesi che adottano una definizione di consenso affermativo tendono a registrare, almeno inizialmente, un aumento delle denunce di stupro. Questo fenomeno non è necessariamente indice di un aumento del crimine, ma riflette una maggiore fiducia riposta dalle vittime nel sistema giudiziario, sapendo che non saranno costrette a dimostrare la resistenza fisica. Inoltre, l’ampliamento della tipologia di condotte perseguibili contribuisce all’incremento dei dati statistici. Pertanto, l’adozione di riforme basate sul consenso ha una causalità statistica diretta, rendendo i crimini precedentemente invisibili o sottoclassificati pienamente evidenti, ma esigendo trasparenza nella disaggregazione dei dati per una corretta analisi.

La transizione probatoria e la prova del consenso assente

Il punto cruciale per l’efficacia del modello di consenso, sia in Svezia che in Spagna e ora in Italia, risiede nella valutazione giudiziale dell’assenza di consenso in situazioni che possono essere ambigue o complesse, soprattutto in presenza di dinamiche di vittimizzazione traumatica.

La riforma, che mira a “togliere alle vittime l’onere della prova” della resistenza, impone al giudice di abbandonare la ricerca della resistenza fisica oggettiva e di valutare invece attivamente la manifestazione della volontà del soggetto passivo. Sebbene la logica sia quella di proteggere l’autodeterminazione, l’assenza di consenso affermativo deve essere provata attraverso l’esame delle circostanze concrete.

Esiste il rischio, tuttavia, che se il sistema giudiziario non è sufficientemente preparato o se non si superano i pregiudizi culturali, il principio del consenso affermativo venga svuotato di significato. I giudici potrebbero, nella pratica, richiedere comunque la prova di un non-consenso esplicito (una negazione verbale chiara), trasformando il principio del consenso affermativo in un onere probatorio quasi altrettanto gravoso per la vittima in situazioni dove il trauma induce passività o freezing (paralisi psicologica). L’implementazione deve quindi concentrarsi sulla comprensione che l’inazione, il silenzio o la passività dovuta a paura non possono mai essere interpretati come consenso.

Necessità di formazione specialistica per gli operatori di giustizia

L’efficacia della legge sul consenso è direttamente proporzionale alla preparazione degli operatori coinvolti. La mera modifica del testo normativo è insufficiente se non è accompagnata da un profondo cambiamento culturale e professionale all’interno del sistema giudiziario.

La formazione specialistica deve essere obbligatoria e trasversale, coprendo non solo i principi del diritto penale comparato e le nuove definizioni di consenso, ma anche aspetti fondamentali come la psicologia del trauma e la comprensione del comportamento delle vittime in situazioni di aggressione. Le direttive europee, come la 2012/29/UE, sottolineano il diritto della vittima di comprendere e di essere compresa dal sistema di giustizia fin dal primo contatto.

L’esperienza spagnola ha dimostrato l’importanza di tale infrastruttura, introducendo obblighi formativi specifici per magistrati e forze dell’ordine. Senza un investimento infrastrutturale massiccio e immediato nella formazione giudiziaria e forense, la nuova legge italiana sul consenso rischia di rimanere una dichiarazione di intenti, incapace di incidere significativamente sui tassi di condanna o sulla percezione di giustizia da parte delle vittime.

Similitudini e differenze con i precedenti Internazionali

Con l’introduzione del concetto di “consenso libero e attuale” , l’Italia si allinea formalmente al modello di consenso affermativo adottato da Svezia e Spagna.

La Svezia offre un modello di successo nell’espansione della protezione penale a condotte prima trascurate, ponendo l’accento sulla manifestazione attiva della volontà. Tuttavia, l’esperienza della Spagna funge da cruciale lezione cautelativa: un’ambiziosa riforma incentrata sul consenso, se mal strutturata nelle sue conseguenze penali, può produrre effetti contrari, minando la fiducia nella giustizia attraverso la crisi delle pene.

Di seguito, si riassume il confronto tra i principali modelli europei:

Sintesi Comparativa dei Modelli di Consenso in Europa

Paese (Anno Riforma)Modello di ConsensoDefinizione ChiaveStruttura dei Reati Prima vs. DopoPrincipale Criticità Applicativa
Svezia (2018)Affermativo AttivoConsenso deve essere esplicito, manifestato nell’azione.Stupro definito unicamente dall’assenza di consenso (eliminazione del requisito di forza).Prova dell’assenza di consenso esplicito in contesti ambigui.
Spagna (2022)Affermativo Integrale“Solo Sí es Sí” (Ley Orgánica 10/2022).Fusione di Abuso (senza forza) e Aggressione (con forza) in un unico reato di Agresión Sexual.Revisione retroattiva delle pene a causa dell’abbassamento dei minimi edittali.
Italia (Recente Voto)Consenso Libero e AttualeRichiede libertà e attualità della volontà.Mantenimento della struttura duale (al momento), con ridefinizione del concetto di consenso.Interpretazione giudiziale di “libero e attuale” e necessità di formazione.
Maggioranza UETradizionale (Force-Based)Il reato dipende dalla dimostrazione di violenza, minaccia o coercizione.Distinzione tra Stupro (con violenza) e Abuso (senza violenza).Onere della prova gravante sulla resistenza della vittima.

Lezioni apprese dalla Spagna: la cautela nella ristrutturazione delle pene

La lezione più critica che l’Italia deve trarre dal caso spagnolo è relativa alla gestione dei limiti edittali. La causa della crisi della Ley del Solo Sí es Sí non è stato il principio del consenso in sé, ma la sua implementazione tecnica che ha portato alla riduzione dei minimi edittali per il reato unificato.

Se il legislatore italiano decidesse di seguire l’esempio spagnolo nell’unificazione delle fattispecie di reato (eliminando la distinzione tra atti con e senza violenza), è cruciale che vengano adottate misure eccezionali per garantire che i minimi edittali mantengano la severità per i reati pregressi commessi con violenza grave. Qualsiasi mancanza di rigore in questo passaggio può scatenare il principio di retroattività in bonam partem, minando la credibilità e l’efficacia della riforma. La differenziazione edittale, o l’introduzione di clausole transitorie, è un requisito imperativo per prevenire la revoca o la riduzione delle sentenze già emesse.

Raccomandazioni per l’implementazione e mitigazione dei rischi

Sulla base dell’analisi comparata e delle criticità emerse, si formulano le seguenti raccomandazioni per assicurare un’implementazione efficace della riforma italiana sul consenso:

  1. Chiarificazione Giuridica del “Consenso Libero e Attuale”: La normativa e la giurisprudenza devono stabilire in modo inequivocabile che l’inazione, il silenzio, l’immobilità o la passività derivante da paura o shock traumatico (tonic immobility o freezing) non possono mai essere interpretati come consenso valido. La guida interpretativa deve concentrarsi sull’obbligo del soggetto attivo di accertare la volontà positiva del partner, anche in contesti non violenti.
  2. Formazione Specialistica Sistemica: È indispensabile implementare immediatamente, in linea con le misure adottate dalla Spagna, programmi di formazione obbligatori e specialistici non solo per i magistrati, ma per tutto il personale di giustizia e le forze dell’ordine. Questa formazione deve includere i protocolli di gestione del trauma e l’adeguata applicazione del nuovo standard probatorio.
  3. Supporto Olistico per le Vittime: L’efficacia della legge penale deve essere affiancata da un sistema di supporto sociale e riparativo, come previsto dalla legislazione spagnola. Ciò include il diritto all’assistenza specialistica, a sussidi economici e a misure di inserimento lavorativo per affrontare la perdita di opportunità subita dalle vittime.

La Tabella VI.2. riassume le sfide giurisprudenziali e le strategie di mitigazione basate sull’esperienza internazionale:

Sfide di Implementazione del Modello di Consenso: Lezioni dalla Spagna e Svezia

Sfida GiurisprudenzialeEsperienza Estera (Esempio)Causa Effetto dell’ApplicazioneMitigazione Strategica per l’Italia
Ristrutturazione delle Pene e RetroattivitàSpagna (Ley 10/2022).L’unificazione dei reati e l’abbassamento dei minimi edittali portano alla riduzione retroattiva delle sentenze preesistenti.Mantenere la differenziazione edittale per i casi con violenza grave o introdurre rigorose clausole transitorie per i minimi di pena.
Interpretazione del Non-Consenso PassivoSvezia / Spagna.I giudici cercano la negazione esplicita, non considerando la passività indotta dal trauma, svuotando il principio.Formazione specialistica obbligatoria su psicologia del trauma e definizione legale di consenso in assenza di espressione di volontà.
Variazione Statistica e Percezione PubblicaSvezia (Inclusione reati minori/non penetrativi).Aumento dei tassi di stupro percepito, che può generare allarme sociale o distorcere la comparazione internazionale.Trasparenza statistica e disaggregazione dei dati, separando chiaramente i reati secondo la gravità e le modalità.

Il passaggio italiano al modello di consenso è un passo necessario e in linea con gli standard di tutela della libertà sessuale. Il successo della riforma dipenderà, tuttavia, dalla capacità del sistema di apprendere e mitigare i complessi rischi emersi dall’applicazione dei modelli pionieristici in Europa, garantendo che la coerenza tecnica prevalga sulle spinte politiche.

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Xi Jinping pressa Trump su Taiwan: telefonata ad alta tensione nel Pacifico

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Il presidente cinese Xi Jinping ha rilanciato con forza la questione di Taiwan in una recente telefonata con il suo omologo statunitense Donald Trump, dichiarando che il ritorno di Taiwan sotto il controllo di Pechino è parte integrante dell’ordine internazionale post-bellico.

La chiamata, avvenuta lunedì sera su iniziativa di Xi, secondo fonti di Taipei, arriva in un momento di tensioni crescenti attorno all’isola autogovernata, contesa dalla Cina e sostenuta informalmente dagli Stati Uniti.

Mentre Xi ribadiva che la riunificazione di Taiwan è un imperativo storico sancito dalla vittoria comune su fascismo e militarismo nella Seconda guerra mondiale, Trump lodava pubblicamente le relazioni sino-americane senza menzionare Taiwan, segnalando l’equilibrismo diplomatico che Washington è chiamata a esercitare di fronte alle ambizioni cinesi e alle preoccupazioni dei suoi alleati regionali.

Pechino: “Taiwan parte della Cina, sancito dalla Seconda guerra mondiale

Nel colloquio telefonico Xi Jinping ha ribadito la posizione di principio di Pechino su Taiwan, che considera l’isola parte inalienabile del territorio nazionale, da ricongiungere alla madrepatria anche con la forza se necessario. Il leader cinese ha ricordato a Trump che Cina e Stati Uniti combatterono fianco a fianco contro il fascismo durante la Seconda guerra mondiale, e che oggi devono insieme “salvaguardare i frutti della vittoria” tra cui, agli occhi di Pechino, rientra il ritorno di Taiwan sotto la sovranità cinese.

Xi ha dunque inquadrato la questione di Taiwan nell’assetto internazionale emerso dal conflitto mondiale, citando dichiarazioni postbelliche come quelle del Cairo e di Potsdam che prevedevano la restituzione all’allora Repubblica di Cina dei territori occupati dal Giappone. “Taiwan è destinata a tornare alla Cina” è il messaggio che Xi ha voluto trasmettere, definendo tale prospettiva una componente essenziale dell’ordine mondiale del dopoguerra.

Secondo il resoconto della telefonata diffuso dal Ministero degli Esteri cinese, Trump avrebbe riconosciuto l’importanza cruciale che Taiwan riveste per la Cina continentale. “Gli Stati Uniti comprendono quanto la questione taiwanese sia vitale per la Cina”, avrebbe detto Trump a Xi, stando alla versione di Pechino. Non solo: sempre secondo la parte cinese, Trump avrebbe elogiato Xi definendoloun grande leader” e ricordato con soddisfazione il loro recente incontro di persona a Busan, in Corea del Sud.

Proprio a margine di un vertice internazionale a Busan, poche settimane fa, i due presidenti si erano visti per la prima volta dal 2019, concordando una tregua nella logorante guerra commerciale sino-americana.

Nella telefonata Xi ha sottolineato come da quell’incontro i rapporti bilaterali abbiano presouna traiettoria stabile e positiva, apprezzata da entrambe le nazioni e dalla comunità internazionale”. Trump, dal canto suo, ha definito “altamente proficuo” il faccia a faccia di Busan e ha incoraggiato a “mantenere lo slancio” nei nuovi accordi economici raggiunti.

Diplomazia nella tempesta: lo scontro con il Giappone

La tempistica del colloquio Xi-Trump non è casuale. La chiamata è avvenuta sullo sfondo di un’accesa disputa diplomatica tra Pechino e Tokyo innescata proprio dalla questione di Taiwan. Tutto è iniziato quando la nuova prima ministra giapponese, Sanae Takaichi, ha affermato in parlamento che un attacco cinese a Taiwan potrebbe configurare un’“situazione minacciando la sopravvivenza del Giappone”, una condizione che, secondo la dottrina giapponese, consentirebbe l’uso della forza militare in difesa dell’isola.

In altri termini, il Giappone ha lasciato intendere che potrebbe intervenire militarmente in aiuto di Taiwan se questa venisse invasa dalla Cina. La reazione di Pechino è stata furiosa e il governo cinese ha convocato l’ambasciatore giapponese, lanciato pesanti accuse di revanscismo e intrapreso ritorsioni economiche e diplomatiche contro il Giappone. Nel giro di due settimane, i media statali cinesi hanno martellato Tokyo con riferimenti alle atrocità giapponesi nella Seconda guerra mondiale, concerti di artisti giapponesi in Cina sono stati annullati e il turismo cinese verso il Giappone ha subito un brusco stop.

Pechino ha persino portato il caso alle Nazioni Unite con una lettera ufficiale, accusando Tokyo di minacciare un’“intervento armato” e avvertendo che la Cina “eserciterà risolutamente il proprio diritto all’autodifesa” se il Giappone dovesse oltrepassare quella linea rossa. Si tratta, secondo osservatori, della crisi diplomatica più grave tra Cina e Giappone degli ultimi anni.

Tokyo ha replicato con fermezza alle accuse cinesi. In una nota inviata alle Nazioni Unite in risposta alla lettera di Pechino, il governo giapponese ha definito “del tutto inaccettabili” le affermazioni cinesi e ha ribadito che l’impegno del Giappone per la pace rimane immutato. Allo stesso tempo, Takaichi e i suoi ministri hanno cercato di abbassare i toni, sottolineando che il Giappone resta aperto al dialogo a tutti i livelli per allentare le tensioni” con la Cina. Nei fatti però Pechino, irritata dalla posizione giapponese, ha escluso qualsiasi incontro bilaterale di alto livello nel prossimo futuro: perfino un colloquio informale tra Takaichi e il premier cinese Li Qiang è stato cancellato a margine del recente G20 in Sudafrica.

Sul piano militare la situazione resta tesa: in questi giorni la Cina ha condotto esercitazioni navali e aeree vicino alle acque giapponesi, arrivando a far volare un drone militare tra l’isola giapponese di Yonaguni e la costa di Taiwan, manovra che ha costretto Tokyo a far decollare aerei da intercettazione. Inoltre, il governo giapponese ha annunciato il dispiegamento di batterie missilistiche aggiuntive proprio a Yonaguni (il punto del Giappone più vicino a Taiwan), mossa che la Cina ha definito un tentativo di “creare tensioni regionali e provocare uno scontro militare”.

Trump tra due fuochi: rassicurare Tokyo senza irritare Pechino

Durante una conversazione telefonica avvenuta martedì mattina, poche ore dopo il colloquio con Xi, Trump ha detto a Takaichi che i due sonograndi amici” e che lei potrà “chiamarlo in qualsiasi momento” in caso di necessità. È stato lo stesso presidente USA a prendere l’iniziativa di contattare Tokyo, segnale che Washington intende calmare gli animi dell’alleato nipponico dopo aver dialogato con il rivale cinese.

Takaichi ha riferito ai media giapponesi di aver discusso con Trump proprio della sua conversazione con Xi e dello stato attuale delle relazioni USA-Cina, ricevendo dal presidente americano un briefing completo sui temi trattati. Nonostante le rassicurazioni private, molti a Tokyo hanno notato con preoccupazione il silenzio pubblico di Trump riguardo al duro scontro diplomatico in corso fra Giappone e Cina.

Nei suoi comunicati ufficiali e su Truth Social, il presidente statunitense si è infatti limitato a elogiare i progressi nei rapporti commerciali con Pechino, definendo “estremamente forti” le relazioni USA-Cina dopo la telefonata con Xi, senza mai citare Taiwan né menzionare il sostegno americano al Giappone nella disputa con Pechino. Questa reticenza ha alimentato timori a Tokyo e alcuni analisti ed ex diplomatici giapponesi avvertono da tempo che Trump potrebbe essere disposto a sacrificare Taiwan, o a mitigare l’appoggio USA ad essa, in cambio di accordi vantaggiosi con la Cina sul fronte commerciale.

Non si può escludere che l’amministrazione Trump baratti la questione taiwanese per un accordo di commercio con Pechino”, ha scritto in un editoriale Seiko Mimaki, docente di politica estera statunitense all’Università Doshisha, evidenziando il rischio di incoraggiare l’assertività cinese.

Proprio gli accordi economici sono un capitolo cruciale, la tregua di Busan include l’impegno di Pechino a sospendere per un anno le restrizioni all’export di terre rare (minerali strategici di cui la Cina detiene quasi il monopolio mondiale) e ad aumentare gli acquisti di prodotti agricoli statunitensi, mentre gli USA ridurranno alcuni dazi sui beni cinesi. Trump è ansioso di rivendicare tali intese come successi della sua diplomazia economica, il che spiegherebbe la cautela nel non compromettere il dialogo con Xi alzando i toni sul dossier Taiwan.

Da parte ufficiale, il governo giapponese minimizza i dubbi sulla solidità del supporto americano. Il ministro degli Esteri Toshimitsu Motegi, incalzato dai giornalisti, ha osservato che “non è mai stato prassi che Casa Bianca o Dipartimento di Stato commentino pubblicamente ogni singola questione” e che quindi l’assenza di dichiarazioni di Trump sul caso specifico non deve essere sovrainterpretata.

Eppure, dietro le quinte, l’apparente prudenza di Trump verso Pechino ha spinto Tokyo a muoversi con cautela. Da un lato Takaichi non ha ritrattato la sua dichiarazione su Taiwan (nonostante la pressante richiesta cinese di una smentita ufficiale), dall’altro il suo governo ha manifestato apertura a canali di dialogo con la Cina per stemperare la crisi. “La stabilità delle relazioni sino-americane è estremamente importante per la comunità internazionale, Giappone compreso”, ha dichiarato il capo di Gabinetto nipponico Minoru Kihara, quasi a sottolineare che anche Tokyo auspica un disgelo tra Washington e Pechino.

In Giappone la telefonata Trump-Xi e la successiva chiamata di Trump a Takaichi sono state interpretate come segnali di un ruolo di mediatore che il presidente USA sta cercando di giocare: una sorta di bilanciere tra la fermezza invocata dagli alleati asiatici e la necessità di evitare un confronto diretto con la Cina.

Taipei: “Nessun ritorno, siamo già indipendenti

Mentre le grandi potenze manovrano diplomaticamente, Taiwan, diretta interessata, respinge con fermezza l’idea di finire sotto il controllo di Pechino. “Per i 23 milioni di abitanti di Taiwan, un ‘ritorno’ alla Cina non è un’opzione praticabile”, ha dichiarato senza mezzi termini il premier taiwanese Cho Jung-tai. All’indomani della telefonata Xi-Trump, Cho ha ribadito davanti ai media di Taipei che la Repubblica di Cina (Taiwan) èun Paese sovrano e indipendente” e che i taiwanesi sono determinati a decidere autonomamente il proprio futuro.

Parole che suonano come un monito sia per Pechino sia per Washington: Taiwan non accetterà mai di essere sacrificata come pedina nelle grandi manovre geopolitiche. L’attuale governo di Taipei, insediatosi dopo le elezioni del 2024, prosegue la linea di fermezza già tracciata dalla precedente amministrazione di Tsai Ing-wen, rifiutando il principioun Paese, due sistemi” proposto dalla Cina e investendo invece sul rafforzamento delle proprie difese.

Negli ultimi anni, di pari passo con l’aumento delle incursioni di aerei e navi da guerra cinesi vicino all’isola, Taiwan ha incrementato il budget militare e cercato maggiore cooperazione internazionale, pur d’Enza mai proclamare un’indipendenza de jure che potrebbe scatenare l’ira di Pechino.

La reazione di Taipei alle parole di Xi è stata sostenuta pubblicamente anche dai partiti di opposizione, tradizionalmente più cauti verso la Cina. Il consenso politico interno sul mantenimento dello status quo – ovvero l’attuale autonomia di fatto di Taiwan – appare solido. La popolazione taiwanese, inoltre, mostra scarso interesse per l’unificazione con la Cina e i sondaggi registrano percentuali minime di favorevoli alla riunificazione, a fronte di una larga maggioranza che preferisce l’autogoverno, se non una dichiarazione d’indipendenza a tempo debito.

Anche per questo, dall’isola fanno notare come il riferimento di Xi alla “riunificazione come esito della Seconda guerra mondiale” sia storicamente forzato: Taiwan tornò alla Cina nazionalista nel 1945 dopo la sconfitta del Giappone, ma da allora, con l’eccezione di quattro anni sotto il Kuomintang, non è mai stata governata dalla Repubblica Popolare Cinese. Anzi, è stata quest’ultima a nascere nel 1949, mentre il governo cinese sconfitto si rifugiava proprio sull’isola.

Una complessità storica che spiega perché Taipei consideri priva di base legale la pretesa di Pechino di ereditare automaticamente la sovranità su Taiwan in virtù degli accordi post-bellici.

Colloqui segreti ad Abu Dhabi: la mossa di Trump per la pace in Ucraina

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  • Gli Stati Uniti hanno avviato colloqui di pace segreti con la Russia ad Abu Dhabi nel tentativo di porre fine alla guerra in Ucraina, mentre sul terreno infuriano ancora i bombardamenti. Il segretario dell’Esercito USA Dan Driscoll, divenuto l’uomo di punta della nuova offensiva diplomatica di Washington, è arrivato di nascosto nella capitale degli Emirati Arabi per incontrare rappresentanti del Cremlino.

Un funzionario americano ha confermato a Reuters lo svolgimento di questi colloqui non annunciati, sebbene i dettagli siano coperti dalla massima discrezione. Non è noto chi sieda nella delegazione russa né se ai negoziati partecipi direttamente anche Kiev; fonti Financial Times indicano però che Driscoll dovrebbe vedere anche l’alto responsabile dell’intelligence militare ucraina Kirilo Budanov durante la permanenza ad Abu Dhabi.

Il formato esatto resta incerto – non è chiaro se le tre parti si riuniranno insieme o separatamente, ma l’obiettivo dichiarato da Washington è esplicito: discutere il processo di pace e “far avanzare rapidamente” i negoziati. Questi incontri segreti arrivano in un momento cruciale, a quasi quattro anni dall’invasione russa dell’Ucraina. Sul campo la guerra continua a mietere vittime ogni giorno e mentre i diplomatici confabulavano negli Emirati, un pesante bombardamento missilistico russo si abbatteva su Kiev, uccidendo almeno sei persone nella notte.

Le sirene antiaeree hanno risuonato nella capitale e migliaia di civili si sono rifugiati sottoterra, avvolti in cappotti pesanti per ripararsi dal gelo degli improvvisati bunker nei tunnel della metropolitana. Scene simili si ripetono ormai regolarmente, sottolineando la posta in gioco di queste trattative: ogni giorno in più senza un accordo di pace significa nuove devastazioni e perdite di vite umane in Ucraina.

E le ripercussioni sconfinano oltre i confini: proprio stamattina la Romania, paese Nato, ha dovuto far decollare caccia militari dopo che alcuni droni sospetti, presumibilmente russi, hanno violato il suo spazio aereo vicino al confine ucraino. L’escalation tecnologica della guerra, tra sciami di droni e piogge di missili, mantiene alta la tensione anche sull’Europa orientale, alimentando l’urgenza di trovare una via d’uscita diplomatica al conflitto.

Il controverso piano di pace americano da 28 punti

Alla base dei colloqui di Abu Dhabi c’è un nuovo piano di pace elaborato dall’amministrazione Trump, una proposta in 28 punti emersa la scorsa settimana che ha colto di sorpresa Kiev, l’Europa e anche parte dello stesso governo statunitense. Washington ha infatti improvvisamente accelerato gli sforzi negoziali, dopo mesi di politiche oscillanti: ad agosto un vertice tra Donald Trump e Vladimir Putin, organizzato in gran fretta in Alaska, aveva allarmato gli alleati per il timore che gli Stati Uniti accettassero le richieste di Mosca, quell’incontro si concluse invece con una rinnovata pressione americana su Putin e nessun compromesso definitivo. Poche settimane più tardi, però, la Casa Bianca ha presentato un progetto di accordo che sembra recepire molti punti chiave delle domande russe.

Secondo varie fonti, il piano, inizialmente delineato in 28 punti, richiederebbe all’Ucraina di cedere ulteriori porzioni di territorio, accettare limiti alla propria capacità militare e impegnarsi a non entrare mai nella NATO. Condizioni di questo tenore, che Kiev ha sempre respinto in quanto equivalenti a una resa, hanno immediatamente sollevato allarme tra i sostenitori occidentali dell’Ucraina.

Di fatto, la bozza originaria del piano Trump rifletteva ampiamente le posizioni di Mosca: rinuncia all’adesione ucraina all’Alleanza Atlantica, ritiro delle truppe di Kiev dai territori del Donbass ancora sotto il loro controllo e riconoscimento dell’annessione russa de facto di Crimea e altre zone occupate nell’est. Non stupisce che il Cremlino abbia accolto positivamente l’iniziativa: lo stesso presidente Vladimir Putin ha dichiarato che questo schema americano potrebbe rappresentare “la base” per risolvere il conflitto.

Per il presidente ucraino Volodymyr Zelensky, invece, la situazione è delicatissima. Da un lato, l’offensiva diplomatica di Washington rischia di metterlo con le spalle al muro, in un momento in cui la sua posizione interna si è indebolita – di recente uno scandalo di corruzione ha travolto il suo governo portando alle dimissioni di due ministri chiave – e in cui sul fronte militare l’iniziativa è passata in parte alla Russia.

Dall’altro lato, Zelensky non può permettersi di apparire come un ostacolo alla pace: il logoramento della guerra erode il sostegno internazionale e la stessa popolazione ucraina, provata dai sacrifici, vuole intravedere una luce in fondo al tunnel. Il leader di Kiev teme tuttavia di essere forzato ad accettare un accordo scritto in larga misura a misura del Cremlino “calato dall’alto” da Washington, e ha più volte ribadito che non cederà mai alla Russia il futuro democratico e sovrano dell’Ucraina, nemmeno sotto pressione dagli alleati. In questa cornice, Zelensky si trova a dover bilanciare gratitudine e dipendenza verso il supporto occidentale con la necessità di non tradire gli obiettivi per cui il suo popolo sta combattendo.

Driscoll, l’emissario segreto di Trump: diplomazia d’assalto

Al centro di questo intricato sforzo di pace c’è Driscoll ha assunto un ruolo inedito per un alto dirigente del Pentagono, ovvero l’idea di impiegare un esponente militare di primo piano per condurre la missione diplomatica nasce, secondo il Wall Street Journal, dalla convinzione della Casa Bianca che Mosca possa essere più incline a fidarsi di un negoziatore in uniforme rispetto ai soliti canali politici. Trump avrebbe deciso di puntare proprio su Driscoll durante un colloquio privato con il suo vice presidente J.D. Vance, vecchio compagno di università di Driscoll, identificando in lui l’uomo giusto per un compito così delicato.

Prima di giungere ad Abu Dhabi per i colloqui segreti con i russi, Driscoll ha già visitato nelle scorse settimane le capitali direttamente coinvolte per preparare il terreno. La settimana scorsa era a Kiev alla testa di una delegazione del Pentagono, dove ha presentato al governo ucraino la prima bozza del piano di pace USA articolato in 28 punti. In quell’occasione il funzionario statunitense ha incontrato anche ambasciatori europei e funzionari occidentali, cercando di ottenere il loro appoggio a quella che ha definito “l’ora di finirla con questa m…”, parole crude, riferite alla guerra, che il Financial Times descrive come indicative di un atteggiamento impaziente e dal tono “nauseante” tenuto dal rappresentante americano.

Secondo fonti citate dal quotidiano britannico, Driscoll avrebbe insomma messo in chiaro con toni bruschi che Washington non intende mostrarsi troppo flessibile nei negoziati. Questo approccio deciso ha sollevato qualche perplessità tra gli alleati, ma riflette la volontà di Trump di accelerare i tempi: lo stesso Driscoll, durante gli incontri a Kiev, avrebbe annunciato che “è ora di farla finita con questa storia”, lasciando intendere che gli Stati Uniti considerano non più rinviabile una soluzione negoziata al conflitto.

Dopo la tappa in Ucraina, Driscoll ha partecipato lo scorso weekend a una serie di riunioni a Ginevra con rappresentanti di Kiev e dell’Unione Europea, nel tentativo di affinare e rendere più accettabile il piano di pace originario. Sia Washington che il governo ucraino hanno parlato di “progressi” al termine di questi colloqui.

In effetti, il documento iniziale in 28 punti è stato ridotto e parzialmente rimaneggiato: fonti informate riferiscono che, dopo le discussioni di Ginevra, la bozza è passata da 28 a 19 punti totali. Secondo il sito di informazione Politico, sono stati eliminati dal piano i capitoli più esplosivi sulle questioni territoriali, ad esempio la cessione del Donbass alla Russia, che verranno invece affrontati separatamente a livello politico tra i presidenti Trump e Zelensky. In altre parole, le concessioni sul territorio non saranno decise dai negoziatori tecnici, ma rimandate a un eventuale faccia a faccia finale tra i due leader.

La logica è evitare di imporre subito a Kiev rinunce che Zelensky non ha delegato a nessuno il potere di negoziare, specialmente per quanto riguarda sovranità e integrità territoriale. Il presidente ucraino, in un videomessaggio serale alla nazione, ha confermato che nella nuova bozza discussa a Ginevra “molti elementi corretti sono stati incorporati” rispetto alla versione iniziale.

Allo stesso tempo, ha ammesso che “le questioni più delicate” restano sul tavolo e intende affrontarle di persona con Donald Trump. Zelensky prevede un percorso ancora difficile verso un documento finale e ha sottolineato che nulla verrà firmato senza un ampio consenso interno e internazionale. Per ora, però, il processo negoziale USA-Ucraina sembra essere entrato in una fase di dialogo più costruttivo, pur mantenendo aperti i nodi fondamentali.

Le reazioni: cautela europea, attesa russa

Questa frenetica attività diplomatica parallela ha inevitabilmente innescato reazioni in tutte le capitali coinvolte. Il Cremlino, ufficialmente, mantiene il riserbo sui colloqui di Abu Dhabi: “Non abbiamo nulla da dire al momento, seguiamo e analizziamo le notizie dei media”, ha dichiarato il portavoce Dmitry Peskov, rifiutando di commentare le indiscrezioni sulla missione di Driscoll. Allo stesso tempo, Mosca lascia trapelare un cauto ottimismo verso la piega che sta prendendo l’iniziativa statunitense.

Al momento l’unica cosa sostanziale è il progetto americano, il progetto di Trump” ha affermato Peskov, aggiungendo che potrebbe diventare “una base molto buona per i negoziati”. In altre parole, la leadership russa considera il piano di pace USA un punto di partenza valido – a patto, si intende, che risponda alle sue condizioni di sicurezza. Proprio su questo punto è intervenuto il ministro degli Esteri Sergej Lavrov, segnalando che Mosca attende ora dagli americani una propostaintermedia” aggiornata, dopo le modifiche apportate su pressione europea e ucraina. Lavrov ha avvertito che sarà “una situazione completamente diversa” se le revisioni al piano non rispetteranno lo “spirito e la lettera” di quanto Putin e Trump avevano discusso durante il loro incontro in Alaska.

In sostanza, il messaggio russo è chiaro: il Cremlino era favorevole alla versione originaria in 28 punti, mentre eventuali concessioni fatte per compiacere Kiev o l’Europa potrebbero rimettere tutto in discussione.

Sul fronte opposto, gli alleati occidentali dell’Ucraina accolgono con favore ogni spiraglio di pace ma mettono in guardia da accordi al ribasso. Il presidente francese Emmanuel Macron, parlando in un’intervista radiofonica, ha definito l’iniziativa statunitense “un passo nella direzione giusta: la pace. Tuttavia, alcuni aspetti di quel piano meritano di essere discussi, negoziati, migliorati”. “Vogliamo la pace, ma non vogliamo una pace che sia una capitolazione” ha scandito Macron, sottolineando che spetta solo agli ucraini decidere quali concessioni territoriali sono pronti a fare.

Ciò che può sembrare accettabile per la Russia, ha aggiunto, non significa affatto che debba esserlo per l’Ucraina o per l’Europa. Da Parigi e dalle altre capitali UE emerge la linea di una pace giusta, non imposta unilateralmente dalle condizioni dell’aggressore. Anche Londra e Berlino condividono la posizione: l’integrità territoriale ucraina e la libertà di Kiev di determinare il proprio futuro non possono diventare merce di scambio. Su iniziativa di Francia e Regno Unito, è stato convocato un incontro virtuale della cosiddetta coalizione dei volenterosi” – il gruppo di Paesi che sostiene l’Ucraina, comprendente le principali nazioni europee, proprio per discutere la proposta americana e concordare un approccio comune.

L’Europa insomma vuole essere parte attiva del processo di pace, ma vigila affinché la ricerca di una tregua non si traduca in un sacrificio inaccettabile per la sovranità ucraina. Parallelamente, gli alleati continuano a fornire aiuti militari e finanziari a Kiev per metterla nella posizione negoziale più forte possibile.Intanto, a Kiev, Zelensky cerca di compattare il fronte interno e mantenere la fiducia della popolazione.

Il presidente ucraino ha fatto sapere di aver avuto una conversazione “molto produttiva” con il premier britannico in pectore Sir Keir Starmer, riferendo che “vediamo molte prospettive che possono rendere reale il cammino verso la pace” e riconoscendo “solidi risultati dai colloqui di Ginevra, anche se molto lavoro resta ancora da fare”.

Dichiarazioni che lasciano intendere come Zelensky stia ottenendo sponde importanti in Occidente per migliorare il piano Trump senza farlo naufragare. La prospettiva che si delinea è quella di ulteriori intense consultazioni nei prossimi giorni: non si esclude che lo stesso Zelensky possa presto volare negli Stati Uniti per discutere faccia a faccia con Trump i termini finali dell’accordo, eventualità suggerita da alcune indiscrezioni secondo cui il leader ucraino potrebbe visitare Washington già entro la settimana per “siglare un patto di pace”. Mentre sul terreno si continua a combattere e morire, e missili e droni seminano distruzione da Kiev al Mar Nero, questi febbrili negoziati segreti rappresentano il tentativo più concreto finora di avvicinarsi alla fine della guerra.

Restano da colmare distanze significative: Kiev non intende sacrificare la propria indipendenza, Mosca vuole capitalizzare le conquiste territoriali ottenute, e gli Stati Uniti – dopo aver sostenuto l’Ucraina con massicci aiuti – ora premono per un risultato diplomatico che metta fine a un conflitto sempre più difficile da sostenere sul lungo periodo. La strada verso la pace è irta di ostacoli e compromessi dolorosi, ma la scelta di aprire un canale riservato ad Abu Dhabi indica che nessuna via viene trascurata.

Nelle stanze ovattate di un palazzo sul Golfo Persico, lontano dal fragore delle bombe, si sta decidendo se e come scrivere il capitolo conclusivo di una guerra che ha sconvolto l’Europa. Il mondo osserva con il fiato sospeso, diviso tra speranza e timore: una speranza che da questi colloqui possa scaturire finalmente il silenzio delle armi, e il timore che la pace ottenuta possa chiedere all’Ucraina un prezzo troppo alto.

I prossimi giorni saranno decisivi per capire se dalle parole si potrà davvero passare ai fatti, trasformando un fragile spiraglio in un percorso concreto verso la fine di uno dei conflitti più sanguinosi degli ultimi decenni.

Elezioni regionali 2025: il centrosinistra travolge al Sud, la Lega si conferma padrona del Veneto

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Le urne di Campania, Puglia e Veneto hanno consegnato un verdetto che conferma le mappe politiche preesistenti ma offre numerosi spunti di riflessione per entrambi gli schieramenti. 
Il centrosinistra ha dominato nelle due grandi regioni meridionali con margini amplissimi, mentre il centrodestra ha mantenuto saldamente la roccaforte veneta grazie al traino di Luca Zaia e all’ascesa del giovane Alberto Stefani.
Il risultato complessivo delle regionali autunnali si chiude quindi in parità: tre regioni al centrodestra (Veneto, Marche e Calabria) e tre al centrosinistra (Campania, Puglia e Toscana).


L’astensionismo è il vero vincitore


Il dato più preoccupante emerso da questa tornata elettorale riguarda l’affluenza alle urne, che ha toccato livelli storicamente bassi. 
Complessivamente, solo il 43,6% degli aventi diritto si è recato a votare, un crollo di circa 14 punti percentuali rispetto al 2020. In Puglia l’affluenza si è fermata al 41,8% contro il 56,4% di cinque anni fa, in Campania al 44,1% rispetto al 55,5%, mentre in Veneto, tradizionalmente terra ad alta mobilitazione politica, si è raggiunto appena il 44,6% contro il 61,2% delle precedenti consultazioni. 
Meno di un elettore su due ha scelto di esprimere la propria preferenza, un segnale che interroga profondamente l’intera classe politica italiana e che rischia di ridimensionare il valore politico dei risultati finali, rendendo più fragile la legittimazione degli eletti.


Campania: Roberto Fico chiude l’era De Luca

La Campania ha rappresentato il campo di battaglia più atteso di questa tornata elettorale. 
Roberto Fico, esponente storico del Movimento 5 Stelle ed ex presidente della Camera dei deputati, ha trionfato con il 60,7% dei consensi, doppiando letteralmente il suo avversario Edmondo Cirielli, candidato del centrodestra, fermo al 35,6%.

La vittoria del pentastellato segna la fine di un’epoca: dopo dieci anni consecutivi alla guida della regione, Vincenzo De Luca non ha potuto ripresentarsi a causa della sentenza della Corte Costituzionale che, lo scorso aprile, ha dichiarato incostituzionale la legge regionale campana che avrebbe permesso il terzo mandato consecutivo.

Fico, napoletano classe 1974, ha costruito la sua carriera politica interamente all’interno del Movimento 5 Stelle. Dai meetup di Beppe Grillo alle aule parlamentari, passando per la presidenza della Commissione di Vigilanza Rai e culminando nei cinque anni alla guida di Montecitorio (2018-2022), l’ex presidente della Camera rappresenta l’ala più moderata e istituzionale del movimento fondato dal comico genovese.
La sua elezione a presidente della Camera nel 2018, quando arrivò al primo giorno a Montecitorio in autobus invece che in auto blu, rimane un’immagine simbolica della stagione politica pentastellata.

Il candidato sconfitto del centrodestra, Edmondo Cirielli, è invece un profilo di lungo corso della destra italiana.
Generale di brigata dei Carabinieri in ausiliaria, laureato con lode in Giurisprudenza, Scienze Politiche e Scienze della Sicurezza, Cirielli vanta una carriera politica iniziata nel 1994 con il MSI-AN e proseguita poi nel Popolo della Libertà e infine in Fratelli d’Italia.
Dal 2022 ricopre l’incarico di viceministro degli Affari Esteri nel governo Meloni, e proprio questa sua vicinanza alla premier era stata presentata come un valore aggiunto durante la campagna elettorale.
 
L’appoggio convinto di Giorgia Meloni non è però bastato a ribaltare i pronostici: la lista “Giorgia Meloni per Cirielli-FdI” ha ottenuto un deludente 11,8%, mentre Forza Italia si è attestata al 10,9% e la Lega al 5,5%.



Durante la campagna elettorale, i due candidati si sono confrontati su temi cruciali come l’autonomia differenziata, la sanità regionale e la questione del condono edilizio. 
Fico ha attaccato duramente la riforma Calderoli, sostenendo che “crea disuguaglianze sul territorio e non aiuta il Sud“, mentre Cirielli ha replicato difendendo la norma costituzionale ma promettendo di non chiedere deleghe aggiuntive considerata la situazione debitoria della regione.

Il confronto televisivo su Sky TG24 ha evidenziato le differenze profonde tra i due candidati, con Fico che ha definito “un insulto all’intelligenza dei campani” la proposta di riapertura dei termini del condono edilizio avanzata dal centrodestra a ridosso del voto.


Puglia: Antonio Decaro conquista la regione con numeri record

In Puglia il risultato è stato ancora più netto. 
Antonio Decaro, eurodeputato del Partito Democratico e apprezzatissimo ex sindaco di Bari, ha ottenuto il 64,1% dei consensi, schiacciando l’imprenditore Luigi Lobuono, candidato del centrodestra, fermo al 35%.

Decaro succede a Michele Emiliano, che ha governato la regione per dieci anni e che, pur non potendosi ricandidare, ha lasciato un’eredità politica significativa.

Antonio Decaro

Il nuovo governatore pugliese rappresenta un profilo politico di grande solidità.
Nato a Bari nel 1970, laureato in ingegneria civile al Politecnico del capoluogo pugliese, Decaro ha costruito la sua carriera politica partendo dall’assessorato alla mobilità nel 2004, passando per il Consiglio regionale, la Camera dei deputati, fino a diventare sindaco di Bari per due mandati consecutivi (2014-2024).
Dal 2016 al 2024 ha presieduto l’ANCI, l’Associazione Nazionale dei Comuni Italiani, diventando uno dei volti più noti dell’amministrazione locale italiana.

Alle europee del 2024 ha ottenuto oltre mezzo milione di preferenze nel Sud Italia, un record che lo ha proiettato alla presidenza della Commissione Ambiente del Parlamento europeo.

Il Partito Democratico si è confermato primo partito in Puglia con il 25,9% dei consensi, guadagnando quasi 55 mila voti rispetto al 2020.
Fratelli d’Italia, pur in crescita di sei punti percentuali rispetto alle precedenti regionali, si è fermato al 18,7%, seguito da Forza Italia al 9,1% e dalla Lega all’8%.

Il Movimento 5 Stelle, che nel 2020 correva da solo, ha ottenuto poco più del 7%, un dato inferiore alle aspettative ma che ha comunque contribuito alla vittoria del campo largo.


Veneto: l’onda lunga di Zaia travolge Fratelli d’Italia

In Veneto la sfida non era sulla vittoria finale, mai in discussione, ma sul rapporto di forze interno al centrodestra. 

Alberto Stefani, 33 anni, vicesegretario federale della Lega, ha trionfato con il 64,4% dei consensi, raccogliendo l’eredità di Luca Zaia che ha governato la regione per quindici anni consecutivi.

Lo sfidante del centrosinistra, l’ex sindaco di Treviso Giovanni Manildo, si è fermato al 28,9%, un risultato che però rappresenta quasi il doppio rispetto al 16% ottenuto dalla coalizione progressista nel 2020.

La vera storia di queste elezioni venete riguarda tuttavia le preferenze personali di Luca Zaia.
Il governatore uscente, candidato come capolista della Lega in tutte le sette province venete dopo il mancato via libera alla creazione di una lista con il proprio nome, ha raccolto oltre 200 mila preferenze, un risultato definito “clamoroso” dal presidente del Consiglio regionale Roberto Ciambetti.
Questo plebiscito personale ha permesso alla Lega di superare nettamente Fratelli d’Italia nel derby interno al centrodestra: il Carroccio ha ottenuto il 36,4% contro il 17,5% del partito di Meloni, un ribaltamento completo rispetto alle europee del 2024 quando FdI aveva raccolto il 37% e la Lega si era fermata al 16%.

Stefani rappresenta il volto giovane della Lega veneta. Nato a Camposampiero, in provincia di Padova, il 16 novembre 1992, si è iscritto al Carroccio a soli 15 anni, “fulminato” dall’idea del federalismo.
A 20 anni è stato eletto consigliere comunale, a 25 è diventato il più giovane deputato della storia della Lega, a 26 ha vinto le elezioni a sindaco di Borgoricco. 
Laureato con lode in Giurisprudenza con una tesi in diritto canonico dedicata alla nonna Vittoria, sta proseguendo gli studi con un dottorato e pubblicazioni scientifiche. Appassionato di pittura a olio e tempera, ex giocatore di pallavolo, Stefani incarna un profilo di cattolicesimo moderato e radicamento territoriale che piace tanto a Salvini quanto all’ala zaiana del partito.

Il candidato del centrosinistra Giovanni Manildo, 56 anni, avvocato ed ex sindaco di Treviso dal 2013 al 2018, ha condotto una campagna elettorale durata oltre 120 giorni incentrata su sanità pubblica, lavoro, ambiente e opportunità per i giovani.

Giovanni Manildo


Nonostante la sconfitta ampiamente prevista, Manildo ha rivendicato il risultato: “Nel 2015 il centrosinistra era sceso al 22%, nel 2020 è crollato al 16%, oggi superiamo il 30%. 
È molto più di un numero: è la conferma che in Veneto c’è una parte del Paese che non si rassegna“.


Le reazioni politiche: Schlein esulta, Meloni si congratula

Le prime reazioni dei leader nazionali hanno fotografato lo stato d’animo dei rispettivi schieramenti. 

Elly Schlein, segretaria del Partito Democratico, ha celebrato la vittoria con il mantra “Uniti non si vince, si stravince, sottolineando come la linea “testardamente unitaria” sia stata premiata dagli elettori.
L’alternativa c’è ed è competitiva, il riscatto parte dal Sud e ci porterà a vincere insieme“, ha dichiarato la leader dem, aggiungendo che “la partita delle prossime politiche è apertissima”.

Giorgia Meloni ha invece scelto la strada della sportività istituzionale, congratulandosi con Stefani per “una vittoria frutto del lavoro, della credibilità e della serietà della nostra coalizione” e rivolgendo poi auguri anche a Decaro e Fico affinché “possano svolgere al meglio il loro mandato, nell’interesse dei cittadini”.
Matteo Salvini ha esultato per il risultato veneto definendolo “oltre ogni previsione” e ha sottolineato come la Lega stia “crescendo con passo da Alpino“.

Dal centrosinistra è arrivata anche la stilettata di Matteo Renzi, che ha commentato: “I risultati di Campania e Puglia, dopo la Toscana, dicono che l’alternativa c’è, da casa riformista fino alla sinistra. E questa alternativa, quando è unita, vince“.
Giuseppe Conte, leader del Movimento 5 Stelle, ha dedicato la vittoria campana a “chi non si è rivoltato dall’altra parte di fronte alle difficoltà di famiglie e imprese


Il futuro politico tra legge elettorale e politiche 2027

Questi risultati aprono numerosi scenari per il futuro. 
Il centrosinistra ha dimostrato che la formula del campo largo, quando applicata con coerenza, produce vittorie schiaccianti, almeno al Sud.
La sfida sarà replicare questo schema a livello nazionale in vista delle politiche del 2027. Per il centrodestra, invece, la lezione viene soprattutto dal Veneto, dove il radicamento territoriale della Lega e il carisma di figure come Zaia si sono rivelati decisivi per contenere l’avanzata di Fratelli d’Italia.

Il dato sull’astensionismo rimane però l’elefante nella stanza. 
Con meno della metà degli elettori che si recano alle urne, la legittimazione democratica dei vincitori risulta inevitabilmente indebolita.
Come ha osservato Giovanni Manildo nel suo messaggio post-voto, “l’affluenza in calo ci preoccupa e dovrebbe interrogare tutta la politica“.

La partita per le prossime elezioni politiche è dunque aperta, con un centrosinistra galvanizzato dalla conferma che “il mito dell’imbattibilità di Giorgia Meloni finisce oggi“, come hanno ripetuto le opposizioni, e un centrodestra che dovrà riflettere sulla difficoltà di sfondare nelle regioni meridionali, nonostante l’impegno diretto della premier. 

Il vero vincitore di questa tornata elettorale resta però l’astensionismo, sintomo di una disaffezione crescente che nessuno schieramento sembra in grado di invertire.

Il piano Trump smaschera tutti: vincitori, vinti e ipocriti

La bozza in 28 punti consegnata a Zelensky è chiarissima: Crimea, Donbass intero, Kherson e Zaporizhzhia congelati lungo la linea attuale restano alla Russia; Kiev rinuncia per sempre alla NATO, riduce drasticamente l’esercito, accetta una zona demilitarizzata e garanzie USA “à la carte” ma non l’Articolo 5.

In cambio, sanzioni revocate, beni russi congelati usati per ricostruire l’Ucraina e Mosca rientra nel salotto buono (G8, accordi nucleari, cooperazione energetica e tecnologica con Washington).Il messaggio geopolitico è brutale e cristallino: chi invade con la forza e resiste tre anni ottiene ciò che vuole. Punto. La Russia ha perso 600.000 uomini tra morti e feriti gravi (dati Intelligence USA e UK), ha speso oltre 200 miliardi di dollari, è stata isolata economicamente, ma alla fine tiene il 20% del territorio ucraino e blocca l’espansione NATO.

Ha vinto sul campo, anche se a un costo mostruoso.

Zelensky piange “perdita di dignità” perché sa che firmare significa ammettere la sconfitta militare e politica dopo aver giurato “nemmeno un centimetro”. Ma l’alternativa è perdere anche il sostegno USA: Trump ha già fatto capire che senza accordo i rubinetti si chiudono.

L’Europa da sola non regge più il peso (Germania in recessione, Francia che litiga sui missili, Polonia che teme di essere la prossima).

L’Occidente collettivo, dopo aver pompato 200 miliardi di aiuti e aver promesso “fino alla vittoria”, adesso scarica Kiev con un’alzata di spalle: “pace ora, a qualunque costo”.

L’ipocrisia è totale: per trent’anni abbiamo ripetuto “mai ricompensare l’aggressione”, poi arriva il primo aggressore che tiene duro e il principio svanisce.

La pace è sempre preferibile alla guerra, ma questa pace insegna una lezione pericolosa al mondo: se sei disposto a pagare in sangue e a resistere abbastanza a lungo, alla fine l’Occidente cede.

Taiwan, Moldavia, Paesi Baltici e chiunque altro stanno prendendo appunti. Il vincitore morale è Putin: ha dimostrato che la forza paga ancora.

OpenAI perderebbe fino a 15 milioni di dollari al giorno con i video “sciocchi” di Sora

Sora, il modello per la creazione di video di OpenAI, è oggi uno dei sistemi per la creazione di video più avanzati al mondo.
La sua diffusione virale ha generato la produzione incessante di cortometraggi assurdi come “gatti e cani che si incontrano” e video controversi con “star defunte resuscitate“, venendo utilizzato con grande entusiasmo dagli utenti solo per creare contenuti divertenti.
Senza alcuna intenzione di pagare.
Il 30 settembre, OpenAI infatti pubblicato l’app Sora su iOS (tramite invito) ottenendo 1 milione di download in una settimana, mentre ad Halloween e secondo le stime AppFigures, erano già arrivati a 4 milioni: gli utenti hanno iniziato immediatamente a produrre milioni di micro-video da 10 secondi ogni giorno.

La situazione finanziaria di OpenAI: tra valutazioni record e presunte perdite colossali

Come confermato direttamente anche dal CEO di OpenAi/Sora Sam Altman, “Questi contenuti non possono sostenere i costi di elaborazione che consumiamo ogni secondo“.

Sebbene uno degli analisti della Bank of America, Lloyd Walmsley, l’abbia paragonata ad una vecchia strategia vincente da start-up per “catturare gli utenti, monetizzando dopo“, il costo dei video basati sull’intelligenza artificiale sembra essere molto più elevato rispetto a quello necessario per i contenuti di testo: generare un singolo video ad alta definizione consumerebbe molte più risorse di un testo, facendo si che la riduzione dei costi di produzione proceda molto più lentamente del previsto.

OpenAI è valutata circa 500 miliardi di dollari e ha previsto ricavi ricorrenti annui di 20 miliardi, anche se non tutto è oro: secondo stime indipendenti, OpenAI starebbe spendendo fino a 15 milioni di dollari al giorno per mantenere Sora operativa, con una spesa pari ad oltre 5 miliardi di dollari l’anno.

Per un’azienda che ha registrato perdite superiori ai 12 miliardi in un singolo trimestre, la questione non è marginale.

Il fatto che OpenAI sostenga la creazione di questi video si presenta agli analisti come un esercizio di marketing più che del lancio di un prodotto realmente vantaggioso.

La percentuale di video utilizzabili sarebbe infatti compresa solamente tra il 5% ed il 10% , mentre il resto è puro intrattenimento gratuito senza alcuna prospettiva di conversione verso servizi a pagamento o applicazioni commerciali di valore: di conseguenza, inutile.
OpenAI starebbe quindi spendendo per produrre contenuti che quasi non vengono usati, e questo diventa un grosso segnale di rischio anche per i suoi partner.

Perché i video AI costano così tanto?

Sora 2, l’ultima versione del modello per la creazione di video, è molto più costosa rispetto ad un modello testuale (tipo GPT) perché deve gestire dati spaziali e temporali complessi (più dimensioni e coerenza nei fotogrammi).

La differenza principale è quindi soprattutto tecnica: un video ad alta definizione generato dall’AI richiede il calcolo simultaneo di dati spaziali e temporali, utilizzando una quantità enorme di GPU – circuiti elettronici specializzati nel calcolo ad alta velocità utili per la gestione e la resa di immagini, video ed animazioni – e una potenza di calcolo continuativa molto più impegnativa rispetto alla generazione di risposte testuali.

Sempre secondo gli esperti, OpenAI sembra stia offrendo la generazione di video gratuita per attrarre gli utenti con l’obiettivo di monetizzare nel tempo i dati generati dagli utenti, puntando solo successivamente a guadagnare tramite eventuali pacchetti di pagamento per utenti “Premium” – aziende, studi cinematografici e professionisti del settore creativo – e ridurre di conseguenza le tasse future.
I contenuti per le creazioni di base potrebbero rimanere gratuiti, mentre le funzionalità avanzate come i video professionali di lunga durata, l’output in 4K e i diritti d’autore utilizzabili a fini commerciali è possibile che diventino a pagamento ed essere considerati costi operativi utili a ridurre le spese, anche se ciò al momento significa grandi perdite.

Viene infatti stimato che un video di 10 secondi possa costare circa 1,30 dollari in sola potenza GPU, cifra che sale considerevolmente quando si includono costi accessori tecnici come infrastrutture, manutenzione, trasferimento dati e raffreddamento.
Sora 2 è in grado di produrre sequenze sempre più coerenti e realistiche, ma questa qualità ha un prezzo: l’efficienza sembra non stia migliorando abbastanza rapidamente da compensare l’esplosione della domanda gratuita.


Rischi, incertezze e stime poco solide

Le previsioni sui costi di Sora sono tutt’altro che precise: Forbes sottolinea che OpenAI non ha rilasciato dati ufficiali sui volumi di utilizzo, né sul numero di GPU impiegate nei processi di creazione video.

Molti calcoli si basano quindi su assunzioni e modelli statistici.

L’azienda intanto sembra scommettere e investire utili per crescere a costo di perdite enormi, nonostante la situazione economica di Sora siacompletamente insostenibile, come ammesso da Altman.

A preoccupare esperti, partner commerciali ed investitori ci sono sia i rischi collegati alla qualità – se la maggior parte dei video generati non è davvero utilizzabile non si può puntare su Sora per campagne marketing “serie” – che l’incertezza sul ritorno degli investimenti: le aziende potrebbero non giustificare da soli i costi operativi attuali quando OpenAi non potrà più permettersi di sovvenzionare tutto.

Inoltre, se Sora non diventa effettivamente redditizio, Microsoft dovrà decidere se continuare a finanziarla o cambiare del tutto rotta.
Un elemento cruciale riguarda infatti il rapporto con Microsoft: secondo alcune fonti, Bill Gates avrebbe messo in guardia a suo tempo Satya Nadella – attuale CEO di Microsoft – dai rischi dell’ investire miliardi in un settore non ancora economicamente maturo e stabile.
Nonostante ciò, Microsoft ha puntato tantissimo su OpenAi, diventandone il principale motore finanziario.

L’idea, per alcuni osservatori, è che Microsoft stia tollerando enormi perdite in cambio della leadership assoluta nel settore video-AI sfruttando i dati generati dagli utenti per ottenere un vantaggio competitivo difficilmente replicabile.

La raccomandazione degli analisti è di usare Sora in modo sperimentale e non come pilastro centrale delle attività produttive principali, come campagne che richiedono stabilità ed un alto livello qualitativo dei prodotti – ma esclusivamente per brainstorming e prototipi interni.


Le dichiarazioni di Altman: nessun aiuto dal Governo

In mezzo alle polemiche sui costi dei data-center, Altman ha affermato su X che OpenAI non ha né cerca garanzie statali per ottenere finanziamenti.
L’azienda vuole essere percepita come indipendente, ambiziosa e capace di sostenere da sola la propria crescita.

Il messaggio sembra essere anche una risposta diretta alle preoccupazioni generate sull’investimento di cifre enormi in infrastrutture senza che ci siano stime e fondi completamenti sicuri per mantenerle: OpenAI punterebbe a costruire infrastrutture su larga scala senza dipendere da sovvenzioni governative, rafforzando di conseguenza l’idea che vogliano gestire il proprio destino finanziario scommettendo che i ricavi futuri (o almeno la crescita) giustificheranno questi investimenti massivi.

Non stiamo giocando con il denaro pubblico” è parte di un messaggio più grande che chiarisce come OpenAI veda il suo ruolo: non solo un’azienda, ma un’impresa che “costruisce AI per fare scienza e ricerca.

Altman rassicura tutti che OpenAI non è un ente che cerca sussidi ma è soprattutto un’azienda che crede nei suoi piani e vuole che questi siano sostenibili.
Questo può essere visto sia come una mossa coraggiosa e trasparente, sia come un iperbole retorica, soprattutto se dietro ci sono già impegni finanziari enormi che non sono pienamente coperti.

Sollecitato, il CEO fa proiezioni aggressive –100 miliardi di entrate entro il 2027– che non quadrano facilmente con le stime attuali e liquida le critiche -“Se volete vendere le vostre azioni vi trovo un investitore”.

La grande domanda: il punto di svolta arriverà davvero?

Nonostante Sora rappresenti uno dei più grandi balzi in avanti della generazione video, il mercato non è ancora disposto a pagare i costi reali di questa tecnologia dove persistono limiti tecnici importanti: durata massima dei video, incoerenze fisiche, problemi di copyright e rischi legati all’uso improprio di volti e identità.

La scommessa di OpenAI consisterebbe essenzialmente nell’ottenere entro i prossimi 12-18 mesi tecnologia, domanda e modelli di business maturi e sincronizzati tra loro.

Il caso Sora ci rivela comunque una contraddizione fondamentale del settore: l’innovazione tecnologica non significa ottenere automaticamente successo commerciale.

OpenAI dovrà trovare un equilibrio tra crescita, costi e sopravvivenza e la vera rivoluzione arriverà solo quando qualcuno riuscirà a costruire un modello economico unitario sostenibile, trasformando la generazione video da esperimento a industria.

Tra tweet difensivi e stime da record, resta l’impressione di un settore che promette molto più di quanto riesce a dimostrare: i modelli migliorano lentamente ed il mercato non regge ancora i costi reali della produzione video.
Servirebbe un approccio sostenibile migliorando l’efficienza e creando modelli di business che funzionino davvero, senza sprecare risorse o fiducia.

Trump abbraccia bin-Salman: quando il trilione di dollari vale più di un cadavere fatto a pezzi

Il riavvicinamento tra Donald Trump e Mohammed bin Salman del 18 novembre 2025 è un esercizio di realismo geopolitico spinto fino al cinismo estremo.

I fatti sono chiari: in 42 minuti di colloquio pubblico Trump ha definito Salman “protettore dei diritti umani”, ha respinto l’intelligence USA che lo indica come mandante dell’omicidio Khashoggi, ha liquidato la domanda di ABC News come “fake news” e ha promesso lo status di maggior alleato non-NATO in cambio di investimenti sauditi portati da 600 miliardi a 1 trilione di dollari.

Cena di gala, banda dei Marine, sei jet in formazione: la coreografia perfetta per seppellire sotto il tappeto rosso il cadavere fatto a pezzi nel consolato di Istanbul nel 2018. Il pragmatismo energetico e militare è comprensibile: l’Arabia Saudita resta il perno dell’OPEC+, il maggior acquirente di armi americane e un contrappeso all’Iran in un Medio Oriente che rischia di esplodere su Gaza, Yemen e Libano.

Ma esiste un confine tra realpolitik e complicità morale. Quando il presidente degli Stati Uniti nega pubblicamente la responsabilità del mandante di un giornalista assassinato sul suolo diplomatico, quel confine viene oltrepassato. Gli analisti del Council on Foreign Relations (Nov 2025) e dell’International Crisis Group sottolineano che questa normalizzazione rafforza l’impunità di MBS proprio mentre Riyadh reprime dissenso interno (oltre 200 esecuzioni nel 2024) e bombarda lo Yemen con armi USA.

Il messaggio è univoco: i diritti umani sono negoziabili se il prezzo è abbastanza alto. Gli Stati non sono aziende. Un’azienda può scegliere i propri clienti; uno Stato che pretende leadership morale globale non può vendere la propria credibilità per un trilione di petrodollari e qualche barile in più.

Il 18 novembre 2025 Washington ha scelto i secondi. La storia giudicherà se ne è valsa la pena.

Analisi del Malfunzionamento Globale di Cloudflare

Il 18 novembre 2025, Cloudflare, un fornitore di infrastruttura internet, ha subito una grave interruzione globale del servizio. L’incidente è iniziato intorno alle 11:20 e si è protratto per circa tre ore, causando un’ampia degradazione della connettività per milioni di utenti e servizi in tutto il mondo.

Classificazione e portata dell’incidente

L’interruzione è stata ufficialmente classificata come un guasto operativo interno e non come il risultato di un attacco informatico o attività malevola. Questo distingue l’evento da incidenti di sicurezza, concentrando l’analisi sulle vulnerabilità sistemiche della configurazione e del software. La portata del guasto si è manifestata principalmente attraverso la diffusione di errori HTTP 500 (Internal Server Error) e la contemporanea paralisi della Cloudflare Dashboard e delle API di gestione. Tali sintomi hanno esposto una profonda dipendenza dall’infrastruttura centralizzata di Cloudflare, compromettendo la stabilità della rete per una porzione significativa del web globale.

Principali risultati tecnici sulla causa

La causa principale del disservizio è stata ricondotta a un bug latente all’interno del software che gestisce le capacità di mitigazione dei bot e di sicurezza di Cloudflare. Questo difetto preesistente è stato innescato da un file di configurazione del traffico di che era cresciuto “oltre una dimensione prevista”. Quando il sistema software di gestione del traffico ha tentato di elaborare questo file eccessivamente grande, ha innescato un crash.

L’analisi indica una particolare vulnerabilità operativa nei sistemi difensivi. Il paradosso è che la complessità richiesta per difendere la rete (attraverso set di regole di sicurezza granulari e dinamiche) ha introdotto un nuovo vettore di fallimento interno. La configurazione di sicurezza altamente dinamica deve essere gestita con lo stesso rigore di validazione impiegato nello sviluppo e nel distribuzione del codice.

Analisi dell’Interruzione Cloudflare – Nov 2025

Anatomia di un Disservizio

Dossier Tecnico: Interruzione di Cloudflare a cura di Alground

Sintesi Esecutiva: L’Impatto

Il 18 novembre 2025, una porzione significativa di internet ha subito gravi disservizi a causa di una grave interruzione in Cloudflare, un fornitore critico di servizi di infrastruttura. Questo rapporto visivo analizza la cronologia, l’impatto e la causa tecnica principale dell’incidente.

90 Minuti

Durata approssimativa dell’interruzione diffusa dei servizi e dell’aumento dei tassi di errore.

>50% Calo di Traffico

Calo di traffico segnalato per le principali piattaforme colpite durante il picco dell’incidente.

Raggio d’Impatto: Chi è Stato Colpito?

Cloudflare opera come reverse proxy per milioni di siti web, fornendo sicurezza (WAF), prestazioni (CDN) e servizi DNS. L’interruzione ha immediatamente colpito qualsiasi servizio che si affidasse alla loro rete, portando a una cascata di disservizi in diversi settori.

Picco di Segnalazioni di Disservizio

Le segnalazioni degli utenti su piattaforme come Downdetector sono aumentate, in corrispondenza diretta con il guasto del servizio.

Settori di Servizio Colpiti

Il disservizio è stato avvertito in tutti i settori, colpendo piattaforme AI critiche, social media e servizi di e-commerce.

Cronologia dell’Evento (CET)

L’incidente si è sviluppato rapidamente durante una fascia oraria ad alto traffico, con le prime segnalazioni emerse poco prima delle 10:30 CET e le azioni di risoluzione iniziate intorno alle 11:00 CET.

12:28 CET

Segnalazioni iniziali degli utenti di errori 5xx e fallimenti di connessione per i principali siti (X, OpenAI) in forte aumento.

12:35 CET

Cloudflare pubblica l’avviso iniziale “Indagine in corso” sulla sua pagina di stato, riconoscendo problemi diffusi.

12:45 CET

Il disservizio raggiunge il picco. Downdetector mostra decine di migliaia di segnalazioni per dozzine di servizi.

13:02 CET

Cloudflare identifica la causa principale come una “distribuzione software fallita” e avvia le procedure di rollback.

13:30 CET

I servizi iniziano a stabilizzarsi a livello globale con la propagazione della correzione. Stato di Cloudflare aggiornato a “Monitoraggio”.

Analisi Tecnica della Causa Principale

Le fonti indicano che il disservizio non è stato un attacco doloso ma un errore interno. Un push software errato a un data center critico ha innescato un fallimento a cascata nel Border Gateway Protocol (BGP), ritirando di fatto i servizi principali dalle tabelle di routing di internet.

Diagramma di Flusso della Cascata di Fallimenti

1. Distribuzione Software

Una nuova configurazione è stata inviata a un data center centrale (es. Ashburn, VA).

2. Errore di Configurazione BGP

L’aggiornamento conteneva un errore che causava l’annuncio di route BGP errate.

3. Fallimento a Cascata

Route non corrette si sono propagate a livello globale, portando altri router a interrompere le connessioni con la rete Cloudflare.

4. Servizi Fuori Linea

I servizi gestiti da Cloudflare sono diventati irraggiungibili, risultando in errori 5xx.

Risoluzione e Punti Chiave

Il problema è stato risolto con il rollback della distribuzione software difettosa. Questo incidente evidenzia l’immensa centralizzazione dell’infrastruttura internet e il rischio sistemico associato ai punti singoli di fallimento, anche in reti altamente resilienti.

  • Rischio di Centralizzazione: L’eccessiva dipendenza da pochi grandi fornitori di infrastrutture significa che piccoli errori possono avere conseguenze globali.
  • Fragilità BGP: Il protocollo di routing centrale di internet (BGP) si basa sulla fiducia e può essere vulnerabile a errori di configurazione che si diffondono rapidamente.
  • Importanza dei Rollback: L’identificazione rapida e le procedure di rollback sono essenziali per mitigare la durata dei disservizi causati internamente.

Questa infografica è un’analisi tecnica basata su rapporti pubblici. Tutti i dati sono rappresentativi.

Implicazioni strategiche immediate

L’evento ha immediatamente evidenziato i gravi rischi associati alla centralizzazione dell’infrastruttura internet, agendo come un chiaro Punto Singolo di Fallimento (SPOF) a livello globale. A livello finanziario, l’interruzione ha causato un calo del valore azionario di Cloudflare e ha aumentato l’attenzione da parte dei clienti aziendali.

Poiché Cloudflare aveva già sperimentato diverse interruzioni minori nel 2025 (incluso giugno, luglio e settembre ), la frequenza cumulativa degli incidenti amplifica l’ansia di investitori e clienti, rendendo imperativa la necessità di una trasparenza eccezionale nell’analisi post-mortem per mitigare una potenziale perdita di clientela a lungo termine. Questa preoccupazione è destinata ad accelerare l’adozione di architetture più complesse, ma resilienti, come il Multi-CDN (Content Delivery Network) e il Global Server Load Balancing (GSLB).

Cronologia dell’incidente e valutazione dell’impatto globale

L’incidente è iniziato intorno alle 12:20 con le prime segnalazioni di un “picco insolito di traffico” che ha innescato l’errore. Alle 12:48 , Cloudflare ha ufficialmente confermato il problema sulla sua pagina di stato, segnalando “Errori 500 diffusi, Cloudflare Dashboard e API in fallimento”.

Vi era una sovrapposizione temporale con una manutenzione programmata (ad esempio, nel datacenter SCL di Santiago, tra le 12:00 e le 15:00 UTC), sebbene le fonti non colleghino direttamente i due eventi, sollevando interrogativi sulla sincronizzazione della gestione dei cambiamenti. L’interruzione ha raggiunto il picco intorno alle 13:00 , con il sito di monitoraggio Downdetector (ironicamente anch’esso brevemente colpito a causa della dipendenza da Cloudflare) che registrava il massimo delle segnalazioni. Il servizio è stato dichiarato pienamente risolto alle 15:30.

Sintomatologia tecnica e risposta agli errori

La sintomatologia dominante è stata la comparsa di Errori HTTP 500, indicando un fallimento interno ai server di reverse proxy di Cloudflare che impediva l’elaborazione del traffico.

Un sintomo secondario, ma cruciale, è stato il fallimento dello strato di sicurezza, che ha generato il messaggio di blocco: “Please unblock challenges.cloudflare.com to proceed”. Questo messaggio indica che il sistema di sicurezza e challenge (WAF/Bot Mitigation) di Cloudflare era in uno stato di malfunzionamento. Il WAF, anziché reindirizzare correttamente il traffico o servire il contenuto in cache, ha bloccato aggressivamente gli utenti legittimi dall’accedere ai contenuti di origine, anche se i server web sottostanti potevano essere operativi.

La terza manifestazione critica è stata la paralisi del Control Plane, ovvero l’inaccessibilità della Dashboard e delle API. Questo ha impedito ai tecnici di Cloudflare e ai clienti di monitorare lo stato in tempo reale o di eseguire rapidamente modifiche alla configurazione per il ripristino. Il fatto che un fallimento del sistema edge possa contemporaneamente abbattere l’infrastruttura di gestione indica che l’architettura di controllo non è sufficientemente isolata dal data plane critico.

Impatto operativo trasversale

L’interruzione ha avuto un impatto vasto, sottolineando il ruolo centrale di Cloudflare nell’ecosistema digitale moderno:

  • Social Media e Intelligenza Artificiale (AI): Piattaforme ad alta intensità di traffico come X (precedentemente Twitter), e fornitori di servizi AI di nuova generazione come OpenAI (ChatGPT e Sora) e Claude AI sono stati gravemente colpiti. La dipendenza di questi servizi dall’infrastruttura CDN/sicurezza di Cloudflare è stata imponente.
  • Settori Economici: L’impatto si è esteso a piattaforme di e-commerce (Shopify), servizi finanziari (Coinbase, PayPal) e applicazioni di trasporto (Uber, NJ Transit), dimostrando l’ampiezza delle ripercussioni economiche generate da un fallimento a livello di infrastruttura.

L’analisi della sintomatologia rivela che un guasto sistemico di basso livello, innescato da un bug latente e un overflow di dati interni, si è tradotto in errori catastrofici di alto livello (500), creando un’interruzione di servizio globale.

OrarioSintomo OsservatoComponente ColpitoSignificato Tecnico
12:20Picco di errore inizialeSoftware di Mitigazione MinacceCarico di configurazione ha superato la capacità del sistema
12:48Errori 500 Globali & Dashboard InattivaRete Edge / Control PlaneCrash simultaneo del data plane e deterioramento del sistema di gestione
13:00Errore di Blocco WAFLivello di Challenge di Sicurezza (WAF)Fallimento nel servire i contenuti a causa di una logica di sicurezza corrotta
15:30Risoluzione e RipristinoRete GlobaleAvvio del rollback della configurazione problematica

Il malfunzionamento è stato direttamente collegato a un file di configurazione generato dinamicamente, utilizzato dai servizi di mitigazione dei bot o dal Web Application Firewall (WAF) di Cloudflare. Questo file contiene una serie di regole necessarie per proteggere i siti web identificando e bloccando i pattern di traffico dannoso. In un ambiente di Content Delivery Network (CDN) globale come Cloudflare, che impiega migliaia di Point of Presence (PoP), la configurazione deve essere propagata in modo quasi istantaneo a tutti i server edge.

Meccanismo del bug latente

Il fallimento si è verificato quando il file di configurazione in questione si è espanso, raggiungendo una dimensione inattesa ed eccessiva (“beyond an expected size of entries”). Il difetto latente risiedeva nel componente software incaricato di analizzare, caricare o applicare questo file di configurazione ai motori di gestione del traffico.

L’analisi dei sistemi distribuiti suggerisce che l’overflow della dimensione del file abbia causato un esaurimento di risorse. È probabile che si sia verificato un fallimento nell’allocazione della memoria (RAM) o un potenziale buffer overflow quando il software ha tentato di ingerire l’enorme set di regole. Quando un processo di sistema incontra un errore fatale nell’allocazione delle risorse critiche, può innescare un crash del processo o un kernel panic su tutta la flotta distribuita di server edge.

Questo evento mette in luce i pericoli derivanti dall’affidarsi a limiti impliciti. La configurazione non era vincolata da un limite di dimensione definito, e il software di gestione non possedeva meccanismi di controllo degli errori sufficientemente robusti o l’applicazione esplicita di vincoli di dimensione prima del caricamento critico. Tali omissioni rappresentano un difetto fondamentale nella progettazione dei sistemi distribuiti, dove l’ottimizzazione delle prestazioni spesso compromette la verifica robusta dei limiti.

Distinzione da attacchi esterni

Sebbene l’interruzione sia stata inizialmente attribuita a un “picco insolito di traffico” il quale funge da trigger che ha causato la crescita dinamica del file di configurazione Cloudflare ha fornito chiare dichiarazioni escludendo l’attività malevola o attacchi DDoS come causa radice. Il fallimento è stato categoricamente definito come interno e sistemico.

Processo di ripristino

La risoluzione primaria dell’incidente ha richiesto l’identificazione della configurazione errata e l’implementazione di un fix. La difficoltà nel ripristino è stata esacerbata dal Control Plane in panne, che ha rallentato la capacità di diagnosticare rapidamente il problema di configurazione e di eseguire il rollback globale.

OpenAI, con servizi come ChatGPT e Sora, richiede API ad alta velocità e bassa latenza. Cloudflare opera come un gateway API essenziale per la sicurezza e il rate limiting.14 Il fallimento di OpenAI e Claude AI durante l’interruzione non è stato dovuto a un guasto delle loro infrastrutture di calcolo, ma al blocco avvenuto a livello di reverse proxy di Cloudflare.

La manifestazione dell’errore WAF implica che gli utenti sono stati respinti alla “porta d’ingresso” del sistema. L’infrastruttura di OpenAI, seppur potenzialmente sana, è diventata inaccessibile perché il servizio di accesso e sicurezza di Cloudflare era in uno stato di blocco. Di conseguenza, la possibilità per l’AI provider di eseguire un failover rapido è stata annullata, poiché il blocco è avvenuto a un livello (Layer 7 Proxy/WAF) troppo basso per consentire l’attivazione di meccanismi di fallback a livello applicativo (come quelli offerti da soluzioni come Cloudflare AI Gateway).

L’impatto universale su piattaforme come X, Spotify e Canva suggerisce che queste entità utilizzano Cloudflare per funzioni fondamentali: non solo la distribuzione di contenuti statici (CDN), ma anche la mitigazione DDoS, la risoluzione DNS e il reverse proxying del traffico applicativo di base.

La strategia di affidarsi a un singolo fornitore per il WAF e il DNS crea un collo di bottiglia architetturale. L’incapacità di risolvere le challenge di sicurezza o di instradare il traffico a causa del guasto del ruleset del WAF ha paralizzato l’intera applicazione, indipendentemente dalle misure di scalabilità o ridondanza interna adottate dal cliente.7

Fragilità di DNS e Routing Anycast

Cloudflare sfrutta il routing Anycast per annunciare i suoi indirizzi IP globalmente, dirigendo il traffico verso il PoP più vicino. Sebbene ciò massimizzi le prestazioni, comporta un rischio. Una singola misconfigurazione o un crash del software che influisce sulla distribuzione interna dello stato di configurazione può innescare un fallimento simultaneo e globale in tutti i PoP che pubblicizzano le rotte Anycast. Precedenti eventi, come l’interruzione del resolver DNS 1.1.1.1 nel luglio 2025, hanno già dimostrato come errori di configurazione interni possano portare a ritiri di rotta su scala mondiale, causando indisponibilità catastrofica.

Il comportamento del WAF di Cloudflare, che impone un blocco irrisolvibile, è un esempio di postura di sicurezza “fail closed” aggressiva. Sebbene inteso a prevenire le violazioni, in caso di guasto dell’infrastruttura, garantisce l’indisponibilità totale per gli utenti legittimi. Questo approccio dimostra che per la maggior parte delle applicazioni enterprise (al di fuori delle piattaforme finanziarie ad altissimo rischio), una strategia “fail open” (che permetta un accesso non mitigato ma potenzialmente funzionale) o una “static failure” (che serva contenuto statico dalla cache) è spesso preferibile per la continuità operativa. La dipendenza estrema da un singolo punto di controllo espone X e OpenAI a un significativo debito tecnico derivante dalla centralizzazione, che ora impone una riprogettazione urgente per la ridondanza.

L’imperativo della diversificazione dei fornitori

L’incidente ha confermato che anche le piattaforme meglio ingegnerizzate non sono immuni da meccanismi di fallimento imprevisti, quali bug latenti e misconfiguration. La fiducia storica nella robustezza di Cloudflare deve essere bilanciata con la realtà del rischio sistemico. I concorrenti diretti, inclusi Akamai Technologies, Fastly e AWS CloudFront, sono pronti ad assorbire la domanda di resilienza e diversificazione. Le aziende che si affidano a un unico fornitore sono ora costrette a re-immaginare le loro strategie, accelerando l’adozione di approcci multi-cloud e Multi-CDN per mitigare i Punti Singoli di Fallimento.

La strategia Multi-CDN prevede la distribuzione dello stesso traffico attraverso più CDN indipendenti. Per gestire questa complessità, è necessario un livello di routing superiore, noto come Global Server Load Balancing (GSLB).

Il GSLB funge da strato di risoluzione intelligente che distribuisce le richieste tra i fornitori (ad esempio, Cloudflare e Fastly) in base a controlli di integrità in tempo reale (health checks), latenza geografica e prestazioni regionali. Il meccanismo di resilienza è intrinseco: se Cloudflare fallisce un health check a causa di errori 500 diffusi, il GSLB reindirizza automaticamente il 100% del traffico verso il CDN secondario sano, garantendo la continuità operativa.

L’interruzione di Cloudflare del novembre 2025 rappresenta un evento significativo che ha messo in discussione la supposta robustezza dell’infrastruttura internet moderna, evidenziando che i fallimenti operativi interni rimangono la minaccia più pervasiva per l’alta disponibilità.

Raccomandazioni strategiche

Sulla base delle vulnerabilità esposte dall’incidente, si raccomanda ai responsabili tecnici di adottare il seguente piano d’azione immediato:

  1. Rendere Obbligatoria la Ridondanza Multi-WAF: Implementare almeno due strati WAF/sicurezza indipendenti su fornitori distinti. Ciò mitiga la modalità di fallimento critica osservata a novembre, in cui il fallimento del WAF ha portato al blocco completo.
  2. Implementare GSLB Robusto con Health Checks in Tempo Reale: Utilizzare il Global Server Load Balancing per instradare il traffico basandosi sullo stato di salute istantaneo dei CDN, assicurando il failover automatico durante gli errori sistemici di tipo 5xx.
  3. Disaccoppiare il DNS dal CDN: Garantire che la risoluzione DNS primaria e secondaria sia gestita in modo indipendente o attraverso fornitori di servizi diversi per prevenire il fallimento simultaneo di DNS e CDN.
  4. Applicare Pipeline di Validazione della Configurazione Rigorose: Introdurre test automatizzati rigorosi (pre-flight checks) per tutte le modifiche di configurazione, convalidando esplicitamente la dimensione dei file, l’integrità delle strutture dati e il consumo di risorse rispetto a limiti di sicurezza predefiniti, prima di qualsiasi deployment globale.
  5. Rivedere gli Accordi sui Livelli di Servizio (SLA): Condurre revisioni immediate degli SLA e dell’idoneità ai crediti di servizio con tutti i fornitori di infrastrutture chiave (CDN, Cloud, DNS) per quantificare e mitigare i rischi finanziari associati ai tempi di inattività.

Musulmani per Roma 2027: nasce il primo gruppo politico islamico nella Capitale

Nella città eterna, cuore della cristianità e capitale d’Italia, sta prendendo forma un fenomeno politico senza precedenti che promette di ridisegnare gli equilibri delle prossime elezioni amministrative. MuRo27, acronimo di “Musulmani per Roma 2027”, rappresenta il primo tentativo organizzato della comunità islamica romana di trasformarsi in soggetto politico attivo in vista delle elezioni che si terranno nella Capitale tra meno di due anni.

L’iniziativa, annunciata attraverso i canali sociali nelle scorse settimane, ha immediatamente acceso un dibattito infuocato che vede contrapposti chi parla di legittima partecipazione democratica e chi invece intravede i rischi di derivare integraliste.​

L’ispirazione di New York e il sogno di Mamdani

L’elemento scatenante che ha dato il via al progetto MuRo27 è stata la storica vittoria di Zohran Mamdani alle elezioni per la carica di sindaco di New York dello scorso novembre. Il giovane politico trentaquattrenne di origini ugandesi e indiane, musulmano e autodefinitosi socialista, è diventato il primo sindaco di fede islamica della metropoli americana , un risultato che ha risuonato ben oltre i confini statunitensi.

Per i promotori del gruppo romano, l’elezione di Mamdani ha rappresentato molto più di una semplice curiosità politica dall’altra parte dell’Atlantico. Come dichiarato sulla pagina Facebook di MuRo27, la sua vittoria “ha avuto il merito di sottolineare, caso mai ce ne fosse ancora bisogno, l’arretratezza della nostra classe politica rispetto alla società in cui viviamo che è di fatto multiculturale”.

Mamdani

Mamdani, che ha conquistato oltre un milione di voti nella città più popolosa degli Stati Uniti, ha saputo intercettare il malcontento di diverse comunità, in particolare quella musulmana e sud-asiatica, storicamente emarginate dopo gli attentati dell’11 settembre.

La sua campagna elettorale si è concentrata su temi concreti come il contenimento degli affitti, il congelamento delle tariffe dei trasporti pubblici e una maggiore giustizia sociale, dimostrando che l’identità religiosa può convivere con un programma politico laico e inclusivo. Questo modello di partecipazione politica musulmana in Occidente ha fornito ai promotori di MuRo27 un esempio concreto da seguire , seppur in un contesto profondamente diverso come quello italiano.​​

Francesco Tieri, il volto dietro MuRo27

Il principale artefice dell’iniziativa romana è Francesco Tieri, ingegnere italiano convertito all’islam, già segretario delle Comunità islamiche del Lazio e figura controversa nel panorama politico capitolino . Tieri non è un nome nuovo per chi segue le dinamiche politiche romane. Nel 2021 si era già candidato alle primarie del centrosinistra per la presidenza del V municipio, sostenuto dall’allora lista “Democrazia Solidale” in quota Partito Democratico, a sostegno dell’attuale sindaco Roberto Gualtieri. Durante quella campagna elettorale aveva costruito la sua base di consenso principalmente attorno alle moschee del territorio, come lui stesso ammise: “Non ho un partito alle spalle e una struttura. Sono musulmano. Ho chiesto aiuto nei centri di preghiera per la raccolta delle firme”.​

Il V municipio, dove si concentra la maggior parte dei luoghi di culto islamici della Capitale, era stato al centro del suo programma elettorale. Tieri aveva dichiarato che in quella zona vivevano circa 50mila persone di origine straniera, il 20% della popolazione totale, di cui circa la metà musulmani, e aveva proposto la costruzione di “due moschee più grandi per feste e ricorrenze che rendono riconoscibile questa pratica collettiva”. Oggi Tieri collabora con il sito islamico “La Luce”, gestito dai fratelli Piccardo, uno dei quali è consigliere dell’Ucoii (Unione delle Comunità Islamiche d’Italia), e ha pubblicato nel 2024 un libro dal titolo eloquente: “Guerra alle moschee in assenza di terrorismo. I casi: Monfalcone, Pioltello e Legge Foti”.​

La comunità musulmana a Roma: numeri e presenza

Per comprendere la portata di questa iniziativa politica, è necessario contestualizzarla all’interno della realtà demografica della Capitale. Roma è la prima città italiana per numero assoluto di presenze musulmane, avendo superato la soglia delle 100mila unità, con tempi che arrivano a 120mila persone considerando anche le irregolarità . Applicando le metodologie di stima più accreditate, che utilizzano le percentuali di musulmani nei paesi d’origine, il numero di residenti stranieri musulmani a Roma si attestava intorno alle 71mila unità al 2015, corrispondente al 2,5% della popolazione residente, sostanzialmente in linea con il dato nazionale.neodemos+ 2

A questi vanno aggiunti circa 40mila musulmani di cittadinanza italiana, inclusi i convertiti stimati tra le 3 e le 4mila unità, per arrivare a una presenza regolare di circa 111mila abitanti, pari al 3,8% della popolazione residente nel Comune di Roma. L’Islam è diventato così la seconda religione per numero di fedeli della Capitale dopo quella cattolica, superando quella ortodossa . Le prime cinque comunità per numerosità (Marocco, Bangladesh, Egitto, Pakistan e Albania) rappresentano il 66% di tutti i residenti stranieri musulmani presenti nel Comune di Roma. Tra i musulmani presenti nella Capitale, quelli con cittadinanza italiana rappresentano il 33% sul totale, un segnale evidente di un mutamento sociale in atto anche all’interno delle comunità islamiche.​

Il precedente di Monfalcone e la lista “Italia Plurale”

L’iniziativa romana non nasce nel vuoto, ma si inserisce in un percorso già tracciato in altre città italiane. Il precedente più significativo è quello di Monfalcone, cittadina friulana con la più alta percentuale di immigrati in Italia, dove alle elezioni amministrative dell’aprile 2025 si è presentato per la prima volta “Italia Plurale”, lista a guida islamica che candidava a sindaco Bou Konate . Konate, ingegnere senegalese laureato a Trieste e già assessore ai Lavori pubblici in una giunta di centrosinistra, aveva raccolto 18 candidati, tra cui sei donne, con l’ambizione di intercettare i 7.982 elettori stranieri, pari al 34% del corpo elettorale locale.​

Nonostante l’esito elettorale sia stato modesto, con solo il 3% dei voti, il capolista Jahirul Islam aveva dichiarato: “Noi corriamo per vincere, ma in ogni caso andrà bene. Siamo riusciti a raccogliere le firme, a fare una lista con 18 nomi. Prima, non ci pensavamo proprio. È stata la politica di odio contro di noi, a unirci. Sono sicuro che Monfalcone sarà un esempio anche per gli immigrati d’altre città. E Italia Plurale diventerà un simbolo”. Il riferimento era alla “politica di odio” incarnata dalla sindaca leghista Anna Maria Cisint, che aveva chiuso due luoghi di culto islamico per presunte violazioni urbanistiche e di sicurezza, innescando una battaglia giudiziaria che ha visto più volte il TAR dare ragione alla comunità musulmana.​

Le reazioni politiche: tra allarme e vigilanza

La nascita di MuRo27 ha provocato reazioni immediate da parte del centrodestra italiano. Anna Maria Cisint, europarlamentare della Lega ed ex sindaco di Monfalcone, ha definito il fenomeno come “un nuovo partito islamico, portatore di un messaggio ideologico-politico islamista che ambisce all’applicazione del Corano, alla sostituzione della Costituzione con la Sharia, all’annientamento delle nostre libertà e dei nostri diritti, a partire da quelli delle donne” . Secondo Cisint, dopo il tentativo a Monfalcone “ora si riparte dalla Capitale con un nuovo partito islamico” e la presenza di “un partito composto interamente da soli musulmani rappresenta una pericolosa deriva per la visione liberticida e anti-occidentale che porta avanti”.​

Anche altri esponenti del centrodestra hanno espresso preoccupazione. Il presidente dei senatori di Forza Italia Maurizio Gasparri ha invitato a tenere “gli occhi aperti, bisogna sempre verificare connessioni e collegamenti, perché a Roma abbiamo troppi gruppi di fondamentalisti e moschee abusive”.

Il deputato di Fratelli d’Italia Federico Mollicone ha definito “inquietante la nascita di una lista civica ispirata alla legge islamica” e ha chiesto “un’attenzione massima da parte degli apparati di prevenzione”, sostenendo che “le sure e la legge italiana non sono compatibili”. Il deputato della Lega Rossano Sasso ha rincarato la dose affermando che “il loro intento e le loro parole non lasciano spazio alla minima forma di dubbio, vogliono islamizzare l’Italia”.​

I legami con le moschee e il V municipio

Secondo quanto ricostruito da diverse testate giornalistiche, dietro il progetto MuRo27 ci sarebbe l’appoggio del centro culturale che fa capo a Ben Mohamed Mohamed, imam della moschea Al Huda di via dei Frassini, nel quartiere di Centocelle. Questo imam tunisino ha un passato politico legato al partito Ennahda in Tunisia, affiliato ai Fratelli Musulmani, come lui stesso ha dichiarato in diverse interviste . La moschea di Centocelle è stata al centro di diverse polemiche negli anni scorsi e Tieri aveva organizzato proprio in quella sede una delle tappe della raccolta firme per la sua candidatura alle primarie del 2021.​

Il V municipio romano rappresenta un punto nevralgico per la comunità islamica capitolina, essendo l’area dove sorgono la maggior parte dei luoghi di culto, molti dei quali abusivi o privi delle necessarie autorizzazioni. Proprio in questo municipio sta per nascere quella che diventerà la seconda più grande moschea di Roma, nell’ex mobilificio Gaggioli di piazza delle Camelie, un progetto che prevede la trasformazione di un edificio di quattro piani in grado di ospitare fino a 1000 persone.

L’immobile è stato acquistato nel 2014 dall’associazione culturale legata alla moschea Al Huda per 3,6 milioni di euro con fondi provenienti dal Qatar, ma i lavori si sono poi fermati per mancanza di finanziamenti e sono ripresi solo recentemente grazie alle donazioni dei fedeli.​

L’obiettivo dichiarato e lo sguardo al 2027

Nella loro presentazione ufficiale, i promotori di MuRo27 hanno definito il gruppo come composto da “musulmani che vivono, studiano e lavorano nella capitale e che vogliono contribuire alla discussione politica in vista delle elezioni amministrative del 2027”. Il documento programmatico sottolinea che “la rilevanza politica della presenza islamica in Italia, rispetto al contributo che questa potrebbe dare alla società, può ad oggi essere valutata come quasi insignificante” e dichiara che “il gruppo MuRo27 intende promuovere e stimolare idee e proposte politiche di utilità collettiva con l’appartenenza religiosa dei propri membri”.​

Quest’ultima frase, in particolare, ha suscitato le maggiori perplessità. L’esplicito riferimento a “proposte politiche coerenti con l’appartenenza religiosa” viene interpretato da molti osservatori come l’affermazione di un islam politico, ovvero l’applicazione di precetti islamici alla vita politica e al tessuto sociale. La pagina Facebook di MuRo27 non lascia spazio a dubbi sulle simpatie politiche: campeggia una fotografia del Colosseo sormontato da una mezzaluna e un post a sostegno del ticket Ignazio Marino e Virginia Raggi come candidati alle prossime amministrative della Capitale. Entrambi gli ex sindaci hanno recentemente espresso la loro contrarietà al bis di Roberto Gualtieri, pur provenendo da aree politiche diverse.​

Il contesto nazionale e le sfide dell’integrazione

Il fenomeno MuRo27 si inserisce in un quadro più ampio che vede l’Italia alle prese con le sfide dell’integrazione della comunità musulmana, stimata in circa 2,8 milioni di persone, di cui circa la metà ha già acquisito la cittadinanza italiana. L’Islam non è ufficialmente riconosciuto dallo Stato italiano, a differenza del cristianesimo e dell’ebraismo, il che significa che le moschee non possono ricevere finanziamenti pubblici, i matrimoni islamici non hanno valore legale ei lavoratori musulmani non hanno diritto a permessi per le festività religiose.​

Nel 2017, nove associazioni islamiche che rappresentano il 70% dei musulmani residenti in Italia hanno firmato con il Ministero dell’Interno un “Patto nazionale per un Islam italiano”, il primo del genere nel paese. L’accordo, composto da 20 punti, impegna i firmatari a rigettare ogni forma di violenza e terrorismo e prevede che le preghiere nelle moschee siano tenute in italiano.

Tuttavia, la strada verso il pieno riconoscimento religioso e l’integrazione rimane complessa, soprattutto in un clima politico dove l’immigrazione e l’islam sono spesso oggetto di strumentalizzazione elettorale.​

La situazione italiana si differenzia da altri paesi europei dove la partecipazione politica musulmana ha già prodotto risultati significativi. A Londra, dal 2016, governa Sadiq Khan, primo sindaco musulmano di una capitale europea, mentre in Francia e Germania esistono da tempo rappresentanti musulmani eletti nei parlamenti nazionali e locali.

Il tentativo di MuRo27 di organizzarsi politicamente rappresenta quindi un fenomeno nuovo per l’Italia, ma non per l’Europa , e solleva interrogativi sulla capacità del sistema politico italiano di integrare queste nuove istanze senza cedere a derivare identitarie o, al contrario, senza marginalizzare ulteriormente una comunità già oggetto di discriminazioni.​

Prospettive future e scenari possibili

Le elezioni amministrative di Roma del 2027 coincideranno probabilmente con le politiche nazionali, rendendo il test elettorale della Capitale ancora più significativo. Se MuRo27 riuscirà a strutturarsi come lista civica oa influenzare l’agenda politica delle coalizioni esistenti, potrebbe rappresentare un punto di svolta nella partecipazione politica musulmana in Italia.

Lo scenario più probabile vede il gruppo cercare alleanze con la sinistra radicale e con figura come l’ex sindaco Ignazio Marino, oggi parlamentare europeo eletto con Alleanza Verdi e Sinistra, o con Virginia Raggi, che non ha mai nascosto la sua opposizione al Partito Democratico e all’attuale sindaco Gualtieri.​

Secondo alcune ricostruzioni giornalistiche, dietro il progetto ci sarebbe l’ambizione di creare un soggetto politico nazionale che vada oltre Roma, con liste civiche sui territori che potrebbero confluire in un unico movimento a livello nazionale, coinvolgendo anche l’associazionismo filo-palestinese e figura come il parlamentare Aboubakar Soumahoro, già sceso in campo a fianco di Bou Konate a Monfalcone. Francesco Tieri, nel libro pubblicato nel 2024, aveva scritto che “alla luce dello scenario politico dato, la costituzione di questo soggetto politico ci sembra non ulteriormente rimandabile oltre che necessaria alla società”.​

Resta da vedere se l’elettorato musulmano romano, stimato in diverse decine di migliaia di aventi diritto al voto, risponderà all’appello di MuRo27. La comunità islamica della Capitale è estremamente eterogenea, divisa per nazionalità, correnti religiose e livello di integrazione.

Molti musulmani italiani potrebbero non riconoscersi in un progetto esplicitamente confessionale , preferendo partecipare alla vita politica attraverso i tradizionali partiti laici, come testimonia il caso di Mariam Ali, giovane musulmana egiziana candidatasi nel 2021 al consiglio comunale di Roma con una lista di centrosinistra, che aveva dichiarato: “Non mi candido per rappresentare i musulmani in Italia. Mi candido come cittadino italiano e romano, e voglio dare voce ai giovani, agli anziani e ai bisognosi”.​

Il dibattito su MuRo27 è appena iniziato e nei prossimi mesi si capirà se questo gruppo riuscirà a trasformarsi in un vero soggetto politico competitivo o se rimarrà un fenomeno di nicchia. Ciò che è certo è che la presenza musulmana a Roma, e in Italia, non può più essere ignorata dalla politica, e che nuove forme di partecipazione democratica stanno emergendo in una società sempre più multiculturale e plurale.

Il genocidio sudanese raccontato da una sopravvissuta che il mondo ignora

Davanti ai banchi del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite, Niemat Ahmadi ha portato le voci di milioni di donne sudanesi vittime di una guerra dimenticata. La fondatrice del Darfur Women Action Group, sopravvissuta al genocidio del Darfur venticinque anni fa, non ha smesso di gridare l’allarme: il Sudan brucia, le donne muoiono, e la comunità internazionale tace.

Un inferno senza fine: la devastazione del Sudan contemporaneo

Il Sudan è stato travolto da una violenza feroce da oltre un anno , ha denunciato Ahmadi nelle sue dichiarazioni al Consiglio di Sicurezza dell’ONU. Il conflitto ha assunto dimensioni bibliche: tra i 10.000 ei 15.000 morti nella sola città di El Geneina, oltre 10 milioni di sfollati interni, 18 milioni di persone—oltre un terzo della popolazione sudanese—condannate alla fama. Le Nazioni Unite avvertono che il Sudan diventerà presto “la peggiore crisi alimentare del mondo”.

Ma dietro questi numeri ci sono volti, storie, sofferenze indicibili. Il ciclo di violenza mostra un disprezzo totale per il diritto internazionale e può configurarsi come crimini di guerra, crimini contro l’umanità e genocidio , ha affermato Ahmadi con una lucidità che esprime tutta la gravità della situazione.

Da una parte le Rapid Support Forces (RSF) continuano a occupare e saccheggiare le case dei civili, utilizzando la violenza sessuale, gli stupri e la schiavitù sessuale come tattica di guerra sistemica. Dall’altra, le Forze Armate Sudanesi (SAF) lanciano bombardamenti di artiglieria pesante e attacchi aerei indiscriminati contro case civili, mercati, ponti, servizi essenziali e vie di evacuazione. Nessuno rispetto per la vita umana. Nessun limite.

La scelta della morte: i suicidi di massa delle donne sudanesi

Tra i racconti che Ahmadi ha portato davanti al mondo, c’è uno particolarmente agghiacciante. Nel novembre 2024, durante il suo intervento al Consiglio di Sicurezza, l’attivista ha rivelato un dato che pochi nel mondo hanno compreso pienamente: oltre 130 donne hanno commesso suicidio di massa nello stato di Al-Jazirah come via di fuga dalla violenza sessuale perpetrata dalle RSF.

Sono scelte che nessuna famiglia dovrebbe mai dover fare. Sono donne che hanno preferito la morte al terrore della violenza ripetuta, donne che non vedevano alcuna via d’uscita se non quella definitiva. Migliaia di altre donne sono state uccise , mentre lo stupro e altre forme di violenza di genere rimangono una caratteristica distintiva di questa guerra.

Nel gennaio 2024, il Panel di Esperti dell’ONU sul Sudan ha documentato violenze sessuali diffuse e in escalation nel Darfur, inclusi rapimenti, stupri e sfruttamento sessuale di donne e ragazze. Io autori? Membri delle RSF e delle milizie alleate in tutte le aree sotto il loro controllo, con particolare accanimento contro le donne dell’etnia Masalit.

La violenza sessuale non è un effetto collaterale della guerra, ha sottolineato Ahmadi. È una strategia. È un’arma. È genocidio.

Abu Dhabi arma il genocidio: il ruolo degli Emirati Arabi

Mentre il mondo discute di sanzioni e di aiuti umanitari, Ahmadi ha indicato il vero finanziatore della macchina della morte: gli Emirati Arabi Uniti . In un’accusa diretta e senza filtri, l’attivista ha denunciato che Abu Dhabi sta sostenendo le RSF, fornendo loro armi, fondi e protezione diplomatica.

I fratelli Dagalo—Mohammad Hamdan (“Hemedti”), Abdul Rahim e Al Gony—che guidano le RSF e che discendono dai Janjaweed, i responsabili delle stragi in Darfur venticinque anni fa, vivono oggi negli Emirati, da cui coordinano traffici di armi e fondi, violando apertamente le sanzioni internazionali . Alcuni leader delle RSF viaggiano liberamente in Europa e negli Stati Uniti con passaporti falsi forniti da Abu Dhabi.

” Gli Emirati si presentano come moderati filo-occidentali, ma sono un regime autoritario che sostiene genocidi: quello in Sudan come quello a Gaza “, ha dichiarato Ahmadi in un’intervista che rappresenta una delle più esplicite accuse jammai rivolte a un governo del Golfo da parte di un’attivista per i diritti umani.

Ahmadi ha rimarcato un dato cruciale: senza la diffusione di armi, i livelli di violenza sessuale attualmente osservati in Sudan non si sarebbero mai verificati . Le parti in conflitto ei loro sponsor esterni continuano a violare l’embargo sulle armi del Consiglio di Sicurezza sul Darfur con totale impunità.

Le richieste urgenti al Consiglio di Sicurezza

Ahmadi non si è limitata a denunciare. Ha anche fornito un piano d’azione concreta, rivolgendosi direttamente al Consiglio di Sicurezza dell’ONU con una serie di raccomandazioni specifiche.

Primo: cessate il fuoco immediato e incondizionato. Tutte le parti devono fermare gli attacchi contro civili e infrastrutture civili, e consentire un accesso umanitario pieno, rapido, sicuro e senza ostacoli, in conformità con il diritto internazionale umanitario.

Secondo: fine della violenza sessuale. Tutte le parti devono cessare immediatamente gli atti di violenza sessuale e di genere, ei perpetratori devono essere ritenuti responsabili.

Terzo: una nuova presenza ONU sul campo, ben equipaggiata e molto più forte, capace di garantire la protezione dei civili e le operazioni umanitarie in tutto il Sudan, nonché di documentare le violazioni del diritto internazionale.

Quarto: un embargo sulle armi esteso a tutto il Sudan ea tutte le parti in conflitto, non solo al Darfur, e con meccanismi reali di controllo e di sanzione per chi lo viola.

Quinto: garantire la partecipazione piena, equa, sicura e significativa delle donne sudanesi in tutti gli sforzi di de-escalation, costruzione della pace, assistenza umanitaria, giustizia e responsabilità, nonché in tutti i processi politici riguardanti il ​​futuro del Sudan.

Sesto: rendere la violazione dei diritti delle donne e tutte le forme di violenza sessuale e di genere criteri espliciti per l’imposizione di sanzioni internazionali.

Il fallimento morale della comunità internazionale

Ma Ahmadi sa bene che queste richieste rischiano di cadere nel vuoto. Nel suo discorso del novembre 2024, ha rivolto un’accusa senza precedenti alla comunità internazionale: “Vi sto parlando con angoscia e urgenza” .

Ha sottolineato come entrambe le parti in guerra sembrano convinte di poter prevalere sul campo di battaglia, grazie al considerevole sostegno esterno, anche un flusso costante di armi nel paese . E mentre le armi fluiscono, il Consiglio di Sicurezza rimane paralizzato. Perché? Perché i veti delle grandi potenze, gli interessi geopolitici, il cinismo della realpolitik sono più forti della morale.

Ahmadi ha accusato gli Stati Uniti e l’Europa di ipocrisia: “Pur avendo riconosciuto che in Sudan è in corso un genocidio, non fanno nulla per far rispettare le sanzioni. È un fallimento morale e politico” . Ha rilevato come chi arma i genocidi contribuisce a creare le stesse crisi migratorie che poi vuole respingere .

E il Darfur? Venti anni dopo gli orrori del 2003-2009, non esiste più alcuna missione ONU nel paese, nessun nuovo individuo è stato inserito nel regime di sanzioni e l’embargo sulle armi è sia limitato che violato con impunità . “In questo contesto attuale, vediamo poca solidarietà con il popolo del Sudan”, ha concluso amaramente.

Una voce nata dal dolore: la storia di Niemat Ahmadi

Niemat Ahmadi non è una voce astratta. È la voce di chi ha vissuto l’inferno. Ha fondato il Darfur Women Action Group nel 2009 per dare potere alle sopravvissute, sia in Sudan che nella diaspora, e per prevenire future atrocità. Quando la guerra civile è scoppiata in Sudan nel 2023, ha reindirizzato il suo verso lavoro la documentazione dell’estesa e continua violenza sessuale, con la speranza di ottenere giustizia per le vittime.

Come sopravvissuta al genocidio del Darfur, sa cosa significa perdere tutto. Sa cosa significa guardarsi intorno e vedere il mondo voltarsi dall’altra parte. Per questo grida più forte. Per questo non smettiamo di raccontare.

Nelle sue dichiarazioni, Ahmadi ha sempre sottolineato la resilienza delle donne sudanesi , affermando che “le loro storie di sofferenze indicibili sono superate solo dai racconti del loro coraggio e della loro determinazione” . Ha ricordato che le donne rappresentano almeno il 50% della popolazione, del talento e delle risorse umane di qualsiasi nazione —ancora di più durante i periodi di guerra quando le risorse sono scarse e il coraggio è tutto ciò che rimane.

L’appello finale: un grido al mondo

Ahmadi non conclude i suoi interventi con rassegnazione. Concludo con una richiesta diretta ai cittadini del mondo: “Pretendete dai vostri governi che fermino le vendite di armi ai regimi che commettono genocidi” .

Ribadisce che la responsabilità ricade sui governi occidentali che continuano a vendere armi ai regimi del Golfo, che chiudono gli occhi davanti alle loro violazioni, che riconoscono il genocidio ma non agiscono. È un appello morale che va oltre la diplomazia, oltre la politica estera tradizionale. È un appello alla coscienza.

Il Sudan continua a bruciare. Le donne sudanesi continuano a morire, a soffrire, a cercare scappatoie dalla violenza anche nella morte. E Niemat Ahmadi continua a gridare, sperando che qualcuno, da qualche parte nel mondo, abbia il coraggio di ascoltare.