16 Settembre 2025
Home Blog Pagina 4

Terrore a Gerusalemme: sei morti alla fermata del bus, la città ripiomba nell’incubo

La mattina dell’8 settembre Gerusalemme si è svegliata nel terrore, colpita da un attacco a mano armata che ha seminato morte e caos tra la popolazione. In pochi minuti, una folla in attesa dell’autobus a Ramot Junction, uno dei nodi principali della città, è stata travolta da una raffica di colpi d’arma da fuoco: il fragore degli spari ha interrotto la quotidianità, lasciando sul terreno almeno cinque vittime e numerosi feriti, alcuni in condizioni gravissime. I testimoni presenti hanno raccontato scene di panico e disperazione, con i soccorritori che si sono precipitati tra i detriti e i vetri rotti per prestare i primi aiuti alle persone coinvolte.

L’attacco è stato rapido e brutale, secondo quanto riferito dalle autorità israeliane. Due assalitori, armati di mitraglietta “Carlo”, hanno aperto il fuoco senza preavviso sugli ignari civili che attendevano il passaggio degli autobus. Nella confusione, alcuni passeggeri si sono gettati a terra, altri hanno cercato rifugio dietro le pensiline o le auto di passaggio. L’intervento di un agente di sicurezza e di almeno un civile armato è stato decisivo: nel giro di pochi istanti, i due attentatori sono stati “neutralizzati”, stando alle dichiarazioni ufficiali della polizia israeliana. Il sangue sulle strade e le grida dei feriti, soccorsi in pochi minuti dal personale medico del Magen David Adom, hanno segnato il volto della città per tutta la giornata.

Fra le vittime accertate figurano due uomini sulla trentina, una donna e due uomini attorno ai cinquanta anni. Ma il bilancio avrebbe potuto essere drammaticamente più alto: alcuni dei circa quindici feriti, trasportati d’urgenza negli ospedali cittadini, lottano ancora tra la vita e la morte, mentre altri hanno subito conseguenze da schegge di vetro o traumi da caduta durante la fuga. Gli autisti degli autobus coinvolti hanno agito con sangue freddo, aiutando i passeggeri a mettersi in salvo mentre le sirene delle ambulanze si avvicinavano a tutta velocità.

Le forze di sicurezza hanno immediatamente avviato una massiccia operazione nella zona, bloccando i check-point e pattugliando i quartieri circostanti per individuare eventuali complici o sostenitori. Secondo fonti ufficiali, i due attentatori provenivano dalla Cisgiordania e tutto lascia pensare che l’attacco fosse pianificato nei minimi dettagli. I due, infatti, sarebbero riusciti a confondersi tra i pendolari prima di attaccare. Poco dopo la sparatoria, le autorità israeliane hanno rafforzato la presenza militare a Gerusalemme e nelle aree limitrofe, soprattutto ai confini con i territori palestinesi. Sono partite numerose perquisizioni a caccia di eventuali altri membri del commando.

Israele ha ribadito il suo diritto a “difendere la sicurezza dei cittadini”, mentre da parte di diverse istituzioni internazionali si sono levate voci preoccupate sui rischi di escalation. La tensione fra Israele e i territori palestinesi resta altissima, con continui riferimenti, nei commenti degli esperti, al contesto più ampio dei recenti scontri a Gaza e alla lunga serie di rappresaglie reciproche. L’attacco di Ramot Junction si inserisce in una stagione di grave instabilità, dove la paura di nuovi attentati soffoca l’aria della città e obbliga le autorità a un livello costante di allerta.

L’organizzazione Hamas ha pubblicamente elogiato l’operazione, definendola una “risposta eroica” agli avvenimenti degli ultimi giorni a Gaza. Pur senza una rivendicazione diretta, le autorità israeliane hanno dichiarato di non escludere la matrice terroristica palestinese, indicando la possibilità che l’attacco sia stato ispirato dall’escalation tra l’esercito e le fazioni militanti nei territori occupati. Intanto, le immagini delle telecamere di sicurezza hanno confermato la freddezza e la determinazione degli attentatori: armati e coordinati hanno agito in pochi secondi, colpendo indiscriminatamente prima di essere abbattuti.

I paramedici che sono intervenuti per primi hanno raccontato scene drammatiche, con feriti sparsi tra la strada e il marciapiede, molti dei quali in stato di shock o semicoscienti. “Abbiamo visto persone prive di sensi vicino alla fermata dell’autobus, molta confusione e distruzione ai nostri piedi”, ha dichiarato un soccorritore ai media locali. Il personale sanitario ha proceduto a una triage immediata: chi era più grave è stato caricato sulle ambulanze e trasferito negli ospedali cittadini, dove ancora si combatte per salvare la vita dei più colpiti. Alcuni sopravvissuti sono stati dimessi nella stessa giornata dopo aver ricevuto le cure necessarie per lesioni lievi.

Mentre aumentano i timori di nuovi episodi simili, il governo israeliano e le forze di polizia hanno inviato messaggi rassicuranti alla popolazione, promettendo “tolleranza zero” per ogni forma di terrorismo e un rafforzamento dei dispositivi di sicurezza nei luoghi pubblici più esposti. L’opposizione e le famiglie delle vittime hanno chiesto maggiore protezione per i cittadini e una risposta efficace che non si limiti alla repressione immediata ma apra anche un tavolo di dialogo e prevenzione a lungo termine.

Intanto Gerusalemme si interroga sulle conseguenze dell’attentato. La paura torna a dominare una città già provata da anni di conflitto, con i cittadini che si stringono nel lutto e nella rabbia. La vita normale, le attese alla fermata del bus, i viaggi sui mezzi pubblici, le passeggiate nei quartieri periferici, viene ferita ancora una volta dall’ombra della violenza politica e religiosa. Benché l’emergenza sia rientrata nel giro di poche ore, le patruglie restano presenti in forze nei punti nevralgici della città.

Il quadro rimane critico anche dal punto di vista politico: l’esecutivo israeliano, guidato dal primo ministro Netanyahu, ha ribadito la linea dura contro le organizzazioni armate che minacciano la sicurezza interna, mentre continuano le pressioni da parte delle frange ultranazionaliste per azioni ancora più incisive nei confronti dei villaggi palestinesi vicini e nelle aree considerate focolai di militanza. Dall’altra parte, diversi gruppi umanitari e osservatori internazionali hanno rinnovato gli appelli a non alimentare il ciclo di vendetta, ricordando la necessità di tutelare la popolazione civile e di lavorare per una soluzione diplomatica che prevenga ulteriori tragedie.

L’attacco alla fermata dell’autobus di Ramot Junction si conferma come una delle pagine più nere nella recente storia della sicurezza israeliana. Il ricordo di quella mattina, con i corpi distesi tra i sedili e i feriti soccorsi tra urla di dolore, rimarrà impresso nella coscienza collettiva di una città abituata a convivere con la tensione ma mai alla perdita e al terrore. Gli interrogativi restano aperti: come fermare la spirale d’odio? chi garantisce la protezione dei civili? quali saranno le mosse delle autorità per prevenire il prossimo attacco?

La giornata dell’8 settembre resterà impressa come il simbolo doloroso di una guerra che, ancora una volta, ha scelto di colpire i più indifesi tra la gente comune.

Papa Leone XIV: solo la soluzione a due Stati può fermare la guerra di Gaza

0

Il Vaticano e Papa Leone XIV hanno ribadito con fermezza, durante l’incontro con il presidente israeliano Isaac Herzog, che solo una soluzione a due Stati può rappresentare la strada per mettere fine alla guerra a Gaza che ha devastato la regione e acceso tensioni diplomatiche e umanitarie su scala mondiale.

Il messaggio del pontefice è stato chiaro e ripetuto a più riprese. All’interno dei saloni vaticani si è consumata una delle tappe più significative del dialogo internazionale sulla crisi mediorientale degli ultimi mesi, a cui hanno preso parte anche il Segretario di Stato Pietro Parolin e il responsabile delle relazioni estere della Santa Sede, l’arcivescovo Gallagher.

La visita, al centro di polemiche diplomatiche sull’invito, ha costituito un passo importante per una relazione che il Vaticano considera strategica, non solo nei rapporti con Israele ma nella prospettiva più ampia di pace tra i popoli. Il pontefice ha ricordato la necessità di coraggio e volontà politica, coinvolgendo la comunità internazionale nella costruzione di una soluzione stabile che riconosca “le aspirazioni legittime dei due popoli”.

Il Vaticano si è schierato con forza contro l’uso della violenza contro i civili. Dopo l’attacco del 7 ottobre, in cui Hamas ha rapito ostaggi e ucciso migliaia di persone, la risposta israeliana ha portato a una escalation senza precedenti di bombardamenti, con decine di migliaia di vittime civili, secondo le stime dell’ONU.

Papa Leone XIV, il primo pontefice americano nella storia della Chiesa, ha idee ferme e pragmatiche, fedeli alla tradizione diplomatica vaticana. In continuità con papa Francesco, Leone XIV insiste su cessate il fuoco, diritto umanitario e una soluzione a due Stati. Israele dal canto suo respinge le accuse, sostenendo che ogni bombardamento mira a colpire solo obiettivi militari e che le perdite civili sono causate dalla presenza di infrastrutture di Hamas in aree urbane densamente popolate. Il Vaticano, però, rimane critico e auspica che tutte le parti si impegnino per limitare il più possibile le sofferenze della popolazione, garantendo accesso umanitario e rispetto delle regole internazionali.

Durante l’incontro sono stati affrontati anche i temi della protezione delle minoranze religiose e delle comunità cristiane, che in Medio Oriente continuano a subire persecuzioni ed emigrazione forzata. Il pontefice ha sottolineato il valore delle scuole cattoliche, dei centri di accoglienza sociale e dei progetti di coesione che contribuiscono quotidianamente alla promessa di una pace concreta.

Papa Leone ha ripetuto il suo appello per il cessate il fuoco: “Serve coraggio nelle scelte e il sostegno di tutta la comunità internazionale per raggiungere la pace con il riconoscimento pieno dei diritti palestinesi e della sicurezza di Israele”. Nella dichiarazione diffusa dopo l’incontro, la Santa Sede ha ribadito la richiesta di una ripresa rapida dei negoziati, la liberazione degli ostaggi, l’ingresso sicuro degli aiuti in tutte le aree colpite, il rispetto totale del diritto umanitario e il riconoscimento della legittimità delle aspirazioni dei palestinesi e degli israeliani.

Herzog ha ringraziato pubblicamente Papa Leone per l’accoglienza, auspicando una visita del pontefice in Terra Santa per rafforzare il dialogo interreligioso e la collaborazione “per un futuro di giustizia e compassione”. In cambio, il Vaticano si è impegnato a lavorare diplomaticamente per coinvolgere i principali attori globali nella definizione di una road map che porti finalmente al dialogo e alla soluzione a due Stati su cui insiste dal secondo dopoguerra.

Il peso delle parole papali è amplificato dall’urgenza che si respira nel contesto mediorientale: la diplomazia tradizionale appare stanca, il conflitto ingravescente e la comunità internazionale indecisa. Tra promesse di corridoi umanitari e richieste di cessate il fuoco, il Vaticano si pone come voce morale che richiama i governi al rispetto degli accordi internazionali e delle regole fondamentali della convivenza tra i popoli. Le trattative in corso, osteggiate dalla destra israeliana e criticate da gruppi radicali palestinesi, mostrano quanto il dialogo sia difficile ma imprescindibile.

L’incontro tra il leader spirituale della cristianità e il presidente israeliano ha avuto una forte valenza simbolica. Mai come ora il ritorno alla soluzione a due Stati appare come la porta d’accesso ad una pace negoziata, nonostante profonde divisioni e ferite ancora aperte nella regione. Il Vaticano ribadisce che solo così sarà possibile aiutare Gaza e la Cisgiordania a uscire dalla spirale di morte che si prolunga da decenni, tutelando insieme le radici storiche delle religioni, la sicurezza di Israele e la dignità del popolo palestinese.

Prima della partenza, Herzog ha ribadito l’invito al pontefice a visitare Israele e Gaza, segno di apertura e volontà di dialogo. Papa Leone, come già il suo predecessore, resta convinto che il ruolo della Chiesa e della diplomazia vaticana sia fondamentale per mantenere viva la speranza di una pace giusta. La soluzione a due Stati, promossa con decisione dalla Santa Sede, si conferma come il nodo essenziale attorno a cui ruotano tutte le speranze per il futuro del Medio Oriente.

La strage silenziosa di Gaza: una crisi umanitaria senza via d’uscita, oltre 64.000 vittime

0

Il bilancio delle vittime a Gaza ha superato la soglia impressionante di 64.000 morti: un dramma umano senza precedenti e testimonianza della devastazione prodotta dalla guerra tra Israele e Hamas che dura ormai da quasi due anni. I dati sono stati diffusi dal Ministero della Sanità di Gaza, gestito dall’amministrazione Hamas e considerati affidabili da molte agenzie delle Nazioni Unite e da esperti indipendenti, anche se contestati da Israele, che però non ha finora pubblicato un proprio conteggio ufficiale. Un dettaglio significativo riguarda le ultime rilevazioni: circa 400 persone precedentemente segnalate come disperse vengono ora conteggiate come decedute, aggiornando così il bilancio globale delle morti individuate.

È fondamentale sottolineare che donne e bambini rappresentano circa metà delle vittime, secondo le stime diffuse dalle autorità. Gli ospedali di Gaza ricevono senza sosta corpi di civili e feriti gravi, e le notizie di offensiva militare israeliana nella zona di Gaza City si succedono con ritmo incalzante. Il numero dei morti continua ad aumentare giorno dopo giorno, soprattutto in seguito ai bombardamenti che colpiscono tende di sfollati e abitazioni precarie in quartieri residenziali e zone di rifugio.

A Gaza City, la situazione ha raggiunto livelli estremi di crisi. Nelle ultime ore, i raid israeliani hanno ucciso almeno 28 persone durante la notte, principalmente donne e bambini, come risulta dai registri dell’ospedale Shifa. Tra i corpi ritrovati figura anche quello di un neonato di appena 10 giorni, segno di una violenza che non risparmia nessuna fascia d’età. Nella parte meridionale della Striscia, ulteriori vittime sono state segnalate all’ospedale Nasser di Khan Younis. Le autorità sanitarie lamentano da tempo la carenza di forniture mediche e la mancanza di accesso sicuro per le ambulanze, soprattutto nelle aree più colpite dai combattimenti e dai bombardamenti. Le condizioni delle strutture ospedaliere sono drammatiche, sovraffollate, spesso prive di elettricità e con riserve di farmaci ormai esaurite, mentre il flusso di feriti non accenna a diminuire.

La crisi umanitaria è aggravata dal rischio di carestia che affligge la popolazione locale. L’ONU e le principali organizzazioni umanitarie mondiali denunciano una situazione “catastrofica”: la fame e la malnutrizione minacciano centinaia di migliaia di gazawi, colpendo in modo drastico i bambini e i malati cronici. La distribuzione degli aiuti umanitari è ostacolata dai combattimenti e dai blocchi israeliani, tanto che il Programma Alimentare Mondiale lamenta l’impossibilità di far giungere le forniture tramite camion, obbligando spesso a ricorrere a rischiose consegne via aria, che non riescono comunque a coprire il fabbisogno complessivo della popolazione. Intanto molte famiglie rischiano la vita cercando di avvicinare i punti di distribuzione o i drop aerei, mentre la tensione tra la fame e la guerra si trasforma in una lotta quotidiana per la sopravvivenza. Il rischio di morte per fame si somma a quello per i bombardamenti, creando un circolo vizioso che colpisce i più vulnerabili.

A livello diplomatico, il fronte della guerra appare bloccato. Hamas ha dichiarato di essere pronta alla restituzione di tutti gli ostaggi ancora nelle proprie mani, in cambio della liberazione dei detenuti palestinesi, del cessate il fuoco permanente, del ritiro delle forze israeliane da tutta Gaza e della riapertura dei confini, passo cruciale per la ripresa delle attività civili e la ricostruzione del territorio. Israele, tuttavia, ha respinto la proposta, etichettandola come mera propaganda, insistendo invece sul disarmo totale di Hamas, la restituzione di tutti gli ostaggi e il controllo militare sulla Striscia. Le condizioni poste dalle due parti sembrano quindi irrimediabilmente incompatibili, con il risultato che la guerra prosegue e la popolazione civile paga il prezzo più alto.

Le trattative per un cessate il fuoco, seguite nei mesi precedenti dal coinvolgimento di mediatori regionali come l’Egitto e il Qatar, si sono arenate dopo il rifiuto reciproco sulle condizioni proposte. Gli Stati Uniti hanno provato ad assumere il ruolo di mediatori, ma i negoziati si sono bloccati e non esiste al momento nessun segnale di ripresa concreta del dialogo. Le dichiarazioni delle parti continuano a essere intransigenti: Israele promette di liberare i territori di Gaza da ogni presenza armata di Hamas, mentre la fazione palestinese chiede la garanzia di poter ricostruire e vivere senza la minaccia di incursioni armate e bombardamenti indiscriminati.

Sul fronte militare, le truppe israeliane stanno portando avanti le fasi iniziali di una nuova offensiva volta a prendere il controllo di Gaza City, la zona più popolosa della Striscia. Molte delle circa un milione di persone che vivevano in città risultano sfollate e costrette a rifugiarsi in aree protette o improvvisati campi, spesso colpiti anch’essi dalle bombe. Il portavoce delle forze armate israeliane ha dichiarato che circa il 40% della città è ora sotto controllo israeliano e che le operazioni proseguiranno con ulteriore intensità nei prossimi giorni.

Israele ribadisce che i propri attacchi hanno l’obiettivo di colpire esclusivamente obiettivi militari e di evitare vittime civili, attribuendo la responsabilità dei morti a Hamas che, secondo il governo di Tel Aviv, utilizza le aree densamente abitate come basi operative. La comunità internazionale, tuttavia, esprime crescente preoccupazione per il continuo aumento delle morti tra la popolazione civile e per la difficoltà nel distinguere chiaramente tra obiettivi militari e residenziali in un contesto urbano tanto densamente popolato. Diverse organizzazioni, tra cui Human Rights Watch e Amnesty International, hanno chiesto cessate il fuoco immediato, l’apertura di corridoi umanitari e il rispetto del diritto internazionale, incluse le regole sulla protezione dei civili nei conflitti armati.

La gravità della crisi umanitaria mette in discussione la capacità del sistema internazionale di intervenire efficacemente e tutelare i diritti fondamentali della popolazione palestinese. Il dramma della fame e della mancanza di cure mediche si traduce anche in una pressione psicologica costante sui sopravvissuti, che vivono nella paura permanente. Molti bambini hanno perso intere famiglie e si ritrovano orfani e traumatizzati da esperienze di bombardamenti, distruzione e violenza. La distruzione materiale è confermata dai dati satellitari: vastissime aree di Gaza sono ridotte in macerie, scuole e ospedali distrutti, infrastrutture irrecuperabili e sistemi idrici e fognari compromessi per anni.

Nel contesto del conflitto, i tentativi internazionali di porre fine alle ostilità non hanno dato i frutti sperati. Più di cento organizzazioni no profit hanno denunciato la strumentalizzazione del flusso degli aiuti da parte delle autorità israeliane, bloccando l’ingresso di forniture vitali. Scene di disperazione popolano i report delle agenzie umanitarie: donne e bambini morti in fila per il cibo, giovani spinti dalla fame rischiano la vita nell’inseguire gli airdrop di farine e medicinali, medici costretti a lavorare senza strumenti, feriti e malati che non trovano alcuna possibilità di salvezza.

Ciò che sta avvenendo nella Striscia di Gaza pone domande sul futuro dell’intera regione, alimentando la spirale di odio e vendetta tra le popolazioni e rendendo sempre più difficile un vero processo di pace. Decine di rapporti delle organizzazioni internazionali mettono in evidenza il drammatico impatto sui minori, con un’intera generazione cresciuta tra macerie, fame, violenza e privazioni.

La popolazione di Gaza, stremata da continui bombardamenti e una crisi umanitaria senza precedenti, si trova oggi in condizioni di sopravvivenza estrema. La cifra di 64.000 morti è il simbolo più duro di una guerra che sembra non trovare soluzione. E mentre le diplomazie mondiali continuano a dibattere su come porre fine alle ostilità, il prezzo pagato dagli abitanti di Gaza è incalcolabile.

Putin e la linea rossa: “I soldati stranieri in Ucraina saranno bersagli legittimi”

Vladimir Putin ha dichiarato che qualsiasi contingente militare straniero inviato in Ucraina prima della firma di un accordo di pace sarebbe considerato un “bersaglio legittimo” dalle forze russe, una posizione che rilancia la tensione diplomatica e militare tra Mosca e l’Occidente. Queste affermazioni, pronunciate durante il Forum Economico Orientale a Vladivostok, arrivano appena dopo il rinnovato impegno europeo verso un potenziale dispiegamento di forze di “rassicurazione” in Ucraina, non appena i combattimenti terminassero.

Putin ha ribadito con fermezza che la presenza di truppe straniere oggi, nel vivo delle ostilità, le rende un obiettivo dichiarato per l’apparato militare russo. Non si tratta di una minaccia velata, ma di una chiara linea rossa: qualsiasi truppa occidentale schierata sul suolo ucraino, sia in qualità di forza di pace sia come garanzia di sicurezza, vedrebbe la sua incolumità a rischio diretto. Questo scenario si inserisce in una dinamica complessa, in cui Mosca rifiuta categoricamente qualsiasi formula di peacekeeping che preveda soldati di altri Paesi in Ucraina, sia nel periodo bellico che in quello successivo.

Il dibattito si è intensificato dopo l’iniziativa del presidente francese Emmanuel Macron, che ha annunciato che 26 alleati dell’Ucraina hanno dato la propria disponibilità a mandare truppe, navi o equipaggiamenti, nel periodo post-cessate il fuoco, per garantire la sicurezza e la stabilità del Paese aggredito. La coalizione di Parigi, composta da 35 Stati, punta a fornire una presenza internazionale capace di scoraggiare nuove aggressioni russe e di proteggere il fragile equilibrio che si verrebbe a creare dopo una eventuale firma sulla pace. Macron, inoltre, ha sottolineato che questa forza non ha l’obiettivo di combattere contro il Cremlino, ma di tutelare la sicurezza ucraina.

Mosca, tuttavia, ribadisce con forza che tale presenza non solo non garantirebbe la sicurezza dell’Ucraina, ma al contrario metterebbe in gioco la stabilità della regione e costituirebbe una minaccia anche verso la Russia stessa. Il portavoce presidenziale Dmitry Peskov ha sostenuto che le garanzie di sicurezza richieste da Kyiv non possono essere assicurate tramite contingenti militari stranieri, in quanto ciò minerebbe inevitabilmente la sicurezza della Federazione Russa. Tale posizione è rafforzata dalla narrativa russa che identifica la presenza della NATO e di forze occidentali nei Paesi limitrofi come un’escalation e una rottura degli equilibri storici nell’area. Mosca accusa quindi le proposte europee di essere una provocazione.

Parallelamente, Putin ha respinto la possibilità di uno schieramento internazionale anche dopo la pace, sostenendo che non ci sarebbe più nessuna necessità di truppe straniere qualora si raggiungesse un accordo realmente stabile e duraturo. In questo quadro, il leader russo ha dichiarato che la volontà di Mosca è quella di rispettare integralmente ogni trattato firmato, auspicando che entrambi gli Stati coinvolti, Russia e Ucraina, possano vedere riconosciute reciproche garanzie di sicurezza. Il presidente russo ha rilanciato anche l’ipotesi di un incontro con Zelensky, proponendo come sede Mosca stessa e garantendo la protezione totale della delegazione ucraina, un gesto che però Kyiv ha rifiutato poiché non intende negoziare nella capitale russa, preferendo un contesto neutrale.

La questione delle garanzie di sicurezza è centrale nella strategia ucraina: Kyiv teme infatti che senza impegni formali e la presenza internazionale, Mosca possa riorganizzarsi e lanciare nuove offensive, vanificando i risultati di eventuali negoziati di pace. Zelensky si è detto favorevole al coinvolgimento di Washington in un piano di sicurezza, precisando però che la formula di questa partecipazione è ancora in discussione. Gli Stati Uniti hanno affermato di essere disponibili a valutare il proprio coinvolgimento, tramite Macron e altri interlocutori, ma sono al momento lontani dal fornire dettagli operativi o tempistiche concrete.

La posizione russa, negativa e granitica verso qualsiasi presenza occidentale, si inserisce in un contesto di sfida geopolitica più ampia, dove Mosca vede nell’iniziativa europea un rischio militare diretto, ma anche un tentativo di consolidare l’influenza occidentale ai confini russi. L’invasione su larga scala, iniziata il 24 febbraio 2022 e anticipata dall’annessione della Crimea, ha generato anche una reazione sulla governance della sicurezza paneuropea, con oscillazioni tra volontà di deterrenza e timori di escalation. Alcuni osservatori avvertono che un dispiegamento di peacekeepers potrebbe trasformarsi in una trappola strategica per l’Europa, poiché la reazione russa potrebbe estendersi anche al di fuori dell’Ucraina, creando nuovi scenari di pressione.

Gli Stati europei infatti, pur mostrando un fronte apparentemente compatto, sono chiamati a riflettere sulla reale capacità di intervenire a tutela di Kyiv, senza provocare un’escalation oltre il territorio ucraino. Alcuni esperti di relazioni internazionali, però, mettono in guardia: abbandonare l’Ucraina, rinunciando al dispiegamento di forze, significherebbe dare via libera a Mosca per nuove azioni aggressive e indebolire la credibilità occidentale nell’intera regione.

La drammatica escalation verbale registrata negli ultimi giorni non sembra portare a una rapida soluzione negoziale. In assenza di segnali concreti, la discussione sulla presenza di truppe stranieri rimane speculativa, ma la deterrenza esercitata dalla minaccia russa è intesa da Mosca come un elemento fondamentale della sua strategia. La battaglia per le garanzie di sicurezza, tra richieste ucraine e veto russo, è la vera posta in gioco per il futuro del conflitto e della stabilità europea. In questa complessa partita, i margini di manovra delle diplomazie occidentali appaiono stretti, e la concreta applicabilità delle proposte di Parigi, Bruxelles e Washington va ancora misurata alla luce delle reazioni di Mosca.

Putin, dopo oltre tre anni e mezzo di guerra, mantiene un profilo inflessibile e rilancia la sua influenza proprio nelle ore in cui la discussione internazionale prova a trovare nuove soluzioni per la pace. Il concetto di “bersagli legittimi” suona come un avvertimento, ma anche come un chiaro segnale volto ad alimentare preoccupazione nelle cancellerie occidentali, quasi a voler congelare qualsiasi iniziativa multilaterale prima ancora di raggiungere un vero compromesso.

Forno elettrico ex Ilva, tra sogni di rilancio e incubo ambientale: le ombre del consenso istituzionale

0

Il consenso unanime raggiunto a Genova sul progetto del forno elettrico per l’ex Ilva di Cornigliano nasconde una realtà più complessa di quanto le dichiarazioni istituzionali lascino intendere. Dietro i numeri rotondi degli investimenti da 1,3 miliardi e le promesse di centinaia di posti di lavoro, si celano interrogativi ambientali che dividono profondamente la città e che riportano alla memoria i fantasmi di un passato industriale che ha lasciato cicatrici profonde nel tessuto urbano del Ponente genovese.

La sindaca Silvia Salis, nel dare il suo benestare al progetto, ha dovuto fare i conti con una contraddizione che attraversa tutta la sua amministrazione. Da un lato il riconoscimento che “la tecnologia sia cambiata” e che esistano “rassicurazioni dal punto di vista di ricaduta ambientale con basi scientifiche molto solide”, dall’altro la consapevolezza di “capire la rabbia dei cittadini” per quello che è successo nei decenni passati. Questa duplicità di posizione rivela quanto sia complesso bilanciare le necessità economiche con le preoccupazioni sanitarie di un territorio che porta ancora i segni di decenni di inquinamento industriale.

La tecnologia del forno elettrico ad arco, pur rappresentando un significativo passo avanti rispetto ai vecchi altoforni, non è esente da impatti ambientali che potrebbero riaccendere le preoccupazioni dei residenti di Cornigliano. Secondo gli studi tecnici più recenti, questo tipo di impianto produce comunque tra i 10 e i 20 chilogrammi di polveri per ogni tonnellata di acciaio lavorato, polveri che contengono inevitabilmente metalli pesanti come zinco, cadmio, piombo, arsenico e mercurio. La differenza sostanziale rispetto al passato sta nei sistemi di filtrazione, ma la produzione di sostanze potenzialmente nocive rimane una costante del processo siderurgico.

Il ministro Adolfo Urso e il governatore Marco Bucci hanno puntato molto sull’aspetto della sostenibilità dell’operazione, definendo il progetto come parte della strategia di decarbonizzazione della siderurgia italiana. Tuttavia, la sostenibilità del forno elettrico dipende criticamente dalla fonte di energia utilizzata. Se l’elettricità proviene da fonti fossili, le emissioni di CO2, pur ridotte rispetto all’altoforno tradizionale, rimangono significative. La Liguria, con un mix energetico ancora dipendente dai combustibili fossili, potrebbe non garantire quella neutralità carbonica che viene spesso evocata come principale vantaggio della tecnologia elettrica.

La questione della materia prima rappresenta un altro nodo critico spesso trascurato nel dibattito pubblico. Il forno elettrico lavora prevalentemente rottami metallici, e la qualità di questi materiali di scarto determina direttamente l’impatto ambientale dell’intero processo. I rottami possono contenere sostanze radioattive provenienti da apparecchiature mediche dismesse, PCB da vecchi trasformatori, vernici al piombo da demolizioni automobilistiche. La selezione e il controllo di questi materiali richiede procedure complesse che, se non gestite correttamente, possono trasformare il processo di riciclo in una fonte di contaminazione.

I comitati cittadini, che hanno scelto di non partecipare al tavolo ministeriale organizzando invece una manifestazione di protesta, rappresentano la voce di chi ha vissuto sulla propria pelle le conseguenze dell’inquinamento industriale. Il comitato “No forno elettrico” considera “un incubo il ritorno della produzione a caldo nella delegazione del Ponente”, una posizione che affonda le radici in decenni di convivenza forzata con le emissioni degli impianti siderurgici. La memoria collettiva di Cornigliano è segnata da tassi di patologie respiratorie superiori alla media regionale, da decessi per tumore polmonare che hanno interessato intere famiglie, da bambini costretti a crescere respirando aria inquinata.

La sindaca Salis ha riconosciuto implicitamente questi timori parlando di “approfondimenti ambientali” richiesti, ma la natura di questi approfondimenti rimane vaga nelle dichiarazioni pubbliche. Gli studi di impatto ambientale per impianti di questo tipo dovrebbero includere valutazioni dettagliate delle emissioni diffuse, analisi dei venti dominanti per determinare la dispersione degli inquinanti, monitoraggio delle polveri sottili e ultrasottili che rappresentano il maggior rischio per la salute umana. Tuttavia, spesso questi studi vengono condotti utilizzando parametri standard che non tengono conto delle specificità del territorio e della densità abitativa dell’area.

Il progetto prevede la liberazione di 300mila metri quadrati di aree industriali per altre attività, un aspetto presentato come benefico ma che nasconde ulteriori criticità ambientali. Questi terreni, dopo decenni di attività siderurgica, potrebbero necessitare di costose operazioni di bonifica prima di poter essere riutilizzati. La caratterizzazione dei suoli, la rimozione di eventuali contaminanti, il monitoraggio delle falde acquifere rappresentano costi ambientali ed economici spesso sottovalutati nella fase iniziale dei progetti di riconversione industriale.

L’aspetto più preoccupante emerso durante gli incontri in prefettura riguarda la gestione dei rifiuti prodotti dal processo. Un forno elettrico genera tra 0,2 e 0,5 tonnellate di rifiuti speciali per ogni tonnellata di acciaio prodotto, rifiuti che includono scorie, polveri filtrate, refrattari esausti e fanghi di depurazione. Questi materiali, classificati spesso come pericolosi, richiedono sistemi di smaltimento specializzati che possono rappresentare un ulteriore fattore di rischio ambientale se non gestiti con procedure rigorose.

La mancanza di trasparenza sui soggetti che dovranno realizzare l’investimento aggiunge ulteriori elementi di incertezza. Come ha sottolineato lo stesso ministro Urso, sono gli investitori privati che dovranno presentare il piano industriale, ma l’identità di questi soggetti rimane ancora indefinita. La storia della siderurgia italiana è costellata di promesse industriali non mantenute, di investimenti annunciati e mai realizzati, di standard ambientali dichiarati ma non rispettati. La paura espressa dalla sindaca Salis che “questa gara vada deserta” potrebbe rivelarsi meno preoccupante di uno scenario in cui investitori poco affidabili ottengano le autorizzazioni per poi non rispettare gli impegni ambientali assunti.

Il coinvolgimento del sindacato nell’accordo, pur importante dal punto di vista sociale, non può mascherare il fatto che le organizzazioni dei lavoratori hanno storicamente privilegiato la salvaguardia dell’occupazione rispetto alle considerazioni ambientali. Questa dinamica, comprensibile dal punto di vista umano e sociale, ha spesso portato a compromessi al ribasso sugli standard di sicurezza ambientale, con le comunità locali costrette a subire le conseguenze sanitarie di scelte dettate da necessità economiche immediate.

L’operazione genovese si inserisce in un contesto europeo di transizione energetica che presenta ancora molte contraddizioni. Mentre l’Unione Europea spinge verso la decarbonizzazione dell’industria pesante, la concorrenza dei prodotti siderurgici asiatici, realizzati spesso con tecnologie molto inquinanti, rischia di rendere vani gli sforzi ambientali se non accompagnata da misure protettive del mercato interno. Il paradosso è che l’industria europea potrebbe diventare più pulita ma meno competitiva, spingendo la produzione verso paesi con standard ambientali più permissivi e aumentando, di fatto, l’inquinamento globale.

La questione del forno elettrico a Cornigliano rappresenta, dunque, molto più di una semplice operazione industriale. È il simbolo delle contraddizioni di una società che deve conciliare sviluppo economico, sostenibilità ambientale e giustizia sociale in un territorio che porta ancora le ferite di scelte industriali passate. Il consenso istituzionale raggiunto, per quanto importante dal punto di vista politico, non può cancellare i legittimi timori di una comunità che chiede garanzie concrete sulla propria salute e su quella delle generazioni future.

Indonesia: tensione e richieste di verità scuotono il Paese

Jakarta è al centro di una delle più gravi crisi sociali dell’ultimo decennio in Indonesia, dove l’ondata di proteste esplosa contro i benefici extralussuosi destinati ai parlamentari ha rapidamente assunto una dimensione nazionale. Le manifestazioni hanno travolto le principali città dell’arcipelago, lasciando il Paese sospeso tra rabbia, paura e sgomento. Secondo la Commission for the Disappeared and Victims of Violence (KontraS) sono almeno venti le persone scomparse durante gli scontri, una cifra che si aggiunge ai molti arresti e alle vittime causate da una gestione delle piazze che è sempre più sotto accusa.

Il movimento di protesta, nato in reazione alla scoperta che ogni deputato riceveva un’indennità mensile per l’alloggio pari a circa 3 mila dollari, quasi dieci volte il salario minimo di Jakarta, si è diffuso rapidamente dalle strade della capitale alle città di Bandung, Depok, e alle aree amministrative di Central, East e North Jakarta. Le proteste non hanno riguardato solo la corruzione e i privilegi parlamentari, ma sono state alimentate dal crescente malcontento per la disoccupazione, l’austerità, l’inflazione e la brutalità delle forze dell’ordine. La scintilla definitiva è stato il video diventato virale in cui un giovane corriere veniva ucciso da un veicolo della polizia durante gli scontri, gettando nello sconforto migliaia di famiglie e intensificando la rabbia verso le forze dell’ordine.

Durante la settimana di manifestazioni, la pressione sulle istituzioni è salita in modo vertiginoso. Il presidente Prabowo Subianto si è visto costretto a ritirare molte delle agevolazioni e dei benefit concessi ai parlamentari; ha annullato il suo viaggio, previsto tra fine agosto e inizio settembre, durante il quale avrebbe partecipato al vertice SCO a Tianjin e alla parata del Victory Day a Pechino, e ha sospeso i viaggi ufficiali dei parlamentari, procedendo a una revisione delle indennità. Ma la sua marcia indietro non è bastata a placare la protesta, che si è fatta più violenta con il passare dei giorni. La capitale e le altre città sono state presidiate da reparti militari e dalla polizia antisommossa che hanno cercato di bloccare manifestanti e scontri davanti al parlamento, provocando una escalation di tensioni con l’arresto di oltre 1.200 persone dal 25 agosto. La situazione a Jakarta si è fatta talmente caotica che, secondo le fonti locali, il bilancio dei giorni più drammatici conta almeno sei vittime ufficiali, con altre fonti internazionali che arrivano a parlare di otto morti.

Il ruolo della polizia è stato ora messo sotto la lente di osservazione dalla comunità internazionale, in particolare dalle Nazioni Unite, che hanno chiesto indagini approfondite sull’uso sproporzionato della forza. L’arresto di Delpedro Marhaen, noto attivista e direttore della ONG Lokataru Foundation, accusato di incitamento alla rivolta, è stato solo l’ultimo episodio in un crescendo di tensioni fra società civile e apparato statale. Secondo KontraS, la maggior parte delle venti persone scomparse proviene dalle aree urbane di Java ed è composta da giovani e studenti, coinvolti negli scioperi e nei cortei, ridotte al silenzio da sparizioni improvvise e gesti di violenza non identificata. Nonostante gli sforzi dei familiari e delle organizzazioni civili, la polizia e le autorità nazionali non hanno ancora fornito risposte esaustive sulla sorte degli scomparsi.

La dinamica delle proteste ha seguito uno schema ormai noto: manifestazioni inizialmente pacifiche che si tramutano in scontri violenti, barricades improvvisate, incursioni nelle sedi governative, assalti alle abitazioni dei ministri come quella di Sri Mulyani Indrawati. In molte circostanze, gli studenti si sono uniti ai lavoratori e ai disoccupati, marciando con striscioni e cori che chiedevano giustizia sociale e fine della corruzione. Tuttavia, l’intervento della polizia ha spesso anticipato i raduni con l’uso di cannoni ad acqua, lacrimogeni e massicce cariche che hanno disperso i manifestanti nelle vie adiacenti.

Le sparizioni si sono concentrate soprattutto durante questi momenti di caos, con testimoni che parlano di persone prelevate senza spiegazioni nei pressi di barricate e luoghi di scontro, e avvistamenti in località difficilmente identificabili. Alcuni giovani che cercavano di mettersi al riparo hanno riferito di essere stati inseguiti, mentre altre fonti raccontano di sequestri nei pressi delle stazioni ferroviarie e nei quartieri periferici di Jakarta. L’indignazione della società civile cresce di pari passo con la frustrazione di chi teme di non rivedere più i propri cari.

L’eco delle rivolte non si è limitata alla sola metropoli: in tutto l’arcipelago indonesiano si sono registrati cortei e raduni spontanei anche a Gorontalo, Sulawesi, e in altre città medie, a dimostrazione della portata nazionale della crisi. Il bilancio delle proteste è aggravato dalla mancanza di trasparenza e dalla diffusa percezione di impunità per le forze di sicurezza, un tema che si riflette nelle richieste di giustizia che animano le piazze.

Mentre il presidente Prabowo si trova costretto a gestire una crisi che rischia di minare la stabilità dell’intero sistema politico indonesiano, la pressione internazionale diventa sempre più intensa. Le parole della portavoce dell’ONU Ravina Shamdasani hanno sottolineato come “la violenza e la sparizione di persone non possono essere tollerate”, e hanno riaperto il dibattito sulla necessità di riforme e sull’urgenza di garantire diritti istituzionali ai cittadini. Le famiglie continuano ad attendere risposte dalle autorità e dagli organismi di sicurezza, mentre la società civile indonesiana si mobilita per chiedere chiarezza e giustizia per i venti scomparsi.

La situazione rimane tesa e le prospettive incerte. Le proteste contro i privilegi parlamentari, nate come manifestazione di disagio economico e sociale, si sono trasformate in una rivolta contro l’intero sistema, obbligando le istituzioni a rivedere le proprie politiche e a rafforzare meccanismi di trasparenza e responsabilità. In strada, giovani, studenti e lavoratori chiedono non solo la restituzione dei fondi pubblici, ma anche il rispetto della dignità, della vita e della sicurezza individuale. Il dramma delle venti persone scomparse è diventato il simbolo di una ferita collettiva che attraversa tutti gli strati della società indonesiana.

Yemen. Funerale di massa per i leader Houthi, la vendetta infiamma

0

Il funerale solenne che ha riunito migliaia di persone nella moschea di Al-Saleh a Sanaa, capitale dello Yemen, è stato molto più di una semplice cerimonia: ha rappresentato l’epilogo di uno degli attacchi israeliani più gravi contro la leadership Houthi e l’inizio di una nuova fase della crisi mediorientale. Secondo le prime notizie dei media locali dodici esponenti di primo piano, un numero da confermare, tra cui il primo ministro Ahmed Ghalib al-Rahwi, sono stati uccisi da un raid aereo giovedì scorso, mentre si erano riuniti per ascoltare un discorso televisivo di Abdul Malik al-Houthi, il leader politico del movimento. L’attacco ha colpito il cuore del potere civile Houthi, provocando la morte di una parte significativa della leadership politica, lasciando la popolazione in lutto.

La scena del funerale è stata densa di tensione e dolore, con migliaia di persone che si sono strette attorno alle bare dei leader scomparsi, muniti di slogan contro Israele e gli Stati Uniti. Il culto della leadership e il senso di martirio che permea il movimento Houthi sono stati visti in tutta la loro forza: le voci di vendetta si sono diffuse con la stessa intensità delle preghiere. Mohammed Miftah, vice di al-Rahwi e nuovo capo dell’amministrazione, ha assunto un ruolo centrale nell’evento, promettendo durissime ritorsioni e attribuendo la responsabilità del raid non solo a Israele, ma anche agli Stati Uniti, agli “arabi sionisti” e ai presunti informatori locali. L’attacco ha profondamente destabilizzato l’organizzazione interna dei ribelli, lasciando ferite che vanno ben oltre la perdita materiale di molti dei suoi leader. Al tempo stesso, ha rafforzato la determinazione degli Houthi di “non arretrare”.

L’operazione militare israeliana è stata caratterizzata da una pianificazione precisa e informazioni di intelligence tempestive, con l’obiettivo dichiarato di colpire i vertici della gestione politica e militare locale. Secondo fonti israeliane, il raid è avvenuto durante il raduno di circa dieci dei principali leader Houthi, scegliendo come bersagli anche un sito nei pressi della collina Jabal Atan e la residenza presidenziale tenuta dai ribelli, tra le zone più difese di tutta la città. Le informazioni dell’intelligence israeliana hanno permesso di identificare la presenza dei leader, facilitando un attacco rapido e letale.

La reazione degli Houthi è stata immediata e feroce. Nel discorso tenuto durante il funerale, Miftah ha annunciato anche un giro di vite sugli informatori, preannunciando arresti e stretta contro i presunti collaboratori interni. La tensione a Sanaa è cresciuta ulteriormente dopo le incursioni dei ribelli nelle sedi delle Nazioni Unite in città, con almeno undici membri dello staff dell’ONU arrestati la domenica successiva al raid. Episodi simili si sono già verificati in passato, con i ribelli che hanno detenuto operatori umanitari e diplomatici per sospetti di spionaggio, intensificando così il clima di sospetto e paura.

Sul piano politico, l’attacco segna uno spartiacque per la leadership Houthi, che ora teme future azioni mirate contro le figure militari più influenti. In un messaggio pubblico, Mahdi al-Mashat, presidente del Consiglio Politico Supremo Houthi, ha ribadito: “la nostra posizione non cambierà e resisteremo finché l’aggressione non si fermerà e il blocco non sarà revocato, a prescindere dalla gravità delle sfide”.

A livello internazionale, la risposta è stata varia. Molti Stati arabi e musulmani, pur storicamente divisi sulle dinamiche interne dello Yemen, hanno espresso preoccupazione per l’escalation e temono che la tensione tra Israele e i ribelli sciiti possa espandersi nella regione, diffondendo instabilità lungo le già fragili linee di rifornimento energetico attraverso il Mar Rosso. Dopo gli attacchi Houthi contro navi occidentali ed israeliane nel Mar Rosso, la coalizione guidata dagli Stati Uniti aveva concluso i propri raid aerei, e questo ha accellerato lo scontro diretto tra il movimento yemenita e Israele. La decisione israeliana di colpire così duramente la leadership Houthi arriva dopo ripetuti lanci di droni e missili diretti verso Israele, spesso intercettati ma comunque fonte di grave preoccupazione per la sicurezza nazionale israeliana.

Il funerale a Sanaa è diventato teatro di un’importante dichiarazione di identità politica Houthi, con Miftah che davanti alla folla ha scandito promesse di vendetta e lotta contro “il nemico sionista e i suoi alleati arabi”. La cerimonia si è svolta in un’atmosfera di grande solennità, con i manifestanti che innalzavano le foto dei leader uccisi e richieste di “giustizia” che mescolavano la rabbia popolare all’orgoglio nazionale. In sottofondo, voci di resistenza e inviti all’unità hanno reso il momento una vera e propria investitura della nuova leadership, ora chiamata a difendere la causa anche davanti a possibili ulteriori attacchi israeliani.

Il bilancio del raid è drammatico: gran parte del governo Houthi è stata eliminata, con il nuovo esecutivo che si ricostruisce attorno a figure come Miftah, già considerato un esponente di spicco della linea dura. Se Israele ha rivendicato il successo dell’operazione sottolineando l’efficacia dell’intelligence militare, gli Houthi celebrano il martirio dei loro leader come un punto di svolta che chiamerà a raccolta la popolazione contro quella che viene percepita come una “aggressione internazionale”. La determinazione a proseguire la lotta è diventata un mantra, ripetuto in ogni discorso e rilanciato su tutti i canali ufficiali del movimento.

Il raid israeliano ha cambiato gli equilibri interni dello Yemen, ma ha anche messo in discussione la capacità delle potenze esterne di prevenire una nuova ondata di violenze e ritorsioni in Medio Oriente. La scelta di Israele di colpire così fortemente la leadership Houthi segna una fase di guerra asimmetrica che rischia di inasprire ulteriormente il conflitto e di coinvolgere nuovi attori internazionali. Le strade di Sanaa, ancora segnate dalle distruzioni e dal lutto, sono ora teatro di nuove manifestazioni, con la popolazione che sfida le minacce e si stringe attorno al ricordo dei leader uccisi.

La crisi yemenita entra così in una nuova stagione di instabilità, dove la lotta per la sopravvivenza politica dei Houthi si intreccia con la necessità di resistere all’assalto degli avversari regionali e internazionali. Israele, dal canto suo, promette di continuare le operazioni di precisione contro obiettivi considerati strategici per la sicurezza nazionale, mentre i ribelli yemeniti giurano vendetta e intensificazione delle azioni militari e popolari. Lo scenario futuro appare contraddistinto da una lunga e sanguinosa battaglia per il potere, che coinvolge l’intera società yemenita.

Vertice a Pechino, Xi a Putin: “Caro amico”. L’asse russo-cinese ridefinisce gli equilibri globali

Il recente vertice tra Vladimir Putin e Xi Jinping a Pechino ha segnato una tappa significativa nella relazione tra Russia e Cina, con i due leader che si sono rivolti reciprocamente parole come “vecchio amico” e “caro amico”, sottolineando il carattere senza precedenti dell’intesa bilaterale.

Mentre il mondo assiste alla crescente divisione tra Oriente e Occidente, Pechino si fa cornice di un incontro che intende ridefinire gli equilibri globali di potere, trovando sia nelle dichiarazioni che nei gesti una precisa volontà di rafforzare un’alleanza strategica. Xi Jinping, accogliendo Putin con parole cariche di rispetto e calore, ha subito rimarcato come la loro relazione abbia resistito non solo alle pressioni diplomatiche occidentali ma anche agli stravolgimenti degli scenari internazionali, rivelando una solida convergenza di intenti.

Putin, reduce da un periodo di forte isolamento rispetto alle potenze occidentali a causa della guerra in Ucraina, ha trovato nella Cina un partner affidabile e uno spazio diplomatico privilegiato. Nel corso del summit, il presidente russo ha dichiarato che i rapporti tra Mosca e Pechino si trovano “a un livello senza precedenti”, aggiungendo che “il nostro stretto dialogo riflette l’essenza strategica delle relazioni Russia-Cina”. Le discussioni tra i due leader si sono focalizzate sulla necessità di un nuovo quadro per la sicurezza eurasiatica, che possa sostituire i modelli eurocentrici ed euro-atlantici promossi per decenni dall’Occidente. Questo servirebbe a favorire una “governance globale più equa e razionale”, secondo Xi Jinping.

L’agenda del summit non si è fermata all’analisi geopolitica. I temi trattati hanno toccato questioni di enorme rilevanza strategica: dalle sanzioni economiche imposte alla Russia da Stati Uniti ed Europa, all’affermazione dei nuovi ritmi commerciali internazionali che hanno visto la Cina sostenere il mercato russo tramite massicci acquisti di petrolio e una continuità delle relazioni commerciali nonostante il contesto conflittuale. Se Pechino mantiene la sua posizione ufficiale di neutralità rispetto al conflitto ucraino, è innegabile che rappresenti il principale sostegno economico di Mosca, e alcune sue aziende sono accusate di favorire indirettamente il settore militare russo.

Le parole scambiate tra i due leader non sono state semplici convenevoli. Putin ha sottolineato il valore storico della cooperazione russa con la Cina, ricordando come l’Unione Sovietica, pur neutrale nella maggior parte della guerra in Asia, abbia sostenuto la Cina contro le truppe giapponesi nel 1930, e abbia dichiarato guerra al Giappone negli ultimi giorni della Seconda Guerra Mondiale. In questo senso, la memoria delle alleanze passate si proietta nel presente, un messaggio volto non solo al pubblico interno ma soprattutto all’Occidente: la Cina e la Russia intendono consolidare una comunanza di interessi che va ben oltre la contingenza geostrategica.

L’aspetto cerimoniale del summit ha trovato il suo apice nella preparazione della parata militare in programma a Pechino, occasione per celebrare l’ottantesimo anniversario della capitolazione giapponese e il termine delle ostilità in Asia Orientale. La presenza di Putin, Xi e anche del leader nordcoreano Kim Jong Un a questo evento assume un significato simbolico di grande rilevanza, poiché suggella la coesione tra regimi autoritari pronti a presentarsi come alternativa all’ordine dominato da Washington e Bruxelles. L’assenza di delegazioni occidentali rilevanti, un fatto che va sottolineato, accentua ulteriormente la distanza che separa i due blocchi. Gli osservatori internazionali definiscono questi incontri come la manifestazione più concreta dell’“Asse del Sconvolgimento”, con l’intento dichiarato di inaugurare nuovi modelli di difesa e cooperazione che potrebbero ridefinire la sicurezza dell’intera regione Asia-Pacifico.

Inoltre, lo spirito collaborativo tra Cina e Russia si è tradotto nella pianificazione di venti nuovi accordi per rafforzare la cooperazione in settori chiave, un patto che è stato siglato a maggio di quest’anno a Mosca. Questi accordi includono ambiti di stabilità globale, diritto internazionale, bio-sicurezza, cultura ecc. segno che si mira a una partnership multidimensionale, capace di resistere sia alle pressioni geopolitiche che alle crisi economiche globali. L’amicizia tra Putin e Xi diventa, così, motore di una nuova fase strategica: i due leader si mostrano sorridenti, distesi, al centro di riunioni in ambienti rilassati, un’immagine costruita per trasmettere al mondo l’immagine di una complicità insolubile.

Lo scenario appare quindi profondamente modificato rispetto agli equilibri degli ultimi decenni. L’isolamento parziale della Russia dall’Occidente non ha fatto che accelerare la ricerca di alleati asiatici. La Cina, dal canto suo, approfitta della fragilità mostrata dal sistema occidentale, in particolare dai cambiamenti di rotta nella politica estera statunitense, per consolidare il suo ruolo di ago della bilancia nelle relazioni globali. Xi ha saputo costruire la narrazione di una Cina capace di garantire stabilità economica, diplomatica e militare agli Stati che si riconoscono nel suo modello, contendendo agli Stati Uniti il primato nella governance mondiale.

La parata militare di Pechino si è quindi proposta come una dimostrazione di coesione diplomatica tra potenze che condividono una visione comune: il desiderio di creare una sfera di cooperazione non subordinata ai dettami occidentali. Il messaggio è chiaro: la Cina e la Russia intendono affrontare insieme ogni futuro cambiamento di scenario globale. La presenza di Kim Jong Un rafforza la sensazione di una nuova alleanza a tre, benché i rapporti tra Pyongyang e Pechino rimangano segnati da molte incertezze. Tuttavia, la simbologia del leader nordcoreano al fianco di Xi e Putin è un potente segnale diplomatico che non può essere sottovalutato.

La scelta di Pechino per ospitare questo vertice non è casuale: la capitale cinese si conferma crocevia delle grandi decisioni del nuovo scacchiere internazionale, capace di attrarre leader del calibro di Putin e Kim per discutere decisioni che promettono di avere effetti di lungo periodo. Mentre l’Occidente si interroga sulla solidità delle proprie alleanze e sulla capacità di rispondere alle nuove sfide, le potenze russe e cinesi si preparano a dettare l’agenda delle prossime decadi. Xi e Putin hanno aggiunto a ogni dichiarazione ufficiale richiami alla storia, all’amicizia personale e alla necessità di un sistema di governance mondiale più giusto e bilanciato. Queste riflessioni costituiscono il nucleo propulsore dell’attuale fase politica.

La potenza delle immagini e dei simboli è stata la protagonista del vertice: le strette di mano tra i leader, i sorrisi durante i banchetti ufficiali, ma anche le parole scambiate davanti alle telecamere. In questa scenografia costruita con cura, l’asse Pechino-Mosca rivendica un posto centrale nella trasformazione globale. Rimane da vedere come questa alleanza influenzerà concretamente lo sviluppo delle crisi in Ucraina, i rapporti economici internazionali e la crescita delle tensioni nell’area Asia-Pacifico. Ma è ormai evidente che la cooperazione strategica tra Russia e Cina è destinata a rafforzarsi ulteriormente, forte della comunanza tra i due leader e della convergenza di interessi che coinvolge la sfera politica, economica, culturale e militare.

Israele. Droni per il blocco navale, come funzionano

0

L’impiego di droni e quadricotteri nella strategia di interdizione navale israeliana contro le imbarcazioni dirette verso Gaza rappresenta uno dei più avanzati esempi di guerra tecnologica applicata al mare.

Gli eventi più recenti legati alla Freedom Flotilla, e in particolare all’episodio che ha visto protagonista la nave Handala nel luglio 2025, offrono uno spaccato dettagliato sia sulle modalità operative israeliane che sulle tecnologie in funzione.

L’avvistamento sul Handala del drone IAI Heron, un velivolo a pilotaggio remoto di medio-alta autonomia sviluppato da Israel Aerospace Industries, è stata la punta dell’iceberg di una manovra che ha coinvolto, secondo quanto riportato dagli attivisti a bordo, nel giro di 45 minuti ben 16 droni circolanti in quota sopra l’imbarcazione. Non si è trattato solo di sorveglianza: la presenza insistente e la manovrabilità dei droni sono state percepite come una pressione psicologica, capace di mantenere le persone a bordo costantemente in allerta e in tensione, mentre crescevano i timori per una possibile intercettazione o attacco diretto da parte delle forze israeliane.

IAI Heron

La tecnologia impiegata in questi contesti va ben oltre l’intimidazione. I droni Heron, infatti, non sono gli unici protagonisti dei cieli: Israele è leader mondiale nella produzione di sistemi UAV, con aziende come Israel Aerospace Industries ed Elbit Systems che forniscono piattaforme globalmente riconosciute per l’efficacia e la versatilità in scenari di ricognizione e attacco.

Il drone IAI Harop rappresenta una delle punte di diamante di questa tecnologia: definito “loitering munition”, è in grado di pattugliare aree strategiche trasferendo dati in tempo reale e, una volta individuato un bersaglio ritenuto ostile, schiantarsi ad alta velocità contro di esso con una carica esplosiva di 16 chili. Questa combinazione di sorveglianza persistente e capacità offensiva autonoma rende il sistema estremamente efficace nelle operazioni di contenimento marittimo, specialmente quando si tratta di bloccare con decisione imbarcazioni sospette o non allineate agli ordini dell’esercito israeliano.

Le piattaforme UAV come l’Elbit Hermes 900 aggiungono ulteriori possibilità operative. Dotato di un payload fino a 450 kg, autonomia di 24 ore e possibilità di lanciare missili mirati anche su bersagli in movimento, l’Hermes 900 è ideale per coprire vaste aree marittime e trasmettere immagini e dati radar in tempo reale.

Elbit Hermes 900

Il controllo di questi mezzi avviene da centri comando avanzati con operatori esperti che coordinano l’uso dei diversi droni, ciascuno con un ruolo specifico: osservazione, disturbo ravvicinato o attacco puntuale. I quadricotteri più piccoli, spesso inviati per primi sulle navi, svolgono attività di disturbo tramite sorvoli bassi, emissione di luci intermittenti, suoni penetranti e in alcuni casi rilascio di sostanze urticanti o pittura per impedire agli attivisti di esporre attrezzatura o operare manovre sul ponte.

In più di un’occasione sono stati registrati veri e propri attacchi alle zone nevralgiche delle imbarcazioni, come la prua o i compartimenti motore, volti a innescare incendi o danni strutturali in modo mirato.

Per la gestione delle operazioni autonome e integrate tra droni e mezzi navali, Israele schiera sistemi come il KATANA USV. Sviluppato da Israel Aerospace Industries, il KATANA è un veicolo di superficie senza equipaggio, agile e adattabile che può essere controllato a distanza oppure navigare con piena autonomia.

KATANA USV

Grazie all’architettura modulare, il KATANA può essere impiegato come piattaforma per diversi payload: sorveglianza elettro-ottica in HD, radar navali avanzati, sistemi di altoparlanti per comunicazioni a distanza e perfino sistemi di armi personalizzati. Con una lunghezza di quasi 12 metri, due motori diesel da 560 cavalli ciascuno, velocità massima di 60 nodi e capacità di sopportare fino a 2.200 kg di carico utile, il sistema è adatto sia a missioni di pattugliamento prolungato che a interventi rapidi di sicurezza portuale e difesa di asset strategici come piattaforme petrolifere o flotte in mare.

L’autonomia dichiarata raggiunge 350 miglia nautiche, il che consente copertura su vaste aree di mare, anche a grande distanza dai porti di partenza. La capacità di operare sia in modalità unmanned che con equipaggio consente una flessibilità operativa senza uguali nelle strategie di difesa costiera e blocco navale.iai

Il ricorso massiccio a flotte di droni ha introdotto una radicale trasformazione nel modo in cui Israele imposta la sicurezza marittima e il blocco di Gaza. Non solo rappresenta una forte deterrenza per chi cerca di sfidare via mare il blocco, ma riduce drasticamente i rischi per il personale militare e consente una risposta rapida e modulabile a seconda della minaccia: se l’imbarcazione non accenna a cambiare rotta, i droni sono subito in grado di colpire in modo preciso punti chiave della nave, spesso costringendola a fermarsi o provocando danni tali da rendere impossibile il proseguimento della missione.

È significativo notare che la narrativa delle organizzazioni umanitarie e degli attivisti a bordo delle navi evidenzia la pressione psicologica e fisica esercitata da questo tipo di operazioni: le luci intermittenti, la presenza costante di occhi elettronici puntati addosso, la comunicazione ostile diffusa da altoparlanti remoti e la minaccia concreta di attacco creano uno stato di allerta che impatta pesantemente sulla psiche degli equipaggi civili.

Episodi documentati, come il sequestro della Madleen nel giugno 2025 e l’attacco con droni ai danni del MV Conscience presso Malta nel maggio precedente, confermano quanto la presenza dei velivoli senza pilota rappresenti solo il primo tempo di un’operazione più ampia, che culmina frequentemente nell’abbordaggio diretto da parte delle navi della marina militare.

Israele si avvale inoltre delle più recenti piattaforme di droni emergenti, come la soluzione Viper della SpearUAV e i sistemi Smartshooter, capaci di lanciare munizioni leggere con estrema precisione anche da quadricotteri compatti.

Viper della SpearUAV

Questi dispositivi vengono sguinzagliati dal ponte delle navi madre e sono capaci di colpire e neutralizzare in modo selettivo parti sensibili delle imbarcazioni avversarie. La proliferazione di differenti modelli, dal piccolo disturbatore volante ai grandi droni armati con capacità multi-missione, dimostra chiaramente una dottrina di difesa marittima improntata sulla complessità e la capacità di saturare le risorse difensive dell’avversario con evoluta tecnologia offensiva.

L’impatto di questi sistemi sulla sicurezza regionale e sulle dinamiche geopolitiche del Mediterraneo orientale è oggetto di acceso dibattito e di preoccupazione sempre crescente anche a livello internazionale. Non solo per la questione umanitaria correlata al blocco di Gaza, ma per la più ampia riflessione sull’automazione del conflitto navale: le tecniche israeliane stanno facendo scuola in tutto il mondo, ponendo interrogativi su legalità, etica, e rischi di escalation laddove i confini tra controllo umano e autonomia delle macchine si fanno sempre più labili.

In un tempo brevissimo, la tecnologia dei droni navali e aerei si è imposta come nuova frontiera della sicurezza costiera, ridefinendo priorità e rischi delle missioni civili e militari.

Vertice di Tianjin: Xi, Putin e Modi ridisegnano gli equilibri mondiali

Il vertice della Shanghai Cooperation Organization (SCO) appena concluso a Tianjin si è rivelato uno tra i momenti più significativi nella recente storia diplomatica globale, con la presenza di Xi Jinping, Vladimir Putin e Narendra Modi, insieme a oltre venti altri leader di Eurasia. Quello che inizialmente poteva sembrare una riunione tra potenze regionali si è velocemente trasformato in una dimostrazione tangibile della rilevanza strategica crescente della Cina sulla scena internazionale. Xi Jinping ha così colto un’occasione straordinaria per sfruttare il distanziamento fra Stati Uniti e India, così come la riabilitazione diplomatica della Russia a seguito del riconoscimento da parte di Donald Trump, per consolidare alleanze e ridefinire il peso della Cina nell’ordine mondiale.

Il summit si è aperto con un’atmosfera densa di aspettative. Modi si è presentato in Cina per la prima volta da sette anni, e la sua visita è stata fortemente influenzata dal deterioramento dei rapporti con Washington, causato dalle tariffe statunitensi sui beni indiani, raddoppiate fino al 50%, e da misure punitive legate all’acquisto di petrolio russo. Questa tensione commerciale ha eroso fiducia nella tradizionale dipendenza dall’America, spingendo New Delhi a cercare una rotta più autonoma e bilanciata nel contesto asiatico, dove la Cina si configura come interlocutore obbligato e anche come rivale storico.

La posizione della Russia al vertice era altrettanto strategica quanto delicata. Dopo essere stata a lungo isolata dagli Stati Uniti e dall’Europa occidentale per l’invasione dell’Ucraina, Vladimir Putin ha ricevuto recentemente un trattamento di favore dagli Stati Uniti grazie al riconoscimento di Donald Trump e alle sue dichiarazioni volte a legittimare le rivendicazioni territoriali russe. La partnership tra Cina e Russia appare oggi rafforzata e ben poco minacciata dagli sforzi occidentali di frapporsi tra Xi e Putin, rendendo evidenti i limiti di una politica di contenimento che la leadership occidentale non riesce più a imporre con efficacia.

Durante le giornate del summit, Xi Jinping ha orchestrato una serie di manifestazioni che hanno superato la semplice diplomazia, culminando in una imponente parata militare a Pechino, in occasione dell’ottantesimo anniversario della fine della Seconda Guerra Mondiale. In questa cornice, Xi ha sostenuto una narrazione alternativa, attribuendo al Partito Comunista cinese e all’Unione Sovietica il merito decisivo nella vittoria sui nazisti. Questo revisionismo storico è stato fortemente promosso anche da Putin, nel tentativo di spostare il baricentro dei ricordi e delle glorie belliche dall’Occidente verso est. L’obiettivo dichiarato è quello di proporre una memoria alternativa a quella occidentale del dopoguerra, rafforzando la posizione di Cina e Russia come pilastri fondanti di un nuovo ordine mondiale.

PUTIN: CINA E URSS VINSERO I NAZISTI

Le dichiarazioni rilasciate al summit hanno sottolineato come la SCO non rappresenti soltanto un forum di sicurezza, ma una piattaforma per la promozione della multipolarità, alternativa al sistema internazionale a trazione occidentale. Xi ha ribadito questa visione presentando la Cina e l’India come “doppio motore” della crescita asiatica, nonché fautori di una leadership condivisa capace di bilanciare la “egemonia e la politica di potenza” degli Stati Uniti. La presenza di paesi emergenti come Turchia, Egitto, Malaysia, Pakistan e Iran rafforza ulteriormente il messaggio che i paesi non occidentali sono pronti a rivendicare autonomia, a dettare regole e a influenzare la governance globale.

Un ruolo centrale è stato occupato dal tema energetico: la Russia, penalizzata dalle sanzioni occidentali, ha rafforzato la propria partnership energetica con la Cina, mentre la recente imposizione delle tariffe statunitensi sull’acquisto del petrolio russo da parte dell’India ha reso Pechino il maggiore acquirente di greggio russo. Questo riassetto delle fonti energetiche, favorito dalle tensioni tra l’India e gli Stati Uniti, suggerisce che la Russia continuerà a vedere la Cina come partner privilegiato, soprattutto nei settori strategici e infrastrutturali.

Analisti e studiosi hanno letto in questa convergenza di interessi un segnale chiaro: Xi Jinping sta capitalizzando sull’isolamento strategico americano di India e Russia per rafforzare il suo ruolo di leader globale e proporre una governance internazionale modellata sui valori e sulle esigenze dei paesi non occidentali. Secondo Jonathan Czin della Brookings Institution, “il successo della politica estera di Xi risiede proprio nella capacità di attrarre un numero sempre più elevato di capi di stato verso Pechino, invertendo la tradizione secondo cui era la Cina a sentirsi accerchiata dagli alleati statunitensi.”

Modi, dal canto suo, ha affrontato la complessità di una relazione con la Cina fortemente segnata dai recenti scontri di confine, ma ha ribadito l’importanza di normalizzare i rapporti bilaterali e di promuovere regole chiare per il commercio globale, affermando la volontà di costruire un sistema multilaterale equo per gli stati in via di sviluppo. La sua presenza in Cina ha rappresentato anche un momento di svolta nella politica asiatica, con una riapertura dei canali diplomatici e commerciali, inclusa la ripresa di voli diretti e la firma di un nuovo accordo sui servizi aerei.

Non è mancato un risvolto simbolico e mediatico. “Regalare un pollice all’aggressore significa concedere tutto il braccio”, ha scritto l’ambasciatore cinese in India, Xu Feihong, in riferimento alle politiche tariffarie statunitensi. Xu ha inoltre spronato India e Cina a prendere il comando nello sviluppo globale, ribadendo l’idea che il continente asiatico, grazie ai suoi “due motori”, può guidare il mondo verso una nuova geopolitica più inclusiva e assertiva.

L’importanza attribuita al summit si riflette anche nell’impatto sugli equilibri interni delle relazioni asiatiche. Modi ha condiviso il palco con Shehbaz Sharif, premier pakistano, per la prima volta dopo l’operazione militare indiana del maggio scorso. Nonostante le tensioni recenti, entrambi i paesi hanno concordato una tregua, segnale minimo ma importante nella promozione di una stabilità regionale che resta ancora fragile e minacciata da rivalità storiche.

Il summit della SCO riflette una tendenza strutturale: le potenze non occidentali stanno tessendo alleanze, consolidando intese economiche e ideologiche, e puntano a sottrarre influenza agli Stati Uniti su scala globale. La presenza di leader come Xi, Putin e Modi, affiancati da decine di capi di Stato e di governo, sancisce un nuovo paradigma: il futuro delle relazioni internazionali sempre più dipenderà dalle strategie asiatiche, dalla valorizzazione di memorie alternative e dalla costruzione di modelli di governance che favoriscano non solo gli interessi immediati dei singoli paesi, ma anche una visione condivisa di multipolarità e cooperazione.

In questo scenario, la Cina emerge come catalizzatore di cambiamenti profondi, capace di attrarre attori chiave e di presentarsi come arbitro dei nuovi equilibri, mentre gli Stati Uniti, almeno in questa fase, sembrano perdere presa sulle dinamiche regionali e globali. La SCO diventa così il laboratorio dove si sperimentano nuove formule per la gestione di sicurezza, commercio, energia e cultura, sempre più slegate dalla leadership occidentale.