Dalla maxi-inchiesta sul colosso energetico Energoatom alle riforme anticorruzione in tempo di guerra. Nuove delicate sfide per Zelensky e la sua amministrazione.
Due guerre, una sola sopravvivenza
Nel 2025 l’Ucraina combatte su due fronti: non più soltanto quello visibile bellico, contro l’invasione russa, ma deve affrontare anche quello invisibile, ma ugualmente preoccupante, contro la corruzione. Il primo si misura in chilometri di trincee, il secondo in fiducia, trasparenza e giustizia. Entrambi determinano il futuro europeo del Paese e lo scandalo interno ai vertici alimenta anche malcontenti tra gli attori internazionali.
Secondo Bruxelles, la lotta alla corruzione è una delle condizioni essenziali per l’avvio dei negoziati d’adesione, per Washington, invece, rappresenta la garanzia che gli aiuti miliardari non si disperdono in un sistema ancora fragile. Negli ultimi mesi il governo di Volodymyr Zelensky ha cercato di dimostrare risultati tangibili tra cui arresti eccellenti ma anche riforme legislative e la pubblicazione online dei dati sugli appalti pubblici per renderli il più trasparente possibile. Ma un nuovo scandalo, esploso proprio nelle ultime ore, ha riportato il tema della corruzione al centro del dibattito globale.
Il caso Energoatom: la scintilla da 100 milioni di dollari
La compagnia nucleare statale Energoatom, orgoglio tecnologico ucraino e pilastro dell’autonomia energetica nazionale, è finita al centro di un’inchiesta senza precedenti. Secondo il National Anti-Corruption Bureau of Ukraine (NABU) e la Specialized Anti-Corruption Prosecutor’s Office (SAPO), un gruppo di dirigenti e funzionari avrebbe organizzato uno schema di tangenti per circa 100 milioni di dollari, basato sull’obbligo imposto ai fornitori di versare tra il 10 e il 15% del valore dei contratti a intermediari legati al Ministero dell’Energia.
Il 10 novembre 2025, Reuters ha rivelato che l’operazione ha portato a cinque arresti ea 70 perquisizioni in tutto il Paese. Soltanto il giorno successivo, 11 novembre, sono state formalizzate accuse contro sette persone, fra cui un ex consigliere ministeriale e due ex dirigenti di E.
Il 12 novembre 2025, il governo di Kiev ha sospeso Herman Galushchenko, ministro dell’Energia, “fino alla completa verifica dei fatti”. Un colpo per Kiev e per Zelenskyj che dovrà contenere e soprattutto spiegare alla comunità internazionale la delicata situazione. Fonti di AP News descrivono l’operazione come “una delle più vaste dai tempi del Maidan”: secondo gli inquirenti, parte dei fondi illeciti sarebbe stata canalizzata verso reti clientelari rimaste attive anche durante la guerra. Il NABU ha affermato che «nessuna carica è al di sopra della legge».
Tuttavia l’opposizione accusa il governo di “tolleranza selettiva”, sostenendo che alcuni nomi vicini al potere non siano stati toccati. Per gli osservatori indipendenti di ZMINA e Transparency International Ukraine, la vera sfida è garantire che l’indagine arrivi a processo e non si fermi alla fase mediatica.
Riforme e istituzioni: un’architettura ancora fragile
Dal 2014 l’Ucraina ha creato un sistema anticorruzione moderno: NABU, organo investigativo autonomo con poteri simili all’FBI; SAPO, procura specializzata indipendente; e infine il NAZK, agenzia per la prevenzione dei conflitti d’interesse e la trasparenza patrimoniale.
La Strategia nazionale anticorruzione 2023-2025 promossa da Zelensky prevede l’introduzione di audit digitali, appalti online e una banca dati pubblica dei redditi dei funzionari. Nel 2025 l’OCSE ha assegnato a Kiev un punteggio di 91,1 su 100 per l’attuazione delle politiche preventive anticorruzione, un notevole aumento rispetto ai 53 punti del 2023.
Ma nonostante gli sforzi per mostrare trasparenza, la stessa rimane comunque vulnerabile nei settori più sensibili – energia e difesa – dove l’urgenza bellica permette deroghe alle gare pubbliche. Nel luglio 2025 il Parlamento aveva persino approvato una legge che riduceva drasticamente i poteri di NABU e SAPO, poi ritirata dopo proteste di piazza a Kiev, Lviv, Odesa e Dnipro – le prime manifestazioni pubbliche dall’inizio dell’invasione russa su vasta scala. Dopo l’intervento diretto della presidente della Commissione europea Ursula von der Leyen, Zelenskyj ha dovuto fare marcia indietro, promettendo una nuova legge che ripristinasse l’indipendenza delle agenzie.
Anche se affrontato da ostacoli importanti, il sistema giudiziario ucraino mostra segnali di maturazione. Per Transparency International la vera vittoria non sarà l’arresto di singoli dirigenti, ma la trasformazione della cultura politica.
Corruzione e guerra: quando la trasparenza diventa sicurezza
La guerra ha trasformato la corruzione in una questione di sicurezza nazionale che attira l’attenzione globale. Ogni dollaro sottratto al bilancio statale indebolisce la capacità di difesa e va ad inoltre alimentare la propaganda russa, che descrive Kiev come “incapace di gestire la democrazia occidentale”. Secondo il Washington Post, il Ministero della Difesa ucraino ha avviato controlli interni su contratti di droni e uniformi dopo accuse di sovrapprezzo emerse già nel 2023.
Il presidente Zelenskyj ha commentato: “Chi ruba allo Stato ruba alla sua sopravvivenza. La corruzione non è solo un crimine morale, è un’arma del nemico”. Questo nuovo approccio – la corruzione come minaccia ibrida – è condiviso anche dalla NATO, che nel Summit di Vilnius del 2023 ha riconosciuto la trasparenza come elemento cruciale per la sicurezza collettiva.
Le reazioni internazionali: Bruxelles, Washington e il G7
La rivelazione dello scandalo Energoatom ha scatenato reazioni in serie tra i partner dell’Ucraina. La Commissione Europea, nel proprio Rapporto sull’Allargamento 2025, ha definito “coraggiosa e necessaria” l’azione del NABU, ma ha avvertito che «le riforme giudiziarie e anticorruzione restano incompiute».
Alcuni Stati membri come Germania e Paesi Bassi chiedono meccanismi di controllo vincolanti prima di sbloccare il pacchetto pluriennale di assistenza della Ucraina Facility da 50 miliardi di euro (circa 33 miliardi in prestiti e 17 miliardi in sovvenzioni). Secondo EU Observer, Bruxelles vuole evitare che la ricostruzione “ripeta gli errori dei Balcani, dove i fondi post-bellici alimentano nuovi centri di potere locale”.
Negli Stati Uniti, il portavoce del Dipartimento di Stato ha ribadito che «la lotta alla corruzione è parte integrante della sicurezza ucraina». Il Congresso ha fornito finanziamenti per potenziare gli Ispettori Generali che monitorano l’uso degli aiuti americani, con audit trimestrali pubblici. Il messaggio congiunto è chiaro: la fiducia internazionale si guadagna con la trasparenza. La reputazione è ormai una valuta geopolitica e per Kiev vale più di qualunque moneta.
Oligarchi e potere economico: le radici profonde
La corruzione dell’Ucraina non nasce con la guerra ma affonda le sue radici nel sistema oligarchico consolidato negli anni ’90. Famiglie industriali e conglomerati mediatici hanno costruito un potere economico parallelo allo Stato, capace di compromettere nomine, partiti e contratti pubblici.
La Legge 2021 sugli Oligarchi, che impone limiti alle concentrazioni mediatiche e alla finanziarizzazione della politica, ha avuto effetti solo parziali. Secondo esperti del settore, «l’oligarchia ucraina è mutata, non scomparsa: la guerra ha creato nuovi monopoli, più silenziosi ma ugualmente influenti».
Per contrastarla, Zelenskyj ha emanato nel 2025 un decreto che vieta la partecipazione a gare pubbliche di aziende collegate a persone inserite nel Register of Oligarchs o sotto sanzioni internazionali. Gli osservatori di Transparency International Ukraine sottolineano che nonostante tutto «la trasparenza senza l’applicazione è solo una vetrina».
La ricostruzione come banco di prova
Con un danno economico stimato dalla Banca Mondiale in 524 miliardi di dollari (circa 506 miliardi di euro ) al dicembre 2024, la ricostruzione dell’Ucraina è il più grande progetto economico dell’Europa moderna. Questo rappresenta circa 2,8 volte il PIL nominale dell’Ucraina per il 2024.
La Banca Mondiale e l’OCSE chiedono che ogni fondo passi per un portale unificato con tracciabilità e accesso pubblico ai bilanci. Il governo di Kiev ha promesso che i primi 200 progetti finanziati dall’UE saranno monitorati con l’assistenza del NABU e di osservatori internazionali. L’obiettivo è evitare che la “rinascita” diventi un nuovo ciclo di malaffare.
Ma la sfida è anche tecnica: ricostruire impianti energetici, reti logistiche e abitazioni richiede appalti rapidi e controlli efficaci. Yuliya Sviridenko, nominata Primo Ministro nel luglio 2025, ha sottolineato che «la ricostruzione sarà la nuova prova di maturità istituzionale del Paese: se falliamo qui, perderemo una generazione di fiducia».
Gli investitori privati internazionali seguono con attenzione. Società tedesche e canadesi hanno già condizionato la partecipazione ai progetti di ricostruzione alla presenza di meccanismi anticorruzione certificati dall’UE. È una garanzia reciproca richiesta ed essenziale: la trasparenza come collaterale politico.
La dimensione geopolitica della corruzione
Sul piano geopolitico, la corruzione è diventata una variabile strategica nella guerra ibrida. Mosca usa ogni scandalo per mostrare Kiev come “marionetta dell’Occidente corrotto”, ma la risposta di Kiev – inchieste pubbliche, sospensioni, trasparenza degli atti – ribalta la narrazione. Come ha spiegato l’analista e giornalista Natalia Gumenyuk, «in Russia la corruzione è segreto di Stato; in Ucraina, è notizia di apertura – ed è questa la differenza tra autocrazia e democrazia imperfetta».
Per l’UE e la NATO, ogni procedimento portato al termine è una dimostrazione di resilienza istituzionale e di impegno nel contrastare tali fenomeni concretamente. La corruzione, in questa chiave, diventa una battaglia politica e valoriale che ridefinisce la geografia morale del continente.
Prospettive 2026: le condizioni per l’adesione UE
Secondo l’ultima relazione di Transparency International pubblicata a gennaio 2024, l’Ucraina è salita al 104º posto su 180 Paesi nel Corruption Perceptions Index, guadagnando sei posizioni in un anno grazie alle riforme sul whistleblowing e alla digitalizzazione degli appalti. L’Ucraina ha ottenuto 35 punti su 100.
Ma Bruxelles avverte che servono progressi su tre assi fondamentali:
Indipendenza giudiziaria totale del NABU e della SAPO
Supervisione internazionale sui fondi di ricostruzione
Riduzione strutturale del potere oligarchico
Il governo Zelenskyj ha promesso una piattaforma di integrità digitale che consente di tracciare ogni appalto pubblico sopra i 50.000 euro. Parallelamente, ONG come ZMINA e AutoMaidan continuano a verificare in tempo reale le decisioni governative, inserendo i dati nei portali pubblici.
Un sondaggio del Kyiv International Institute of Sociology di ottobre 2025 mostra che il 56% degli ucraini ritiene che ci siano reali tentativi di combattere la corruzione, mentre il 40% considera l’Ucraina “irrimediabilmente corrotta”. È la prova che la società civile ha superato il cinismo post-sovietico e chiede ora accountability vera.
L’Europa come bussola etica
Il caso Energoatom non è solo uno scandalo giudiziario, ma un punto di svolta identificativo. In passato, episodi simili sarebbero stati insabbiati; oggi portano a sospensioni ministeriali e inchieste pubbliche. È il segno di una democrazia che, pur imperfetta, sta imparando a correggersi.
Per l’Unione Europea, la contro la corruzione non è più una battaglia un tema burocratico, ma una questione strategica: un Paese trasparente ai suoi confini orientali è una barriera contro l’autoritarismo. La lotta alla corruzione è la vera frontiera europea dell’Ucraina: non si combatte contro Mosca, ma contro il passato.
Tra le macerie di Mariupol e le aule del NABU, si decide oggi non solo il destino dell’Ucraina, ma il significato stesso dell’Europa.
Un accordo che non è solo commerciale ma simboleggia molto di più. La vittoria industriale di una startup israeliana traccia nuove linee nel modo di combattere e nelle alleanze transatlantiche.
Un contratto che cambia la guerra: gli Stati Uniti scelgono i droni israeliani di XTEND
Nel novembre 2025 la startup israeliana XTEND ha annunciato di aver firmato un contratto con il Dipartimento della Guerra statunitense, identificato nelle note ufficiali come Department of War / Office of the Assistant Secretary of War. L’accordo prevede lo sviluppo e la consegna di kit modulari di droni d’attacco “one-way”, vere e proprie munizioni vaganti con capacità di intelligenza artificiale integrata.
Il valore dell’intesa non è stato reso noto, ma le ricostruzioni giornalistiche parlano di un impegno multimilionario. L’obiettivo è chiaro: produrre sistemi autonomi, economici e adatti a operazioni ravvicinate, in particolare negli scenari urbani. Un passaggio cruciale sia sul piano tecnologico, sia su quello geopolitico.
Tecnologia e geopolitica: cosa cambia davvero
Dal punto di vista tecnologico, il contratto conferma una tendenza ormai consolidata nelle forze armate moderne: la priorità non è più il singolo mezzo sofisticato, ma la massa di sistemi autonomi a basso costo. Droni in grado di colpire in modo indipendente, riducendo i rischi per gli operatori umani e i costi per “kill”.
Sul piano geopolitico, invece, l’accordo rappresenta un salto di qualità nella cooperazione USA–Israele. Non si tratta più soltanto di forniture di componenti o scambi di know-how: Israele diventa un fornitore operativo diretto della dottrina tattica americana, e lo fa nel settore più sensibile — quello delle piattaforme autonome.
Cosa sono i droni “one-way”
I droni “one-way attack” sono sistemi concepiti per colpire un bersaglio e distruggersi nell’impatto. In pratica, munizioni intelligenti capaci di volare autonomamente, individuare l’obiettivo e ingaggiarlo senza ritorno.
Le versioni sviluppate da XTEND integrano moduli IA avanzati, comunicazioni a doppio canale (fibra ottica e radiofrequenza) per ridurre la latenza, e una struttura modulare e a basso costo che consente la produzione in grandi quantità.
La combinazione di autonomia, prezzo contenuto e semplicità d’uso apre scenari inediti. Decine o centinaia di droni “usa e getta” possono saturare le difese avversarie, mettendo in crisi la logica dei sistemi d’arma tradizionali basati su pochi asset di alto valore come carri armati o radar. Ma proprio questa accessibilità alimenta i timori di proliferazione incontrollata: armi economiche e facilmente riproducibili potrebbero finire in mani sbagliate, destabilizzando intere regioni.
XTEND: da startup a player globale
Nata come piccola startup, XTEND è oggi una delle aziende israeliane più dinamiche nel settore della difesa. Ha raccolto finanziamenti di Serie B, stipulato contratti con l’esercito israeliano (IDF) e con il Dipartimento della Difesa statunitense, e ampliato le proprie strutture produttive anche negli Stati Uniti.
Questa scelta risponde ai vincoli del Buy American Act e alle esigenze logistiche del Pentagono, che preferisce acquistare da fornitori con presenza produttiva interna. Per Israele, tuttavia, rappresenta anche una strategia industriale: consolidare posti di lavoro, know-how tecnologico e influenza nel mercato globale dei droni armati.
Gli Stati Uniti e la nuova dottrina dei “milioni di droni”
Secondo alcune stime riportate da Reuters, Washington punta a raggiungere una massa critica di un milione di droni. È una vera rivoluzione logistica: sistemi piccoli e numerosi, interconnessi tra loro, in grado di compensare la perdita di singoli asset costosi.
Il contratto con XTEND si inserisce perfettamente in questo disegno. Ma solleva interrogativi inevitabili: chi sarà responsabile se un algoritmo commette un errore? Come garantire che le decisioni di attacco restino sotto controllo umano? E soprattutto, chi controllerà chi controlla la macchina?
L’Europa tra opportunità e inquietudini
Anche l’Europa osserva con attenzione — e con preoccupazione. La crescita di aziende israeliane nel settore dronico spinge i Paesi europei a riflettere su autonomia strategica e politiche di Buy European, ma solleva anche dubbi etici e diplomatici.
Negli ultimi anni, Bruxelles ha finanziato diversi progetti di ricerca con partner israeliani, spesso criticati per i potenziali usi militari delle tecnologie sviluppate. Ora, con l’esplosione del mercato dei droni a basso costo, l’Unione Europea dovrà rivedere le proprie regole di export control e definire linee guida etiche comuni sull’uso di armi autonome.
Il vuoto normativo internazionale
Nonostante le richieste di ONG, ricercatori e conferenze internazionali, il mondo non dispone ancora di un quadro normativo chiaro sui sistemi d’arma letali autonomi (LAWS). Manca una definizione tecnica condivisa, mancano limiti all’autonomia decisionale e strumenti di tracciabilità.
Senza regole, il rischio è che contratti come quello tra XTEND e gli USA contribuiscano a una “democratizzazione” delle munizioni intelligenti, rendendo sempre più facile l’accesso a tecnologie di distruzione autonoma.
Dove li vedremo in azione
I droni “one-way” saranno probabilmente impiegati in ambienti urbani complessi o in scenari di guerra ibrida, dove contano velocità, precisione e basso costo. Potrebbero trovare spazio anche in operazioni marittime o antiterrorismo, dove la perdita di un singolo drone è accettabile se inserita in una strategia di saturazione.
La logica cambia: non conta più l’efficacia del singolo mezzo, ma l’effetto collettivo dello sciame.
L’etica dell’autonomia
Il contratto tra XTEND e il Dipartimento della Guerra americano non è solo un affare industriale. È il simbolo di una trasformazione epocale: armi sempre più autonome, economiche e pervasive.
Dietro la promessa dell’efficienza si nasconde una domanda cruciale: quanto controllo siamo disposti a cedere alle macchine? La risposta determinerà non solo il futuro della guerra, ma anche quello della responsabilità umana nella tecnologia.
Il 26 ottobre, le Forze di Supporto Rapido sudanesi (RSF) hanno conquistato El Fasher, la capitale del Darfur Settentrionale, segnando il crollo dell’ultimo importante baluardo dell’esercito nazionale nella regione e l’inizio di una crisi umanitaria senza precedenti. Ciò che è seguito è una sequenza di atrocità documentate dalle Nazioni Unite e dai principali organismi internazionali per i diritti umani: massacri, violenze sessuali sistematiche, fosse comuni e l’uso deliberato della fama come arma di guerra.
La conquista: quando l’assedio diventa massacro
Per 18 mesi, da maggio 2024, le RSF hanno assediato El Fasher, costruendo un muro di sabbia di 55 chilometri attorno alla città per intrappolarne i civili e le forze governative. Quando le barricate sono crollate il 26 ottobre, l’orrore è iniziato immediatamente.
“Le RSF hanno condotto operazioni casa per casa, eseguendo centinaia di civili a sangue freddo”, diffuso le fonti sudanesi. Il bilancio iniziale ufficiale della capitale sudanese: oltre 2.000 morti civili nei soli primi tre giorni. La rete dei medici sudanesi ha confermato quasi 1.500 morti civili, portando il totale dall’inizio dell’assedio a oltre 14.000 persone.
Ma i numeri non catturano l’interezza dell’orrore.
Il massacro dell’Ospedale: 460 persone uccise in una notte
Il 28 ottobre, due giorni dopo la caduta della città, le RSF hanno circondato l’ospedale maternità saudita di El Fasher. Quello che è accaduto in quelle ore è stato definito dall’Organizzazione Mondiale della Sanità come il singolo attacco più mortale contro strutture sanitarie nell’intero conflitto sudanese.
Almeno 460 pazienti ei loro accompagnatori — donne gravide, bambini neonati, malati cronici — sono stati uccisi. Medici e infermieri sono rimasti intrappolati insieme ai pazienti, testimoni impotenti di un massacro che ha trasformato un luogo di cura in una tomba collettiva.
“Abbiamo trovato corpi ammucchiati nei corridoi”, ha riferito un testimone. Secondo i resoconti locali, molte donne erano state stuprate prima di essere uccise.
La pulizia etnica documentata
Il Laboratorio di Ricerca Umanitaria dell’Università di Yale ha condotto un’analisi dettagliata utilizzando immagini satellitari e testimonianze. Le loro conclusioni sono inequivocabili: “El Fasher sembra essere sottoposta a un processo sistematico e deliberato di pulizia etnica rivolto alle popolazioni Fur, Zaghawa, Berti e non arabe attraverso spostamenti forzati ed esecuzioni sommarie”.
Le azioni documentate “potrebbero essere coerenti con crimini di guerra e crimini contro l’umanità e potrebbero raggiungere la soglia del genocidio”, secondo l’analisi di Yale.
Gli esperti hanno identificato almeno due fosse comuni attraverso analisi satellitari: una vicino all’ospedale saudita e un’altra presso l’ex ospedale pediatrico. Le immagini mostrano anche operazioni di smaltimento sistematico dei corpi, con prove che le RSF stanno bruciando le fosse comuni per nascondere le prove.
La violenza sessuale sistemica
Almeno 25 donne sono state stuprate collettivamente quando le RSF hanno fatto irruzione in un rifugio per sfollati presso l’Università di El Fasher. Medici di Medici Senza Frontiere ha pubblicato che la violenza sessuale è diventata uno strumento deliberato di terrore.
L’Alto Commissario ONU per i diritti umani, Volker Türk, ha avvertito il 6 novembre: “Il rischio di ulteriori violazioni su larga scala di natura etnica a El Fasher sta crescendo giorno dopo giorno”, con particolare preoccupazione per la violenza sessuale contro donne e ragazze.
Gli stupri non sono atti sporadici di guerra, ma parte di una strategia coordinata di terrore e controllo territoriale.
La fame come arma
L’assedio ha trasformato El Fasher in una prigione a cielo aperto. Per oltre 500 giorni, le RSF hanno impedito completamente l’accesso umanitario. Nessun cibo, nessun medicinale, nessuna acqua potabile.
“Non è entrato cibo, né forniture mediche, né acqua potabile pulita — praticamente nessun supporto”, ha testimoniato Denise Brown, coordinatrice ONU per gli affari umanitari in Sudan. “Tenere i civili rinchiusi in un luogo dove non possono accedere al cibo equivalente all’uso della fame come arma di guerra”.
Il 3 novembre 2025, l’Integrated Food Security Phase Classification (IPC) — l’ente internazionale ufficiale per l’analisi della sicurezza alimentare — ha confermato che condizioni di carestia (Fase 5 IPC) persistono a El Fasher . È la seconda volta in meno di un anno che viene confermata carestia nel Sudan.
I numeri sono devastanti:
375.000 persone affrontano fame estrema, malnutrizione acuta e morte imminente
Il 96% dei residenti va a dormire affamato ogni notte
I tassi di malnutrizione acuta raggiungono il 75% tra la popolazione
Le famiglie sopravvivono mangiando foglie bollite, gusci di arachidi e mangimi per animali
L’80% delle strutture sanitarie sono danneggiate o fuori servizio
Nel Grande Darfur, 21,2 milioni di persone — il 45% della popolazione — versano in condizioni di grave insicurezza alimentare. Altre 20 aree sono un rischio immediato di carestia fino a gennaio 2026.
Secondo l’Organizzazione Internazionale per le Migrazioni, almeno 82.000 persone sono fuggite da El Fasher tra il 26 ottobre e il 4 novembre. La maggior parte ha camminato per 3-4 giorni.
Ma nessuno è veramente scappato, perché le RSF hanno trasformato anche la fuga in un atto di violenza. Oltre 30.000 persone sono arrivate a Tawila, una piccola città già colma di profughi. Almeno 1.300 persone arrivate a Tawila portavano ferite da arma da fuoco — uccisero dalle RSF durante il tentativo di lasciare la città.
“Non esistono percorsi sicuri per lasciare El Fasher”, ha confermato l’ONU.
Coloro che sono riusciti a superare i checkpoint delle RSF hanno pubblicato esecuzioni di massa, torture, percosse e violenze sessuali. Molti sono stati rapiti da uomini armati e costretti a pagare riscatti sotto minaccia di morte.
A Tawila, gli sfollati vivono in condizioni “estremamente dure” — senza cibo sufficiente, acqua pulita, riparo o cure mediche. Molte famiglie sopravvivono con un solo pasto al giorno.
Il coinvolgimento internazionale: armi da Paesi lontani
Dietro le linee di battaglia, attori internazionali stanno alimentando il conflitto.
Gli Emirati Arabi Uniti sono il principale sostenitore esterno delle RSF. Nonostante le smentite, gli esperti ONU hanno definito “credibili” le prove che gli EAU forniscono armi alle milizie. Il Dipartimento del Tesoro americano ha sanzionato sei aziende con sede a Dubai accusate di fornire armi e tecnologia di sicurezza alle RSF. Le armi vengono fornite attraverso Ciad, Libia, Sud Sudan e Repubblica Centrafricana. I motivi sono chiari: controllo delle risorse naturali sudanesi (oro, agricoltura) e impedisce una transizione democratica contraria agli interessi regionali degli EAU.
L’Egitto sostiene apertamente l’esercito sudanese, vedendo nel controllo militare dell’alleato meridionale una garanzia dei propri interessi strategici sul Nilo e le rotte marittime del Mar Rosso.
La Russia ha fornito armi attraverso il gruppo Wagner, mantenendo basi nel Sudan e cercando di controllare accessi strategici al Mar Rosso. Nel novembre 2024, ha posto il veto a una risoluzione dell’ONU volta a garantire l’accesso umanitario.
La Turchia fornisce droni e armi alle SAF. L’Iran invia forniture militari. Mercenari colombiani sono stati segnalati combattere a fianco delle RSF dopo essere stati reclutati da aziende emiratine.
Mentre i civili muoiono di fama e violenza, le grandi potenze continuano a versare armi nel Sudan come se fosse un vuoto da riempire.
La Croce Rossa cerca di raggiungere i feriti. Le agenzie umanitarie forniscono aiuti ai margini di quella che è diventata una catastrofe controllata.
Il Programma Alimentare Mondiale raggiunge oltre 4 milioni di persone al mese con assistenza alimentare un numero incredibilmente piccolo rispetto ai bisogni. L’UNICEF sostiene strutture sanitarie e cliniche mobili. Il Comitato Internazionale della Croce Rossa fornisce forniture mediche.
Ma tutto è minuscolo rispetto alla scala del disastro. Il 28% del piano di risposta umanitaria del Sudan per il 2025 è finanziato. Le rotte di rifornimento sono tagliate. L’accesso umanitario rimane bloccato dalle RSF.
Tom Fletcher, responsabile dei soccorsi di emergenza dell’ONU, ha testimoniato al Consiglio di Sicurezza: “Donne e ragazze vengono stuprate, persone mutilate e uccise con totale impunità. Non possiamo sentire le urla, ma mentre siamo seduti qui oggi l’orrore continua”.
Il Fantasma di una Tregua
Il 7 novembre 2025, le RSF hanno annunciato di accettare una proposta di tregua umanitaria presentata dal “Quad”, Stati Uniti, Arabia Saudita, Egitto ed Emirati Arabi Uniti. La proposta prevede una pausa di tre mesi, seguita da una cessate il fuoco e una transizione di nove mesi verso un governo civile.
Ma il governo sudanese non ha risposto. Nathaniel Raymond del Laboratorio di Ricerca Umanitaria di Yale ha osservato uno schema inquietante: “Ogni volta che le RSF hanno detto di essere pronte a firmare una tregua, hanno commesso un massacro: usa i negoziati internazionali per coprire le atrocità che commette”.
La tregua potrebbe non essere altro che un’altra opportunità per le RSF di consolidare il controllo e occultare le prove dei crimini.
La divisione di fatto
Con la caduta di El Fasher, le RSF controlleranno tutte e cinque le capitali statali del vasto Darfur occidentale, creando effettivamente una divisione de facto del Sudan. Mentre le Forze Armate Sudanesi mantengono il controllo dell’est e di Khartoum, le RSF ora dominano l’ovest.
A luglio, le RSF hanno annunciato un governo di coalizione parallelo con competenza nazionale teorica. Alcuni osservatori temono che questo sia un preludio alla dichiarazione di uno stato indipendente.
L’attenzione strategica si sta ora spostando verso il Kordofan, dove la città di El-Obeid rappresenta il prossimo obiettivo cruciale per le RSF. Se cadesse, le milizie controllerebbero un rottame di rifornimento critico che collega il Darfur a Khartoum.
Cosa Viene Dopo?
L’Alto Commissario ONU per i diritti umani ha dichiarato: “Temo che le abominevoli atrocities — esecuzioni sommarie, stupri e violenza motivata etnicamente — continuino all’interno di El Fasher”.
I criminalisti internazionali e le organizzazioni per i diritti umani chiedono indagini immediate e responsabilità. Esperti ONU affermano che “la responsabilità è l’unico modo per prevenire la ripetizione di queste atrocità”.
Chiedo anche il fermo blocco del flusso di armi verso il Sudan. Chiedo corridoi sicuri per i civili. Chiedono cibo, acqua e medicina per i sopravvissuti. Chiedono cessa il fuoco immediato.
Quello che probabilmente riceveranno è il silenzio — interrotto solo da nuovi titoli di giornali quando la prossima città cadrà, quando la prossima carestia sarà confermata, quando il prossimo massacro farà notizia per alcuni giorni prima di scomparire dai notiziari internazionali.
El Fasher non è una storia isolata. È il capitolo più recente di una guerra dimenticata dal mondo, in una regione dove la morte è diventata banale e l’indifferenza internazionale quasi complice.
Ma per i civili di El Fasher — coloro che ancora respirano, coloro che cercano di sopravvivere alla fama e alla paura — questa non è storia. È il presente. È la loro vita, ogni giorno, ogni ora.
A Genova prende ufficialmente il via una delle trasformazioni urbane più imponenti degli ultimi decenni: i lavori per lo sbocco di levante del tunnel subportuale in corso Aurelio Saffi entrano nella loro fase preliminare, con profonde ripercussioni non solo sulla viabilità cittadina, ma anche sull’assetto urbanistico di un quartiere nevralgico come la Foce.
La posta in gioco va ben oltre la semplice realizzazione di un’infrastruttura: ciò che si sta costruendo è una nuova visione per la connessione tra il ponente e il levante della città, destinata a modificare abitudini, paesaggio e percezione dello spazio urbano.
Cantieri e rigenerazione: la nuova identità della Foce
Le prime attività di cantiere coinvolgono direttamente i giardini Francesco Coco, luogo simbolico che sarà soggetto a un completo ridisegno. Il progetto, frutto del lavoro dello Studio Piano, mira non solo a integrare lo sbocco del tunnel subportuale, ma anche ad avviare un’operazione di rigenerazione urbana di grande impatto.
Verrà realizzato un nuovo bastione-terrazza e una scala per collegare lo spazio verde al corso Aurelio Saffi, mentre l’impianto stesso dei giardini sarà profondamente rivisitato per renderli più aperti, accessibili e coerenti con il contesto storico delle mura cittadine. La rigenerazione non si limita all’estetica: il taglio di 67 alberi (48 dei quali abbattuti nella prima fase) sarà compensato dalla messa a dimora di circa 80 nuove piante, un’operazione che mira a riequilibrare il patrimonio arboreo messo in discussione dai lavori previsti.
Proprio gli alberi sono al centro delle preoccupazioni di diversi consiglieri municipali: la perdita del filare storico e la prospettiva che le nuove alberature impiegheranno anni per ricrescere accendono il dibattito tra residenti e amministrazione comunale.
Il progetto, destinato a protrarsi per circa 80 mesi, ovvero poco meno di sette anni, rappresenta una delle più grandi e complesse opere di engineering urbano mai realizzate a Genova. Nella prima fase, concentrata tra la fine del 2025 e il 2027, verranno effettuate bonifiche belliche, verifiche archeologiche e opere di protezione del contrafforte storico.
Solo nella parte terminale del cronoprogramma, verso il 2027, prenderanno il via gli scavi veri e propri, con la realizzazione del grande pozzo che fungerà da nodo fondamentale per il passaggio del tunnel. Contemporaneamente, dal lato opposto della città, la talpa partirà da San Benigno per iniziare a scavare verso la Foce, con l’arrivo previsto entro il 2028. Al termine dello scavo della prima canna, la macchina sarà smontata e riposizionata per realizzare la seconda canna del tunnel.
Viabilità sotto pressione: impatti e sfide per Genova
Una delle trasformazioni più evidenti sarà legata alla viabilità e alla mobilità cittadina. Il completamento della galleria artificiale sotto corso Aurelio Saffi comporterà la realizzazione di nuove connessioni viarie, la demolizione e il rifacimento dell’aiuola centrale e l’introduzione di tre corsie di accesso al tunnel, due provenienti da nord (viale Brigate Partigiane) e una da sud (corso Italia e Waterfront).
Il nuovo assetto è concepito per sostenere flussi di traffico minori rispetto all’attuale sopraelevata, con l’ambizione di alleggerire la pressione veicolare e avviare un ridisegno dell’assetto logistico della Foce. Non mancano, tuttavia, forti elementi di criticità: l’eliminazione totale dei parcheggi lungo le aiuole e la creazione di un percorso ciclopedonale, elemento che rappresenta un tassello importante per la mobilità sostenibile, sono motivo di contestazione da parte di residenti e commercianti, preoccupati per l’impatto sulle attività e sulla qualità della vita nel quartiere.
Durante tutta la fase dei lavori sarà garantito almeno un senso di marcia per corso Aurelio Saffi, così da evitare la paralisi della circonvallazione a mare e limitare al massimo i disagi. Tuttavia, il Comune stesso ha ammesso che le interferenze saranno ingenti e che l’impatto sulla quotidianità degli abitanti della Foce sarà inevitabile. L’amministrazione ha promesso un confronto costante con cittadini e municipio, anche attraverso assemblee pubbliche di condivisione e informazione sugli sviluppi del cantiere. L’assessore comunale al Verde, Francesca Coppola, ha sottolineato l’importanza di questo dialogo, evidenziando come la trasformazione dei giardini Coco rappresenti l’occasione per una riscrittura radicale del tessuto urbano, finalmente più aperto e sicuro, dopo decenni di percezione di questa zona come luogo isolato e poco fruibile.
Un ulteriore elemento di rilievo è rappresentato dalla rifunzionalizzazione stessa dei giardini Coco. Oltre al nuovo bastione che maschererà le gallerie agli occhi dei passanti, il disegno delle aree verdi viene reso meno fitto e più permeabile. Gli interventi previsti mirano a salvaguardare, per quanto possibile, la lettura delle antiche mura cittadine, soffocate negli anni da una vegetazione fuori controllo e da infrastrutture ormai superate.
Le richieste della Soprintendenza sono state in parte accolte: le aiuole storiche che costeggiano corso Aurelio Saffi verranno mantenute, fatta eccezione per il punto in cui sorgerà lo sbocco del tunnel. Dall’altra parte, il progetto nasce come alternativa e possibile sostituto della Sopraelevata: la ridefinizione del nodo della Foce è infatti pensata per un futuro in cui il passaggio automobilistico sarà spostato nel sottosuolo, restituendo così nuovi spazi pubblici in superficie.
Le esigenze di sostenibilità, sicurezza e valorizzazione urbana si intrecciano inevitabilmente con le criticità sociali e politiche di un intervento che investirà la città per diversi anni. Sullo sfondo resta irrisolta la questione della futura sorte della Sopraelevata: le istituzioni hanno rinviato ogni decisione rivoluzionaria sul suo abbattimento o riconversione a un momento successivo, quando il nuovo tunnel sarà operativo e sarà possibile valutare con maggiore precisione l’impatto sulla mobilità.
Nel frattempo, le associazioni ambientaliste come FIAB continuano a spingere per la realizzazione della pista ciclopedonale, anche a rischio di sacrificare parte dei parcheggi, mentre la presidente del municipio Medio Levante, Anna Palmieri, sottolinea il ruolo essenziale della partecipazione pubblica per garantire che la trasformazione della Foce sia davvero condivisa e rispondente alle esigenze delle comunità residenti.
Tra sostenibilità e dialogo: Genova ripensa il suo volto urbano
Nei dibattiti consiliari e nei confronti pubblici organizzati dal Comune si fa strada comunque la consapevolezza che la posta in gioco sia sempre più alta. La riqualificazione dei giardini Coco si pone come paradigma di una rigenerazione urbana che, andando oltre gli aspetti puramente infrastrutturali, mette al centro la qualità della vita e la relazione emotiva dei cittadini con il paesaggio urbano.
La nuova terrazza pubblica con vista sulla Foce promette di ridare un ruolo centrale a un’area da troppo tempo relegata ai margini della socialità cittadina, mentre l’innesto del tunnel e la riorganizzazione viaria ne proiettano la vocazione verso la modernità, tra nuove sfide di integrazione, vivibilità e sostenibilità.
Il cronoprogramma fissato dalla struttura commissariale e da Autostrade per l’Italia prevede un’imponente mobilitazione di risorse tecniche, umane ed economiche. Per le opere finali saranno necessari almeno altri 15 mesi dopo il completamento dello scavo, con l’obiettivo di chiudere la galleria artificiale, effettuare i collegamenti con viale Brigate Partigiane e restituire il nuovo assetto delle aiuole centrali. Un percorso che si snoda tra criticità e potenzialità, e che vede coinvolti non solo gli addetti ai lavori, ma l’intera popolazione genovese, chiamata a ripensare il proprio rapporto con la città e con uno dei suoi snodi viari più strategici.
Il futuro della Foce si gioca su una linea sottile tra conservazione e innovazione, tensione sociale e promessa di rinascita, nella speranza che la grande opera possa davvero coniugare efficienza, bellezza e sostenibilità e restituire ai genovesi uno spazio urbano più vivibile, sicuro e accogliente rispetto al passato.
La Torre dei Conti, noto baluardo medievale situato nel cuore archeologico di Roma, è tornata prepotentemente al centro dell’attenzione pubblica nelle ultime settimane a seguito del crollo parziale che ne ha compromesso la struttura, generando apprensione, polemiche e un acceso dibattito scientifico intorno alle modalità di restauro e alla destinazione d’uso futura.
Il progetto di messa in sicurezza, delineato grazie a una serie di riunioni tecniche tra la Soprintendenza archeologica del Colosseo, la Sovrintendenza capitolina e ingegneri strutturisti, è quasi pronto: gli interventi dovrebbero iniziare a brevissimo e la priorità assoluta è puntellare urgentemente il monumento prima dell’arrivo delle piogge, adottando soluzioni che garantiscano la salvaguardia sia della struttura che della sicurezza dei lavoratori e dei cittadini.
Gli eventi degli ultimi giorni hanno drammaticamente sottolineato la fragilità dell’edificio: il crollo, avvenuto durante delicate operazioni di restauro finanziate dal Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza (PNRR), ha provocato la morte di un operaio e il ferimento di altri quattro lavoratori. Le indagini della magistratura sono state avviate con l’ipotesi di omicidio colposo e disastro colposo e gli atti dell’appalto sono stati acquisiti per chiarire se le modalità di intervento fossero effettivamente compatibili con le esigenze di una struttura tanto complessa.
Area bloccata
Dopo il disastro, l’area è stata rapidamente transennata, evacuati i nuclei familiari degli edifici adiacenti e bloccato il traffico pedonale e veicolare lungo via Cavour e largo Corrado Ricci. Sul luogo sono intervenuti vigili del fuoco, carabinieri e polizia locale, supportati da rilievi tecnici realizzati anche tramite droni.
La storia del monumento, edificato nel XIII secolo dalla potente famiglia Conti di Segni sulle rovine del Tempio della Pace e a difesa del Foro di Cesare, si intreccia con le sorti di Roma e con le numerose calamità naturali che la città ha affrontato nel corso dei secoli.
Una vita travagliata
La Torre dei Conti è stata vittima di devastanti terremoti, in particolare quello del 1349 che ne compromise la stabilità e la rese a lungo inabitabile, fino a una ricostruzione nel 1620 e a ripetuti rinforzi a metà del Seicento, con i contrafforti ancora oggi visibili e fondamentali per la tenuta della struttura.
Dopo essere stata anche sede di uffici pubblici fino al 2006, solo nel 2022 sono stati avviati i lavori di restauro su vasta scala grazie a un finanziamento di 6,9 milioni di euro tramite il PNRR, con l’ambizione di trasformarla in museo e centro servizi archeologico per i Fori Imperiali.
Proprio la destinazione d’uso prevista dal progetto è uno dei punti più controversi, finendo nel mirino sia degli accademici che dei restauratori: la comunità scientifica, con una lettera firmata da 25 studiosi dell’Accademia dei Lincei, ha espresso pubblicamente dubbi sulle tempistiche e sull’opportunità di interventi che prevedano la trasformazione del monumento in una caffetteria panoramica e hub turistico, piuttosto che ristabilirne la vocazione storica e museale.
“È essenziale realizzare subito le puntellature per la sicurezza di persone e strutture antiche”, hanno scritto i firmatari, anticipando anche il rischio di scelte affrettate in nome della rapidità di spesa.
No alla demolizione
Nessun accademico, tuttavia, ha invocato una demolizione: le conoscenze tecniche e i mezzi disponibili sono ritenuti sufficienti per garantire, se subito adottate, la conservazione dell’edificio e la prosecuzione degli interventi, evitando decisioni drastiche che cancellerebbero una testimonianza monumentale di otto secoli di storia romana.
Sul fronte tecnico, la modalità operativa più suggerita tra gli esperti coinvolti ricorda “i lavori in miniera”: operai al sicuro in cestelli sospesi alle gru, installazione di gabbie modulabili a protezione delle maestranze e soprattutto la realizzazione di fasciature esterne in tensione che mantengano compatte le lesioni, isolando il nucleo centrale medievale molto più solido dalle aggiunte novecentesche in muratura leggera – le più vulnerabili ai crolli.
L’ossatura principale, che risale a quasi venti secoli fa, viene descritta come ancora poderosa e in grado di resistere, purché adeguatamente puntellata e isolata dalle nuove infiltrazioni d’acqua e dalle vibrazioni che hanno favorito il cedimento.
Il crollo ha imposto un’immediata riflessione sulla gestione del patrimonio storico, ma anche sulla trasparenza delle procedure e sulla continuità degli interventi di tutela. Molti archeologi e storici del restauro, tra cui Carandini e Volpe, sottolineano come la tragedia sia il risultato di decenni di manutenzione insufficiente, combinata alla pressione turistica e agli effetti ambientali.
Per questi specialisti, “non c’è sicurezza senza restauro e non ci può essere restauro senza sicurezza”: la chiave di volta non è il conflitto tra ingegneri e restauratori, ma un approccio condiviso e multidisciplinare che superi vecchie incomprensioni e ponga la salvaguardia al centro di ogni decisione, senza scorciatoie né semplificazioni. In questo senso, la Torre dei Conti diventa paradigma nazionale di una più vasta crisi nella tutela delle evidenze monumentali italiane, spesso vittime di logiche burocratiche o di interventi troppo aggressivi.
La rivoluzione nel Foro
Non meno importante è il dibattito aperto tra chi auspica una “rivoluzione museale” nell’area dei Fori, integrando la Torre dei Conti in un più ampio circuito pubblico e chi teme che la commistione tra esigenze turistiche e vincoli di conservazione possa snaturare l’identità del monumento. Gli anni recenti hanno visto il monumento al centro di progetti che alternavano periodi di abbandono ad aperture straordinarie, lasciando in eredità alla città un simbolo stratificato – rivestito di travertino proveniente dal Foro di Augusto, di Cesare e dall’area del Templum Pacis, liberato dalle costruzioni nei grandi cantieri fascisti del XX secolo e reso protagonista di crociate culturali per la sua salvaguardia. La sua parabola, tra restauri, scempi edilizi e successive recuperi, riflette perfettamente la complessità delle dinamiche urbanistiche romane.
Ad oggi, la Torre è ancora inaccessibile, circondata da barriere e pannelli che isolano il cantiere. La comunità scientifica chiede che si proceda senza ulteriori esitazioni con le puntellature e un monitoraggio costante delle condizioni statiche. Nel frattempo, le indagini della procura continuano, con la consulenza di ingegneri strutturisti chiamati a valutare la congruità degli interventi e la sicurezza degli edifici circostanti.
La pressione è alta: ogni passo è osservato, ogni scelta è sotto il fuoco incrociato di istituzioni, cittadini, studiosi e mondo mediatico. E la Torre dei Conti, ancora una volta, sfida il tempo e la storia, reclamando il suo posto nel paesaggio di una Roma che si interroga sul valore della memoria, dell’identità e della tutela culturale.
Il futuro della Torre dei Conti non può essere sacrificato sull’altare della rapidità d’esecuzione o della spettacolarizzazione turistica, ma deve fondarsi sulla solidità della ricerca storica, sull’innovazione tecnica e sulla responsabilità pubblica. Superare l’emergenza oggi significa garantire l’integrità di questo monumento per domani, restituendo ai cittadini romani e al mondo intero uno dei testimoni più suggestivi della lunga storia della Città Eterna.
La Cina ha avviato la progettazione di un nuovo regime di licenze per l’esportazione di elementi terrestri rari , un sistema che potrebbe accelerare le spedizioni verso i mercati globali. Tuttavia, secondo quanto riportato da fonti del settore, questo sviluppo è ben lontano dall’essere la completa eliminazione delle restrizioni commerciali che l’amministrazione Trump aveva sperato di ottenere dopo l’accordo con il presidente Xi Jinping.
Il Ministero del Commercio cinese ha informato alcuni esportatori di materiali di terre rare che presto potranno richiedere nuovi permessi più efficienti. Durante i recenti briefing con le aziende del settore, i funzionari hanno delineato la documentazione necessaria per presentare queste domande, come confermato da due persone informate sui fatti. Tuttavia, l’implementazione pratica di questo sistema rimane avvolta nell’incertezza. Funzionari cinesi hanno dichiarato privatamente che stanno ancora sviluppando queste licenze generali , con un processo che potrebbe richiedere diversi mesi prima di diventare operativo.
Le restrizioni per competere con Washington
Le restrizioni all’esportazione sono emerse come uno strumento chiave per Pechino nella sua competizione commerciale con Washington , considerando che la Cina controlla oltre il 90% della fornitura globale di terre rare lavorate e di magneti permanenti a base di terre rare, componenti essenziali per una vasta gamma di prodotti che vanno dalle automobili ai missili. Il dominio cinese non si limita alla lavorazione: il paese asiatico estrae circa il 70% delle terre rare mondiali e gestisce circa il 90% della raffinazione globale.
Dopo l’incontro tra i presidenti Donald Trump e Xi Jinping in Corea del Sud, la Cina ha annunciato la scorsa settimana una sospensione di un anno delle restrizioni imposte a ottobre . Tuttavia, il ministero del commercio cinese non ha rilasciato dichiarazioni pubbliche riguardo a un insieme più ampio di controlli introdotti ad aprile, che hanno causato interruzioni nelle catene di approvvigionamento globale. Queste misure di aprile hanno introdotto controlli all’esportazione su sette tipi di elementi di terre rare e sui loro prodotti derivati, richiedendo agli esportatori di ottenere licenze individuali per ogni carico, un processo oneroso e lungo che i clienti hanno denunciato come causa di ritardi nelle esportazioni.
La Casa Bianca ha indicato che la Cina aveva accettato di licenze generali, interpretando questi permessi come una conclusione di fatto delle limitazioni all’esportazione di terre rare da parte della Cina . Secondo un documento informativo rilasciato dalla Casa Bianca il primo novembre, la Cina ha concordato di emettere licenze generali valide per le esportazioni di terre rare, gallio, germanio, antimonio e grafite, il che secondo l’amministrazione statunitense significherebbe “la rimozione di fatto dei controlli imposti dalla Cina dall’aprile 2025 e dall’ottobre 2022”.
Solo una sospensione
Tuttavia, questa interpretazione appare molto più ottimistica rispetto alla realtà sul campo. Fonti indipendenti confermano che si tratta solo di una sospensione di un anno delle misure del 9 ottobre 2025, mentre le restrizioni precedenti introdotte ad aprile 2025 sembrano rimanere attive.
Altre fonti del settore hanno affermato che le nuove licenze non significano che i controlli all’esportazione di terre rare introdotti dalla Cina ad aprile siano stati rimossi. Alcune aziende cinesi di terre rare hanno dichiarato di non essere ancora informate del cambiamento.
Le misure introdotte a ottobre rappresentavano l’espansione più completa del regime di controllo delle esportazioni della Cina fino ad oggi , includendo restrizioni su cinque ulteriori elementi di terre rare (olmio, erbio, tulio, europio e itterbio), portando il totale degli elementi controllati a dodici dei diciassette elementi di terre rare esistenti.
L’aspetto più significativo di queste nuove regole era l’introduzione di disposizioni extraterritoriali, che richiedevano licenze di esportazione per prodotti fabbricati al di fuori della Cina se contenevano materiali di origine cinese o erano prodotti utilizzando tecnologie cinesi.
La disposizione extraterritoriale
Queste disposizioni extraterritoriali stabilivano la “regola dello 0,1 per cento”, secondo cui se un prodotto fabbricato all’estero contiene materiali di terre rare di origine cinese che rappresentano più dello 0,1% del suo valore totale per unità utilizzabile in modo indipendente, la sua ulteriore esportazione verso un paese terzo potrebbe richiedere anche l’approvazione del Ministero del Commercio cinese.
Questo elemento extraterritoriale senza precedenti illustra l’intenzione di Pechino di mantenere la supervisione anche dopo che i materiali sono stati lavorati all’estero.
Le nuove regole di ottobre includevano anche restrizioni specifiche per il settore della difesa , stabilendo che a partire dal primo dicembre 2025, le aziende con qualsiasi affiliazione a forze militari straniere, comprese quelle degli Stati Uniti, sarebbero state in gran parte private delle licenze di esportazione.
Il Ministero del Commercio ha anche chiarito che qualsiasi richiesta di utilizzare terre rare per scopi militari sarebbe stata automaticamente respinta, cercando effettivamente di impedire contributi diretti o indiretti di terre rare o tecnologie correlate di origine cinese alle catene di approvvigionamento della difesa straniera.
Le licenze generali saranno introvabili
Gli esperti del settore prevedono che le licenze generali saranno probabilmente più difficili da ottenere per gli utenti associati alla difesa o ad altre aree sensibili. Tutte le fonti hanno parlato a condizione di anonimato data la delicatezza della questione.
La mancanza di licenze generali pubblicate crea incertezza sui miglioramenti amministrativi effettivi , e le aziende che pianificano operazioni della catena di approvvigionamento dovrebbero prepararsi a scenario in cui i requisiti di licenza individuale persistono nonostante le dichiarazioni diplomatiche che suggeriscono un alleggerimento più ampio.
L’importanza strategica delle terre rare per le moderne tecnologie di difesa non può essere sottovalutata. Questi diciassette elementi, tra cui neodimio, disprosio, samario e ittrio , sono componenti indispensabili per sistemi di difesa avanzati. I magneti permanenti a base di neodimio-ferro-boro e samario-cobalto sono diventati la spina dorsale delle apparecchiature di difesa moderne, garantendo resistenza magnetica, stabilità termica e miniaturizzazione cruciali per la superiorità militare. Vengono utilizzati nei sistemi di guida missilistica, nell’avionica degli aeromobili, nei radar e nei sonar.
Le terre rare sono anche essenziali per le tecnologie stealth , con composti a base di ittrio, gadolinio e disprosio applicati alle superfici esterne per garantire durata ed evasione radar.
Nei sistemi di propulsione elettrica per droni e veicoli militari, il disprosio e il terbio migliorano la coppia, la resistenza al calore e l’autonomia operativa dei veicoli in ambienti difficili. Per quanto riguarda la guerra elettronica e le comunicazioni, ittrio e gadolinio vengono utilizzati nello sviluppo di componenti ad alta frequenza, consentendo comunicazioni sicure, affidabili e crittografate per le moderne strutture di comando militare.
Le risposte di Trump
L’amministrazione Trump ha risposto a questa debolezza strategica con una serie di misure non convenzionali. Negli ultimi mesi, il governo ha investito in varie società minerarie e di lavorazione dei minerali . A luglio, il Dipartimento della Difesa ha acconsentito a investire 400 milioni di dollari per garantire una quota del 15% in MP Materials, che gestisce l’unica miniera di terre rare negli Stati Uniti al confine tra California e Nevada.
Di recente, l’amministrazione Trump ha anche annunciato piani per investire in Trilogy Metals, un’azienda canadese che propone progetti di rame e zinco in Alaska, e in Lithium Americas, che sta sviluppando una delle più grandi miniere di litio al mondo in Nevada.
Il 4 novembre, l’amministrazione Trump e gli investitori privati hanno stretto una partnership con due startup di terre rare in un accordo da 1,4 miliardi di dollari per ampliare l’accesso della nazione a materiali e tecnologie cruciali per la produzione di una serie di beni high-tech e attrezzature militari.
L’investimento in Vulcan Elements e ReElement Technologies include 620 milioni di dollari di prestiti dal Dipartimento dell’Energia, 50 milioni di dollari in incentivi federali dal Dipartimento del Commercio e 550 milioni di dollari da investitori privati.
Parallelamente agli sforzi interni, il presidente Trump ha intensificato la ricerca di fonti alternative di terre rare , ospitando i leader di cinque paesi dell’Asia centrale alla Casa Bianca. L’Asia centrale ferma profonde riserve di minerali di terre rare e produce circa la metà dell’uranio mondiale, fondamentale per la produzione di energia nucleare.
Tuttavia, storicamente le esportazioni di minerali critici della regione sono state fortemente orientate verso Cina e Russia. Il Kazakistan, ad esempio, nel 2023 ha inviato 3,07 miliardi di dollari in minerali critici alla Cina e 1,8 miliardi di dollari alla Russia rispetto ai soli 544 milioni di dollari verso gli Stati Uniti.
L’estrazione delle terre
Nonostante questi sforzi, gli analisti rimangono scettici sulla possibilità di rompere rapidamente lo strangolamento cinese sulle terre rare . Anche con investimenti accelerati, l’Agenzia Internazionale dell’Energia prevede che la Cina controllerà ancora il 54% dell’estrazione di terre rare e il 77% della capacità di raffinazione entro il 2030.
La sfida fondamentale che le responsabilità politiche statunitensi devono affrontare è il disallineamento tra le tempistiche geologiche e industriali e le esigenze politiche e diplomatiche.
La debolezza più significativa nella catena di approvvigionamento di terre rare degli Stati Uniti non è l’accesso alle materie prime, ma l’assenza di capacità di lavorazione domestica.
Questo passaggio intermedio critico tra estrazione e produzione rappresenta il vero punto di strozzatura, poiché le materie prime devono ancora essere inviate in Cina per la raffinazione prima di tornare come componenti utilizzabili. Fino all’inizio del 2024, gli Stati Uniti spedivano la maggior parte delle terre rare estratte domesticamente in Cina per la lavorazione.
Anche quando vengono sviluppate nuove miniere al di fuori della Cina, la mancanza di capacità di lavorazione alternativa le rende ancora dipendenti da Pechino . Lo scorso anno, la Minerals Security Partnership guidata dagli Stati Uniti ha sostenuto il progetto di terre rare Serra Verde in Brasile, l’unica miniera al di fuori dell’Asia che attualmente produce sia terre rare leggere che pesanti. Tuttavia, nonostante questo investimento strategico, il minerale è già vincolato ad accordi di fornitura con la Cina per la lavorazione, perpetuando la stessa dipendenza che gli Stati Uniti stanno cercando di evitare.
Le restrizioni introdotte ad aprile ed espanse a ottobre hanno creato carenze a maggio che hanno portato parti dell’industria automobilistica a fermarsi. Questo episodio ha dimostrato quanto rapidamente le barriere regionali possono variare i prezzi globali delle terre rare e l’importanza delle catene di approvvigionamento resilienti. Il volume degli scambi è aumentato con la riduzione dell’incertezza normativa , con i mercati spot che sperimentano una migliore liquidità man mano che i partecipanti riacquistano fiducia nel completamento delle transazioni, sebbene la volatilità dei prezzi persista a causa delle preoccupazioni in corso sulla reversibilità delle politiche.
L’accordo raggiunto tra Trump e Xi rappresenta quindi una tregua tattica piuttosto che una soluzione strutturale . La sospensione di un anno delle misure di ottobre fornisce un sollievo commerciale immediato, ma mantiene le posizioni politiche sottostanti, lasciando vulnerabilità fondamentali della catena di approvvigionamento non risolte. La Cina ha giocato abilmente le sue carte accettando una cessazione di un anno dell’espansione del suo regime di controllo delle esportazioni di terre rare, una dinamica che rafforzerà solo la leva di Pechino su Washington tra un anno, quando gli Stati Uniti saranno a pochi giorni dalle elezioni di metà mandato e Trump sarà riluttante a vedere uno dei suoi accordi distintivi sfaldarsi proprio prima che gli elettori si rechino alle urne.
La politicaestera è da sempre il riflesso più autentico del potere. Ogni periodo storico ha i suoi protagonisti, i suoi linguaggi e soprattutto i suoi strumenti. Nel 2017, con l’arrivo di Donald J Trump alla Casa Bianca, gli Stati Uniti hanno vissuto un profondocambiamento, che li ha portati a una successiva, radicale, rottura nei confronti della tradizione diplomatica in vigore dal dopoguerra. Il presidente statunitense non ha soltanto cambiato stile o metodologia di comunicazione ma ha trasformato, più nel profondo, la struttura e la percezione a livello globale della negoziazione internazionale.
Come evidenziato dall’Aspen Institute, l’amministrazione del Tycoon ha introdotto cambiamenti innovativi e sostanziali, come il passaggio dalla fase di consenso a quella di competizione, trasformando una diplomazia, fino a quel momento discreta, in una diplomazia-spettacolo e ha scelto poi, senza indugio, di passare dal multilateralismo alla trattativa diretta. Cambiamenti strutturali importanti che hanno avuto enormi esiti su economia e collettività. Si tratta di un mutamento importante, per comprenderlo a fondo è necessario andare oltre alle apparenze, oltre al linguaggio social e provocatorio o all’uso, ormai sempre più diffuso, dei portali web in ambito politico.
Il cambiamento attuato da Trump è quello di aver trasformato la percezione della realtà in un valore concreto e misurabile e la stessa vale, oggi, tanto quanto la realtà nel processo di determinazione del successo di una strategia.
“America First”: il ritorno del nazionalismo economico
Dal multilateralismo all’unilateralismo sistemico: l’amministrazione Trump, fin dall’inizio, ha seguito e sostenuto un principio guida che può essere riassunto con il celebre slogan: “America First“. Non si tratta soltanto di un messaggio identitario ma il concetto racchiude in sé una dottrina strategica basata sulla convinzione, del presidente Usa, che la globalizzazione abbia penalizzato gli Stati Uniti a favore di altri attori internazionali, per esempio la Cina nota storica rivale, allo stesso tempo ha contemporaneamente portato a costi ritenuti sproporzionati per la protezione degli alleati europei.
Trump promise e successivamente attuò il suo piano di riportare al centro della diplomazia l’interesse nazionale e questa mossa ha interrotto, a suo avviso, decenni di concessioni unilaterali statunitensi. Dare senza ricevere, concetto che, secondo il capo di Stato americano, doveva necessariamente essere fermato e riequilibrato. Proprio con questo scopo sono state abbandonate le regole condivise fino a questo momento alla base del sistema liberale, per orientarsi invece verso un approccio transazionale. Cosa significa? Nel concreto ogni alleanza o negoziazione è stata valutata da quel momento come una trattativa commerciale dove ‘dare e avere‘ contano più della storia e dei valori del passato.
La visione del presidente Usa era certamente più improntata e simile a quella di un CEO, piuttosto che rispecchiare le tradizionali figure statistiche alle quali istituzioni e popolazione erano abituati. Ha scelto di misurare i risultati della diplomazia in termini monetari di profitto e quindi di trattare i Paesi come aziende, identificando negli attori internazionali profitti e posti di lavoro, che avvantaggiavano l’economia usa direttamente. Un approccio rivoluzionario che ha ricevuto resistenze e critiche globali ma, allo stesso tempo, ha imposto una revisione radicale delle abitudini diplomatiche internazionali.
Il metodo Trump: potere, narrazione e imprevedibilità
I tre pilastri della strategia negoziale: pensando alla diplomazia classica ciò che salta subito alla mente è come il potere era esercitato soprattutto dietro alle quinte, mentre Trump ha rovesciato questa regola. La visibilità e il proporsi in pubblico sono divenute parti indispensabili e integranti della sua strategia politica. Ogni negoziazione si è trasformata quindi in una performance mediatica dove ogni messaggio social ed ogni tweet, così come ogni conferenza stampa, hanno assunto il valore di leve strategiche. Il leader dei Maga ha messo in chiaro da subito i suoi tre pilastri principali, ovvero:
1. Pressione: minacce economiche, sanzioni o dichiarazioni pubbliche servivano a creare un vantaggio psicologico prima del negoziato.
2. Imprevedibilità: cambiare posizione improvvisamente costringeva gli avversari a rimanere reattivi e disorientati.
3. Narrazione: costruire una storia in cui gli Stati Uniti apparivano come la parte offesa o ingiustamente sfruttata, per giustificare azioni aggressive come tariffe, ritiro da accordi o riduzione dei fondi alle organizzazioni internazionali.
Un percorso che presentava molte similitudini con i metodi utilizzati nel business, le quali hanno trasformato in maniera sostanziale la diplomazia americana, rendendola più aggressiva ma, allo stesso tempo, personalizzata. Ora i rapporti tra leader avevano acquisito più peso rispetto ai rapporti tra Stati stessi. La strategia innovativa ha però rivelato fin da subito un difetto importante, che minava la sua stessa credibilità a lungo termine. Inutile precisare che l’efficacia tattica di breve durata di questa strategia è stata fin da subito palpabile, ma non si può dire lo stesso della credibilità a lungo termine. Quest’ultima ha risentito sensibilmente dell’imposizione americana di tassazioni su prodotti e importazioni estere, esempio concreto e recente sono i noti dazi. Ciò ha impattato notevolmente sui conti delle famiglie e generato malcontento anche in patria. La reazione generale scaturita da questa insoddisfazione popolare condivisa ha fatto si che il presidente americano riconsiderasse le proprie scelte e metodologie. Una sorta di marcia indietro che ha suscitato malcontento e generato poca fiducia. I dubbi su ciò che sarebbe potuto accadere in futuro hanno frenato le aspettative dei partner strategici.
L’economia come arma geopolitica
Uno degli aspetti più importanti della trasformazione strategica della diplomazia di Trump è stato senza dubbio l’utilizzo della leva economica, che nel corso del tempo si è trasformata in uno strumento di pressione finanziaria. L’attuale presidente Usa, nel 2018, ha scatenato una guerra commerciale con la Cina, seguita dalla decisione di imporre dazi sull’importazione di molti prodotti, per un valore di centinaia di miliardi di dollari. Contemporaneamente ha anche accusato Pechino di aver rubato proprietà intellettuali e di aver attuato dumping industriale.
Questo percorso, dichiarato come un atto volto a riequilibrare la bilancia commerciale, ha dimostrato invece la volontà di frenare l’ascesa della tecnologia cinese. L’emergente guerra tariffaria ha suscitato clamore internazionale e portato alla ridefinizione delle catene di approvvigionamento a livello globale e spinto le imprese statunitensi a riconsiderare la loro dipendenza dal mercato cinese.
Diplomazia tecnologica e sicurezza nazionale
Parlando di guerra commerciale non ci riferiamo soltanto a una questione monetaria, il campo è molto più ampio e lo stesso Trump lo sapeva bene. La vera battaglia era quella per la tecnologia. Ha deciso senza timore di colpire aziende come Huawei e ZTE e di imporre loro restrizioni sulle reti 5G, spingendo così gli alleati europei ad allinearsi alle posizioni americane. Questa è stata la prima volta in assoluto in cui la sicurezza nazionale americana si è intrecciata concretamente con la gestione dei dati e con le infrastrutture digitali.
Per comprendere meglio, osserviamo l’esempio clamoroso di TikTok, finito nel mirino di Washington, accusato di raccogliere informazioni sensibili per Pechino. È Proprio in questo momento che la diplomazia economica si è trasformata in diplomazia del dato e, sempre qui, la concorrenza tecnologica è divenuta deterrente geopolitico. Emerge chiaramente un messaggio: chi controlla la tecnologia controlla il mondo. Parte fondamentale del cambiamento anche l’interruzione dell’accordo di libero scambio nordamericano NAFTA con l’USMCA, soppiantato dall’ introduzione di clausole favorevoli all’industria automobilistica statunitense e alle produzioni interne. Questa è stata sicuramente una vittoria simbolica, oltre che politica, perché ha dimostrato che gli USA potevano imporre ai partner strategici condizioni migliori, per esempio a Canada e Messico, negoziando da una posizione di maggior forza. Washington ha scelto di puntare in modo massiccio sulle sanzioni economiche utilizzandole come strumento di negoziazione. Esempi noti sono Iran, Venezuela, Corea del nord, ma anche le aziende europee coinvolte nel progetto Nord Stream 2. Dazi e sanzioni si trasformano in armi persuasive diplomatiche.
Sicurezza e alleanze: dal vincolo alla transazione
Uno dei punti focali da cambiare secondo Trump era la dipendenza gratuita degli alleati americani che, a suo avviso avevano preteso troppo senza dare nulla in cambio. Il primo dei bersagli è stata la NATO che, come sostenuto da Trump, ha sempre imposto pagamenti al suo Paese troppo alti rispetto agli altri membri. Il messaggio diretto agli alleati era chiaro ovvero dovevano riassumersi la responsabilità finanziaria operativa per la difesa collettiva. Nonostante le polemiche e i toni non sempre pacati va precisato che il risultato è stato significativo. La maggior parte degli Stati UE hanno aumentato le spese militari e l’alleanza stessa ha avviato un procedimento di riforma interna.
Sostanzialmente Trump è riuscito a rinforzare la NATO attraverso il conflitto ed ha ottenuto ciò che i suoi predecessori avevano tentato con la diplomazia classica. Anche nella zona del Pacifico ha fatto scelte simili e improntate a creare pressione sui partner asiatici per generare un bilanciamento con Pechino ma, allo stesso tempo, per rafforzare i legami con Giappone e India, puntando al completo isolamento della Corea del Nord, mediante sanzioni e negoziazioni dirette. Il Medio Oriente è stato teatro delle mosse più eclatanti del leader del movimento Maga che ha scelto di mantenere una linea durissima con l’Iran, nonostante avesse criticato i precedenti interventi militari. Ha scelto di ritirarsi dall’accordo nucleare (JCPOA) firmato da Obama e ha introdotto nuove devastanti sanzioni. Ha costruito poi parallelamente un nuovo asse politico economico introducendo gli Accordi di Abramo. Grazie a ciò, unitamente alla regia di Jared Kushner, è riuscito a normalizzare i rapporti di Arabia Saudita, Bahrein, Sudan, Marocco ed Emirati Arabi nei confronti di Israele, un successo diplomatico evidente, perché si tratta di un riavvicinamento dettato soltanto da interesse economico, cooperazione tecnologica ma, anche, dalla volontà comune di opporsi a Teheran. Questo ha creato una nuova forma di diplomazia basata sul pragmatismo e sull’incontro di diversi interessi piuttosto che sulla storica ideologia.
Lo stile comunicativo: la diplomazia-spettacolo
La strategiadicomunicazione di Trump ha puntato al mondo digitale e a come manipolare la percezione pubblica. Ha trasformato questi punti in una leva di potere e ha utilizzato ad esempio Twitter come reale strumento diplomatico, rompendo così la tradizione del linguaggio controllato. Ogni messaggio e comunicazione dell’amministrazione Usa aveva un fine geopolitico o commerciale. Nel 2018 e nel 2019 ha organizzato incontri con il leader nord coreano Kim Jong-un, i quali si sono trasformati immediatamente in eventi mediatici globali. Questo perché veniva mostrato l’atto concreto di negoziazione con il nemico.
Il limite strutturale di questa tipologia di diplomazia personalizzata risiede, però, nella sua fragilitàistituzionale. Questa tecnica può servire si a stemperare un’escalation immediata ma non porta a soluzioni strutturali definitive, alla conclusione dei conflitti e, neppure, alla stabilità sistemica a lungo termine. La nuova forma di diplomazia non doveva più essere discreta ma piuttosto performante, dato che spiazzava gli avversari e rafforzava allo stesso tempo il consenso interno. L’approccio rivoluzionario degli Stati Uniti e, in particolar modo, della negoziazione di Trump ha prodotto effetti a lungo termine all’interno della scena internazionale.
Importanti e storiche organizzazioni come ONU, OMS e WTO hanno perso centralità, si puntava più ad accordi bilaterali e regionali che andavano a indebolire le istituzioni globali e ha spinto così gli altri attori, come Unione Europea, Cina e Russia, a cercare cooperazione altrove. L’UE ha reagito a questo momento di incertezza americana spingendo l’acceleratore sull’autonomia strategica, per questo sono nati progetti come la Bussola Strategica dell’UE e un nuovo fondo europeo per la difesa. Tutto questo proviene da quello che può essere definito il ‘trauma Trump‘, che ha sostenuto l’idea che la sicurezza del vecchio continente non possa basarsi completamente sulla difesa americana. A seguito di questo cambiamento altri leader internazionali hanno portato avanti la diplomazia in modo simile: in Turchia Erdogãn, in India Modi e persino Macron in Francia. La diplomazia assertiva si è tramutata in una tendenza globale. Oggi ogni Paese cerca di massimizzare la propria visibilità, così come il proprio margine di manovra, anche a costo di conflitti mediatici che in precedenza era consuetudine evitare.
Il dopo Trump: continuità e correzioni
Dopo la Presidenza di Trump e con il successivo arrivo di Joe Biden il mondo si aspettava un ritorno al vecchio metodo diplomatico, ma ciò non è accaduto. Molte introduzioni e dinamiche introdotte da Trump sono rimaste, per esempio la competizione con la Cina, la valorizzazione della produzione interna e la richiesta di contributi maggiori da parte degli alleati. Nonostante Biden abbia cercato di ricostruire il dialogo multilateralenon ha rinunciato, allo stesso tempo, a focalizzarsi sull’interesse nazionale. La diplomazia transazionale non ha rappresentato un incidente ma la trasformazione strutturale della politica estera americana. Inutile negare che l’eredità di Trump è complessa, contraddittoria ma allo stesso tempo duratura. È riuscito a riportare il potere al centro della conversazione internazionale e allo stesso tempo ha cambiato le precedenti regole standard. Questo dimostra che la comunicazione possa sostenere o addirittura sostituire la forza militare e che un tweet è in grado di influenzare mercati e destabilizzare negoziati. Inutile negare che le sue metodologie hanno innescato reazioni differenti e diviso opinioni ma, inevitabilmente, ha dato una lezione: la diplomazia è inseparabile dalla percezione pubblica. Sottolineando quanto sia indispensabile che un leader sappia parlare contemporaneamente agli altri governi e alla sua opinione pubblica, utilizzando un linguaggio semplice riconoscibile ed immediato.
Oggi è chiaro che la visibilità è potere, mentre il compromesso è visto come segno di debolezza e la negoziazione si è trasformata in un teatro globale. Da tutto ciò il mondo ne è uscito più competitivo, più trasparente, ma anche più instabile. La diplomazia internazionale del futuro dovrà concentrarsi su potete comunicativo. È necessario esporsi in maniera adeguata alle luci globali del pubblico che osserva, reagisce e giudica in tempo reale. La trasformazione dettata da Trump ha aperto la strada a un nuovo sistema diplomatico digitale. È inutile negare che le relazioni internazionali si intrecciano ai flussi di dati e algoritmi che influenzano le decisioni politiche, oggi, più della stessa geografia. La disinformazione, l’intelligenza artificiale e la cyber security sono diventate nuove armi di pressione, ma anche strumenti di negoziazione. Questo significa che la capacità di controllare la narrativa online è strettamente correlata al controllo del potere, collegando la diplomazia del futuro alla percezione della credibilità globale che, con le nuove tecnologia, acquisita in tempo reale. La scelta di Trump di usare comunicazione e percezione come leve geopolitiche rappresenta sostanzialmente l’anticamera della diplomazia algoritmica, in cui la parola dei leader e dei capi di Stato viaggia più velocemente delle decisioni dei governi.
La città sudanese di Al-Fashir, capoluogo del Nord Darfur, è diventata nelle ultime settimane un simbolo vivido dello sfacelo umanitario e della brutalità della guerra civile che dilania il Sudan dal 2023. Le notizie arrivate a fatica da questa città, isolata da un blackout delle comunicazioni e assediata da mesi, hanno provocato un’ondata globale di indignazione e rabbia dopo la conquista da parte delle Rapid Support Forces (RSF), milizia paramilitare protagonista delle peggiori atrocità del conflitto. Secondo molteplici testimonianze, tra il 26 e il 28 ottobre 2025 le RSF hanno compiuto una vera e propria carneficina, con almeno 2.000 civili uccisi, compresi donne, bambini e anziani, molti dei quali falciati mentre cercavano una via di fuga, altri trucidati direttamente in ospedale.
Le immagini satellitari analizzate da istituzioni indipendenti hanno mostrato ammassamenti di cadaveri e vaste aree della città tinte di rosso dal sangue, rendendo drammaticamente visibile una violenza difficilmente documentabile sul campo. Le prove raccolte sul terreno e dallo spazio attestano un’ondata di uccisioni extragiudiziali, con fucilazioni collettive, esecuzioni porta a porta e terrificanti casi di violenza di genere ai danni delle donne e delle ragazze; dettagli che rendono insostenibile qualsiasi narrazione delle RSF secondo cui si sarebbe trattato di semplici operazioni di rastrellamento.
Il tragico capitolo di Al-Fashir si inserisce nella più ampia crisi che attraversa il Sudan da oltre due anni. Il conflitto tra le forze armate regolari (SAF) e le milizie paramilitari delle RSF ha provocato oltre 12 milioni di sfollati, decine di migliaia di vittime e una delle più gravi crisi umanitarie mondiali, con milioni di persone in stato di bisogno immediato secondo le Nazioni Unite. Nei 18 mesi di assedio alla città, RSF e alleati hanno reso impossibile alla popolazione l’accesso a cibo, acqua potabile e medicinali e, nelle ultime settimane che hanno preceduto la caduta, la mancanza assoluta di rifornimenti ha indotto parte degli abitanti a nutrirsi con foraggi destinati agli animali.
Il 27 ottobre 2025 le truppe regolari, ormai stremate, sono state costrette a lasciare la città e il controllo totale è passato alle RSF. Subito dopo la conquista, si sono verificati assalti e rastrellamenti casa per casa, uccisioni arbitrarie di interi nuclei familiari, con particolare brutalità contro i membri delle minoranze etniche che da tempo subiscono discriminazioni e violenze nel Darfur.
Gli sforzi dei volontari della Mezzaluna Rossa e delle ONG umanitarie sono stati vanificati da atti di terrore mirato: operatori sono rimasti uccisi durante i soccorsi, mentre a El-Fashir l’ospedale saudita è stato teatro di esecuzioni di pazienti e personale sanitario.
Organizzazioni internazionali come Human Rights Watch, Amnesty International, la World Health Organization e il Segretario Generale dell’ONU hanno parlato di crimini di guerra e crimini contro l’umanità, esortando la comunità internazionale a intervenire per fermare il massacro.
L’ONU ha espresso “orrore per le raccapriccianti uccisioni di massa a El-Fashir”, chiedendo accesso umanitario immediato e l’apertura di corridoi sicuri per i sopravvissuti, soprattutto donne e bambini.
Dal punto di vista locale, le autorità sudanesi e le amministrazioni regionali del Darfur hanno denunciato che, durante la presa della città, le milizie hanno lanciato una vera e propria campagna di intimidazione etnica, con azioni riconducibili a una pulizia sistematica delle comunità africane non arabe. Le RSF sono accusate anche di rapimenti a scopo di estorsione, saccheggi estesi alle infrastrutture civili e vessazioni sessuali, tutte azioni che violano apertamente il diritto internazionale umanitario.
Le responsabilità dell’attuale tragedia rimandano anche a dinamiche storiche: le RSF, create come evoluzione delle famigerate milizie Janjaweed, già protagoniste del genocidio del Darfur degli anni 2000, sono considerate oggi tra gli attori più potenti e incontrollati della regione, grazie anche al sostegno di attori esterni e all’afflusso di armi da oltre confine. Diverse analisi sottolineano come il controllo della regione di Darfur da parte delle RSF rischi di portare a una definitiva spartizione del Sudan, già segnato dalla secessione del Sud Sudan nel 2011.
Nonostante i tentativi delle RSF di presentare l’offensiva come un’azione legittima contro combattenti nascosti tra la popolazione civile, le prove raccolte da diverse fonti indipendenti mostrano la deliberata esecuzione di civili, compresi ragazzi e pazienti ospedalieri, in una spietata logica della paura. Alcuni sopravvissuti hanno dichiarato che famiglie intere sono state eliminate subito dopo essere state separate per sesso agli improvvisati check-point interni: gli uomini giustiziati e le donne e i bambini lasciati vagare o sottoposti a violenze e sequestri.
Le RSF, pur negando in parte la portata delle atrocità, tramite il loro comandante Mohamed Hamdan Dagalo hanno dovuto ammettere “violazioni” e annunciato la creazione di commissioni interne di inchiesta. Una mossa ritenuta priva di credibilità dagli osservatori internazionali, che sottolineano come tali iniziative tendano solo a stemperare la pressione internazionale senza portare a veri processi di giustizia.
L’impatto umanitario della catastrofe è devastante: oltre 260 mila civili erano rimasti bloccati in città prima della caduta, ridotti allo stremo dalla fame e dalla sete, costretti in molti casi a nascondersi tra le rovine per evitare i rastrellamenti delle milizie. Oltre 36 mila persone hanno tentato di fuggire a piedi verso i centri periferici, mentre il destino di decine di migliaia resta ignoto. Le reti ospedaliere sono state decimate: l’ospedale principale è stato teatro di esecuzioni di almeno 460 tra pazienti e operatori, secondo testimonianze dirette e rapporti incrociati.
Le scene di corpi abbandonati per le strade, le fosse comuni individuate dal satellite e la testimonianza unanime di reporter, Ong e autorità delle Nazioni Unite lasciano pochi dubbi su ciò che è accaduto a El-Fashir. Diplomazie come Egitto, Qatar, Arabia Saudita e Turchia hanno lanciato appelli durissimi, accusando la RSF di genocidio e chiedendo l’immediata cessazione delle ostilità e la protezione dei superstiti.
A livello geopolitico, la comunità internazionale è chiamata ora non solo a fornire soccorso immediato, ma anche a riflettere sulla responsabilità dell’inerzia e sulle conseguenze a lungo termine del collasso sudanese. Il paese rischia di diventare un nuovo epicentro globale della crisi dei rifugiati, una fonte di instabilità per tutto il Sahel e l’Africa centrale e un banco di prova sulla tenuta delle norme internazionali contro la violenza di massa.
Quello che è successo a El-Fashir non è solo un tragico episodio locale ma si impone come parabola di un fallimento globale, in cui la mancanza di risposte efficaci rischia di aprire la strada a nuovi cicli di vendetta, disgregazione e impunità. La memoria di questa tragedia, resa tangibile dalle immagini satellitari e dalle grida dei sopravvissuti, segna una svolta cruda e dolorosa nella storia contemporanea africana.
La comunità Haredi (ebrei ultra-ortodossi) in Israele si trova al centro di una delle più gravi crisi politiche, sociali ed economiche che il paese sta attraversando. La questione del loro arruolamento militare, emersa con forza nella sentenza della Corte Suprema del giugno 2024, minaccia la stabilità del governo Netanyahu e continua a dividere profondamente la società israeliana.
Questa frattura si estende ben oltre la semplice questione militare, interessando l’economia nazionale, il sistema educativo, la composizione demografica del paese e i fondamenti stessi della convivenza civile israeliana.
Dati demografici e crescita della popolazione Haredi
La comunità Haredi rappresenta un fenomeno demografico senza precedenti in Israele. Alla fine del 2024, la popolazione Haredi in Israele conta circa 1,39 milioni di persone, cifra che rappresenta il 13,9% della popolazione totale del paese, dove complessivamente vivono oltre 10 milioni di abitanti. Considerando solo la popolazione ebraica, gli Haredi costituiscono circa il 17,7% di essa.
Ciò che rende ancora più significativo questo dato è il tasso di crescita della comunità Haredi, che è drammaticamente più rapido rispetto al resto della popolazione. Il tasso di crescita naturale annuale degli Haredi è del 4,2%, un valore quasi doppio rispetto all’1,9% della popolazione generale e superiore all’1,4% della popolazione ebraica non-Haredi.
Questa crescita accelerata è principalmente dovuta a un tasso di fertilità estremamente elevato, con una media di circa 6 figli per donna Haredi, cifra che contrasta nettamente con i 2,3 figli delle donne ebree non-Haredi.
Le proiezioni demografiche risultano ancora più drammatiche per il futuro di Israele. Secondo i calcoli governativi, entro il 2030 gli Haredi costituiranno circa il 16% della popolazione totale, raggiungendo i 2,5 milioni di persone. Guardando ancora più avanti, entro il 2065 gli Haredi rappresenteranno tra il 22% e il 32% della popolazione totale israeliana. Questo significa che la comunità Haredi, attualmente una minoranza significativa, potrebbe diventare una quota sostanziale della popolazione nazionale nel corso dei prossimi 40 anni, con tutte le implicazioni che ciò comporta per la struttura sociale, economica e politica del paese.
La crisi giuridica del servizio militare
La sentenza della Corte Suprema e il suo contesto legale
Il 25 giugno 2024, la Corte Suprema israeliana ha emesso una sentenza unanime e di estrema importanza costituzionale, dichiarando definitivamente illegale l’esenzione dal servizio militare per gli studenti delle yeshivot (scuole religiose) Haredi. Questa decisione rappresenta il culmine di una lunga battaglia legale che affonda le sue radici in decenni di controversie sulla questione religione-stato in Israele.
Corte Suprema di Israele
Per comprendere pienamente il significato di questa sentenza, è importante ricordare il contesto storico. Nel 2015, il governo Netanyahu insieme alle fazioni ultra-ortodosse aveva legiferato una modifica alla Legge sulla Sicurezza Militare, che forniva un’esenzione dal servizio per gli studenti delle yeshivot.
Questa legge era però esplicitamente temporanea, concepita per durare solo sette anni. Nel 2017, la Corte Suprema aveva colpito questa disposizione, dichiarandola incostituzionale perché violava il principio di uguaglianza, specialmente in un contesto di guerra. Tuttavia, mantenendo il suo approccio tradizionalmente cautelare in materia di questioni religione-stato, la Corte aveva dato al Knesset (parlamento) l’opportunità di legiferare un nuovo accordo che meglio bilanciasse l’esigenza di uguaglianza. Anno dopo anno, la Corte aveva rinviato il termine, fino a quando nel giugno 2023, in conformità alla scadenza originariamente stabilita dai legislatori stessi, l’esenzione era ufficialmente scaduta.
La sentenza di un anno fa, quindi, rappresentava un approccio giuridico misurato e contenuto. Come nota l’analisi accademica, era semplicemente l’affermazione di un principio di diritto amministrativo elementare: se la legge che concede un’esenzione è scaduta, allora l’esenzione stessa cessa di esistere.
Non era una decisione “attivista” ma piuttosto una logica conseguenza dell’applicazione della legge. La Corte ha inoltre stabilito che, in assenza di una nuova legge specifica che regoli l’esenzione, lo stato deve arruolare i giovani Haredi come tutti gli altri cittadini ebrei israeliani, affermando che “l’esenzione viola il principio di uguaglianza”, specialmente durante il periodo di guerra.
Un aspetto cruciale della sentenza riguardava i finanziamenti pubblici. La Corte ha disposto il blocco dei finanziamenti alle yeshivot (un’istituzione educativa ebraica che si basa sullo studio dei testi religiosi tradizionali, principalmente quello del Talmud e della Torah) i cui studenti rifiutano il servizio militare, eliminando circa 480 milioni di shekel annui di sostegno statale. Questa cifra si traduce in una perdita di circa 9.500 shekel annui per ogni studente Haredi presso un Kollel (yeshiva per uomini sposati). Tale provvedimento mirava a creare incentivi economici reali affinché le istituzioni religiose incoraggiassero l’arruolamento, benché con risultati pratici finora estremamente limitati.
I risultati concreti dell’arruolamento: una frattura tra legge e realtà
Yeshivat Hesder
La distanza tra quanto stabilito dalla sentenza della Corte Suprema e la realtà concreta dell’arruolamento rappresenta una delle crisi più acute del sistema istituzionale israeliano contemporaneo. Nonostante un anno sia passato dal pronunciamento della Corte, i dati sull’effettivo arruolamento di Haredi rimangono estremamente deludenti sia per la magistratura che per i vertici militari.
Secondo i dati ufficiali più recenti disponibili (aggiornati a giugno 2025), l’IDF ha inviato circa 80.000 ordini di chiamata a uomini Haredi tra i 18 e i 26 anni. Tuttavia, della totalità di questi ordini, soltanto 996 persone (appena il 5%) si sono presentate ai centri di reclutamento dell’IDF. Ancora più significativo è il dato sul numero di coloro che sono stato effettivamente arruolati: soltanto 232 persone (equivalente all’1,2% del totale dei convocati) hanno completato il processo di arruolamento e sono state integrate nelle forze armate.
In prospettiva annuale complessiva, nel 2024 si stima che siano stati arruolati complessivamente circa 2.700-2.900 Haredi, una cifra che rappresenta un aumento rispetto alla media storica di 1.800 arruolamenti annui negli anni precedenti, ma comunque drammaticamente insufficiente rispetto agli obiettivi fissati dalla magistratura. Ulteriormente, nel primo anno di applicazione della sentenza, solo circa 2.700 laureati di scuole Haredi sono stati arruolati, cifra inferiore al target minimo di 4.800 che lo stato stesso aveva presentato alla Corte Suprema.
Un dato particolarmente significativo è che nessun procedimento penale è stato finora avviato contro i disertori Haredi, poiché secondo la politica dell’IDF devono passare almeno 18 mesi dalla dichiarazione di diserzione prima di procedere penalmente. Questa finestra temporale consente di fatto ai giovani Haredi di eludere indefinitamente il servizio attraverso meccanismi procedurali.
La ricerca del Centro Israel Democracy Institute ha evidenziato ulteriormente come degli oltre 110.000 Haredi obbligati legalmente al servizio, solo 931 si sono effettivamente arruolati (pari al 2,3%), di cui appena 153 in unità di combattimento (equivalente allo 0,38%). Questo gap colossale tra l’ordine legale e l’implementazione pratica rivela una frattura sistemica tra il potere giudiziario, l’apparato militare, e la comunità Haredi, nonché la riluttanza dello stato ad attuare le misure coercitive necessarie.
L’impotenza dell’IDF nel contesto della sentenza
Un aspetto particolarmente illuminante emerge dalle comunicazioni interne del sistema di difesa israeliano. La Corte aveva accettato l’asserzione dello stato secondo cui l’IDF non poteva immediatamente arruolare tutti i 63.000 uomini Haredi idonei al servizio. Pertanto, aveva concordato su un obiettivo iniziale di 4.800 reclute entro giugno 2025, descritto come una “cifra minima di partenza” che lo stato aveva promesso di aumentare progressivamente. La Corte aveva inoltre considerato tre fattori guida: il principio di uguaglianza (che ha sotteso tutta la decisione), la capacità di assorbimento dell’IDF, e le esigenze di manpower in tempo di guerra.
Haredi protestano contro l’arruolamento
Nel corso del seguente anno, tuttavia, nessuno di questi tre fattori ha mostrato progressi significativi verso l’implementazione del principio di uguaglianza. Al contrario, il carico sostenuto da coloro che continuano a servire, fisicamente, emotivamente ed economicamente, si è intensificato ulteriormente, esponendo con ancora maggiore chiarezza la profonda iniquità della situazione.
Le esigenze di manpower militare si sono anche accresciute a causa dell’attrito nelle forze e delle perdite umane nella guerra di Gaza, portando i vertici militari a richiedere urgentemente l’arruolamento di 12.000 nuove truppe di combattimento e supporto.
D’altro lato, la capacità di assorbimento dell’IDF è effettivamente aumentata nel corso del tempo. Oltre ai 4.800 reclute Haredi che poteva assorbire entro l’estate 2025, l’esercito ha annunciato che avrebbe potuto integrare 5.760 ulteriori reclute nell’anno successivo, e da estate 2026 in avanti, potrebbe assorbire l’intera coorte annuale Haredi, pari a circa 14.500 giovani uomini annualmente. Senza l’esenzione per coloro che raggiungono i 26 anni, il numero totale di Haredi idonei potrebbe raggiungere oltre i 90.000 entro quel termine.
Nonostante questa palese capacità sistemica aumentata e gli imperativi legali e militari crescenti, l’IDF ha implementato un approccio caratterizzato da un rollout lento e incrementale degli ordini di convocazione: partendo con soli 3.000 ordini, e solo raggiungendo 19.000 entro la fine dell’anno, nonostante i vertici militari conoscessero perfettamente dall’inizio che il tasso di conformità sarebbe stato minimo. In riunioni di revisione successive, gli ufficiali dell’IDF hanno esplicitamente riconosciuto di non aspettarsi nessun miglioramento senza l’implementazione di gravi sanzioni contro i disertori della leva o senza interventi dalla leadership ultra-ortodossa.
Sette riunioni di follow-up sono state convocate per monitorare l’implementazione della sentenza, organizzate dal Procuratore Generale e includendo ufficiali dell’Avvocato Militare, funzionari della Direzione Manpower, e rappresentanti dei Ministeri della Giustizia e della Difesa, dell’Autorità Demografica, e della polizia.
Lo stato era inoltre obbligato a riferire alla Corte Suprema molteplici volte nel corso dell’anno. Tuttavia, nessuno di questi meccanismi di supervisione ha condotto a progressi significativi.
Solo dopo un anno di chiaro fallimento nel soddisfare i requisiti legali l’IDF ha cominciato a prepararsi per emettere altri 60.000 ordini di convocazione. Contemporaneamente, ha iniziato a richiedere misure penali individuali più serie, inclusi il raffronto dei tempi tra convocazione e mandato di arresto, la classificazione formale dei disertori della leva come “disertori”, e l’abilitazione ad arresti effettivi presso l’Aeroporto Ben Gurion e attraverso operazioni di polizia.
La “Marcia del Milione” del 30 ottobre 2025
Il 30 ottobre 2025, centinaia di migliaia di ebrei ultra-ortodossi hanno organizzato quello che è stato formalmente denominato la “Marcia del Milione” all’ingresso di Gerusalemme, nella zona occidentale della città, rappresentando una delle più grandi manifestazioni religiose nella storia dello stato di Israele. Questa protesta straordinaria rivela la profondità della determinazione Haredi di resistere all’arruolamento e il potere mobilitativo della comunità religiosa quando unita su una questione di princìpi.
Haredi durante la marcia del milione
La manifestazione ha avuto un impatto logistico e infrastrutturale massivo. Ha comportato la paralisi della città di Gerusalemme, con la chiusura dell’Autostrada 1 (la principale arteria di trasporto del paese che collega Tel Aviv a Gerusalemme), la sospensione dei servizi ferroviari regionali e nazionali, e la chiusura anticipata di scuole in tutta l’area metropolitana. I vertici delle forze di polizia israeliane hanno dovuto dispiegare risorse significative per gestire il flusso di centinaia di migliaia di manifestanti convergenti nella capitale.
I manifestanti, composti prevalentemente da uomini (una conseguenza delle rigide regole di modestia sessuale Haredi che vietano la mescolanza tra sessi in contesti pubblici), portavano cartelli e scandivano slogan con messaggi estremamente forti.
Molti recavano insegne che equiparavano il governo israeliano a regimi totalitari, con scritte come “Russia è qui”, “Stalin è qui”, e altre frasi di paragone storico che comunque riflettevano la resistenza totalitaria della comunità. Lo slogan principale scandito era “Preferiamo la prigione all’esercito”, un’affermazione di principio religiosa secondo cui il servizio militare costituirebbe un’apostasia dalle osservanze religiose e dagli insegnamenti del Judaism ortodosso.
Durante la manifestazione si sono verificati episodi di violenza e tragedia. Alcuni incidenti hanno visto la ricerca da parte di manifestanti di confrontare fisicamente i giornalisti, con aggressioni nei confronti della stampa che tentava di coprire gli eventi. Un tragico incidente ha segnato la giornata quando un giovane maschio, un ragazzo di soli 15 anni, è morto dopo aver perso l’equilibrio e caduto dal 20° piano di un edificio in costruzione dove lui e altri giovani manifestanti si erano arrampicati, apparentemente per ottenere una migliore prospettiva sulla folla di manifestanti sottostante.
Le interruzioni durante i procedimenti giudiziari
La determinazione della resistenza Haredi al servizio militare si è manifestata anche all’interno delle aule dei tribunali. Durante un’audizione della Corte Suprema il 28 ottobre 2025 in cui la Corte deliberava ulteriormente sulla questione dell’arruolamento obbligatorio giovani uomini Haredi hanno fatto irruzioni drammaticamente nell’aula dove i magistrati stavano deliberando. Scandivano frasi radicali come: “Siamo orgogliosi di disertare, arrestateci – moriremo ma non ci arruoleremo” e formule di paragone storico come “Abbiamo superato Hitler, supereremo anche voi”, lanciando insulti ai giudici. Questi episodi hanno rappresentato una sfida diretta all’autorità giudiziaria e un’affermazione della determinazione Haredi di non piegarsi agli ordini legali.
L’impatto economico della bassa partecipazione al mercato del lavoro
La comunità Haredi si caratterizza per tassi di partecipazione estremamente ridotti al mercato del lavoro, specialmente fra gli uomini, con significative differenze di genere che riflettono le strutture patriarcali del judaismo ultra-ortodosso. I dati occupazionali più recenti mostrano questa frattura nettamente.
Per quanto riguarda gli uomini Haredi, il tasso di occupazione nel 2024 era del 54%, rappresentando in realtà un lieve calo rispetto al 55,5% registrato nel 2023. Questo contrasto drammaticamente con il tasso di occupazione del 87% degli uomini ebrei non-Haredi della stessa fascia di età e demografica.
Questa differenza di 33 punti percentuali rivela il ruolo profondo del fattore religioso nell’esclusione dal mercato del lavoro, poiché la dedizione allo studio della Torah rimane il valore centrale per molti uomini Haredi in età lavorativa.
La situazione è radicalmente diversa per le donne Haredi. I tassi di occupazione femminili Haredi nel 2023 si attestavano all’81%, cifra che rappresenta un andamento positivo ascendente da quando i registri cominciano, partendo da un 71% nel 2015. Questo tasso di occupazione femminile Haredi è quasi completamente allineato con quello delle donne non-Haredi, che raggiunge l’83%.
La spiegazione di questa differenza tra generi emerge dal sistema di valori Haredi: mentre gli uomini sono incoraggiati a dedicare la vita allo studio della Torah (e spesso ricevono stipendi o assegni dalle comunità religiose per farlo), le donne sono essenzialmente incoraggiate al lavoro per provvedere economicamente alle famiglie, specialmente quando il marito è impegnato negli studi religiosi. Questo rappresenta un ulteriore strato di iniquità economica e di genere all’interno della comunità.
Il carico fiscale aggiuntivo sui lavoratori non-Haredi
Uno dei risultati più significativi della ricerca dell’Israeli Democracy Institute riguarda il calcolo del carico fiscale aggiuntivo sostenuto dai lavoratori non-Haredi per compensare la bassa contribuzione fiscale della comunità Haredi. Questo fornisce un indicatore diretto e quantificabile di come l’attuale struttura economica favorisca sistematicamente una parte della popolazione a spese di un’altra.
Nel 2025, i dati calcolano che ogni lavoratore non-Haredi dovrà pagare complessivamente NIS 3.540 (circa 1.000 dollari USA) in tasse aggiuntive come conseguenza diretta della bassa partecipazione della comunità Haredi al mercato del lavoro. In altre parole, se la comunità Haredi partecipasse al lavoro con tassi identici ai non-Haredi, il totale delle tasse che i lavoratori non-Haredi dovrebbero versare diminuirebbe di NIS 3.540 per persona annualmente. Proiettando il trend, questa cifra di carico fiscale aggiuntivo è prevista raggiungere NIS 11.266 (circa 3.200 dollari) per ogni lavoratore non-Haredi entro il 2048, assumendo che gli attuali trend demografici e di mercato del lavoro continueranno.
Questo rappresenta un aumento di oltre il 200% nel carico fiscale aggiuntivo nel corso di un periodo di soli 23 anni, evidenziando come l’esplosione demografica Haredi, combinata con la bassa occupazione, creerà una crisi fiscale crescente per il resto della società israeliana.
Contribuzione fiscale complessiva della comunità Haredi
I dati sulla contribuzione fiscale assoluta della comunità Haredi ai bilanci pubblici israeliani sono particolarmente illuminanti e rivela un’asimmetria profonda tra popolazione e contributo economico. Nel 2023, secondo il rapporto dell’Israeli Democracy Institute, ogni individuo Haredi ha pagato soltanto il 28% delle tasse dirette pagate da un individuo non-Haredi.
Tradotto in termini aggregati, sebbene gli Haredi costituissero il 14% della popolazione in età lavorativa, essi hanno contabilizzato soltanto il 4% dei complessivi introiti fiscali nazionali.
Guardando al futuro demografico che sia le agenzie governative che gli istituti di ricerca prevedono, questi numeri diventano ancora più preoccupanti. Se i trend attuali persisteranno, entro il 2048 gli Haredi costituiranno circa un quarto della popolazione ebraica in età lavorativa, ma contribuiranno soltanto all’8% dei complessivi introiti fiscali diretti. Questo significa che tra circa 23 anni, una popolazione che rappresenterà il 25% della forza lavoro contribuirà solo per il 8% agli introiti fiscali totali, generando uno squilibrio economico crescente e insostenibile.
Dettaglio per genere e categoria di reddito
L’analisi dei dati fiscali disaggregati per genere fornisce ulteriore comprensione della dinamica economica della comunità Haredi. Complessivamente, soltanto il 23% degli Haredi uomini e donne paga l’imposta sul reddito, una cifra straordinariamente bassa se comparata al 62% dei non-Haredi uomini e al 46% delle donne non-Haredi.
Concentrandosi sugli uomini Haredi, il quadro è ancora più drammatico: solo il 23% degli uomini Haredi complessivamente paga imposta sul reddito, contro il 62% degli uomini non-Haredi. Persino tra le donne Haredi impiegate (che nel complesso mostrano alti tassi di occupazione), solo il 28% di coloro che lavorano raggiunge la soglia minima di reddito per il pagamento dell’imposta sul reddito. Anche il 46% delle donne non-Haredi paga imposta sul reddito, più del doppio del tasso per le donne Haredi.
Un fattore chiave che spiega questi bassissimi tassi di contribuzione fiscale è il sistema di crediti fiscali familiari destinati ai nuclei con molti dipendenti. Poiché le famiglie Haredi hanno una media di 6 figli per donna (rispetto ai 2,3 dei non-Haredi), ricevono importanti crediti fiscali che riducono o azzerano l’imposta che dovrebbero pagare. In aggiunta, il 54% dei benefici sociali forniti dallo stato agli Haredi (sotto forma di sussidi per l’infanzia, sconto sui trasporti, sconti fiscali municipali, e contributi ridotti all’assicurazione nazionale) non sono contabilizzati come reddito ai fini fiscali, ulteriormente riducendo l’imponibile delle famiglie Haredi.
Scenario di integrazione economica totale della comunità Haredi
Per comprendere il potenziale economico di una più ampia integrazione della comunità Haredi nel mercato del lavoro, l’Israeli Democracy Institute ha condotto simulazioni che calcolano quale sarebbe l’impatto economico se gli Haredi partecipassero al lavoro con tassi identici ai non-Haredi. I risultati sono economicamente significativi.
Se la comunità Haredi integrata completamente nel mercato del lavoro con i medesimi tassi di occupazione, livelli di reddito e ambito lavorativo dei non-Haredi, l’economia israeliana guadagnerebbe NIS 9,5 miliardi (circa 2,6 miliardi di dollari USA) in introiti fiscali diretti supplementari nel 2025. Questo importo non è triviale—rappresenta circa il 4-5% del bilancio governativo annuale.
Ancora più significativo è il fatto che questa cifra è prevista lievitare a NIS 44,6 miliardi (circa 12,6 miliardi di dollari USA) entro il 2048, assumendo che la comunità Haredi raggiunga il 25% della popolazione in età lavorativa. Questo significherebbe che l’integrazione economica della comunità Haredi comporterebbe quasi quintuplicare gli introiti fiscali ottenuti dalla stessa nel corso di 23 anni.
Benefici pubblici ricevuti dalla comunità Haredi
Le donne Haredi sono quasi le uniche che lavorano e mantengono le famiglie
Contrariamente alle affermazioni dei leader Haredi che la loro comunità “non pesa” sulle finanze pubbliche, l’analisi dettagliata dei benefici governativi ricevuti rivela una situazione molto diversa. Secondo i dati del Knesset Research and Information Center, la comunità Haredi gode di una gamma ampia di vantaggi e sussidi governativi che includono tariffe ridotte sui trasporti pubblici, assistenza abitativa, e sconti sulle tasse municipali.
Un aspetto specifico riguarda il sistema di contributi ridotti all’Istituto Nazionale delle Assicurazioni Sociali (National Insurance Institute). A partire da gennaio 2024, circa il 71% di quasi 200.000 Haredi registrati presso istituzioni di Torah hanno versato contributi ridotti all’ente previdenziale nazionale, determinando una perdita annuale di NIS 99,1 milioni (circa 26 milioni di dollari USA) in entrate per l’agenzia di sicurezza sociale. Questo rappresenta un valore di denaro pubblico derivato dalla ridotta contribuzione di un segmento della popolazione, pagato implicitamente da coloro che pagano i contributi integrali.
Secondo l’analisi conservatrice del Kohelet Policy Forum (una fondazione di ricerca di orientamento conservatore), l’80% delle famiglie Haredi riceve dal governo più di quanto paghi in tasse, includendo sia le tasse dirette che quelle indirette. Nel dettaglio, le famiglie Haredi ricevono una media di oltre NIS 4.000 al mese dal governo (sotto forma di sussidi, benefici e servizi), mentre le famiglie non-Haredi versano complessivamente più di NIS 6.000 nel sistema (includendo le imposte sui redditi e le imposte indirette su beni e servizi).
La perdita economica dovuta al mancato arruolamento
Un elemento aggiuntivo del carico economico della comunità Haredi riguarda il costo della sua non-partecipazione al servizio militare. Secondo un’analisi interna del Ministero delle Finanze israeliano del 2024 (precedente ai più recenti dati di guerra), anche prima dell’attacco di Hamas del 7 ottobre 2023, la mancata partecipazione della comunità Haredi al servizio militare obbligatorio ha comportato un costo economico significativo all’economia di Israele.
La divisione bilancio del Ministero delle Finanze, citando stime dell’apparato difensivo, ha calcolato che “le attuali esigenze di sicurezza pongono un carico pesante” sui riservisti, determinando un fabbisogno di centinaia di migliaia di loro per servire fino a 60 giorni all’anno. Questo ammonta a un costo approssimativo di circa NIS 30 miliardi (8,2 miliardi di dollari USA) annualmente solo per il pagamento e il mantenimento dei riservisti in servizio aggiuntivo.
In aggiunta, secondo rapporti pubblicati da fonti palestinesi che citano fonti di difesa israeliane, il mancato arruolamento della comunità Haredi è costato all’economia israeliana circa 8,5 miliardi di shekel nella sola seconda metà del 2024, una cifra che probabilmente crescerà ulteriormente considerando la continuazione della guerra di Gaza nel 2025.
Il sistema educativo Haredi e il curriculum di base
Il sistema educativo Haredi rappresenta uno dei fattori cruciali che spiega sia la bassa partecipazione al mercato del lavoro che la resistenza all’integrazione sociale della comunità. Il sistema si caratterizza per un focus quasi esclusivo sullo studio della Torah e dei testi religiosi, a detrimento dello studio di discipline fondamentali necessarie per l’inserimento nel mercato del lavoro moderno e nella società israeliana generale.
Uno dei dati più significativi fornito dall’Israeli Democracy Institute riguarda la distribuzione dei ragazzi Haredi per tipo di scuola. Secondo l’analisi, l’85% dei ragazzi Haredi in età scolastica superiore (high school) studiano in istituzioni religiose completamente esentate dai requisiti del curriculum di base.
Questo significa che una quota preponderante della gioventù maschile Haredi riceve un’educazione concentrata interamente su testi e insegnamenti religiosi, senza una significativa esposizione alle discipline accademiche fondamentali come la matematica, le scienze naturali, l’inglese, e altri saperi critici.
La situazione per le ragazze Haredi è significativamente diversa, riflettendo le diverse norme di genere del judaismo ultra-ortodosso. Secondo i dati, quasi tutte le ragazze Haredi (la stragrande maggioranza) frequentano scuole semi-ufficiali che includono almeno il 75% di studi nel curriculum di base, il che significa una più ampia esposizione a discipline accademiche fondamentali.
Tuttavia, questo non automaticamente si traduce in opportunità lavorative superiori per le donne, poiché solo una minoranza di giovani donne Haredi prosegue verso studi superiori o programmi di formazione che conducono a impieghi ad alto reddito.
Il curriculum di base israeliano e le esenzioni Haredi
Il curriculum di base israeliano, ufficialmente richiesto da legge a tutte le istituzioni scolastiche riceventi finanziamenti pubblici, include un insieme di materie ritenute fondamentali per l’integrazione nella società e nel mercato del lavoro contemporaneo. Queste materie includono matematica, scienze naturali e fisiche, lingua inglese, letteratura ebraica moderna, storia israeliana e generale, geografia, educazione civica e civile, e altre discipline ritenute essenziali.
La realtà nelle scuole Haredi per ragazzi è che la stragrande maggioranza semplicemente non insegna queste materie fondamentali, concentrando l’intero curriculum sullo studio intensivo della Torah (i Cinque Libri) e successivamente del Talmud (commenti legali e discussioni rabbiniche). Il sistema è strutturato in modo che i giovani maschi Haredi vengono immediatamente avviati, già in tenera età, verso uno studio prettamente religioso, con l’idea che questa dedicazione rappresenti il loro contributo alla comunità e alla nazione.
Solo una minuscola percentuale di studenti Haredi frequenta scuole statali Haredi chiamate MaMaH (scuole pubbliche Haredi) che insegnano il curriculum di base completo. I dati suggeriscono che solo tra il 4% e il 7% degli studenti Haredi frequenta queste istituzioni. La stragrande maggioranza rimane nei sistemi scolastici religiosi privati o semi-privati che operano indipendentemente dagli standard educativi statali.
Anche dove il curriculum di base è nominalmente insegnato, la profondità e la qualità rimangono inadeguate. Analisi dettagliate hanno rivelato che nella stragrande maggioranza delle scuole Haredi non viene insegnato affatto l’inglese, una delle discipline ritenute più critiche per l’integrazione nel mercato del lavoro globale contemporaneo. Questo crea un divario educativo incolmabile per i giovani Haredi che desiderano eventualmente integrarsi nell’economia moderna.
L’evasione dei requisiti educativi e la risposta governativa inadeguata
Nonostante i chiara requisiti legali relativi al curriculum di base, le scuole Haredi hanno in gran parte euso o sistematicamente violato questi obblighi senza subire sanzioni significative. Nel 2024, è stato documentato che tra il 30% e il 40% delle scuole Haredi esentate dal Ministero dell’Istruzione non insegna affatto il curriculum di base. Nella stragrande maggioranza delle restanti scuole Haredi, il curriculum è insegnato in modo talmente superficiale da essere considerato ineffettivo.
Una questione particolarmente critica è che il Ministero dell’Istruzione israeliano ha mostrato una riluttanza quasi totale ad applicare sanzioni significative alle scuole Haredi che violano i requisiti educativi. Quando sanzioni vengono applicate, sono tipicamente minime e non raggiungono l’effetto deterrente necessario a indurre il cambiamento.
Un caso emblematico di questa mancanza di applicazione riguarda il 2024. Nonostante che scuole Haredi ricevessero finanziamenti pubblici dal Ministero dell’Istruzione, si è scoperto che molte di queste istituzioni non stavano rispettando affatto i requisiti del curriculum di base a cui erano teoricamente soggette. Particolarmente scioccante è il dato che il Ministero dell’Istruzione ha versato circa 72 milioni di shekel in fondi pubblici nel 2024 a istituzioni educative Haredi che non stavano insegnando il curriculum di base richiesto. Questo rappresenta un uso inappropriato di fondi pubblici, poiché denaro destinato all’educazione viene erogato senza che le condizioni specifiche di insegnamento del curriculum siano soddisfatte.
Conseguenze educative a lungo termine
Le conseguenze di questo deficit educativo sistematico sono significative e durature. La comunità Haredi produce quindi generazioni di giovani uomini con un livello di educazione generale e di alfabetizzazione funzionale al mercato del lavoro significativamente inferiore a quello della popolazione israeliana generale. Questo crea un circolo vizioso: senza accesso a un’educazione che insegni capacità di base e lingue straniere, i giovani Haredi trovano estremamente difficile integrarsi nel mercato del lavoro contemporaneo, il che a sua volta perpetua la dipendenza da sussidi governativi e finanziamenti alle yeshivot.
Inoltre, l’insufficiente educazione di base crea disuguaglianze significative all’interno della comunità Haredi stessa, poiché coloro che riescono a ricevere un’educazione più moderna (spesso le donne e coloro che frequentano le scuole MaMaH) hanno opportunità lavorative nettamente superiori a quella della maggioranza dei loro coetanei Haredi maschi.
I partiti ultra-ortodossi nella Knesset e l’importanza della loro rappresentanza
La comunità Haredi in Israele non è una realtà puramente sociale o economica, ma costituisce inoltre un potere politico considerevole all’interno del sistema istituzionale israeliano. Questo potere si concentra in due partiti politici che rappresentano esclusivamente gli interessi della comunità ultra-ortodossa e godono di un supporto quasi universale tra gli Haredi stessi.
I due partiti ultra-ortodossi controllano complessivamente 18 seggi nella Knesset (il parlamento israeliano di 120 seggi totali). Il primo e più grande è Shas, che rappresenta tradizionalmente gli Haredi di origine sefardita (proveniente dal Medio Oriente e dai paesi musulmani) e dalle comunità orientali di Israele, controllando circa 11 seggi. Il secondo è Yahadut HaTorah (Unione della Torah), anche conosciuto come United Torah Judaism, che rappresenta gli Haredi di origine ashkenazita (proveniente dall’Europa centrale e orientale), controllando circa 7 seggi. Insieme, questi due partiti rappresentano una coalizione intrinseca dell’interesse Haredi all’interno della Knesset.
La dipendenza di Netanyahu dai partiti ultra-ortodossi
Il governo di Benjamin Netanyahu, che continua dal 2022 con la formazione dell’attuale coalizione (la 37ª governo di Israele), dipende criticamente dal supporto e dalla partecipazione dei partiti Haredi per mantenere una maggioranza governativa. Per governare con stabilità all’interno della Knesset, un governo israeliano deve controllare un minimo di 61 seggi su 120.
La composizione della coalizione Netanyahu nel 2024-2025 include il Likud (il partito di Netanyahu stesso), i partiti Haredi (Shas e Yahadut HaTorah), e alcuni partiti di destra nazionalista. Senza il supporto dei 18 seggi Haredi, Netanyahu non avrebbe i numeri parlamentari per governare. Ciò conferisce ai leader Haredi un potere negoziale straordinario, permettendo loro di estrarre concessioni significative per la loro comunità e di bloccare iniziative legislative che la comunità ritiene ostili ai loro interessi.
La crisi del 2024-2025 e il ritiro formale dalla coalizione
Nel 2024, quando la Corte Suprema ha risolto che gli Haredi devono essere arruolati, i partiti Haredi si sono trovati di fronte a un dilemma politico acuto. Da un lato, i loro costituenti e la leadership religiosa hanno esigenze ben definite sulla questione dell’arruolamento. Dall’altro lato, l’abbandono della coalizione avrebbe significato l’assenza dal governo e una perdita di influenza sulle decisioni che riguardano la comunità.
Il compromesso politico adottato è stato una mossa tattica: i partiti Haredi hanno formalmente abbandonato il governo nell’estate del 2024, come atto simbolico di protesta contro le politiche di arruolamento e per rispondere alle pressioni dei propri costituenti. Tuttavia, simultaneamente, hanno continuato a votare spesso con la coalizione su questioni chiave, mantenendo così una forma di influenza indiretta. Questo ha permesso ai leader Haredi di affermare ai loro seguaci religiosi che avevano preso una posizione ferma sull’arruolamento, mentre allo stesso tempo mantenevano il loro potere politico nella pratica.
Le implicazioni della crisi governativa
Nel corso del 2025, la questione dell’arruolamento Haredi ha rappresentato la maggiore minaccia alla stabilità del governo Netanyahu. La leadership Haredi ha minacciato ripetutamente di ritirare il supporto totale e definitivo da parte della coalizione se non venisse approvata una legge che garantisca l’esenzione permanente dal servizio militare per gli studenti delle yeshivot. Questi non erano bluff vuoti, ma affermazioni serie basate sul fatto che la comunità religiosa vede la questione del servizio militare come profondamente incompatibile con la pratica del judaismo ultra-ortodosso.
I sondaggi di opinione pubblica del 2025 hanno rivelato lo squilibrio che potrebbe risultare da elezioni anticipate. Nel caso di nuove elezioni, secondo i sondaggi più recenti, l’attuale coalizione di Netanyahu avrebbe soltanto circa 48 seggi, mentre l’opposizione raggiungerebbe circa 61 seggi, con un ulteriore blocco di 11 seggi rappresentati dai partiti arabi israeliani che quasi universalmente si oppongono al governo Netanyahu. Questo significherebbe non solo la fine del governo Netanyahu, ma potenzialmente una coalizione governativa completamente diversa, potenzialmente progressista.
Si prevede inoltre che Netanyahu potrebbe essere costretto ad indire elezioni anticipate nei prossimi mesi se la situazione non si risolve attraverso una qualche forma di compromesso o accordo. Tuttavia, qualsiasi compromesso legislativo che miri a fornire un’esenzione permanente per gli Haredi incontrerebbe una massiccia resistenza dai riservisti militari dell’IDF e dalla popolazione israeliana generale, come evidenziato dalle manifestazioni e dall’opinione pubblica.
Il contesto dei decenni di tensioni
La questione dell’arruolamento Haredi ha già causato diverse crisi governative significative negli ultimi decenni di storia israeliana, indicando come questo tema sia radicato nel conflitto strutturale tra il sistema di valori democratico e laico dello stato di Israele da una parte, e gli imperativi religiosi e comunitari della popolazione ultra-ortodossa dall’altra.
La questione risale agli stessi albori dello stato di Israele nel 1948, quando il primo Primo Ministro David Ben-Gurion negoziò informalmente quella che è diventata nota come la “Esenzione Haredi Originale”, che permetteva un numero limitato di studenti religiosi di evitare il servizio militare. Nel corso dei decenni, questa pratica è cresciuta significativamente, tanto che per buona parte degli anni ’90 e 2000, la stragrande maggioranza dei giovani Haredi evitava completamente il servizio militare.
La frustrazione dei riservisti dell’IDF
Una delle conseguenze più significative della lunga esenzione della comunità Haredi dal servizio militare è stata la crescente frustrazione e risentimento tra i cittadini israeliani che servono nell’IDF, specialmente i riservisti che sono stati chiamati più volte in servizio durante crisi e guerre successive.
Questa frustrazione si è intensificata particolarmente durante la guerra di Gaza che ha avuto inizio nell’ottobre 2023, durante la quale decine di migliaia di riservisti israeliani sono stati mobilitati ripetutamente.
Molti riservisti hanno espresso pubblicamente il loro senso di ingiustizia nel fatto che essi e i loro compagni soldati erano richiesti di combattere in prima linea, subire perdite significative e sacrificare anni della loro vita per proteggere il paese, mentre la comunità Haredi, che costituisce un’ampia porzione della popolazione giovane, rimaneva completamente esonerata da qualsiasi contributo militare.
Questo risentimento è stato particolarmente acuto poiché i riservisti vedevano chiaramente le perdite terribili della guerra di Gaza (migliaia di morti e feriti tra le file militari israeliane) mentre la comunità Haredi restava al sicuro dalle conseguenze di questa guerra.
La narrativa Haredi sulla contribuzione nazionale
Contrariamente al consenso della ricerca empirica e dell’analisi economica, la comunità Haredi e la sua leadership hanno sviluppato una narrazione alternativa sulla loro contribuzione al paese, affermando che la loro contribuzione è diversa ma uguale a quella dei cittadini che prestano servizio militare o lavorano.
Secondo questa narrazione, articolata ripetutamente da capi religiosi e politici Haredi, il loro contributo primario alla sicurezza nazionale consiste nello studio della Torah. Secondo questa prospettiva teologica, lo studio intensivo dei testi religiosi da parte della comunità ultra-ortodossa funge da protezione spirituale per l’intera nazione di Israele, fornendo un beneficio che è tanto reale e importante quanto la protezione militare fornita dall’IDF. Questa è una prospettiva basata su insegnamenti e credenze religiose profonde radicati nella tradizione mistica ebraica (Kabbalah e Chassidismo), dove lo studio della Torah è considerato un atto di tiqqun olam (“riparazione del mondo”).
Tuttavia, questa prospettiva non è ampiamente condivisa dalla società israeliana generale. Un 87% della comunità Haredi stessa, secondo sondaggi condotti dal giornale The Marker nel 2023, ritiene che il loro contributo economico sia uguale o superiore a quello di altri gruppi della popolazione. Questa affermazione contrasta nettamente con la realtà dei dati, dove, come discusso sopra, gli Haredi contribuiscono il 4% delle tasse pur rappresentando il 14% della popolazione.
Il supporto della popolazione generale per l’arruolamento Haredi
Al contrario della visione della comunità Haredi, la grande maggioranza della popolazione israeliana generale supporta l’arruolamento obbligatorio della comunità Haredi, considerando l’esenzione come profondamente ingiusta e insostenibile. Questo supporto non rappresenta una posizione di un particolare partito politico o demografico, ma piuttosto una posizione trasversale che unisce laici, religiosi nazionali, musulmani arabi, drusi e altri segmenti della popolazione.
I sondaggi ripetuti nel 2024 e 2025 hanno mostrato che tra il 70% e l’80% della popolazione israeliana generale supporta il principio che gli Haredi devono servire nell’IDF come tutti gli altri cittadini ebrei. Questo consenso largo è radicato nella convizione che il servizio militare rappresenti sia un dovere civico universale che un peso equamente distribuito, e che la nozione di “scusa religiosa permanente” dal servizio non sia più accettabile in una democrazia moderna e in tempo di guerra.
Implicazioni demografiche di lungo termine
La questione della comunità Haredi va ben oltre una semplice controversia politica temporanea. Come discusso nelle sezioni precedenti, le proiezioni demografiche indicano che la comunità Haredi crescerà da rappresentare il 14% della popolazione nel 2024 a potenzialmente il 22-32% della popolazione entro il 2065. Se questi trend persistono senza significativi cambiamenti, la comunità Haredi potrebbe effettivamente diventare il gruppo demografico dominante in Israele nel corso delle prossime quattro decadi.
Allo stesso tempo, la bassa partecipazione della comunità Haredi al mercato del lavoro e al servizio militare significa che Israele si troverà ad affrontare una situazione in cui una parte sempre più grande della popolazione non contribuisce in modo significativo alla sicurezza nazionale, all’economia nazionale, o al bilancio fiscale dello stato. Questo crea uno scenario potenzialmente insostenibile in cui il sistema economico e sociale del paese potrebbe essere minato nel corso dei decenni prossimi.
Il fallimento del sistema educativo Haredi nel fornire un’educazione di base adeguata ai giovani della comunità significa che intere generazioni di Haredi rimarranno intrappolate in una situazione di bassa mobilità economica e limitato accesso all’economia moderna. A meno che non vi sia un cambio sostanziale nelle politiche educative Haredi, questo perpetuerà la dipendenza dalla comunità da sussidi governativi e finanziamenti esterni per il loro sostentamento.
Inoltre, l’isolamento educativo dalla società generale (dato che i giovani Haredi non frequentano le stesse scuole, non studiano la storia nazionale israeliana, la geografia del paese, la letteratura contemporanea, o l’inglese) significa che rimangono culturalmente separati e alienati dalla società israeliana generale, rafforzando la coesione interna della comunità ma riducendo la probabilità di integrazione futura.
Implicazioni sociali e di coesione nazionale
Infine, la situazione Haredi rappresenta una minaccia potenziale alla coesione sociale di Israele nel lungo termine. Se continuerà a persistere una situazione in cui una quota sempre più grande della popolazione non partecipa al servizio militare, non contribuisce significativamente alle tasse, e è educat in isolamento dal resto della società, le divisioni sociali potrebbero approfondirsi drammaticamente. Questo potrebbe in ultima analisi minare i fondamenti stessi della democrazia israeliana e del contratto sociale su cui lo stato è fondato, dove tutti i cittadini si presume condividano responsabilità comuni verso la nazione e il bene pubblico collettivo.
La questione della comunità Haredi rappresenta quindi non solo una crisi politica immediata, ma una sfida esistenziale di lungo termine per Israele, con implicazioni demografiche, economiche, sociali, educative e di sicurezza che si intensificheranno drammaticamente nei prossimi decenni se non verrà trovata una soluzione sostenibile, equa e giuridicamente valida.
Il 18 febbraio 2025 è iniziato il peggior incidente della vita di molti zambiani con un fragore assordante. Il muro alto 9 metri che circondava una piscina di rifiuti tossici nella miniera di rame cinese sopra il suo villaggio è crollato, scatenando un fiume velenoso di liquido giallo e maleodorante che ha inondato case e campi nella provincia dello Zambia di Copperbelt. L’acqua, carica di cianuro e arsenico, arrivava fino al petto delle persone presenti, molti hanno temuto di annegare mentre cercavano di salvare il campo di mais che coltivavano per sfamare le loro famiglie.
Quello che è accaduto nei mesi successivi al collasso della diga di decantazione della Sino Metals, unità della China Nonferrous Mining Corporation di proprietà statale, ha rivelato un modello preoccupante di gestione della crisi che combina risarcimenti minimi, accordi di riservatezza e intimidazioni sistematiche.
Sei mesi dopo il disastro, i funzionari della Sino Metals si sono presentati alle fattorie circostanti con un’offerta di 150 dollari, a condizione che firmassero un accordo per non parlare mai più della fuoriuscita, non intraprendere azioni legali e nemmeno rivelare il contenuto dell’accordo stesso. Senza più nulla da coltivare in un terreno che il governo zambiano ha dichiarato troppo tossico per sostenere raccolti per almeno tre anni, molti hanno accettato.
Gli abitanti della zona colpita accettano il risarcimento di pochi dollari
Le dimensioni reali della catastrofe
L’ambasciata statunitense a Lusaka ha definito questo incidente il sesto peggior disastro mai verificatosi in una diga di decantazione mineraria in termini di volume. I fanghi tossici si sono riversati nel fiume Kafue, lasciando pesci morti lungo un tratto di 112 chilometri e avvelenando campi agricoli in un’area che fornisce acqua potabile a circa il 60% dei 20 milioni di abitanti dello Zambia. Il fiume Kafue, lungo oltre 1.500 chilometri, rappresenta la fonte d’acqua più importante del paese, utilizzata per la pesca, l’irrigazione agricola e le attività industriali.
Inizialmente Sino Metals ha dichiarato che solo 50.000 tonnellate di rifiuti avevano raggiunto il fiume. Tuttavia, dopo mesi di indagini, Drizit Environmental, un’azienda sudafricana incaricata dalla stessa Sino Metals di valutare i danni, ha concluso che 1,5 milioni di tonnellate di rifiuti tossici erano traboccati nella valle del Kafue, una quantità 30 volte superiore a quella dichiarata dall’azienda.
Il rapporto di Drizit ha rivelato livelli pericolosi di cianuro, arsenico, rame, zinco, piombo, cromo, cadmio e altri inquinanti che rappresentano gravi rischi per la salute a lungo termine, tra cui danni agli organi, difetti congeniti e cancro. Sino Metals ha rescisso il contratto con l’azienda sudafricana un giorno prima della scadenza del rapporto finale, citando generiche violazioni contrattuali senza fornire dettagli.
L’impatto immediato è stato devastante. Decine di studenti della Copperbelt University di Kitwe sono stati ricoverati in ospedale dopo aver bevuto acqua contaminata a febbraio e marzo, secondo un gruppo studentesco. L’università ha chiuso per due settimane a febbraio, citando il rischio che l’acqua contaminata rappresentava per gli studenti. La città di Kitwe, che ospita circa 700.000 persone, ha visto la fornitura d’acqua completamente sospesa. L’ambasciatore statunitense Michael Gonzales ha scritto che un’organizzazione che ha analizzato oltre 170 campioni di acqua e suolo ha riferito di non aver mai incontrato un’azienda che abbia dimostrato una tale mancanza di rimorso o responsabilità come Sino Metals.
La campagna di pressione e gli accordi capestro
La risposta della Sino Metals alla crisi ha sollevato serie preoccupazioni tra attivisti, avvocati e osservatori internazionali. L’azienda ha promesso di pagare un totale di 650.000 dollari a decine di migliaia di agricoltori e pescatori colpiti dalla fuoriuscita, con offerte per persona che variavano da 100 a 2.000 dollari. Per ricevere il pagamento, la popolazione locale doveva accettare di rinunciare al diritto di presentare richieste di risarcimento future, secondo gli accordi esaminati da vari media internazionali.
Ad agosto, funzionari minerari cinesi, accompagnati da funzionari del governo zambiano, sono andati porta a porta nel villaggio di Sabina, vicino a un affluente del fiume Kafue. Tra le persone visitate c’era Timmy Kabindela, 42 anni, la cui famiglia possiede quattro laghetti per pesci e orti di cavoli e mais su 50 acri di terreno. Prima della fuoriuscita, l’azienda di famiglia vendeva circa 900 dollari di pesce a settimana ai ristoranti della città di Chambishi. Kabindela ha scoperto decine di migliaia di tilapia morte che galleggiavano nei suoi stagni il giorno del disastro.
Settimane dopo si è recato negli uffici della Sino Metals, dove gli è stato promesso un risarcimento in contanti di 700 dollari, acqua potabile gratuita per tre mesi e diverse tonnellate di calce per neutralizzare l’acqua inquinata. Dopo aver appreso gli altri termini dell’accordo proposto, ha interrotto l’incontro e ha guidato per 240 miglia fino a Lusaka per consultare i suoi avvocati.
Il giorno dopo, i rappresentanti cinesi sono tornati, questa volta accompagnati dalla polizia, e hanno presentato il contratto alla madre ottantenne di Kabindela, che lo ha firmato. “Non aveva idea di cosa stesse firmando”, ha dichiarato Kabindela. “Sono determinato a combattere questi cinesi in tribunale. Sono degli imbroglioni”. Malisa Batakathi, uno degli avvocati che rappresentano le vittime, ha affermato che la maggior parte dei suoi clienti non sa leggere e non ha avuto l’opportunità o il tempo adeguato per chiedere una consulenza legale indipendente prima di firmare gli accordi di liberatoria. “La maggior parte di loro non conosceva le implicazioni di ciò che stava firmando”, ha dichiarato Batakathi.
Intimidazioni, sorveglianza e arresti
Funzionari comunali locali e gruppi ambientalisti hanno affermato che Sino Metals ha assunto un’unità di sicurezza che ha cercato di impedire alla popolazione locale di parlare con i media o con gli attivisti ambientalisti. A Kalusale, il villaggio vicino alla diga crollata, la polizia ha avvertito i residenti di non parlare con i giornalisti e di non condividere le foto dei danni, secondo quanto riferito dai residenti. Settimane prima, un drone aziendale aveva avvistato attivisti di gruppi ambientalisti che parlavano con i residenti, secondo due ex dipendenti della Sino Metals.
La polizia è intervenuta sul posto e ha arrestato diversi attivisti, tra cui la venticinquenne Sakani Sarah, accusata di disturbo della quiete pubblica. È stata trattenuta per la notte e ha pagato una multa di 10 dollari prima di essere rilasciata, secondo i documenti della polizia.
Con accordi capestro si poteva ricevere un risarcimento minimo
Gli attivisti hanno affermato che negli ultimi tre mesi la polizia ha arrestato più di una dozzina di attivisti e giornalisti nei pressi del sito minerario. Giornalisti, operatori di organizzazioni non profit e avvocati affermano che Sino Metals e la polizia locale li hanno sorvegliati o hanno impedito loro di visitare Kalusale, una delle comunità più colpite.
“Il livello di intimidazione e molestia è tale che noi della società civile non possiamo lavorare liberamente”, hanno dichiarato gli attivisti. Brigadier Siachitema, avvocato che rappresenta circa 200 individui colpiti, ha dichiarato che lui e i suoi colleghi sono stati ripetutamente impediti di visitare i propri clienti a Kalusale. “Anche ora, ci sono molti agenti di polizia della miniera sul campo”, ha affermato, riferendosi al personale di sicurezza privato dell’azienda.
Ponde Chulu, residente a Kalusale e parte civile nella causa intentata contro Sino Metals, ha dichiarato di essersi nascosto per evitare l’arresto. Chulu, 42 anni, ha affermato che sua moglie e i suoi sei figli sono stati ricoverati e dimessi dall’ospedale negli ultimi sei mesi a causa di eruzioni cutanee e mal di gola. “Sono già vittima dell’inquinamento”, ha detto. “Ma devo anche nascondermi per evitare la polizia”.
La battaglia legale
Kabindela e decine di altre persone si sono rivolte a un avvocato e hanno intentato una causa contro Sino Metal, chiedendo circa 200 milioni di dollari di risarcimento e di ripristino ambientale. Questa è solo una delle numerose azioni legali avviate contro l’azienda. Una lettera di richiesta di risarcimento presentata da Malisa & Partners Legal Practitioners ha chiesto 220 milioni di dollari come compensazione provvisoria per trasferire 47 famiglie che vivono vicino al sito della fuoriuscita, oltre a fondi per test medici, trattamenti e ripristino dei mezzi di sussistenza. La stessa lettera ha richiesto 9,7 miliardi di dollari per un fondo di riabilitazione delle vittime e dell’ambiente, destinato a sostenere la bonifica e l’assistenza sanitaria a lungo termine.
Una seconda richiesta presentata da Malambo & Co. ha chiesto 200 milioni di dollari per istituire un fondo di emergenza per i propri clienti. Una terza causa, presentata a nome di quasi 200 agricoltori, chiede 80 miliardi di dollari da collocare in un conto vincolato come garanzia per il ripristino ambientale e il pieno risarcimento, oltre a pagamenti mensili di rilocalizzazione di 8.000 kwacha zambiani (344 dollari). Se accolte, queste richieste rappresenterebbero i danni più significativi mai assegnati contro una società mineraria per danni ambientali, non solo in Africa ma a livello globale.
Il 12 settembre 2025, 176 residenti di Kalusale e Chambishi hanno avviato un caso storico presso l’Alta Corte dello Zambia contro Sino Metals Leach Zambia Limited e NFC Africa Mining Limited, con il supporto del Southern Africa Litigation Centre. La petizione cerca responsabilità per uno dei peggiori disastri ambientali dello Zambia e sostiene che le aziende hanno violato i diritti costituzionali alla vita, alla dignità, alla proprietà, a un ambiente sano e all’accesso alla giustizia. In una dichiarazione rilasciata il mese scorso, China Nonferrous Mining, la società madre di Sino, ha affermato che avrebbe contestato la causa, definendo la richiesta “chiaramente infondata”.
Il dilemma dello Zambia tra Cina e ambiente
Il governo e l’economia dello Zambia sono diventati profondamente dipendenti dalla Cina. Lo Zambia riscuote circa 2 miliardi di dollari all’anno in tasse minerarie, principalmente dalle compagnie minerarie cinesi. Metà del rame estratto in Zambia, in gran parte da aziende cinesi, viene esportato in Cina. L’anno scorso, il governo zambiano ha annunciato che i cinesi avrebbero investito 5 miliardi di dollari nel paese entro il 2031. Il presidente zambiano Hakainde Hichilema, che si candida per la rielezione l’anno prossimo, sta cercando di negoziare una riduzione dei 6 miliardi di dollari di debiti con la Cina.
Questo rende difficile per il governo esercitare pressioni eccessive su Sino Metals. “L’amministrazione Hichilema si trova in una situazione difficile. L’impressione che l’amministrazione Hichilema si stia inchinando agli interessi stranieri offre all’opposizione un terreno fertile in un momento in cui ha bisogno di riconquistare la supremazia e lanciare una sfida seria”.
Il coinvolgimento profondo della Cina in Zambia ha talvolta reso tese le relazioni tra i due paesi. I leader sindacali zambiani hanno affermato che i dirigenti cinesi pagano poco e maltrattano i lavoratori. Vent’anni fa, un’esplosione nella stessa miniera di rame dove si è verificata la fuoriuscita di quest’anno ha ucciso 46 minatori. Negli ultimi mesi, le autorità dello Zambia hanno chiuso, almeno temporaneamente, due miniere cinesi più piccole dopo aver riscontrato delle perdite nelle loro dighe di scarico.
Il Ministero delle Miniere dello Zambia ha affermato che i risarcimenti alle aziende sono un primo passo, mentre il governo studia l’intera entità dei danni. L’entità definitiva del risarcimento e l’entità della bonifica saranno determinati da una valutazione indipendente, ha affermato il Ministero. Tuttavia, mentre il governo parla di valutazioni indipendenti, le ruspe della Sino Metals hanno spianato la terra e rimosso i detriti secchi dalle rive dei fiumi e dai giardini, operazioni che potrebbero rendere più difficile un’indagine di questo tipo. Accanto alla diga crollata, un altro muro di terra è in costruzione in preparazione della ripresa delle attività minerarie, secondo quanto riportato da funzionari governativi.
“I cinesi stanno solo mettendo in scena uno spettacolo”, ha detto Samuel Sekanya, consigliere locale di Chambishi, il comune in cui ha sede la miniera. “Stanno ingannando la gente, costringendola a firmare documenti che non capiscono. Non gli importa della difficile situazione delle vittime”. In una dichiarazione scritta di settembre, China Nonferrous Mining ha attribuito il cedimento della diga alle forti piogge e agli atti vandalici da parte della popolazione locale, che hanno danneggiato la membrana protettiva della vasca contenente gli scarti della miniera.
L’azienda ha affermato che le sue offerte di risarcimento agli agricoltori si basano su una valutazione del governo zambiano e che ha adottato sufficienti misure di ripristino, compresi gli interventi di ripristino nelle aree colpite dalla fuoriuscita. “L’incidente non ha causato alcun impatto significativo sull’ambiente circostante o sulla comunità“, ha affermato China Nonferrous Mining.
Una dichiarazione che contrasta drammaticamente con la realtà vissuta da migliaia di zambiani nella provincia di Copperbelt, dove un fiume è “morto” nel giro di una notte e dove famiglie come quella di Bathsheba Musole continuano a lottare per sopravvivere su terre avvelenate, costrette al silenzio da accordi di riservatezza firmati in cambio di pochi dollari.
Chi è la Sino Metals
Nome completo: Sino-Metals Leach Zambia Limited (abbreviato: Sino Metals) Tipo di società: Sussidiaria di impresa statale cinese Sede operativa: Kalulushi/Chambishi, Provincia del Copperbelt, Zambia Anno di costituzione: 2004 Settore: Estrazione e lavorazione del rame tramite idrometallurgia
Struttura proprietaria
Sino Metals è controllata da China Nonferrous Metal Mining (Group) Co., Ltd. (CNMC), con la seguente struttura azionaria:
CNMC (China Nonferrous Metal Mining Group): 55%
Hong Kong Zhongfei Mining Investment: 30%
NFC Africa Mining: 15%
CNMC, la società madre, è una grande impresa centrale di proprietà statale cinese, gestita direttamente dalla State-owned Assets Supervision and Administration Commission (SASAC) del Consiglio di Stato cinese, l’organo esecutivo più alto della Repubblica Popolare Cinese. Questo significa che Sino Metals ha collegamenti diretti con il governo di Pechino.
CNMC è quotata alla Borsa di Hong Kong con il ticker 1258.HK. Al settembre 2025, China Nonferrous Metal Mining Group controlla il 66,6% delle azioni di CNMC, mentre il 23,9% è detenuto dal pubblico e il 9,5% da investitori istituzionali.
Dati finanziari della casa madre (CNMC)
Ricavi 2024: 3,817 miliardi di dollari (+5,8% rispetto al 2023)
Profitto netto 2024: 558 milioni di dollari (+46,2% rispetto al 2023)
Capitalizzazione di mercato (ottobre 2025): Circa 1,6 miliardi di dollari
Produzione complessiva di rame CNMC (2024): 524.000 tonnellate
Nel primo semestre del 2025, CNMC ha registrato un utile netto di 371,3 milioni di dollari, in aumento del 22,5%, nonostante un calo dei ricavi, grazie al miglioramento dell’efficienza operativa e all’aumento dei prezzi internazionali del rame
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