01 Luglio 2025
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Stati Uniti e Cina, nuovi accordi sui dazi

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In una svolta attesa dai mercati globali, Stati Uniti e Cina hanno raggiunto un accordo temporaneo per ridurre reciprocamente le tariffe doganali, alleggerendo una guerra commerciale che durava da sette anni e minacciava di innescare una recessione mondiale. L’intesa, definita “storica” dal Segretario al Tesoro americano Scott Bessent, prevede un taglio immediato dei dazi del 115% su entrambi i fronti, con effetti a partire da mercoledì 14 maggio.

I numeri dell’accordo

Secondo i dettagli resi noti a Ginevra, dove i negoziatori si sono incontrati per due giorni, Washington abbatterà le tariffe aggiuntive imposte ad aprile 2025 dal 145% al 30% su beni cinesi per un valore di 200 miliardi di dollari, mantenendo un dazio base del 10% ereditato da precedenti amministrazioni. Pechino, dal canto suo, ridurrà i propri dazi dal 125% al 10% su prodotti statunitensi equivalenti, incluso grano, carne bovina e componenti elettronici. La tregua durerà 90 giorni, durante i quali le parti valuteranno l’impatto economico e negozieranno ulteriori alleggerimenti.

Abbiamo rappresentato entrambi i nostri interessi nazionali con successo”, ha dichiarato Bessent nel briefing congiunto con il rappresentante commerciale Jamieson Greer. “Nessuno dei due Paesi vuole un disaccoppiamento: i dazi elevati equivalgono a un embargo, e non è questa la direzione”. Il segretario ha inoltre annunciato l’istituzione di un forum permanente di consultazione, con incontri bisettimanali alternati tra USA, Cina e Paesi terzi come Singapore, per gestire le dispute commerciali.

La notizia ha scatenato un’ondata di ottimismo sui mercati finanziari. Il dollaro si è rafforzato dello 0,8% contro lo yen e l’euro, mentre i futures sull’indice S&P 500 sono saliti dell’1,4%, trascinati dai titoli tech e industriali. In Europa, le azioni di Maersk sono schizzate del 12%, dopo che la compagnia danese aveva lamentato un crollo del 40% nei volumi di container transatlantici a causa della guerra commerciale5. Anche i colossi del lusso LVMH e Kering hanno registrato rialzi superiori al 6%, specchio delle aspettative su una ripresa degli acquisti cinesi.

“Il risultato supera le attese: prevedevo un taglio al 50%”, ha commentato Zhiwei Zhang, capoeconomista di Pinpoint Asset Management a Hong Kong. “Ora gli investitori temono meno le interruzioni delle catene di approvvigionamento, almeno nel breve termine”. Tuttavia, gli analisti avvertono che le tariffe residue del 10% continueranno a gravare su settori strategici come semiconduttori, acciaio e farmaci, con un deficit commerciale USA-Cina ancora fermo a 295 miliardi di dollari.

Il retroscena: dal “Liberation Day” alla tregua lampo

L’accordo arriva dopo mesi di escalation culminati lo scorso aprile con il cosiddetto “Liberation Day”, quando il presidente Donald Trump aveva imposto dazi del 145% sul 60% delle importazioni cinesi, definendolo “un regalo agli operai americani”. Una mossa che aveva spinto Pechino a bloccare le esportazioni di terre rare essenziali per l’industria bellica statunitense e ad alzare al 125% i dazi su 300 prodotti USA, dal grano del Midwest ai Boeing.

Secondo fonti vicine ai negoziati, la svolta è maturata grazie alla mediazione informale della Svizzera, che ha ospitato gli incontri nella residenza privata dell’ambasciatore elvetico all’ONU, affacciata sul lago di Ginevra. “Il setting ha favorito un dialogo costruttivo”, ha riconosciuto Bessent, sottolineando il tono “amichevole ma fermo” dei colloqui.

Le ombre sul futuro: dal fentanyl alla competizione tecnologica

Nonostante i progressi, restano nodi irrisolti. Il rappresentante commerciale Greer ha confermato che le trattative sul contrasto al traffico di fentanyl, una delle giustificazioni iniziali di Trump per i dazi, proseguiranno su un binario separato, senza garanzie immediate. Intanto, Pechino ha già avvertito: “Se non ci saranno ulteriori progressi entro agosto, le tariffe torneranno ai livelli precedenti”.

C’è poi la questione della guerra tecnologica. L’accordo non menziona le restrizioni USA sulle esportazioni di chip avanzati verso la Cina, né i sussidi cinesi alle aziende di energia rinnovabile, considerati “pratiche sleali” da Washington. “Questa è una tregua, non una pace”, sintetizza Rebecca Strauss del Council on Foreign Relations. “Il conflitto strategico resta intatto, e con esso i rischi di nuove escalation”.

Prossimi appuntamenti: luglio 2025 come banco di prova

I negoziatori si incontreranno di nuovo entro fine luglio per valutare l’efficacia dell’accordo. Nel frattempo, l’attenzione si sposta sul voto di midterm statunitense di novembre, dove Trump punta a capitalizzare il successo della tregua per riconquistare il Congresso. Ma per milioni di imprese e lavoratori colpiti dai dazi, il vero test arriverà il 14 agosto, quando scadrà la finestra dei 90 giorni. In caso di fallimento, le tariffe torneranno ai massimi storici, riaccendendo lo spettro della recessione globale.

Trump appoggia Putin, creando attriti con gli alleati europei


Il presidente statunitense Donald Trump ha sostenuto l’invito del leader russo Vladimir Putin a intavolare trattative dirette con l’Ucraina in Turchia, contraddicendo di fatto l’impegno assunto appena 24 ore prima con i partner europei. La mossa rischia di minare la coesione occidentale sulla crisi in corso, mentre Mosca continua a rifiutare un cessate il fuoco immediato.

Poco prima, i leader di Gran Bretagna, Francia, Germania e Polonia si erano riuniti a Kyiv con il presidente ucraino Volodymyr Zelensky, concordando sulla necessità di chiedere alla Russia un cessazione delle ostilità di 30 giorni a partire da lunedì 12 maggio, pena l’inasprimento delle sanzioni. Trump aveva inizialmente appoggiato la posizione europea, definita “un segnale di unità”.

Tuttavia, domenica pomeriggio, in un post su Truth Social, il presidente Usa ha cambiato rotta: “Putin vuole parlare, Zelensky dovrebbe accettare subito. Pensate alle vite salvate!”. Poche ore dopo, Putin ha ribadito la disponibilità a incontrare il collega ucraino “senza precondizioni” a Istanbul giovedì 15 maggio.

Zelensky ha reagito con cautela: “Aspettiamo ancora il cessate il fuoco da lunedì, ma se Putin viene in Turchia, ci sarò”, ha scritto su X, sottolineando che Kyiv non rinuncia alla richiesta di una tregua preliminare. Fonti della presidenza ucraina hanno espresso scetticismo sulle reali intenzioni del Cremlino, ricordando che Mosca insiste nel voler includere nei negoziati le annessioni territoriali del 2022.

L’Europa ha reagito con freddezza alla svolta di Trump. Il portavoce dell’Eliseo ha definito “incoerente” la posizione americana, mentre Berlino ha ribadito che “senza cessate il fuoco, qualsiasi trattativa è prematura”. Intanto, nella notte tra domenica e lunedì, i bombardamenti russi hanno colpito un treno merci a Donetsk, ferendo il macchinista, mentre Kyiv denuncia “attacchi con droni su infrastrutture civili”.

La prossima settimana si preannuncia cruciale: Zelensky attenderà Putin a Istanbul giovedì, ma l’Ucraina ha già avvertito che abbandonerà i colloqui se Mosca violerà la tregua eventualmente concordata.

India e Pakistan sull’orlo del baratro: la notte in cui il Kashmir tremò

La notte tra il 6 e il 7 maggio 2025 ha segnato un punto di non ritorno nello storico conflitto tra India e Pakistan. Quello che è iniziato come uno scontro aereo nei cieli del Kashmir si è rapidamente trasformato in una crisi internazionale, riaccendendo paure sopite da decenni in una regione dove due potenze nucleari continuano a fronteggiarsi. Alle 23:47, i radar delle forze aeree di entrambi i paesi hanno iniziato a riempirsi di punti luminosi: 112 caccia, tra indiani e pakistani, si sono affrontati in un duello tecnologico durato oltre quattro ore, il più ampio dai tempi della Seconda Guerra Mondiale. Un evento che ha messo in luce non solo le capacità militari delle due nazioni, ma anche la fragilità di un equilibrio geopolitico sempre più precario.

Dalle montagne del Kashmir alla soglia dell’abisso

Tutto ha avuto inizio con l’attentato di Pahalgam, il 22 aprile, quando un commando armato ha ucciso 26 turisti, tra cui 14 cittadini cinesi. L’India ha puntato immediatamente il dito contro il Pakistan, accusandolo di fornire supporto logistico al gruppo Jaish-e-Mohammed, mentre Islamabad ha respinto le accuse definendole “una montatura per giustificare aggressioni future”. La tensione è salita alle stelle il 6 maggio, quando Nuova Delhi ha lanciato l’operazione “Sindoor”, un raid aereo contro presunti campi terroristici nella città pakistana di Kotli. Fonti indiane parlano di decine di miliziani neutralizzati, ma immagini satellitari diffuse da un drone turco hanno mostrato invece vittime civili, fornendo al Pakistan il pretesto per una risposta militare.

Quella che sarebbe potuta rimanere una scaramuccia di confine si è trasformata in uno scontro epocale grazie all’impiego di tecnologia avanzata. I caccia pakistani J-10C, di fabbricazione cinese, hanno ingaggiato i Rafale indiani a distanze superiori ai 150 chilometri, utilizzando missili PL-15 lanciati oltre la linea dell’orizzonte. Dal lato indiano, droni esca SWITCH hanno creato falsi bersagli, permettendo ai piloti di avvicinarsi abbastanza da lanciare i temibili meteor missile. Tra le nuvole del Kashmir, si è combattuta una partita a scacchi fatta di radar, algoritmi e segnali elettronici, dove ogni mossa poteva significare la distruzione di un aereo da 80 milioni di dollari.

Nelle ore successive allo scontro, il Pakistan ha rivendicato l’abbattimento di cinque caccia indiani, tra cui tre Rafale, mostrando video a infrarossi che ritraevano esplosioni in volo. Tuttavia, analisti indipendenti hanno notato incongruenze: due dei filmati diffusi dall’esercito pakistano corrispondevano a immagini di esercitazioni militari del 2023. L’India, da parte sua, ha mantenuto un silenzio ufficiale, limitandosi a pubblicare foto satellitari di un J-10C in fiamme vicino alla base di Skardu. L’unica certezza viene dai frammenti di un Rafale pakistano, identificato dal numero di serie PK-RA78, recuperati da una squadra francese sotto l’egida delle Nazioni Unite.

La propaganda ha giocato un ruolo cruciale nel alimentare la crisi. Sui social media pakistani, hashtag come #SteelWall e #InvincibleArmy hanno dominato le tendenze, mentre in India i media hanno esaltato la “supremazia tecnologica” dei Rafale. Dietro questa cortina fumogena, però, i militari di entrambi gli schieramenti si preparavano al passo successivo. Già nella mattinata del 10 maggio, razzi guidati indiani hanno colpito postazioni pakistane a Bhimber, uccidendo cinque soldati. La risposta è arrivata poche ore dopo con uno sciame di droni kamikaze che hanno sfondato le difese antiaeree di Jammu, dimostrando come la escalation stesse ormai seguendo una logica implacabile.

Gli spettatori invisibili

In questo pericoloso balletto, la Cina rappresenta l’elefante nella stanza. Pechino, principale fornitore di armi al Pakistan, ha mantenuto un silenzio calcolato, limitandosi a dichiarazioni generiche sulla “necessità di moderazione”. Eppure, secondo rapporti del Center for Strategic and International Studies, sette piloti cinesi in congedo temporaneo erano ai comandi dei J-10C durante lo scontro. Non solo: 48 ore prima dell’attacco, un cargo Y-20 dell’aeronautica cinese aveva consegnato a Rawalpindi una partita di lanciatori missilistici HQ-9B. Sul web cinese, intanto, l’entusiasmo popolare per le presunte vittorie pakistane ha raggiunto picchi inediti, con milioni di utenti che celebravano l’alleato come un baluardo contro l’“espansionismo indiano”.

L’Occidente, dal canto suo, appare diviso e incerto. Gli Stati Uniti hanno tentato di mediare, ma la proposta del Segretario alla Difesa Lloyd Austin si è scontrata con l’opposizione del Congresso, che chiede sanzioni contro il Pakistan per i suoi legami con i talebani afghani. In Europa, la Francia ha bloccato la consegna di otto Rafale all’India, temendo che possano essere utilizzati in operazioni offensive, mentre Germania e Italia hanno lanciato un piano di pace immediatamente boicottato da paesi come Polonia e Ungheria.

L’incubo nucleare

Quello che tiene svegli gli analisti militari, però, non sono i droni o i caccia di ultima generazione, ma i fantasmi del 1945. India e Pakistan possiedono complessivamente oltre 300 testate nucleari, con missili in grado di colpire le rispettive capitali in meno di dieci minuti. Il generale pakistano Pervez Musharraf, in un’intervista esclusiva, ha ricordato come già nel 2002 esistesse un piano per l’uso tattico di armi atomiche contro formazioni corazzate. “Quel piano – ha avvertito – non è mai stato cestinato. È lì, in qualche cassaforte, e potrebbe diventare realtà in poche ore”.

Mentre scriviamo, otto satelliti spia sorvolano il Kashmir, inviando dati in tempo reale a Washington, Mosca e Tel Aviv. Nei bunker di Nuova Delhi e Islamabad, leader politici e militari studiano mappe operative, consapevoli che ogni decisione potrebbe innescare una catena irreversibile. Il mondo trattiene il fiato, ricordando che in questa parte d’Asia, più che altrove, la differenza tra un incidente e un olocausto dipende dalla freddezza di un uomo davanti a uno schermo radar.

Vertice a Kiev: i leader europei chiedono a Putin una tregua di 30 giorni

In una dimostrazione di unità senza precedenti, i leader di Francia, Germania, Regno Unito e Polonia si sono recati sabato a Kiev per incontrare il presidente ucraino Volodymyr Zelensky, a poche ore dalla parata della Vittoria organizzata da Vladimir Putin a Mosca.

L’obiettivo: sostenere l’Ucraina e rilanciare la proposta, condivisa con gli Stati Uniti, di un cessate il fuoco totale e incondizionato di 30 giorni, preludio a negoziati di pace “giusta e duratura”. All’arrivo del treno speciale, ribattezzato “Bravery Express”, i leader – Emmanuel Macron, Friedrich Merz, Keir Starmer e Donald Tusk – sono stati accolti da un messaggio di benvenuto e hanno reso omaggio ai caduti ucraini in un memoriale nel centro della capitale.

“Insieme agli Stati Uniti chiediamo alla Russia di concordare un cessate il fuoco completo e incondizionato di 30 giorni”, hanno dichiarato in una nota congiunta, sottolineando che, in caso di rifiuto da parte di Mosca, sono pronte nuove sanzioni coordinate tra Europa e Stati Uniti.La visita si svolge in un contesto diplomatico estremamente incerto, con la guerra che prosegue da oltre tre anni. Il presidente americano Donald Trump, che ha invertito molte delle politiche del suo predecessore, spinge per una rapida soluzione negoziale e ha ribadito la necessità di una tregua immediata, minacciando sanzioni ancora più dure contro la Russia in caso di mancati progressi.

Il Cremlino, dal canto suo, si è detto disposto a valutare la proposta ma ha posto come condizione la cessazione degli aiuti militari occidentali a Kiev. “Altrimenti sarebbe solo un vantaggio per l’Ucraina”, ha dichiarato il portavoce Dmitry Peskov. Zelensky ha ribadito che l’Ucraina è pronta ad accettare la tregua e ha illustrato un piano d’azione in quattro punti, che prevede tra l’altro il rafforzamento delle difese ucraine e l’inasprimento delle sanzioni in caso di diniego russo. Parallelamente, i leader europei hanno espresso sostegno alla creazione di un tribunale speciale per perseguire i crimini di aggressione commessi dalla leadership russa, mentre la presidente della Commissione Europea Ursula von der Leyen ha ribadito la necessità di mantenere alta la pressione su Mosca.

La missione a Kiev arriva all’indomani della parata del 9 maggio a Mosca, dove Putin ha accolto il presidente cinese Xi Jinping e altri alleati, in un chiaro messaggio di sfida alle percezioni di isolamento internazionale della Russia. Zelensky ha definito l’evento “una parata di bile e menzogne”, mentre sul terreno, nonostante la dichiarazione di tregua russa dall’8 al 10 maggio, i combattimenti sono proseguiti senza sosta secondo testimonianze raccolte vicino al fronte.

Il vertice di Kiev rappresenta dunque un nuovo tentativo occidentale di imprimere una svolta al conflitto, facendo leva su una pressione diplomatica e sanzionatoria coordinata, in attesa di una risposta definitiva da Mosca.

Vicepresidente Vicario del CONI e Sindaco Metropolitano a confronto

Nel dibattito politico genovese si è recentemente inserita una riflessione interessante, nata da una dichiarazione della candidata sindaca del centrosinistra Silvia Salis: “Sono stata vicepresidente vicario del CONI, quindi so come si gestisce la politica e gli enti, e ora metterò la mia esperienza al servizio della città di Genova”. Una frase che merita attenzione.

In che modo, infatti, l’esperienza maturata all’interno del Comitato Olimpico Nazionale Italiano può preparare una figura politica alla guida di una città metropolitana? Quali sono le analogie e quali, soprattutto, le differenze tra questi due ruoli pubblici?

Nel complesso sistema istituzionale italiano, il Vicepresidente Vicario del CONI e il Sindaco Metropolitano incarnano due visioni molto diverse di amministrazione. Il primo è un dirigente interno a un ente nazionale con funzioni tecniche e regolative nel settore dello sport. Il secondo è una figura politica con un mandato popolare, responsabile della gestione di un vasto territorio e delle politiche che lo riguardano. Analizzare queste due figure significa quindi mettere a confronto non solo due incarichi, ma due modelli di governance.

Il CONI è un ente pubblico non economico, con competenze nazionali legate allo sviluppo e alla promozione dello sport. Il suo Vicepresidente Vicario non è eletto dai cittadini, bensì dalla Giunta Nazionale del CONI. Il suo ruolo principale è quello di sostituire il Presidente in caso di assenza o impedimento, e di collaborare alla gestione ordinaria, in particolare nella supervisione dei comitati regionali. Il suo lavoro è interno, tecnico e inserito in una struttura verticale regolata da norme statutarie.

Ben diversa è la figura del Sindaco Metropolitano. In Italia, il sindaco del comune capoluogo assume automaticamente anche la guida della città metropolitana. Non si tratta di una nomina tecnica, ma di un ruolo politico che comporta ampie responsabilità: mobilità urbana, urbanistica, ambiente, sviluppo economico, servizi pubblici. Il sindaco è chiamato a rispondere ai cittadini, a mediare tra comuni del territorio metropolitano, a interpretare e attuare le esigenze collettive.

Una differenza fondamentale riguarda i poteri. Il Vicepresidente Vicario del CONI opera entro limiti definiti e con margini di manovra ridotti. Non ha poteri decisionali autonomi, ma agisce per delega, secondo direttive interne e sotto il coordinamento del Presidente. Si muove all’interno di un quadro amministrativo in cui l’iniziativa personale è subordinata alle regole dell’ente.

Il Sindaco Metropolitano, al contrario, è il vertice di un organismo politico-amministrativo. Presiede il consiglio metropolitano e la conferenza metropolitana, coordina gli uffici e può adottare provvedimenti urgenti, nominare delegati, proporre e attuare politiche pubbliche. Ha dunque pieni poteri esecutivi e un ruolo di indirizzo strategico che tocca direttamente la vita dei cittadini.

Anche la natura delle competenze è diversa. Il vicepresidente vicario si occupa di attuare le politiche sportive definite a livello centrale: approva bilanci, coordina le attività regionali, partecipa alla realizzazione dei programmi. Il suo contributo è prezioso, ma è incanalato in un sistema organizzativo chiuso, dove il contatto con i cittadini è indiretto o nullo.

Il sindaco metropolitano, invece, è immerso in una dimensione pubblica e politica. Ogni sua scelta ha impatto immediato sulla qualità della vita dei cittadini: trasporti, gestione dei rifiuti, piani regolatori, opere pubbliche, transizione ecologica. La sua legittimazione politica deriva da un’elezione popolare, da un programma condiviso e da una responsabilità diretta nei confronti della collettività.

Il legame con il territorio, d’altra parte, segna una distanza evidente. Il vicepresidente del CONI non ha un rapporto organico con una comunità locale. Il sindaco metropolitano, invece, agisce costantemente all’interno di una rete di comuni, enti, associazioni, cittadini. Il suo operato è esposto, osservato, criticato e valutato in modo continuativo.

Si potrebbe dire, in sintesi, che le due figure incarnano due forme opposte di leadership. Il Vicepresidente Vicario del CONI rappresenta una leadership tecnica, gerarchica, settoriale. Il Sindaco Metropolitano è invece un leader politico e istituzionale, investito del compito di guidare una comunità complessa e articolata.

Questo non vuol dire che l’esperienza nel CONI sia irrilevante. Al contrario: può fornire competenze organizzative, sensibilità istituzionale, visione strategica. Ma è importante comprendere che si tratta di esperienze appartenenti a campi distinti. La gestione dello sport a livello nazionale e la guida di un territorio metropolitano richiedono strumenti, approcci e responsabilità profondamente diversi.

Per questo è legittimo, anzi necessario, interrogarsi su quanto e come una funzione tecnica all’interno di un ente regolatore possa tradursi in capacità politica e amministrativa locale. Governare un sistema sportivo, per quanto articolato, non equivale a gestire trasporti pubblici, crisi abitative, piani ambientali o sviluppo urbano.

Conoscere le differenze tra questi due ruoli permette anche di comprendere meglio come si distribuiscono le responsabilità nel nostro ordinamento. Da un lato, enti nazionali con funzioni specialistiche; dall’altro, amministrazioni locali con poteri trasversali e diretti. Due piani diversi, entrambi fondamentali, ma non sovrapponibili.

Alla luce di tutto ciò, la domanda iniziale resta aperta: quanto può pesare l’esperienza da Vicepresidente Vicario del CONI nella sfida, ben più complessa, di governare una città metropolitana? La risposta non può che dipendere dalla capacità del candidato o della candidata di tradurre un bagaglio tecnico in visione politica, ascolto della cittadinanza, gestione delle emergenze e costruzione di un futuro condiviso.

In politica, più che i titoli, contano la capacità di mediazione, la concretezza nelle scelte, il radicamento nel territorio. E soprattutto la consapevolezza delle sfide che attendono chi guida un ente locale in un tempo in cui la fiducia dei cittadini è un bene sempre più fragile.

OpenAI mantiene il controllo non profit dopo pressioni esterne

La società di intelligenza artificiale modifica i piani di ristrutturazione, cedendo alle critiche di ricercatori e autorità statali

OpenAI ha annunciato un cambio di rotta nella sua strategia di ristrutturazione aziendale, decidendo di mantenere il controllo della divisione non profit nonostante i piani iniziali di adottare un modello più orientato al profitto. La svolta arriva dopo pressioni da parte di ricercatori di spicco nel campo dell’IA e interventi degli uffici dei procuratori generali di California e Delaware.

In una lettera inviata ai dipendenti e agli stakeholder lunedì, il CEO Sam Altman ha spiegato che la società trasformerà la sua sussidiaria a scopo di lucro in una Public Benefit Corporation (PBC), ma il controllo rimarrà saldamente nelle mani dell’ente non profit originario. Il presidente di OpenAI ha ribadito che la struttura fondativa “continuerà a supervisionare e dirigere le operazioni”.

La decisione segna un parziale dietrofront rispetto al piano annunciato a dicembre 2024, che prevedeva uno spostamento del potere operativo verso la PBC, relegando il non profit a un ruolo di supervisione marginale. I critici, tra cui ex dipendenti e accademici, avevano denunciato il rischio di indebolire i meccanismi di governance, come l’indipendenza del consiglio e i limiti ai rendimenti degli investitori.

Cosa cambia nella struttura finanziaria

Uno degli aspetti più controversi riguarda l’abbandono del modello “capped-profit”, introdotto nel 2019 per bilanciare gli interessi commerciali con la missione di sviluppare un’intelligenza artificiale generale (AGI) sicura e benefica. Altman ha giustificato la scelta affermando che il vecchio sistema “avrebbe ostacolato la crescita in un mondo con molte aziende AGI competitive”. La nuova struttura prevede l’assegnazione di azioni a tutti i soggetti coinvolti, semplificando il modello ma eliminando i tetti ai profitti.

Per garantire che il non profit mantenga il controllo, OpenAI ha previsto che quest’ultimo diventi un azionista di maggioranza nella PBC, con quote supportate da consulenti finanziari indipendenti. “Man mano che la PBC cresce, aumenteranno anche le risorse del non profit”, ha aggiunto Altman, sottolineando come ciò rafforzi la capacità di perseguire la missione originale.

Le critiche rimangono aperte

Nonostante le modifiche, alcuni osservatori restano scettici. Un’ex consulente etica di OpenAI e organizzatrice della lettera aperta ai procuratori generali ha evidenziato due nodi irrisolti: la mancanza di chiarezza sulla subordinazione legale degli obiettivi commerciali alla missione benefica e l’incertezza sulla proprietà delle future tecnologie sviluppate. “Le dichiarazioni del 2019 erano esplicite sulla priorità della missione, queste no”, ha commentato.

La questione potrebbe avere ripercussioni anche sulla causa legale intentata da un cofondatore di OpenAI, che accusa la società di aver tradito i suoi impegni non profit orientandosi verso logiche di mercato. Finora, né il cofondatore né il suo team legale hanno commentato la nuova strategia.

La ristrutturazione riflette la tensione costante tra l’esigenza di capitali per competere in un settore ad alta intensità di risorse e la necessità di preservare la fiducia pubblica. OpenAI sostiene che il nuovo modello permetterà di “attrarre investimenti senza sacrificare la governance”, ma alcuni avvertono che, senza garanzie legali, il rischio di deriva commerciale persiste.

Intanto, il dibattito sul ruolo delle organizzazioni non profit nell’IA continua: mentre alcuni vedono nella decisione di OpenAI un precedente positivo, altri temono che l’influenza di giganti tecnologici citati tra i partner del dialogo possa comunque orientare le scelte strategiche.

La vicenda dimostra quanto sia complesso conciliare etica e business nell’era dell’IA avanzata. OpenAI cerca di navigare queste acque proponendo un ibrido inedito, ma le critiche evidenziano i limiti degli aggiustamenti strutturali senza un quadro normativo chiaro. La sfida ora è trasformare le promesse in meccanismi operativi trasparenti, soprattutto in vista dell’obiettivo AGI che rimane, almeno sulla carta, al centro della missione.

Batteria nucleare BV100: energia per 50 anni in una moneta

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Nel panorama delle innovazioni energetiche, la BV100 di Betavolt rappresenta un salto tecnologico che promette di ridefinire il concetto stesso di alimentazione per dispositivi elettronici. Questa batteria nucleare, grande quanto una moneta, è in grado di generare energia ininterrottamente per 50 anni senza necessità di ricarica o manutenzione, aprendo scenari inediti per il futuro di dispositivi medici, sensori IoT, robotica e molto altro.

La BV100 è una batteria nucleare sviluppata dalla startup cinese Beijing Betavolt New Energy Technology. Misura appena 15 x 15 x 5 millimetri, meno di una moneta, e produce 100 microwatt a 3 volt, sufficienti per alimentare dispositivi a bassissimo consumo per decenni. Il cuore della tecnologia è il nickel-63, un isotopo radioattivo che, durante il suo decadimento, rilascia elettroni (particelle beta) che vengono convertiti in elettricità grazie a speciali semiconduttori in diamante sintetico.

Come funziona la batteria nucleare?

Il funzionamento si basa sul principio della batteria betavoltaica. Il nickel-63 ha un’emivita di circa 100 anni e, nel suo processo di decadimento, emette elettroni che attraversano due strati di diamante sintetico, spessi appena 10 micron, posti ai lati di una lamina di nickel-63 spessa 2 micron. Questi semiconduttori di diamante, sviluppati appositamente da Betavolt, catturano l’energia degli elettroni e la trasformano in corrente elettrica continua.

La struttura modulare della BV100 consente di combinare più unità in serie o parallelo, aumentando così la potenza e la capacità complessiva del sistema. Questo significa che, in futuro, sarà possibile assemblare batterie più potenti semplicemente affiancando più moduli BV100.

Vantaggi rispetto alle batterie tradizionali

I vantaggi della BV100 rispetto alle batterie chimiche convenzionali sono molteplici:

  • Durata estrema: fino a 50 anni senza necessità di ricarica o sostituzione.
  • Densità energetica: oltre 10 volte superiore rispetto alle batterie agli ioni di litio ternarie, con una densità di 3.300 mWh per grammo.
  • Affidabilità in condizioni estreme: funziona da -60°C a +120°C, senza rischio di surriscaldamento, incendio o esplosione.
  • Sicurezza ambientale: il nickel-63 si trasforma in rame stabile al termine del ciclo di vita, eliminando rischi di contaminazione e semplificando lo smaltimento.
  • Assenza di manutenzione: una volta installata, la batteria non richiede alcun intervento per tutta la sua durata.

Applicazioni attuali e potenziali

La potenza attuale della BV100 (100 microwatt) è ideale per dispositivi a bassissimo consumo, come:

  • Pacemaker e impianti medici: la BV100 può alimentare pacemaker, stimolatori neurali e sensori impiantabili per tutta la vita del paziente, eliminando la necessità di interventi chirurgici per la sostituzione delle batterie.
  • Sensori IoT e ambientali: dispositivi per il monitoraggio ambientale, sensori industriali e tag di tracciamento possono funzionare per decenni anche in luoghi remoti o difficili da raggiungere, senza necessità di sostituzione della batteria.
  • Micro-robotica e MEMS: la BV100 può alimentare micro-robot, droni miniaturizzati e sistemi micro-elettromeccanici (MEMS) per missioni di lunga durata, anche in ambienti ostili.
  • Applicazioni aerospaziali e militari: la robustezza e la longevità rendono la BV100 ideale per sonde spaziali, sensori remoti e dispositivi militari che devono operare senza manutenzione per decenni.

Nonostante le sue straordinarie caratteristiche, la BV100 non è ancora adatta ad alimentare dispositivi ad alto consumo come smartphone, laptop o veicoli elettrici. Attualmente, la potenza erogata è solo lo 0,01% di quella richiesta da un telefono cellulare moderno. Tuttavia, Betavolt sta già lavorando a versioni più potenti: entro il 2025 è prevista una batteria da 1 watt, che potrebbe aprire la strada a nuove applicazioni, dai droni a lunga autonomia ai dispositivi elettronici portatili.

La modularità della BV100 permette, in teoria, di combinare più unità per ottenere batterie più grandi e potenti. Questo approccio potrebbe rendere possibile, in futuro, l’alimentazione di dispositivi più energivori, a patto di superare le attuali barriere tecnologiche e normative.

Sicurezza e impatto ambientale

Uno degli aspetti più discussi delle batterie nucleari è la sicurezza. La BV100 affronta il problema con una progettazione che prevede un contenitore sigillato, in grado di schermare le radiazioni e proteggere sia l’utente sia l’ambiente circostante. Il nickel-63 emette particelle beta, che sono facilmente schermabili e non penetrano la pelle umana. Inoltre, la batteria non si surriscalda, non esplode e non si degrada nel tempo, offrendo un livello di sicurezza superiore rispetto alle batterie chimiche tradizionali.

Dal punto di vista ambientale, la BV100 rappresenta un passo avanti verso la sostenibilità: al termine del ciclo di vita, il nickel-63 si trasforma in rame stabile, eliminando la necessità di costosi processi di riciclo e riducendo la produzione di rifiuti elettronici. Questo aspetto è particolarmente rilevante in settori come quello medico, dove la sostituzione delle batterie comporta rischi e costi elevati.

Un cambio di paradigma per l’energia portatile

La commercializzazione della BV100 segna un punto di svolta nel settore delle batterie. Per la prima volta, una batteria nucleare entra in produzione di massa e si prepara a rivoluzionare il modo in cui alimentiamo i dispositivi elettronici. La possibilità di avere energia costante per 50 anni senza ricarica o manutenzione apre scenari inediti per la progettazione di dispositivi miniaturizzati, affidabili e autonomi.

Betavolt ha già ottenuto riconoscimenti in Cina e sta depositando brevetti internazionali, mentre la concorrenza globale si prepara a rispondere con soluzioni simili. La corsa alla miniaturizzazione e alla longevità delle batterie nucleari è appena iniziata, e il successo della BV100 potrebbe ispirare nuove tecnologie e applicazioni in settori oggi impensabili.

La BV100 di Betavolt rappresenta una delle innovazioni più promettenti nel campo dell’energia portatile. Pur con i suoi limiti attuali in termini di potenza, la sua durata, sicurezza e densità energetica la rendono una candidata ideale per rivoluzionare settori come la medicina, l’IoT, la robotica e l’esplorazione spaziale. Se le versioni future manterranno le promesse di maggiore potenza, potremmo davvero assistere a un futuro in cui la ricarica dei dispositivi sarà solo un ricordo del passato.

Australia: Albanese scrive la storia

Anthony Albanese entra nei libri di storia come il primo premier australiano in due decenni a conquistare un secondo mandato consecutivo, strappando 89 seggi sui 150 della Camera. Un trionfo inatteso per il leader laburista, che ribalta i pronostici dopo un anno segnato da rating di approvazione ai minimi storici (31%) e proteste per il carovita.

La tempesta perfetta per Dutton

Peter Dutton, volto storico dei Liberali, subisce un doppio smacco: il crollo della coalizione a 41 seggi e la perdita del collegio di Dickson, roccaforte conservatrice dal 2001. Analisti di Redbridge Group parlano di “tsunami progressista”, con swing del 7.5% contro i liberali a Adelaide e il crollo in Tasmania. Unico spiraglio: Dan Tehan resiste nel Victoria rurale con un +0.6%.

L’ombra di Trump e il referendum fantasma

Il “fattore Trump” emerge come chiave di volta: il 55.94% degli elettori ha punito l’opposizione per le similitudini con le politiche protezionistiche dell’ex presidente USA. Nonostante la vittoria, Albanese porta le cicatrici del fallito referendum del 2023 per il riconoscimento costituzionale degli aborigeni, definito “ferita ancora aperta” dalla BBC5.
Con l’adesione al patto AUKUS e al Quad, Canberra consolida il ruolo di avamposto USA nell’Indo-Pacifico. In campagna elettorale, Albanese ha cavalcato i successi sul fronte interno: +2.1% di consensi rispetto al 20223, taglio dei costi dei farmaci e 120mila case popolari costruite. “Affronteremo l’incertezza globale con valori australiani: equità, ambizione, opportunità per tutti”, ha dichiarato il premier nel discorso della vittoria8.

Tony Abbott, ex premier conservatore, ammette: “Gli australiani non vogliono rompere la tradizione di concedere un secondo mandato”. Per i commentatori di SBS News, il crollo urbano della destra (sconfitta in 17-18 seggi metropolitani) segna una “crisi identitaria”. Dutton, assumendosi ogni responsabilità, ha annunciato dimissioni imminenti: “È tempo di nuovi leader”. Intanto, il Labor punta a riforme climatiche più aggressive e a un nuovo piano per l’acquisto della prima casa.

Accordo Usa – Ucraina. Una nuova linea geopolitica

Il commento. Di Alessandro Trizio

L’accordo siglato tra Stati Uniti e Ucraina è un passo imponente per la geopolitica europea. Stati Uniti e Russia ora, di fatto, si sono divise il Paese di Zelensky. Le terre contese andranno sicuramente alla Russia, il resto sarà in mano alle multinazionali americane, per contratto.

L’Europa è marginalizzata, quasi succube ormai delle mosse di Trump. Non riesce nemmeno a commentare in modo unitario l’accaduto e tutte le promesse e le strette di mano dei Paesi del vecchio continente verso Kiev sono state superate e irrise dall’accordo portato a compimento dopo la riunione in Vaticano.

L’Europa è sotto scacco politico. E non pare avere la forza di rialzarsi.


Il 30 aprile 2025, nel pieno delle tensioni internazionali e a guerra ancora aperta nel cuore dell’Europa orientale, Washington e Kiev hanno firmato un accordo che potrebbe segnare un cambio di paradigma nella gestione delle risorse strategiche globali.

Da una parte, gli Stati Uniti ottengono accesso privilegiato ai giacimenti ucraini di litio, titanio e terre rare. Dall’altra, l’Ucraina riceve un impegno multimiliardario per finanziare la sua ricostruzione. A siglare l’intesa sono stati Donald Trump, tornato alla Casa Bianca, e Volodymyr Zelensky, presidente di un Paese ancora segnato da bombardamenti, sfollamenti e crisi economica.

Dietro l’apparente equilibrio dell’accordo si nascondono mesi di negoziati difficili, tensioni politiche e clausole che, per alcuni osservatori, pongono più interrogativi che certezze. L’annuncio, accolto con entusiasmo ufficiale da entrambe le capitali, ha provocato una reazione a catena che tocca Mosca, Bruxelles e Pechino, con implicazioni che vanno ben oltre i confini dell’Ucraina.

La lunga strada verso un’intesa

Le trattative sono iniziate nel febbraio 2025. I primi incontri sono stati tutt’altro che concilianti. La proposta iniziale della Casa Bianca prevedeva una sorta di compensazione per gli aiuti militari forniti a Kiev dal 2022, stimati in oltre 83 miliardi di dollari. La contropartita richiesta da Washington consisteva nella cessione di diritti estrattivi su vaste aree del territorio ucraino. Una proposta giudicata inaccettabile dal governo di Zelensky, che ha inizialmente alzato un muro. Il confronto ha rischiato più volte di bloccarsi del tutto.

A sbloccare la situazione è stato un episodio tanto insolito quanto simbolico: l’incontro tra i due leader durante i funerali di Papa Francesco a Roma, il 15 aprile. Trump, sotto pressione interna per le future elezioni di mid-term, ha mostrato maggiore flessibilità. Le sue richieste si sono ammorbidite, e la versione finale dell’accordo ha escluso ogni riferimento agli aiuti pregressi, concentrandosi su una collaborazione futura.

Fondamentale per Kiev è stato il supporto dello studio legale britannico Hogan Lovells, incaricato di difendere l’interesse nazionale nella stesura del testo. La loro presenza al tavolo negoziale è stata determinante per bilanciare l’asimmetria di forza tra le due parti, garantendo che l’Ucraina mantenesse la titolarità delle proprie risorse e una voce decisionale nella gestione del nuovo fondo congiunto.

Un fondo comune per la ricostruzione

Il cuore dell’accordo è la creazione del Fondo di Investimento Stati Uniti-Ucraina, sigla USUF, una struttura paritetica che fungerà da leva finanziaria per la ricostruzione del Paese. Il fondo sarà alimentato sia da nuovi aiuti americani, anche di natura militare, sia dai futuri profitti derivanti dallo sfruttamento delle risorse energetiche e minerarie. I ricavi generati nei primi dieci anni non saranno distribuiti, ma reinvestiti esclusivamente in progetti sul territorio ucraino. Solo a partire dal 2035, eventuali utili verranno suddivisi tra i due partner in modo equo.

Il testo dell’intesa garantisce all’Ucraina la proprietà del sottosuolo e il diritto esclusivo di decidere dove e cosa estrarre. Gli Stati Uniti, pur non diventando proprietari diretti delle risorse, godranno però di un accesso privilegiato a nuovi progetti minerari e avranno corsie preferenziali nelle gare per la realizzazione di infrastrutture estrattive e di trasformazione. Questo significa che le grandi multinazionali americane potranno consolidare la loro presenza industriale in Ucraina in settori strategici come quello delle batterie, delle turbine eoliche, dell’aerospazio.

L’accordo rappresenta per Washington un’occasione per ridurre la propria dipendenza dalla Cina, attualmente principale fornitore di terre rare, e per guadagnare un vantaggio competitivo nella corsa globale alle risorse che alimentano la transizione energetica e digitale. Allo stesso tempo, Kiev spera di accelerare la ripresa economica attraverso investimenti diretti che non compromettano la sovranità nazionale.

Prima della guerra, l’Ucraina disponeva di oltre ventimila giacimenti contenenti 116 minerali diversi. Il Paese detiene circa il 7% delle riserve mondiali di titanio e possiede abbastanza litio da alimentare la produzione annuale di milioni di veicoli elettrici. Tuttavia, il conflitto ha compromesso l’accessibilità di gran parte di queste risorse. Circa il 40% dei giacimenti si trova in aree ancora occupate o contese dalla Russia.

Le stime del governo ucraino valutano il potenziale economico dei giacimenti sotto controllo statale in oltre 12.000 miliardi di dollari. Una cifra enorme, che alcuni esperti considerano ottimistica, ma che spiega l’interesse crescente delle potenze occidentali. Tra i materiali più ambiti ci sono il neodimio, essenziale per la produzione di magneti ad alte prestazioni, il germanio, utilizzato in fibre ottiche e satelliti, e il cobalto, fondamentale per la fabbricazione di batterie.

A Kiev, l’accordo è stato accolto con toni trionfalistici. Il premier Denys Shmyhal ha parlato di una vittoria diplomatica, sottolineando che nessuna risorsa è stata ceduta e che ogni progetto resterà sotto giurisdizione ucraina. Tuttavia, alcune voci critiche all’interno del Parlamento mettono in guardia sull’assenza di garanzie in materia di sicurezza. Senza un impegno militare concreto da parte americana, le infrastrutture minerarie restano esposte a possibili attacchi russi.

Dalla Russia, le reazioni sono state caustiche. Dmitri Medvedev ha ironizzato dicendo che finalmente Kiev ha iniziato a pagare l’affitto agli Stati Uniti. Ma dietro il sarcasmo, il Cremlino ha fatto sapere che considererà illegittimo qualsiasi sfruttamento di risorse situate in territori contesi, lasciando intendere che non escluderà ritorsioni.

In Europa, l’accordo ha generato un malessere silenzioso. Nessuna dichiarazione ufficiale è arrivata da Bruxelles, nonostante l’Unione Europea avesse siglato un patto simile con Kiev già nel 2021. Dietro le quinte, però, i diplomatici europei ammettono che l’UE è stata scavalcata e che ora dovrà competere ad armi spuntate per ottenere accesso a quelle stesse risorse.

Un equilibrio instabile

Se per Kiev l’accordo rappresenta un’opportunità concreta di attrarre capitali e accelerare la ricostruzione, non mancano i rischi. La dipendenza dagli investimenti americani potrebbe rivelarsi un’arma a doppio taglio nel caso in cui l’amministrazione statunitense decidesse di rallentare o rivedere il proprio impegno. La gestione dei fondi richiederà inoltre meccanismi di controllo estremamente rigorosi, in un Paese ancora afflitto da problemi strutturali legati alla corruzione.

Per Washington, invece, si tratta di una mossa strategica a basso costo politico: accedere a risorse chiave senza dover schierare truppe, rafforzando nel contempo la propria influenza su una regione che rappresenta un crocevia energetico, militare e tecnologico.

Il fondo USUF opererà come un fondo sovrano, con una commissione bilaterale incaricata di selezionare i progetti. Le prime iniziative sono già in cantiere. Un impianto per la lavorazione del titanio a Dnipro, sviluppato in collaborazione con Boeing, e una raffineria di terre rare nella regione di Leopoli, sostenuta da Lockheed Martin, sono state indicate come priorità dal Dipartimento di Stato americano.

L’assenza di garanzie militari, voluta da Trump per non compromettere eventuali margini di trattativa con Putin, rappresenta l’elemento più fragile dell’intera architettura. In un contesto ancora segnato dall’instabilità e dalla minaccia russa, il patto espone Kiev a potenziali rischi proprio nei settori chiave per la ricostruzione.

Nel frattempo, l’Europa osserva con crescente preoccupazione. I 50 miliardi promessi da Bruxelles per la ricostruzione rischiano di sembrare un contributo accessorio rispetto alla portata del progetto americano. I vantaggi accordati alle imprese statunitensi potrebbero marginalizzare l’industria europea e ricalibrare le dinamiche del mercato continentale.

L’accordo tra Stati Uniti e Ucraina è una scommessa ambiziosa. Nessuna miniera è stata venduta, nessun contingente militare è stato promesso. Ma con questa firma, Kiev e Washington hanno tracciato una nuova rotta. Sta ora alla geopolitica, e agli eventi futuri, stabilire se sarà un sentiero di rinascita o una trappola camuffata da opportunità.

RFDEW, la nuova arma a spalla che abbatte sciami di droni

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Negli ultimi anni, il volto della guerra è stato profondamente trasformato dall’avvento dei droni, strumenti che hanno rivoluzionato tattiche, strategie e logiche di combattimento. Il conflitto in Ucraina, in particolare, rappresenta il laboratorio più avanzato e drammatico di questa nuova era: qui i droni non sono più solo strumenti di ricognizione, ma veri e propri protagonisti delle operazioni offensive e difensive, impiegati in quantità e con livelli di sofisticazione mai visti prima.

L’escalation: droni sempre più numerosi e sofisticati

La guerra tra Russia e Ucraina ha raggiunto un nuovo livello di intensità tecnologica. Gli attacchi con droni sono cresciuti in maniera esponenziale: solo nel marzo 2025 sono stati lanciati oltre 4.000 droni Shahed-136/Geran-2 di fabbricazione russa, segnando un incremento di oltre il 1.100% rispetto all’anno precedente. La produzione di droni in Russia è in costante aumento, con l’obiettivo di arrivare a 15.000 unità all’anno. Anche l’Ucraina ha investito massicciamente nello sviluppo di droni a lungo raggio e nell’integrazione di intelligenza artificiale, puntando su sistemi in grado di operare in sciame e di adattarsi alle contromisure elettroniche nemiche.

Questa escalation ha portato a una vera e propria “guerra dei robot”, dove le macchine, spesso coordinate da algoritmi di intelligenza artificiale, si scontrano direttamente sul campo, riducendo l’impiego di soldati umani e cambiando la psicologia stessa del combattimento. Le missioni dei droni spaziano dalla sorveglianza al combattimento diretto, passando per attacchi suicidi e operazioni di disturbo sulle infrastrutture critiche.

L’impatto operativo e psicologico

L’uso massiccio dei droni ha imposto un cambio di paradigma alle forze armate di tutto il mondo. Come sottolineato dal generale Carmine Masiello, capo di Stato maggiore dell’Esercito italiano, “i droni hanno trasformato il campo di battaglia in uno scenario non permissivo, anche dal punto di vista psicologico”. La minaccia può arrivare da qualsiasi direzione e in qualsiasi momento, rendendo obsolete molte delle tradizionali strategie di difesa.

La capacità di lanciare sciami di droni – decine o centinaia di unità coordinate tra loro – rappresenta una sfida senza precedenti per le difese convenzionali. Nessuna industria occidentale, ad oggi, è pronta a reggere i ritmi produttivi e operativi di Russia e Ucraina, che insieme possono mettere in campo decine di migliaia di droni ogni mese.

Di fronte a questa minaccia, la ricerca di contromisure efficaci è diventata una priorità assoluta. Se le armi balistiche tradizionali (come mitragliatrici o fucili anti-drone) sono efficaci solo a corto raggio e contro singoli bersagli, la vera rivoluzione arriva dalle nuove armi elettroniche a energia diretta, in particolare quelle a onde radio e microonde.

Cos’è un’arma elettronica a spalla anti-drone

Si tratta di dispositivi portatili, gestibili da un singolo operatore, che emettono impulsi di energia elettromagnetica (radiofrequenza o microonde) diretti verso il drone bersaglio. L’obiettivo è interferire con i circuiti elettronici del drone, mandandolo fuori uso senza doverlo necessariamente distruggere fisicamente.

Principio di funzionamento

  • Emissione di onde radio o microonde: L’arma genera un fascio di energia diretta, che può essere puntato su uno o più droni nel raggio d’azione.
  • Interferenza elettronica: Le onde ad alta frequenza penetrano nei circuiti del drone, provocando malfunzionamenti, blackout dei sistemi di controllo e navigazione, o addirittura la distruzione fisica dei componenti elettronici.
  • Neutralizzazione istantanea: L’effetto è pressoché immediato: il drone può perdere il controllo, cadere a terra o diventare inoffensivo, anche se opera in modalità autonoma o con sistemi anti-jamming avanzati.

Il sistema RFDEW britannico

Uno dei sistemi più avanzati è il Radio Frequency Directed Energy Weapon (RFDEW), sviluppato nel Regno Unito. Questo dispositivo può essere montato su veicoli o utilizzato da terra, ha una portata fino a 1 km (con sviluppi in corso per estenderla) e può colpire simultaneamente più droni, risultando particolarmente efficace contro gli sciami.

Caratteristiche salienti:

  • Costo per colpo bassissimo: Ogni “colpo” costa circa 0,12 euro, rendendo il sistema estremamente economico rispetto ai missili tradizionali.
  • Gestione semplificata: Può essere operato da una sola persona, grazie a un alto livello di automazione.
  • Versatilità: Può essere utilizzato per difendere basi, infrastrutture critiche e convogli mobili.
  • Effetto immediato: L’arma è in grado di neutralizzare bersagli in pochi istanti, anche in caso di attacchi multipli e coordinati.

Il cannone a microonde “Thor” degli Stati Uniti

Negli Stati Uniti, l’aeronautica militare sta testando il sistema Thor (Tactical High-power Operational Responder), un cannone a microonde in grado di coprire un raggio di 360 gradi e una portata di circa 10 chilometri. Il sistema può abbattere sciami di droni surriscaldando i loro circuiti elettronici, rendendo inutilizzabili telecamere, sensori e sistemi di navigazione. Il Thor è montato su una piattaforma mobile e può essere messo in funzione da due operatori in poche ore.

Dispositivi ancora più compatti, trasportabili anche da singoli operatori, in grado di concentrare il fascio di microonde con grande precisione, minimizzano i rischi di danni collaterali alle infrastrutture civili.

Vantaggi rispetto alle armi tradizionali

CaratteristicaArmi elettroniche a spallaArmi balistiche anti-droneSistemi laser anti-drone
Portata1-10 km (in evoluzione)50-100 m1-3 km
Numero bersagliMultipli/sciamiSingoloSingolo
Costo per ingaggioEstremamente bassoMedioAlto
Rischio danni collateraliBasso/moderatoAlto (proiettili dispersi)Moderato
LogisticaElevata portabilitàPortatileInstallazione fissa

Le armi elettroniche a spalla si distinguono per la capacità di ingaggiare più bersagli contemporaneamente, il costo operativo ridotto e la rapidità di risposta. Sono quindi ideali per difendere aree vaste e sensibili da attacchi improvvisi e massicci di droni.

Il futuro della difesa: una corsa all’innovazione

La guerra dei droni è solo all’inizio. Con la diffusione di tecnologie sempre più sofisticate e la produzione di massa di droni a basso costo, la necessità di difese efficaci, economiche e scalabili è destinata a crescere. Le armi elettroniche a spalla rappresentano la risposta più promettente a questa sfida: strumenti che, grazie alla combinazione di ricerca scientifica, innovazione industriale e adattamento operativo, stanno già cambiando l’equilibrio sul campo di battaglia.

Come sottolinea il Ministero della Difesa britannico, “la guerra in Ucraina ci ha mostrato l’importanza di schierare sistemi senza equipaggio, ma dobbiamo essere in grado di difenderci anche da essi”. L’evoluzione delle armi elettroniche anti-drone è la risposta concreta a questa nuova minaccia, e nei prossimi anni vedremo probabilmente una diffusione sempre più capillare di questi sistemi, non solo nei conflitti ad alta intensità, ma anche nella protezione di infrastrutture civili e strategiche in tutto il mondo.