09 Dicembre 2025
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Colloqui segreti ad Abu Dhabi: la mossa di Trump per la pace in Ucraina

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  • Gli Stati Uniti hanno avviato colloqui di pace segreti con la Russia ad Abu Dhabi nel tentativo di porre fine alla guerra in Ucraina, mentre sul terreno infuriano ancora i bombardamenti. Il segretario dell’Esercito USA Dan Driscoll, divenuto l’uomo di punta della nuova offensiva diplomatica di Washington, è arrivato di nascosto nella capitale degli Emirati Arabi per incontrare rappresentanti del Cremlino.

Un funzionario americano ha confermato a Reuters lo svolgimento di questi colloqui non annunciati, sebbene i dettagli siano coperti dalla massima discrezione. Non è noto chi sieda nella delegazione russa né se ai negoziati partecipi direttamente anche Kiev; fonti Financial Times indicano però che Driscoll dovrebbe vedere anche l’alto responsabile dell’intelligence militare ucraina Kirilo Budanov durante la permanenza ad Abu Dhabi.

Il formato esatto resta incerto – non è chiaro se le tre parti si riuniranno insieme o separatamente, ma l’obiettivo dichiarato da Washington è esplicito: discutere il processo di pace e “far avanzare rapidamente” i negoziati. Questi incontri segreti arrivano in un momento cruciale, a quasi quattro anni dall’invasione russa dell’Ucraina. Sul campo la guerra continua a mietere vittime ogni giorno e mentre i diplomatici confabulavano negli Emirati, un pesante bombardamento missilistico russo si abbatteva su Kiev, uccidendo almeno sei persone nella notte.

Le sirene antiaeree hanno risuonato nella capitale e migliaia di civili si sono rifugiati sottoterra, avvolti in cappotti pesanti per ripararsi dal gelo degli improvvisati bunker nei tunnel della metropolitana. Scene simili si ripetono ormai regolarmente, sottolineando la posta in gioco di queste trattative: ogni giorno in più senza un accordo di pace significa nuove devastazioni e perdite di vite umane in Ucraina.

E le ripercussioni sconfinano oltre i confini: proprio stamattina la Romania, paese Nato, ha dovuto far decollare caccia militari dopo che alcuni droni sospetti, presumibilmente russi, hanno violato il suo spazio aereo vicino al confine ucraino. L’escalation tecnologica della guerra, tra sciami di droni e piogge di missili, mantiene alta la tensione anche sull’Europa orientale, alimentando l’urgenza di trovare una via d’uscita diplomatica al conflitto.

Il controverso piano di pace americano da 28 punti

Alla base dei colloqui di Abu Dhabi c’è un nuovo piano di pace elaborato dall’amministrazione Trump, una proposta in 28 punti emersa la scorsa settimana che ha colto di sorpresa Kiev, l’Europa e anche parte dello stesso governo statunitense. Washington ha infatti improvvisamente accelerato gli sforzi negoziali, dopo mesi di politiche oscillanti: ad agosto un vertice tra Donald Trump e Vladimir Putin, organizzato in gran fretta in Alaska, aveva allarmato gli alleati per il timore che gli Stati Uniti accettassero le richieste di Mosca, quell’incontro si concluse invece con una rinnovata pressione americana su Putin e nessun compromesso definitivo. Poche settimane più tardi, però, la Casa Bianca ha presentato un progetto di accordo che sembra recepire molti punti chiave delle domande russe.

Secondo varie fonti, il piano, inizialmente delineato in 28 punti, richiederebbe all’Ucraina di cedere ulteriori porzioni di territorio, accettare limiti alla propria capacità militare e impegnarsi a non entrare mai nella NATO. Condizioni di questo tenore, che Kiev ha sempre respinto in quanto equivalenti a una resa, hanno immediatamente sollevato allarme tra i sostenitori occidentali dell’Ucraina.

Di fatto, la bozza originaria del piano Trump rifletteva ampiamente le posizioni di Mosca: rinuncia all’adesione ucraina all’Alleanza Atlantica, ritiro delle truppe di Kiev dai territori del Donbass ancora sotto il loro controllo e riconoscimento dell’annessione russa de facto di Crimea e altre zone occupate nell’est. Non stupisce che il Cremlino abbia accolto positivamente l’iniziativa: lo stesso presidente Vladimir Putin ha dichiarato che questo schema americano potrebbe rappresentare “la base” per risolvere il conflitto.

Per il presidente ucraino Volodymyr Zelensky, invece, la situazione è delicatissima. Da un lato, l’offensiva diplomatica di Washington rischia di metterlo con le spalle al muro, in un momento in cui la sua posizione interna si è indebolita – di recente uno scandalo di corruzione ha travolto il suo governo portando alle dimissioni di due ministri chiave – e in cui sul fronte militare l’iniziativa è passata in parte alla Russia.

Dall’altro lato, Zelensky non può permettersi di apparire come un ostacolo alla pace: il logoramento della guerra erode il sostegno internazionale e la stessa popolazione ucraina, provata dai sacrifici, vuole intravedere una luce in fondo al tunnel. Il leader di Kiev teme tuttavia di essere forzato ad accettare un accordo scritto in larga misura a misura del Cremlino “calato dall’alto” da Washington, e ha più volte ribadito che non cederà mai alla Russia il futuro democratico e sovrano dell’Ucraina, nemmeno sotto pressione dagli alleati. In questa cornice, Zelensky si trova a dover bilanciare gratitudine e dipendenza verso il supporto occidentale con la necessità di non tradire gli obiettivi per cui il suo popolo sta combattendo.

Driscoll, l’emissario segreto di Trump: diplomazia d’assalto

Al centro di questo intricato sforzo di pace c’è Driscoll ha assunto un ruolo inedito per un alto dirigente del Pentagono, ovvero l’idea di impiegare un esponente militare di primo piano per condurre la missione diplomatica nasce, secondo il Wall Street Journal, dalla convinzione della Casa Bianca che Mosca possa essere più incline a fidarsi di un negoziatore in uniforme rispetto ai soliti canali politici. Trump avrebbe deciso di puntare proprio su Driscoll durante un colloquio privato con il suo vice presidente J.D. Vance, vecchio compagno di università di Driscoll, identificando in lui l’uomo giusto per un compito così delicato.

Prima di giungere ad Abu Dhabi per i colloqui segreti con i russi, Driscoll ha già visitato nelle scorse settimane le capitali direttamente coinvolte per preparare il terreno. La settimana scorsa era a Kiev alla testa di una delegazione del Pentagono, dove ha presentato al governo ucraino la prima bozza del piano di pace USA articolato in 28 punti. In quell’occasione il funzionario statunitense ha incontrato anche ambasciatori europei e funzionari occidentali, cercando di ottenere il loro appoggio a quella che ha definito “l’ora di finirla con questa m…”, parole crude, riferite alla guerra, che il Financial Times descrive come indicative di un atteggiamento impaziente e dal tono “nauseante” tenuto dal rappresentante americano.

Secondo fonti citate dal quotidiano britannico, Driscoll avrebbe insomma messo in chiaro con toni bruschi che Washington non intende mostrarsi troppo flessibile nei negoziati. Questo approccio deciso ha sollevato qualche perplessità tra gli alleati, ma riflette la volontà di Trump di accelerare i tempi: lo stesso Driscoll, durante gli incontri a Kiev, avrebbe annunciato che “è ora di farla finita con questa storia”, lasciando intendere che gli Stati Uniti considerano non più rinviabile una soluzione negoziata al conflitto.

Dopo la tappa in Ucraina, Driscoll ha partecipato lo scorso weekend a una serie di riunioni a Ginevra con rappresentanti di Kiev e dell’Unione Europea, nel tentativo di affinare e rendere più accettabile il piano di pace originario. Sia Washington che il governo ucraino hanno parlato di “progressi” al termine di questi colloqui.

In effetti, il documento iniziale in 28 punti è stato ridotto e parzialmente rimaneggiato: fonti informate riferiscono che, dopo le discussioni di Ginevra, la bozza è passata da 28 a 19 punti totali. Secondo il sito di informazione Politico, sono stati eliminati dal piano i capitoli più esplosivi sulle questioni territoriali, ad esempio la cessione del Donbass alla Russia, che verranno invece affrontati separatamente a livello politico tra i presidenti Trump e Zelensky. In altre parole, le concessioni sul territorio non saranno decise dai negoziatori tecnici, ma rimandate a un eventuale faccia a faccia finale tra i due leader.

La logica è evitare di imporre subito a Kiev rinunce che Zelensky non ha delegato a nessuno il potere di negoziare, specialmente per quanto riguarda sovranità e integrità territoriale. Il presidente ucraino, in un videomessaggio serale alla nazione, ha confermato che nella nuova bozza discussa a Ginevra “molti elementi corretti sono stati incorporati” rispetto alla versione iniziale.

Allo stesso tempo, ha ammesso che “le questioni più delicate” restano sul tavolo e intende affrontarle di persona con Donald Trump. Zelensky prevede un percorso ancora difficile verso un documento finale e ha sottolineato che nulla verrà firmato senza un ampio consenso interno e internazionale. Per ora, però, il processo negoziale USA-Ucraina sembra essere entrato in una fase di dialogo più costruttivo, pur mantenendo aperti i nodi fondamentali.

Le reazioni: cautela europea, attesa russa

Questa frenetica attività diplomatica parallela ha inevitabilmente innescato reazioni in tutte le capitali coinvolte. Il Cremlino, ufficialmente, mantiene il riserbo sui colloqui di Abu Dhabi: “Non abbiamo nulla da dire al momento, seguiamo e analizziamo le notizie dei media”, ha dichiarato il portavoce Dmitry Peskov, rifiutando di commentare le indiscrezioni sulla missione di Driscoll. Allo stesso tempo, Mosca lascia trapelare un cauto ottimismo verso la piega che sta prendendo l’iniziativa statunitense.

Al momento l’unica cosa sostanziale è il progetto americano, il progetto di Trump” ha affermato Peskov, aggiungendo che potrebbe diventare “una base molto buona per i negoziati”. In altre parole, la leadership russa considera il piano di pace USA un punto di partenza valido – a patto, si intende, che risponda alle sue condizioni di sicurezza. Proprio su questo punto è intervenuto il ministro degli Esteri Sergej Lavrov, segnalando che Mosca attende ora dagli americani una propostaintermedia” aggiornata, dopo le modifiche apportate su pressione europea e ucraina. Lavrov ha avvertito che sarà “una situazione completamente diversa” se le revisioni al piano non rispetteranno lo “spirito e la lettera” di quanto Putin e Trump avevano discusso durante il loro incontro in Alaska.

In sostanza, il messaggio russo è chiaro: il Cremlino era favorevole alla versione originaria in 28 punti, mentre eventuali concessioni fatte per compiacere Kiev o l’Europa potrebbero rimettere tutto in discussione.

Sul fronte opposto, gli alleati occidentali dell’Ucraina accolgono con favore ogni spiraglio di pace ma mettono in guardia da accordi al ribasso. Il presidente francese Emmanuel Macron, parlando in un’intervista radiofonica, ha definito l’iniziativa statunitense “un passo nella direzione giusta: la pace. Tuttavia, alcuni aspetti di quel piano meritano di essere discussi, negoziati, migliorati”. “Vogliamo la pace, ma non vogliamo una pace che sia una capitolazione” ha scandito Macron, sottolineando che spetta solo agli ucraini decidere quali concessioni territoriali sono pronti a fare.

Ciò che può sembrare accettabile per la Russia, ha aggiunto, non significa affatto che debba esserlo per l’Ucraina o per l’Europa. Da Parigi e dalle altre capitali UE emerge la linea di una pace giusta, non imposta unilateralmente dalle condizioni dell’aggressore. Anche Londra e Berlino condividono la posizione: l’integrità territoriale ucraina e la libertà di Kiev di determinare il proprio futuro non possono diventare merce di scambio. Su iniziativa di Francia e Regno Unito, è stato convocato un incontro virtuale della cosiddetta coalizione dei volenterosi” – il gruppo di Paesi che sostiene l’Ucraina, comprendente le principali nazioni europee, proprio per discutere la proposta americana e concordare un approccio comune.

L’Europa insomma vuole essere parte attiva del processo di pace, ma vigila affinché la ricerca di una tregua non si traduca in un sacrificio inaccettabile per la sovranità ucraina. Parallelamente, gli alleati continuano a fornire aiuti militari e finanziari a Kiev per metterla nella posizione negoziale più forte possibile.Intanto, a Kiev, Zelensky cerca di compattare il fronte interno e mantenere la fiducia della popolazione.

Il presidente ucraino ha fatto sapere di aver avuto una conversazione “molto produttiva” con il premier britannico in pectore Sir Keir Starmer, riferendo che “vediamo molte prospettive che possono rendere reale il cammino verso la pace” e riconoscendo “solidi risultati dai colloqui di Ginevra, anche se molto lavoro resta ancora da fare”.

Dichiarazioni che lasciano intendere come Zelensky stia ottenendo sponde importanti in Occidente per migliorare il piano Trump senza farlo naufragare. La prospettiva che si delinea è quella di ulteriori intense consultazioni nei prossimi giorni: non si esclude che lo stesso Zelensky possa presto volare negli Stati Uniti per discutere faccia a faccia con Trump i termini finali dell’accordo, eventualità suggerita da alcune indiscrezioni secondo cui il leader ucraino potrebbe visitare Washington già entro la settimana per “siglare un patto di pace”. Mentre sul terreno si continua a combattere e morire, e missili e droni seminano distruzione da Kiev al Mar Nero, questi febbrili negoziati segreti rappresentano il tentativo più concreto finora di avvicinarsi alla fine della guerra.

Restano da colmare distanze significative: Kiev non intende sacrificare la propria indipendenza, Mosca vuole capitalizzare le conquiste territoriali ottenute, e gli Stati Uniti – dopo aver sostenuto l’Ucraina con massicci aiuti – ora premono per un risultato diplomatico che metta fine a un conflitto sempre più difficile da sostenere sul lungo periodo. La strada verso la pace è irta di ostacoli e compromessi dolorosi, ma la scelta di aprire un canale riservato ad Abu Dhabi indica che nessuna via viene trascurata.

Nelle stanze ovattate di un palazzo sul Golfo Persico, lontano dal fragore delle bombe, si sta decidendo se e come scrivere il capitolo conclusivo di una guerra che ha sconvolto l’Europa. Il mondo osserva con il fiato sospeso, diviso tra speranza e timore: una speranza che da questi colloqui possa scaturire finalmente il silenzio delle armi, e il timore che la pace ottenuta possa chiedere all’Ucraina un prezzo troppo alto.

I prossimi giorni saranno decisivi per capire se dalle parole si potrà davvero passare ai fatti, trasformando un fragile spiraglio in un percorso concreto verso la fine di uno dei conflitti più sanguinosi degli ultimi decenni.

Elezioni regionali 2025: il centrosinistra travolge al Sud, la Lega si conferma padrona del Veneto

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Le urne di Campania, Puglia e Veneto hanno consegnato un verdetto che conferma le mappe politiche preesistenti ma offre numerosi spunti di riflessione per entrambi gli schieramenti. 
Il centrosinistra ha dominato nelle due grandi regioni meridionali con margini amplissimi, mentre il centrodestra ha mantenuto saldamente la roccaforte veneta grazie al traino di Luca Zaia e all’ascesa del giovane Alberto Stefani.
Il risultato complessivo delle regionali autunnali si chiude quindi in parità: tre regioni al centrodestra (Veneto, Marche e Calabria) e tre al centrosinistra (Campania, Puglia e Toscana).


L’astensionismo è il vero vincitore


Il dato più preoccupante emerso da questa tornata elettorale riguarda l’affluenza alle urne, che ha toccato livelli storicamente bassi. 
Complessivamente, solo il 43,6% degli aventi diritto si è recato a votare, un crollo di circa 14 punti percentuali rispetto al 2020. In Puglia l’affluenza si è fermata al 41,8% contro il 56,4% di cinque anni fa, in Campania al 44,1% rispetto al 55,5%, mentre in Veneto, tradizionalmente terra ad alta mobilitazione politica, si è raggiunto appena il 44,6% contro il 61,2% delle precedenti consultazioni. 
Meno di un elettore su due ha scelto di esprimere la propria preferenza, un segnale che interroga profondamente l’intera classe politica italiana e che rischia di ridimensionare il valore politico dei risultati finali, rendendo più fragile la legittimazione degli eletti.


Campania: Roberto Fico chiude l’era De Luca

La Campania ha rappresentato il campo di battaglia più atteso di questa tornata elettorale. 
Roberto Fico, esponente storico del Movimento 5 Stelle ed ex presidente della Camera dei deputati, ha trionfato con il 60,7% dei consensi, doppiando letteralmente il suo avversario Edmondo Cirielli, candidato del centrodestra, fermo al 35,6%.

La vittoria del pentastellato segna la fine di un’epoca: dopo dieci anni consecutivi alla guida della regione, Vincenzo De Luca non ha potuto ripresentarsi a causa della sentenza della Corte Costituzionale che, lo scorso aprile, ha dichiarato incostituzionale la legge regionale campana che avrebbe permesso il terzo mandato consecutivo.

Fico, napoletano classe 1974, ha costruito la sua carriera politica interamente all’interno del Movimento 5 Stelle. Dai meetup di Beppe Grillo alle aule parlamentari, passando per la presidenza della Commissione di Vigilanza Rai e culminando nei cinque anni alla guida di Montecitorio (2018-2022), l’ex presidente della Camera rappresenta l’ala più moderata e istituzionale del movimento fondato dal comico genovese.
La sua elezione a presidente della Camera nel 2018, quando arrivò al primo giorno a Montecitorio in autobus invece che in auto blu, rimane un’immagine simbolica della stagione politica pentastellata.

Il candidato sconfitto del centrodestra, Edmondo Cirielli, è invece un profilo di lungo corso della destra italiana.
Generale di brigata dei Carabinieri in ausiliaria, laureato con lode in Giurisprudenza, Scienze Politiche e Scienze della Sicurezza, Cirielli vanta una carriera politica iniziata nel 1994 con il MSI-AN e proseguita poi nel Popolo della Libertà e infine in Fratelli d’Italia.
Dal 2022 ricopre l’incarico di viceministro degli Affari Esteri nel governo Meloni, e proprio questa sua vicinanza alla premier era stata presentata come un valore aggiunto durante la campagna elettorale.
 
L’appoggio convinto di Giorgia Meloni non è però bastato a ribaltare i pronostici: la lista “Giorgia Meloni per Cirielli-FdI” ha ottenuto un deludente 11,8%, mentre Forza Italia si è attestata al 10,9% e la Lega al 5,5%.



Durante la campagna elettorale, i due candidati si sono confrontati su temi cruciali come l’autonomia differenziata, la sanità regionale e la questione del condono edilizio. 
Fico ha attaccato duramente la riforma Calderoli, sostenendo che “crea disuguaglianze sul territorio e non aiuta il Sud“, mentre Cirielli ha replicato difendendo la norma costituzionale ma promettendo di non chiedere deleghe aggiuntive considerata la situazione debitoria della regione.

Il confronto televisivo su Sky TG24 ha evidenziato le differenze profonde tra i due candidati, con Fico che ha definito “un insulto all’intelligenza dei campani” la proposta di riapertura dei termini del condono edilizio avanzata dal centrodestra a ridosso del voto.


Puglia: Antonio Decaro conquista la regione con numeri record

In Puglia il risultato è stato ancora più netto. 
Antonio Decaro, eurodeputato del Partito Democratico e apprezzatissimo ex sindaco di Bari, ha ottenuto il 64,1% dei consensi, schiacciando l’imprenditore Luigi Lobuono, candidato del centrodestra, fermo al 35%.

Decaro succede a Michele Emiliano, che ha governato la regione per dieci anni e che, pur non potendosi ricandidare, ha lasciato un’eredità politica significativa.

Antonio Decaro

Il nuovo governatore pugliese rappresenta un profilo politico di grande solidità.
Nato a Bari nel 1970, laureato in ingegneria civile al Politecnico del capoluogo pugliese, Decaro ha costruito la sua carriera politica partendo dall’assessorato alla mobilità nel 2004, passando per il Consiglio regionale, la Camera dei deputati, fino a diventare sindaco di Bari per due mandati consecutivi (2014-2024).
Dal 2016 al 2024 ha presieduto l’ANCI, l’Associazione Nazionale dei Comuni Italiani, diventando uno dei volti più noti dell’amministrazione locale italiana.

Alle europee del 2024 ha ottenuto oltre mezzo milione di preferenze nel Sud Italia, un record che lo ha proiettato alla presidenza della Commissione Ambiente del Parlamento europeo.

Il Partito Democratico si è confermato primo partito in Puglia con il 25,9% dei consensi, guadagnando quasi 55 mila voti rispetto al 2020.
Fratelli d’Italia, pur in crescita di sei punti percentuali rispetto alle precedenti regionali, si è fermato al 18,7%, seguito da Forza Italia al 9,1% e dalla Lega all’8%.

Il Movimento 5 Stelle, che nel 2020 correva da solo, ha ottenuto poco più del 7%, un dato inferiore alle aspettative ma che ha comunque contribuito alla vittoria del campo largo.


Veneto: l’onda lunga di Zaia travolge Fratelli d’Italia

In Veneto la sfida non era sulla vittoria finale, mai in discussione, ma sul rapporto di forze interno al centrodestra. 

Alberto Stefani, 33 anni, vicesegretario federale della Lega, ha trionfato con il 64,4% dei consensi, raccogliendo l’eredità di Luca Zaia che ha governato la regione per quindici anni consecutivi.

Lo sfidante del centrosinistra, l’ex sindaco di Treviso Giovanni Manildo, si è fermato al 28,9%, un risultato che però rappresenta quasi il doppio rispetto al 16% ottenuto dalla coalizione progressista nel 2020.

La vera storia di queste elezioni venete riguarda tuttavia le preferenze personali di Luca Zaia.
Il governatore uscente, candidato come capolista della Lega in tutte le sette province venete dopo il mancato via libera alla creazione di una lista con il proprio nome, ha raccolto oltre 200 mila preferenze, un risultato definito “clamoroso” dal presidente del Consiglio regionale Roberto Ciambetti.
Questo plebiscito personale ha permesso alla Lega di superare nettamente Fratelli d’Italia nel derby interno al centrodestra: il Carroccio ha ottenuto il 36,4% contro il 17,5% del partito di Meloni, un ribaltamento completo rispetto alle europee del 2024 quando FdI aveva raccolto il 37% e la Lega si era fermata al 16%.

Stefani rappresenta il volto giovane della Lega veneta. Nato a Camposampiero, in provincia di Padova, il 16 novembre 1992, si è iscritto al Carroccio a soli 15 anni, “fulminato” dall’idea del federalismo.
A 20 anni è stato eletto consigliere comunale, a 25 è diventato il più giovane deputato della storia della Lega, a 26 ha vinto le elezioni a sindaco di Borgoricco. 
Laureato con lode in Giurisprudenza con una tesi in diritto canonico dedicata alla nonna Vittoria, sta proseguendo gli studi con un dottorato e pubblicazioni scientifiche. Appassionato di pittura a olio e tempera, ex giocatore di pallavolo, Stefani incarna un profilo di cattolicesimo moderato e radicamento territoriale che piace tanto a Salvini quanto all’ala zaiana del partito.

Il candidato del centrosinistra Giovanni Manildo, 56 anni, avvocato ed ex sindaco di Treviso dal 2013 al 2018, ha condotto una campagna elettorale durata oltre 120 giorni incentrata su sanità pubblica, lavoro, ambiente e opportunità per i giovani.

Giovanni Manildo


Nonostante la sconfitta ampiamente prevista, Manildo ha rivendicato il risultato: “Nel 2015 il centrosinistra era sceso al 22%, nel 2020 è crollato al 16%, oggi superiamo il 30%. 
È molto più di un numero: è la conferma che in Veneto c’è una parte del Paese che non si rassegna“.


Le reazioni politiche: Schlein esulta, Meloni si congratula

Le prime reazioni dei leader nazionali hanno fotografato lo stato d’animo dei rispettivi schieramenti. 

Elly Schlein, segretaria del Partito Democratico, ha celebrato la vittoria con il mantra “Uniti non si vince, si stravince, sottolineando come la linea “testardamente unitaria” sia stata premiata dagli elettori.
L’alternativa c’è ed è competitiva, il riscatto parte dal Sud e ci porterà a vincere insieme“, ha dichiarato la leader dem, aggiungendo che “la partita delle prossime politiche è apertissima”.

Giorgia Meloni ha invece scelto la strada della sportività istituzionale, congratulandosi con Stefani per “una vittoria frutto del lavoro, della credibilità e della serietà della nostra coalizione” e rivolgendo poi auguri anche a Decaro e Fico affinché “possano svolgere al meglio il loro mandato, nell’interesse dei cittadini”.
Matteo Salvini ha esultato per il risultato veneto definendolo “oltre ogni previsione” e ha sottolineato come la Lega stia “crescendo con passo da Alpino“.

Dal centrosinistra è arrivata anche la stilettata di Matteo Renzi, che ha commentato: “I risultati di Campania e Puglia, dopo la Toscana, dicono che l’alternativa c’è, da casa riformista fino alla sinistra. E questa alternativa, quando è unita, vince“.
Giuseppe Conte, leader del Movimento 5 Stelle, ha dedicato la vittoria campana a “chi non si è rivoltato dall’altra parte di fronte alle difficoltà di famiglie e imprese


Il futuro politico tra legge elettorale e politiche 2027

Questi risultati aprono numerosi scenari per il futuro. 
Il centrosinistra ha dimostrato che la formula del campo largo, quando applicata con coerenza, produce vittorie schiaccianti, almeno al Sud.
La sfida sarà replicare questo schema a livello nazionale in vista delle politiche del 2027. Per il centrodestra, invece, la lezione viene soprattutto dal Veneto, dove il radicamento territoriale della Lega e il carisma di figure come Zaia si sono rivelati decisivi per contenere l’avanzata di Fratelli d’Italia.

Il dato sull’astensionismo rimane però l’elefante nella stanza. 
Con meno della metà degli elettori che si recano alle urne, la legittimazione democratica dei vincitori risulta inevitabilmente indebolita.
Come ha osservato Giovanni Manildo nel suo messaggio post-voto, “l’affluenza in calo ci preoccupa e dovrebbe interrogare tutta la politica“.

La partita per le prossime elezioni politiche è dunque aperta, con un centrosinistra galvanizzato dalla conferma che “il mito dell’imbattibilità di Giorgia Meloni finisce oggi“, come hanno ripetuto le opposizioni, e un centrodestra che dovrà riflettere sulla difficoltà di sfondare nelle regioni meridionali, nonostante l’impegno diretto della premier. 

Il vero vincitore di questa tornata elettorale resta però l’astensionismo, sintomo di una disaffezione crescente che nessuno schieramento sembra in grado di invertire.

Il piano Trump smaschera tutti: vincitori, vinti e ipocriti

La bozza in 28 punti consegnata a Zelensky è chiarissima: Crimea, Donbass intero, Kherson e Zaporizhzhia congelati lungo la linea attuale restano alla Russia; Kiev rinuncia per sempre alla NATO, riduce drasticamente l’esercito, accetta una zona demilitarizzata e garanzie USA “à la carte” ma non l’Articolo 5.

In cambio, sanzioni revocate, beni russi congelati usati per ricostruire l’Ucraina e Mosca rientra nel salotto buono (G8, accordi nucleari, cooperazione energetica e tecnologica con Washington).Il messaggio geopolitico è brutale e cristallino: chi invade con la forza e resiste tre anni ottiene ciò che vuole. Punto. La Russia ha perso 600.000 uomini tra morti e feriti gravi (dati Intelligence USA e UK), ha speso oltre 200 miliardi di dollari, è stata isolata economicamente, ma alla fine tiene il 20% del territorio ucraino e blocca l’espansione NATO.

Ha vinto sul campo, anche se a un costo mostruoso.

Zelensky piange “perdita di dignità” perché sa che firmare significa ammettere la sconfitta militare e politica dopo aver giurato “nemmeno un centimetro”. Ma l’alternativa è perdere anche il sostegno USA: Trump ha già fatto capire che senza accordo i rubinetti si chiudono.

L’Europa da sola non regge più il peso (Germania in recessione, Francia che litiga sui missili, Polonia che teme di essere la prossima).

L’Occidente collettivo, dopo aver pompato 200 miliardi di aiuti e aver promesso “fino alla vittoria”, adesso scarica Kiev con un’alzata di spalle: “pace ora, a qualunque costo”.

L’ipocrisia è totale: per trent’anni abbiamo ripetuto “mai ricompensare l’aggressione”, poi arriva il primo aggressore che tiene duro e il principio svanisce.

La pace è sempre preferibile alla guerra, ma questa pace insegna una lezione pericolosa al mondo: se sei disposto a pagare in sangue e a resistere abbastanza a lungo, alla fine l’Occidente cede.

Taiwan, Moldavia, Paesi Baltici e chiunque altro stanno prendendo appunti. Il vincitore morale è Putin: ha dimostrato che la forza paga ancora.

OpenAI perderebbe fino a 15 milioni di dollari al giorno con i video “sciocchi” di Sora

Sora, il modello per la creazione di video di OpenAI, è oggi uno dei sistemi per la creazione di video più avanzati al mondo.
La sua diffusione virale ha generato la produzione incessante di cortometraggi assurdi come “gatti e cani che si incontrano” e video controversi con “star defunte resuscitate“, venendo utilizzato con grande entusiasmo dagli utenti solo per creare contenuti divertenti.
Senza alcuna intenzione di pagare.
Il 30 settembre, OpenAI infatti pubblicato l’app Sora su iOS (tramite invito) ottenendo 1 milione di download in una settimana, mentre ad Halloween e secondo le stime AppFigures, erano già arrivati a 4 milioni: gli utenti hanno iniziato immediatamente a produrre milioni di micro-video da 10 secondi ogni giorno.

La situazione finanziaria di OpenAI: tra valutazioni record e presunte perdite colossali

Come confermato direttamente anche dal CEO di OpenAi/Sora Sam Altman, “Questi contenuti non possono sostenere i costi di elaborazione che consumiamo ogni secondo“.

Sebbene uno degli analisti della Bank of America, Lloyd Walmsley, l’abbia paragonata ad una vecchia strategia vincente da start-up per “catturare gli utenti, monetizzando dopo“, il costo dei video basati sull’intelligenza artificiale sembra essere molto più elevato rispetto a quello necessario per i contenuti di testo: generare un singolo video ad alta definizione consumerebbe molte più risorse di un testo, facendo si che la riduzione dei costi di produzione proceda molto più lentamente del previsto.

OpenAI è valutata circa 500 miliardi di dollari e ha previsto ricavi ricorrenti annui di 20 miliardi, anche se non tutto è oro: secondo stime indipendenti, OpenAI starebbe spendendo fino a 15 milioni di dollari al giorno per mantenere Sora operativa, con una spesa pari ad oltre 5 miliardi di dollari l’anno.

Per un’azienda che ha registrato perdite superiori ai 12 miliardi in un singolo trimestre, la questione non è marginale.

Il fatto che OpenAI sostenga la creazione di questi video si presenta agli analisti come un esercizio di marketing più che del lancio di un prodotto realmente vantaggioso.

La percentuale di video utilizzabili sarebbe infatti compresa solamente tra il 5% ed il 10% , mentre il resto è puro intrattenimento gratuito senza alcuna prospettiva di conversione verso servizi a pagamento o applicazioni commerciali di valore: di conseguenza, inutile.
OpenAI starebbe quindi spendendo per produrre contenuti che quasi non vengono usati, e questo diventa un grosso segnale di rischio anche per i suoi partner.

Perché i video AI costano così tanto?

Sora 2, l’ultima versione del modello per la creazione di video, è molto più costosa rispetto ad un modello testuale (tipo GPT) perché deve gestire dati spaziali e temporali complessi (più dimensioni e coerenza nei fotogrammi).

La differenza principale è quindi soprattutto tecnica: un video ad alta definizione generato dall’AI richiede il calcolo simultaneo di dati spaziali e temporali, utilizzando una quantità enorme di GPU – circuiti elettronici specializzati nel calcolo ad alta velocità utili per la gestione e la resa di immagini, video ed animazioni – e una potenza di calcolo continuativa molto più impegnativa rispetto alla generazione di risposte testuali.

Sempre secondo gli esperti, OpenAI sembra stia offrendo la generazione di video gratuita per attrarre gli utenti con l’obiettivo di monetizzare nel tempo i dati generati dagli utenti, puntando solo successivamente a guadagnare tramite eventuali pacchetti di pagamento per utenti “Premium” – aziende, studi cinematografici e professionisti del settore creativo – e ridurre di conseguenza le tasse future.
I contenuti per le creazioni di base potrebbero rimanere gratuiti, mentre le funzionalità avanzate come i video professionali di lunga durata, l’output in 4K e i diritti d’autore utilizzabili a fini commerciali è possibile che diventino a pagamento ed essere considerati costi operativi utili a ridurre le spese, anche se ciò al momento significa grandi perdite.

Viene infatti stimato che un video di 10 secondi possa costare circa 1,30 dollari in sola potenza GPU, cifra che sale considerevolmente quando si includono costi accessori tecnici come infrastrutture, manutenzione, trasferimento dati e raffreddamento.
Sora 2 è in grado di produrre sequenze sempre più coerenti e realistiche, ma questa qualità ha un prezzo: l’efficienza sembra non stia migliorando abbastanza rapidamente da compensare l’esplosione della domanda gratuita.


Rischi, incertezze e stime poco solide

Le previsioni sui costi di Sora sono tutt’altro che precise: Forbes sottolinea che OpenAI non ha rilasciato dati ufficiali sui volumi di utilizzo, né sul numero di GPU impiegate nei processi di creazione video.

Molti calcoli si basano quindi su assunzioni e modelli statistici.

L’azienda intanto sembra scommettere e investire utili per crescere a costo di perdite enormi, nonostante la situazione economica di Sora siacompletamente insostenibile, come ammesso da Altman.

A preoccupare esperti, partner commerciali ed investitori ci sono sia i rischi collegati alla qualità – se la maggior parte dei video generati non è davvero utilizzabile non si può puntare su Sora per campagne marketing “serie” – che l’incertezza sul ritorno degli investimenti: le aziende potrebbero non giustificare da soli i costi operativi attuali quando OpenAi non potrà più permettersi di sovvenzionare tutto.

Inoltre, se Sora non diventa effettivamente redditizio, Microsoft dovrà decidere se continuare a finanziarla o cambiare del tutto rotta.
Un elemento cruciale riguarda infatti il rapporto con Microsoft: secondo alcune fonti, Bill Gates avrebbe messo in guardia a suo tempo Satya Nadella – attuale CEO di Microsoft – dai rischi dell’ investire miliardi in un settore non ancora economicamente maturo e stabile.
Nonostante ciò, Microsoft ha puntato tantissimo su OpenAi, diventandone il principale motore finanziario.

L’idea, per alcuni osservatori, è che Microsoft stia tollerando enormi perdite in cambio della leadership assoluta nel settore video-AI sfruttando i dati generati dagli utenti per ottenere un vantaggio competitivo difficilmente replicabile.

La raccomandazione degli analisti è di usare Sora in modo sperimentale e non come pilastro centrale delle attività produttive principali, come campagne che richiedono stabilità ed un alto livello qualitativo dei prodotti – ma esclusivamente per brainstorming e prototipi interni.


Le dichiarazioni di Altman: nessun aiuto dal Governo

In mezzo alle polemiche sui costi dei data-center, Altman ha affermato su X che OpenAI non ha né cerca garanzie statali per ottenere finanziamenti.
L’azienda vuole essere percepita come indipendente, ambiziosa e capace di sostenere da sola la propria crescita.

Il messaggio sembra essere anche una risposta diretta alle preoccupazioni generate sull’investimento di cifre enormi in infrastrutture senza che ci siano stime e fondi completamenti sicuri per mantenerle: OpenAI punterebbe a costruire infrastrutture su larga scala senza dipendere da sovvenzioni governative, rafforzando di conseguenza l’idea che vogliano gestire il proprio destino finanziario scommettendo che i ricavi futuri (o almeno la crescita) giustificheranno questi investimenti massivi.

Non stiamo giocando con il denaro pubblico” è parte di un messaggio più grande che chiarisce come OpenAI veda il suo ruolo: non solo un’azienda, ma un’impresa che “costruisce AI per fare scienza e ricerca.

Altman rassicura tutti che OpenAI non è un ente che cerca sussidi ma è soprattutto un’azienda che crede nei suoi piani e vuole che questi siano sostenibili.
Questo può essere visto sia come una mossa coraggiosa e trasparente, sia come un iperbole retorica, soprattutto se dietro ci sono già impegni finanziari enormi che non sono pienamente coperti.

Sollecitato, il CEO fa proiezioni aggressive –100 miliardi di entrate entro il 2027– che non quadrano facilmente con le stime attuali e liquida le critiche -“Se volete vendere le vostre azioni vi trovo un investitore”.

La grande domanda: il punto di svolta arriverà davvero?

Nonostante Sora rappresenti uno dei più grandi balzi in avanti della generazione video, il mercato non è ancora disposto a pagare i costi reali di questa tecnologia dove persistono limiti tecnici importanti: durata massima dei video, incoerenze fisiche, problemi di copyright e rischi legati all’uso improprio di volti e identità.

La scommessa di OpenAI consisterebbe essenzialmente nell’ottenere entro i prossimi 12-18 mesi tecnologia, domanda e modelli di business maturi e sincronizzati tra loro.

Il caso Sora ci rivela comunque una contraddizione fondamentale del settore: l’innovazione tecnologica non significa ottenere automaticamente successo commerciale.

OpenAI dovrà trovare un equilibrio tra crescita, costi e sopravvivenza e la vera rivoluzione arriverà solo quando qualcuno riuscirà a costruire un modello economico unitario sostenibile, trasformando la generazione video da esperimento a industria.

Tra tweet difensivi e stime da record, resta l’impressione di un settore che promette molto più di quanto riesce a dimostrare: i modelli migliorano lentamente ed il mercato non regge ancora i costi reali della produzione video.
Servirebbe un approccio sostenibile migliorando l’efficienza e creando modelli di business che funzionino davvero, senza sprecare risorse o fiducia.

Trump abbraccia bin-Salman: quando il trilione di dollari vale più di un cadavere fatto a pezzi

Il riavvicinamento tra Donald Trump e Mohammed bin Salman del 18 novembre 2025 è un esercizio di realismo geopolitico spinto fino al cinismo estremo.

I fatti sono chiari: in 42 minuti di colloquio pubblico Trump ha definito Salman “protettore dei diritti umani”, ha respinto l’intelligence USA che lo indica come mandante dell’omicidio Khashoggi, ha liquidato la domanda di ABC News come “fake news” e ha promesso lo status di maggior alleato non-NATO in cambio di investimenti sauditi portati da 600 miliardi a 1 trilione di dollari.

Cena di gala, banda dei Marine, sei jet in formazione: la coreografia perfetta per seppellire sotto il tappeto rosso il cadavere fatto a pezzi nel consolato di Istanbul nel 2018. Il pragmatismo energetico e militare è comprensibile: l’Arabia Saudita resta il perno dell’OPEC+, il maggior acquirente di armi americane e un contrappeso all’Iran in un Medio Oriente che rischia di esplodere su Gaza, Yemen e Libano.

Ma esiste un confine tra realpolitik e complicità morale. Quando il presidente degli Stati Uniti nega pubblicamente la responsabilità del mandante di un giornalista assassinato sul suolo diplomatico, quel confine viene oltrepassato. Gli analisti del Council on Foreign Relations (Nov 2025) e dell’International Crisis Group sottolineano che questa normalizzazione rafforza l’impunità di MBS proprio mentre Riyadh reprime dissenso interno (oltre 200 esecuzioni nel 2024) e bombarda lo Yemen con armi USA.

Il messaggio è univoco: i diritti umani sono negoziabili se il prezzo è abbastanza alto. Gli Stati non sono aziende. Un’azienda può scegliere i propri clienti; uno Stato che pretende leadership morale globale non può vendere la propria credibilità per un trilione di petrodollari e qualche barile in più.

Il 18 novembre 2025 Washington ha scelto i secondi. La storia giudicherà se ne è valsa la pena.

Analisi del Malfunzionamento Globale di Cloudflare

Il 18 novembre 2025, Cloudflare, un fornitore di infrastruttura internet, ha subito una grave interruzione globale del servizio. L’incidente è iniziato intorno alle 11:20 e si è protratto per circa tre ore, causando un’ampia degradazione della connettività per milioni di utenti e servizi in tutto il mondo.

Classificazione e portata dell’incidente

L’interruzione è stata ufficialmente classificata come un guasto operativo interno e non come il risultato di un attacco informatico o attività malevola. Questo distingue l’evento da incidenti di sicurezza, concentrando l’analisi sulle vulnerabilità sistemiche della configurazione e del software. La portata del guasto si è manifestata principalmente attraverso la diffusione di errori HTTP 500 (Internal Server Error) e la contemporanea paralisi della Cloudflare Dashboard e delle API di gestione. Tali sintomi hanno esposto una profonda dipendenza dall’infrastruttura centralizzata di Cloudflare, compromettendo la stabilità della rete per una porzione significativa del web globale.

Principali risultati tecnici sulla causa

La causa principale del disservizio è stata ricondotta a un bug latente all’interno del software che gestisce le capacità di mitigazione dei bot e di sicurezza di Cloudflare. Questo difetto preesistente è stato innescato da un file di configurazione del traffico di che era cresciuto “oltre una dimensione prevista”. Quando il sistema software di gestione del traffico ha tentato di elaborare questo file eccessivamente grande, ha innescato un crash.

L’analisi indica una particolare vulnerabilità operativa nei sistemi difensivi. Il paradosso è che la complessità richiesta per difendere la rete (attraverso set di regole di sicurezza granulari e dinamiche) ha introdotto un nuovo vettore di fallimento interno. La configurazione di sicurezza altamente dinamica deve essere gestita con lo stesso rigore di validazione impiegato nello sviluppo e nel distribuzione del codice.

Analisi dell’Interruzione Cloudflare – Nov 2025

Anatomia di un Disservizio

Dossier Tecnico: Interruzione di Cloudflare a cura di Alground

Sintesi Esecutiva: L’Impatto

Il 18 novembre 2025, una porzione significativa di internet ha subito gravi disservizi a causa di una grave interruzione in Cloudflare, un fornitore critico di servizi di infrastruttura. Questo rapporto visivo analizza la cronologia, l’impatto e la causa tecnica principale dell’incidente.

90 Minuti

Durata approssimativa dell’interruzione diffusa dei servizi e dell’aumento dei tassi di errore.

>50% Calo di Traffico

Calo di traffico segnalato per le principali piattaforme colpite durante il picco dell’incidente.

Raggio d’Impatto: Chi è Stato Colpito?

Cloudflare opera come reverse proxy per milioni di siti web, fornendo sicurezza (WAF), prestazioni (CDN) e servizi DNS. L’interruzione ha immediatamente colpito qualsiasi servizio che si affidasse alla loro rete, portando a una cascata di disservizi in diversi settori.

Picco di Segnalazioni di Disservizio

Le segnalazioni degli utenti su piattaforme come Downdetector sono aumentate, in corrispondenza diretta con il guasto del servizio.

Settori di Servizio Colpiti

Il disservizio è stato avvertito in tutti i settori, colpendo piattaforme AI critiche, social media e servizi di e-commerce.

Cronologia dell’Evento (CET)

L’incidente si è sviluppato rapidamente durante una fascia oraria ad alto traffico, con le prime segnalazioni emerse poco prima delle 10:30 CET e le azioni di risoluzione iniziate intorno alle 11:00 CET.

12:28 CET

Segnalazioni iniziali degli utenti di errori 5xx e fallimenti di connessione per i principali siti (X, OpenAI) in forte aumento.

12:35 CET

Cloudflare pubblica l’avviso iniziale “Indagine in corso” sulla sua pagina di stato, riconoscendo problemi diffusi.

12:45 CET

Il disservizio raggiunge il picco. Downdetector mostra decine di migliaia di segnalazioni per dozzine di servizi.

13:02 CET

Cloudflare identifica la causa principale come una “distribuzione software fallita” e avvia le procedure di rollback.

13:30 CET

I servizi iniziano a stabilizzarsi a livello globale con la propagazione della correzione. Stato di Cloudflare aggiornato a “Monitoraggio”.

Analisi Tecnica della Causa Principale

Le fonti indicano che il disservizio non è stato un attacco doloso ma un errore interno. Un push software errato a un data center critico ha innescato un fallimento a cascata nel Border Gateway Protocol (BGP), ritirando di fatto i servizi principali dalle tabelle di routing di internet.

Diagramma di Flusso della Cascata di Fallimenti

1. Distribuzione Software

Una nuova configurazione è stata inviata a un data center centrale (es. Ashburn, VA).

2. Errore di Configurazione BGP

L’aggiornamento conteneva un errore che causava l’annuncio di route BGP errate.

3. Fallimento a Cascata

Route non corrette si sono propagate a livello globale, portando altri router a interrompere le connessioni con la rete Cloudflare.

4. Servizi Fuori Linea

I servizi gestiti da Cloudflare sono diventati irraggiungibili, risultando in errori 5xx.

Risoluzione e Punti Chiave

Il problema è stato risolto con il rollback della distribuzione software difettosa. Questo incidente evidenzia l’immensa centralizzazione dell’infrastruttura internet e il rischio sistemico associato ai punti singoli di fallimento, anche in reti altamente resilienti.

  • Rischio di Centralizzazione: L’eccessiva dipendenza da pochi grandi fornitori di infrastrutture significa che piccoli errori possono avere conseguenze globali.
  • Fragilità BGP: Il protocollo di routing centrale di internet (BGP) si basa sulla fiducia e può essere vulnerabile a errori di configurazione che si diffondono rapidamente.
  • Importanza dei Rollback: L’identificazione rapida e le procedure di rollback sono essenziali per mitigare la durata dei disservizi causati internamente.

Questa infografica è un’analisi tecnica basata su rapporti pubblici. Tutti i dati sono rappresentativi.

Implicazioni strategiche immediate

L’evento ha immediatamente evidenziato i gravi rischi associati alla centralizzazione dell’infrastruttura internet, agendo come un chiaro Punto Singolo di Fallimento (SPOF) a livello globale. A livello finanziario, l’interruzione ha causato un calo del valore azionario di Cloudflare e ha aumentato l’attenzione da parte dei clienti aziendali.

Poiché Cloudflare aveva già sperimentato diverse interruzioni minori nel 2025 (incluso giugno, luglio e settembre ), la frequenza cumulativa degli incidenti amplifica l’ansia di investitori e clienti, rendendo imperativa la necessità di una trasparenza eccezionale nell’analisi post-mortem per mitigare una potenziale perdita di clientela a lungo termine. Questa preoccupazione è destinata ad accelerare l’adozione di architetture più complesse, ma resilienti, come il Multi-CDN (Content Delivery Network) e il Global Server Load Balancing (GSLB).

Cronologia dell’incidente e valutazione dell’impatto globale

L’incidente è iniziato intorno alle 12:20 con le prime segnalazioni di un “picco insolito di traffico” che ha innescato l’errore. Alle 12:48 , Cloudflare ha ufficialmente confermato il problema sulla sua pagina di stato, segnalando “Errori 500 diffusi, Cloudflare Dashboard e API in fallimento”.

Vi era una sovrapposizione temporale con una manutenzione programmata (ad esempio, nel datacenter SCL di Santiago, tra le 12:00 e le 15:00 UTC), sebbene le fonti non colleghino direttamente i due eventi, sollevando interrogativi sulla sincronizzazione della gestione dei cambiamenti. L’interruzione ha raggiunto il picco intorno alle 13:00 , con il sito di monitoraggio Downdetector (ironicamente anch’esso brevemente colpito a causa della dipendenza da Cloudflare) che registrava il massimo delle segnalazioni. Il servizio è stato dichiarato pienamente risolto alle 15:30.

Sintomatologia tecnica e risposta agli errori

La sintomatologia dominante è stata la comparsa di Errori HTTP 500, indicando un fallimento interno ai server di reverse proxy di Cloudflare che impediva l’elaborazione del traffico.

Un sintomo secondario, ma cruciale, è stato il fallimento dello strato di sicurezza, che ha generato il messaggio di blocco: “Please unblock challenges.cloudflare.com to proceed”. Questo messaggio indica che il sistema di sicurezza e challenge (WAF/Bot Mitigation) di Cloudflare era in uno stato di malfunzionamento. Il WAF, anziché reindirizzare correttamente il traffico o servire il contenuto in cache, ha bloccato aggressivamente gli utenti legittimi dall’accedere ai contenuti di origine, anche se i server web sottostanti potevano essere operativi.

La terza manifestazione critica è stata la paralisi del Control Plane, ovvero l’inaccessibilità della Dashboard e delle API. Questo ha impedito ai tecnici di Cloudflare e ai clienti di monitorare lo stato in tempo reale o di eseguire rapidamente modifiche alla configurazione per il ripristino. Il fatto che un fallimento del sistema edge possa contemporaneamente abbattere l’infrastruttura di gestione indica che l’architettura di controllo non è sufficientemente isolata dal data plane critico.

Impatto operativo trasversale

L’interruzione ha avuto un impatto vasto, sottolineando il ruolo centrale di Cloudflare nell’ecosistema digitale moderno:

  • Social Media e Intelligenza Artificiale (AI): Piattaforme ad alta intensità di traffico come X (precedentemente Twitter), e fornitori di servizi AI di nuova generazione come OpenAI (ChatGPT e Sora) e Claude AI sono stati gravemente colpiti. La dipendenza di questi servizi dall’infrastruttura CDN/sicurezza di Cloudflare è stata imponente.
  • Settori Economici: L’impatto si è esteso a piattaforme di e-commerce (Shopify), servizi finanziari (Coinbase, PayPal) e applicazioni di trasporto (Uber, NJ Transit), dimostrando l’ampiezza delle ripercussioni economiche generate da un fallimento a livello di infrastruttura.

L’analisi della sintomatologia rivela che un guasto sistemico di basso livello, innescato da un bug latente e un overflow di dati interni, si è tradotto in errori catastrofici di alto livello (500), creando un’interruzione di servizio globale.

OrarioSintomo OsservatoComponente ColpitoSignificato Tecnico
12:20Picco di errore inizialeSoftware di Mitigazione MinacceCarico di configurazione ha superato la capacità del sistema
12:48Errori 500 Globali & Dashboard InattivaRete Edge / Control PlaneCrash simultaneo del data plane e deterioramento del sistema di gestione
13:00Errore di Blocco WAFLivello di Challenge di Sicurezza (WAF)Fallimento nel servire i contenuti a causa di una logica di sicurezza corrotta
15:30Risoluzione e RipristinoRete GlobaleAvvio del rollback della configurazione problematica

Il malfunzionamento è stato direttamente collegato a un file di configurazione generato dinamicamente, utilizzato dai servizi di mitigazione dei bot o dal Web Application Firewall (WAF) di Cloudflare. Questo file contiene una serie di regole necessarie per proteggere i siti web identificando e bloccando i pattern di traffico dannoso. In un ambiente di Content Delivery Network (CDN) globale come Cloudflare, che impiega migliaia di Point of Presence (PoP), la configurazione deve essere propagata in modo quasi istantaneo a tutti i server edge.

Meccanismo del bug latente

Il fallimento si è verificato quando il file di configurazione in questione si è espanso, raggiungendo una dimensione inattesa ed eccessiva (“beyond an expected size of entries”). Il difetto latente risiedeva nel componente software incaricato di analizzare, caricare o applicare questo file di configurazione ai motori di gestione del traffico.

L’analisi dei sistemi distribuiti suggerisce che l’overflow della dimensione del file abbia causato un esaurimento di risorse. È probabile che si sia verificato un fallimento nell’allocazione della memoria (RAM) o un potenziale buffer overflow quando il software ha tentato di ingerire l’enorme set di regole. Quando un processo di sistema incontra un errore fatale nell’allocazione delle risorse critiche, può innescare un crash del processo o un kernel panic su tutta la flotta distribuita di server edge.

Questo evento mette in luce i pericoli derivanti dall’affidarsi a limiti impliciti. La configurazione non era vincolata da un limite di dimensione definito, e il software di gestione non possedeva meccanismi di controllo degli errori sufficientemente robusti o l’applicazione esplicita di vincoli di dimensione prima del caricamento critico. Tali omissioni rappresentano un difetto fondamentale nella progettazione dei sistemi distribuiti, dove l’ottimizzazione delle prestazioni spesso compromette la verifica robusta dei limiti.

Distinzione da attacchi esterni

Sebbene l’interruzione sia stata inizialmente attribuita a un “picco insolito di traffico” il quale funge da trigger che ha causato la crescita dinamica del file di configurazione Cloudflare ha fornito chiare dichiarazioni escludendo l’attività malevola o attacchi DDoS come causa radice. Il fallimento è stato categoricamente definito come interno e sistemico.

Processo di ripristino

La risoluzione primaria dell’incidente ha richiesto l’identificazione della configurazione errata e l’implementazione di un fix. La difficoltà nel ripristino è stata esacerbata dal Control Plane in panne, che ha rallentato la capacità di diagnosticare rapidamente il problema di configurazione e di eseguire il rollback globale.

OpenAI, con servizi come ChatGPT e Sora, richiede API ad alta velocità e bassa latenza. Cloudflare opera come un gateway API essenziale per la sicurezza e il rate limiting.14 Il fallimento di OpenAI e Claude AI durante l’interruzione non è stato dovuto a un guasto delle loro infrastrutture di calcolo, ma al blocco avvenuto a livello di reverse proxy di Cloudflare.

La manifestazione dell’errore WAF implica che gli utenti sono stati respinti alla “porta d’ingresso” del sistema. L’infrastruttura di OpenAI, seppur potenzialmente sana, è diventata inaccessibile perché il servizio di accesso e sicurezza di Cloudflare era in uno stato di blocco. Di conseguenza, la possibilità per l’AI provider di eseguire un failover rapido è stata annullata, poiché il blocco è avvenuto a un livello (Layer 7 Proxy/WAF) troppo basso per consentire l’attivazione di meccanismi di fallback a livello applicativo (come quelli offerti da soluzioni come Cloudflare AI Gateway).

L’impatto universale su piattaforme come X, Spotify e Canva suggerisce che queste entità utilizzano Cloudflare per funzioni fondamentali: non solo la distribuzione di contenuti statici (CDN), ma anche la mitigazione DDoS, la risoluzione DNS e il reverse proxying del traffico applicativo di base.

La strategia di affidarsi a un singolo fornitore per il WAF e il DNS crea un collo di bottiglia architetturale. L’incapacità di risolvere le challenge di sicurezza o di instradare il traffico a causa del guasto del ruleset del WAF ha paralizzato l’intera applicazione, indipendentemente dalle misure di scalabilità o ridondanza interna adottate dal cliente.7

Fragilità di DNS e Routing Anycast

Cloudflare sfrutta il routing Anycast per annunciare i suoi indirizzi IP globalmente, dirigendo il traffico verso il PoP più vicino. Sebbene ciò massimizzi le prestazioni, comporta un rischio. Una singola misconfigurazione o un crash del software che influisce sulla distribuzione interna dello stato di configurazione può innescare un fallimento simultaneo e globale in tutti i PoP che pubblicizzano le rotte Anycast. Precedenti eventi, come l’interruzione del resolver DNS 1.1.1.1 nel luglio 2025, hanno già dimostrato come errori di configurazione interni possano portare a ritiri di rotta su scala mondiale, causando indisponibilità catastrofica.

Il comportamento del WAF di Cloudflare, che impone un blocco irrisolvibile, è un esempio di postura di sicurezza “fail closed” aggressiva. Sebbene inteso a prevenire le violazioni, in caso di guasto dell’infrastruttura, garantisce l’indisponibilità totale per gli utenti legittimi. Questo approccio dimostra che per la maggior parte delle applicazioni enterprise (al di fuori delle piattaforme finanziarie ad altissimo rischio), una strategia “fail open” (che permetta un accesso non mitigato ma potenzialmente funzionale) o una “static failure” (che serva contenuto statico dalla cache) è spesso preferibile per la continuità operativa. La dipendenza estrema da un singolo punto di controllo espone X e OpenAI a un significativo debito tecnico derivante dalla centralizzazione, che ora impone una riprogettazione urgente per la ridondanza.

L’imperativo della diversificazione dei fornitori

L’incidente ha confermato che anche le piattaforme meglio ingegnerizzate non sono immuni da meccanismi di fallimento imprevisti, quali bug latenti e misconfiguration. La fiducia storica nella robustezza di Cloudflare deve essere bilanciata con la realtà del rischio sistemico. I concorrenti diretti, inclusi Akamai Technologies, Fastly e AWS CloudFront, sono pronti ad assorbire la domanda di resilienza e diversificazione. Le aziende che si affidano a un unico fornitore sono ora costrette a re-immaginare le loro strategie, accelerando l’adozione di approcci multi-cloud e Multi-CDN per mitigare i Punti Singoli di Fallimento.

La strategia Multi-CDN prevede la distribuzione dello stesso traffico attraverso più CDN indipendenti. Per gestire questa complessità, è necessario un livello di routing superiore, noto come Global Server Load Balancing (GSLB).

Il GSLB funge da strato di risoluzione intelligente che distribuisce le richieste tra i fornitori (ad esempio, Cloudflare e Fastly) in base a controlli di integrità in tempo reale (health checks), latenza geografica e prestazioni regionali. Il meccanismo di resilienza è intrinseco: se Cloudflare fallisce un health check a causa di errori 500 diffusi, il GSLB reindirizza automaticamente il 100% del traffico verso il CDN secondario sano, garantendo la continuità operativa.

L’interruzione di Cloudflare del novembre 2025 rappresenta un evento significativo che ha messo in discussione la supposta robustezza dell’infrastruttura internet moderna, evidenziando che i fallimenti operativi interni rimangono la minaccia più pervasiva per l’alta disponibilità.

Raccomandazioni strategiche

Sulla base delle vulnerabilità esposte dall’incidente, si raccomanda ai responsabili tecnici di adottare il seguente piano d’azione immediato:

  1. Rendere Obbligatoria la Ridondanza Multi-WAF: Implementare almeno due strati WAF/sicurezza indipendenti su fornitori distinti. Ciò mitiga la modalità di fallimento critica osservata a novembre, in cui il fallimento del WAF ha portato al blocco completo.
  2. Implementare GSLB Robusto con Health Checks in Tempo Reale: Utilizzare il Global Server Load Balancing per instradare il traffico basandosi sullo stato di salute istantaneo dei CDN, assicurando il failover automatico durante gli errori sistemici di tipo 5xx.
  3. Disaccoppiare il DNS dal CDN: Garantire che la risoluzione DNS primaria e secondaria sia gestita in modo indipendente o attraverso fornitori di servizi diversi per prevenire il fallimento simultaneo di DNS e CDN.
  4. Applicare Pipeline di Validazione della Configurazione Rigorose: Introdurre test automatizzati rigorosi (pre-flight checks) per tutte le modifiche di configurazione, convalidando esplicitamente la dimensione dei file, l’integrità delle strutture dati e il consumo di risorse rispetto a limiti di sicurezza predefiniti, prima di qualsiasi deployment globale.
  5. Rivedere gli Accordi sui Livelli di Servizio (SLA): Condurre revisioni immediate degli SLA e dell’idoneità ai crediti di servizio con tutti i fornitori di infrastrutture chiave (CDN, Cloud, DNS) per quantificare e mitigare i rischi finanziari associati ai tempi di inattività.

Musulmani per Roma 2027: nasce il primo gruppo politico islamico nella Capitale

Nella città eterna, cuore della cristianità e capitale d’Italia, sta prendendo forma un fenomeno politico senza precedenti che promette di ridisegnare gli equilibri delle prossime elezioni amministrative. MuRo27, acronimo di “Musulmani per Roma 2027”, rappresenta il primo tentativo organizzato della comunità islamica romana di trasformarsi in soggetto politico attivo in vista delle elezioni che si terranno nella Capitale tra meno di due anni.

L’iniziativa, annunciata attraverso i canali sociali nelle scorse settimane, ha immediatamente acceso un dibattito infuocato che vede contrapposti chi parla di legittima partecipazione democratica e chi invece intravede i rischi di derivare integraliste.​

L’ispirazione di New York e il sogno di Mamdani

L’elemento scatenante che ha dato il via al progetto MuRo27 è stata la storica vittoria di Zohran Mamdani alle elezioni per la carica di sindaco di New York dello scorso novembre. Il giovane politico trentaquattrenne di origini ugandesi e indiane, musulmano e autodefinitosi socialista, è diventato il primo sindaco di fede islamica della metropoli americana , un risultato che ha risuonato ben oltre i confini statunitensi.

Per i promotori del gruppo romano, l’elezione di Mamdani ha rappresentato molto più di una semplice curiosità politica dall’altra parte dell’Atlantico. Come dichiarato sulla pagina Facebook di MuRo27, la sua vittoria “ha avuto il merito di sottolineare, caso mai ce ne fosse ancora bisogno, l’arretratezza della nostra classe politica rispetto alla società in cui viviamo che è di fatto multiculturale”.

Mamdani

Mamdani, che ha conquistato oltre un milione di voti nella città più popolosa degli Stati Uniti, ha saputo intercettare il malcontento di diverse comunità, in particolare quella musulmana e sud-asiatica, storicamente emarginate dopo gli attentati dell’11 settembre.

La sua campagna elettorale si è concentrata su temi concreti come il contenimento degli affitti, il congelamento delle tariffe dei trasporti pubblici e una maggiore giustizia sociale, dimostrando che l’identità religiosa può convivere con un programma politico laico e inclusivo. Questo modello di partecipazione politica musulmana in Occidente ha fornito ai promotori di MuRo27 un esempio concreto da seguire , seppur in un contesto profondamente diverso come quello italiano.​​

Francesco Tieri, il volto dietro MuRo27

Il principale artefice dell’iniziativa romana è Francesco Tieri, ingegnere italiano convertito all’islam, già segretario delle Comunità islamiche del Lazio e figura controversa nel panorama politico capitolino . Tieri non è un nome nuovo per chi segue le dinamiche politiche romane. Nel 2021 si era già candidato alle primarie del centrosinistra per la presidenza del V municipio, sostenuto dall’allora lista “Democrazia Solidale” in quota Partito Democratico, a sostegno dell’attuale sindaco Roberto Gualtieri. Durante quella campagna elettorale aveva costruito la sua base di consenso principalmente attorno alle moschee del territorio, come lui stesso ammise: “Non ho un partito alle spalle e una struttura. Sono musulmano. Ho chiesto aiuto nei centri di preghiera per la raccolta delle firme”.​

Il V municipio, dove si concentra la maggior parte dei luoghi di culto islamici della Capitale, era stato al centro del suo programma elettorale. Tieri aveva dichiarato che in quella zona vivevano circa 50mila persone di origine straniera, il 20% della popolazione totale, di cui circa la metà musulmani, e aveva proposto la costruzione di “due moschee più grandi per feste e ricorrenze che rendono riconoscibile questa pratica collettiva”. Oggi Tieri collabora con il sito islamico “La Luce”, gestito dai fratelli Piccardo, uno dei quali è consigliere dell’Ucoii (Unione delle Comunità Islamiche d’Italia), e ha pubblicato nel 2024 un libro dal titolo eloquente: “Guerra alle moschee in assenza di terrorismo. I casi: Monfalcone, Pioltello e Legge Foti”.​

La comunità musulmana a Roma: numeri e presenza

Per comprendere la portata di questa iniziativa politica, è necessario contestualizzarla all’interno della realtà demografica della Capitale. Roma è la prima città italiana per numero assoluto di presenze musulmane, avendo superato la soglia delle 100mila unità, con tempi che arrivano a 120mila persone considerando anche le irregolarità . Applicando le metodologie di stima più accreditate, che utilizzano le percentuali di musulmani nei paesi d’origine, il numero di residenti stranieri musulmani a Roma si attestava intorno alle 71mila unità al 2015, corrispondente al 2,5% della popolazione residente, sostanzialmente in linea con il dato nazionale.neodemos+ 2

A questi vanno aggiunti circa 40mila musulmani di cittadinanza italiana, inclusi i convertiti stimati tra le 3 e le 4mila unità, per arrivare a una presenza regolare di circa 111mila abitanti, pari al 3,8% della popolazione residente nel Comune di Roma. L’Islam è diventato così la seconda religione per numero di fedeli della Capitale dopo quella cattolica, superando quella ortodossa . Le prime cinque comunità per numerosità (Marocco, Bangladesh, Egitto, Pakistan e Albania) rappresentano il 66% di tutti i residenti stranieri musulmani presenti nel Comune di Roma. Tra i musulmani presenti nella Capitale, quelli con cittadinanza italiana rappresentano il 33% sul totale, un segnale evidente di un mutamento sociale in atto anche all’interno delle comunità islamiche.​

Il precedente di Monfalcone e la lista “Italia Plurale”

L’iniziativa romana non nasce nel vuoto, ma si inserisce in un percorso già tracciato in altre città italiane. Il precedente più significativo è quello di Monfalcone, cittadina friulana con la più alta percentuale di immigrati in Italia, dove alle elezioni amministrative dell’aprile 2025 si è presentato per la prima volta “Italia Plurale”, lista a guida islamica che candidava a sindaco Bou Konate . Konate, ingegnere senegalese laureato a Trieste e già assessore ai Lavori pubblici in una giunta di centrosinistra, aveva raccolto 18 candidati, tra cui sei donne, con l’ambizione di intercettare i 7.982 elettori stranieri, pari al 34% del corpo elettorale locale.​

Nonostante l’esito elettorale sia stato modesto, con solo il 3% dei voti, il capolista Jahirul Islam aveva dichiarato: “Noi corriamo per vincere, ma in ogni caso andrà bene. Siamo riusciti a raccogliere le firme, a fare una lista con 18 nomi. Prima, non ci pensavamo proprio. È stata la politica di odio contro di noi, a unirci. Sono sicuro che Monfalcone sarà un esempio anche per gli immigrati d’altre città. E Italia Plurale diventerà un simbolo”. Il riferimento era alla “politica di odio” incarnata dalla sindaca leghista Anna Maria Cisint, che aveva chiuso due luoghi di culto islamico per presunte violazioni urbanistiche e di sicurezza, innescando una battaglia giudiziaria che ha visto più volte il TAR dare ragione alla comunità musulmana.​

Le reazioni politiche: tra allarme e vigilanza

La nascita di MuRo27 ha provocato reazioni immediate da parte del centrodestra italiano. Anna Maria Cisint, europarlamentare della Lega ed ex sindaco di Monfalcone, ha definito il fenomeno come “un nuovo partito islamico, portatore di un messaggio ideologico-politico islamista che ambisce all’applicazione del Corano, alla sostituzione della Costituzione con la Sharia, all’annientamento delle nostre libertà e dei nostri diritti, a partire da quelli delle donne” . Secondo Cisint, dopo il tentativo a Monfalcone “ora si riparte dalla Capitale con un nuovo partito islamico” e la presenza di “un partito composto interamente da soli musulmani rappresenta una pericolosa deriva per la visione liberticida e anti-occidentale che porta avanti”.​

Anche altri esponenti del centrodestra hanno espresso preoccupazione. Il presidente dei senatori di Forza Italia Maurizio Gasparri ha invitato a tenere “gli occhi aperti, bisogna sempre verificare connessioni e collegamenti, perché a Roma abbiamo troppi gruppi di fondamentalisti e moschee abusive”.

Il deputato di Fratelli d’Italia Federico Mollicone ha definito “inquietante la nascita di una lista civica ispirata alla legge islamica” e ha chiesto “un’attenzione massima da parte degli apparati di prevenzione”, sostenendo che “le sure e la legge italiana non sono compatibili”. Il deputato della Lega Rossano Sasso ha rincarato la dose affermando che “il loro intento e le loro parole non lasciano spazio alla minima forma di dubbio, vogliono islamizzare l’Italia”.​

I legami con le moschee e il V municipio

Secondo quanto ricostruito da diverse testate giornalistiche, dietro il progetto MuRo27 ci sarebbe l’appoggio del centro culturale che fa capo a Ben Mohamed Mohamed, imam della moschea Al Huda di via dei Frassini, nel quartiere di Centocelle. Questo imam tunisino ha un passato politico legato al partito Ennahda in Tunisia, affiliato ai Fratelli Musulmani, come lui stesso ha dichiarato in diverse interviste . La moschea di Centocelle è stata al centro di diverse polemiche negli anni scorsi e Tieri aveva organizzato proprio in quella sede una delle tappe della raccolta firme per la sua candidatura alle primarie del 2021.​

Il V municipio romano rappresenta un punto nevralgico per la comunità islamica capitolina, essendo l’area dove sorgono la maggior parte dei luoghi di culto, molti dei quali abusivi o privi delle necessarie autorizzazioni. Proprio in questo municipio sta per nascere quella che diventerà la seconda più grande moschea di Roma, nell’ex mobilificio Gaggioli di piazza delle Camelie, un progetto che prevede la trasformazione di un edificio di quattro piani in grado di ospitare fino a 1000 persone.

L’immobile è stato acquistato nel 2014 dall’associazione culturale legata alla moschea Al Huda per 3,6 milioni di euro con fondi provenienti dal Qatar, ma i lavori si sono poi fermati per mancanza di finanziamenti e sono ripresi solo recentemente grazie alle donazioni dei fedeli.​

L’obiettivo dichiarato e lo sguardo al 2027

Nella loro presentazione ufficiale, i promotori di MuRo27 hanno definito il gruppo come composto da “musulmani che vivono, studiano e lavorano nella capitale e che vogliono contribuire alla discussione politica in vista delle elezioni amministrative del 2027”. Il documento programmatico sottolinea che “la rilevanza politica della presenza islamica in Italia, rispetto al contributo che questa potrebbe dare alla società, può ad oggi essere valutata come quasi insignificante” e dichiara che “il gruppo MuRo27 intende promuovere e stimolare idee e proposte politiche di utilità collettiva con l’appartenenza religiosa dei propri membri”.​

Quest’ultima frase, in particolare, ha suscitato le maggiori perplessità. L’esplicito riferimento a “proposte politiche coerenti con l’appartenenza religiosa” viene interpretato da molti osservatori come l’affermazione di un islam politico, ovvero l’applicazione di precetti islamici alla vita politica e al tessuto sociale. La pagina Facebook di MuRo27 non lascia spazio a dubbi sulle simpatie politiche: campeggia una fotografia del Colosseo sormontato da una mezzaluna e un post a sostegno del ticket Ignazio Marino e Virginia Raggi come candidati alle prossime amministrative della Capitale. Entrambi gli ex sindaci hanno recentemente espresso la loro contrarietà al bis di Roberto Gualtieri, pur provenendo da aree politiche diverse.​

Il contesto nazionale e le sfide dell’integrazione

Il fenomeno MuRo27 si inserisce in un quadro più ampio che vede l’Italia alle prese con le sfide dell’integrazione della comunità musulmana, stimata in circa 2,8 milioni di persone, di cui circa la metà ha già acquisito la cittadinanza italiana. L’Islam non è ufficialmente riconosciuto dallo Stato italiano, a differenza del cristianesimo e dell’ebraismo, il che significa che le moschee non possono ricevere finanziamenti pubblici, i matrimoni islamici non hanno valore legale ei lavoratori musulmani non hanno diritto a permessi per le festività religiose.​

Nel 2017, nove associazioni islamiche che rappresentano il 70% dei musulmani residenti in Italia hanno firmato con il Ministero dell’Interno un “Patto nazionale per un Islam italiano”, il primo del genere nel paese. L’accordo, composto da 20 punti, impegna i firmatari a rigettare ogni forma di violenza e terrorismo e prevede che le preghiere nelle moschee siano tenute in italiano.

Tuttavia, la strada verso il pieno riconoscimento religioso e l’integrazione rimane complessa, soprattutto in un clima politico dove l’immigrazione e l’islam sono spesso oggetto di strumentalizzazione elettorale.​

La situazione italiana si differenzia da altri paesi europei dove la partecipazione politica musulmana ha già prodotto risultati significativi. A Londra, dal 2016, governa Sadiq Khan, primo sindaco musulmano di una capitale europea, mentre in Francia e Germania esistono da tempo rappresentanti musulmani eletti nei parlamenti nazionali e locali.

Il tentativo di MuRo27 di organizzarsi politicamente rappresenta quindi un fenomeno nuovo per l’Italia, ma non per l’Europa , e solleva interrogativi sulla capacità del sistema politico italiano di integrare queste nuove istanze senza cedere a derivare identitarie o, al contrario, senza marginalizzare ulteriormente una comunità già oggetto di discriminazioni.​

Prospettive future e scenari possibili

Le elezioni amministrative di Roma del 2027 coincideranno probabilmente con le politiche nazionali, rendendo il test elettorale della Capitale ancora più significativo. Se MuRo27 riuscirà a strutturarsi come lista civica oa influenzare l’agenda politica delle coalizioni esistenti, potrebbe rappresentare un punto di svolta nella partecipazione politica musulmana in Italia.

Lo scenario più probabile vede il gruppo cercare alleanze con la sinistra radicale e con figura come l’ex sindaco Ignazio Marino, oggi parlamentare europeo eletto con Alleanza Verdi e Sinistra, o con Virginia Raggi, che non ha mai nascosto la sua opposizione al Partito Democratico e all’attuale sindaco Gualtieri.​

Secondo alcune ricostruzioni giornalistiche, dietro il progetto ci sarebbe l’ambizione di creare un soggetto politico nazionale che vada oltre Roma, con liste civiche sui territori che potrebbero confluire in un unico movimento a livello nazionale, coinvolgendo anche l’associazionismo filo-palestinese e figura come il parlamentare Aboubakar Soumahoro, già sceso in campo a fianco di Bou Konate a Monfalcone. Francesco Tieri, nel libro pubblicato nel 2024, aveva scritto che “alla luce dello scenario politico dato, la costituzione di questo soggetto politico ci sembra non ulteriormente rimandabile oltre che necessaria alla società”.​

Resta da vedere se l’elettorato musulmano romano, stimato in diverse decine di migliaia di aventi diritto al voto, risponderà all’appello di MuRo27. La comunità islamica della Capitale è estremamente eterogenea, divisa per nazionalità, correnti religiose e livello di integrazione.

Molti musulmani italiani potrebbero non riconoscersi in un progetto esplicitamente confessionale , preferendo partecipare alla vita politica attraverso i tradizionali partiti laici, come testimonia il caso di Mariam Ali, giovane musulmana egiziana candidatasi nel 2021 al consiglio comunale di Roma con una lista di centrosinistra, che aveva dichiarato: “Non mi candido per rappresentare i musulmani in Italia. Mi candido come cittadino italiano e romano, e voglio dare voce ai giovani, agli anziani e ai bisognosi”.​

Il dibattito su MuRo27 è appena iniziato e nei prossimi mesi si capirà se questo gruppo riuscirà a trasformarsi in un vero soggetto politico competitivo o se rimarrà un fenomeno di nicchia. Ciò che è certo è che la presenza musulmana a Roma, e in Italia, non può più essere ignorata dalla politica, e che nuove forme di partecipazione democratica stanno emergendo in una società sempre più multiculturale e plurale.

Il genocidio sudanese raccontato da una sopravvissuta che il mondo ignora

Davanti ai banchi del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite, Niemat Ahmadi ha portato le voci di milioni di donne sudanesi vittime di una guerra dimenticata. La fondatrice del Darfur Women Action Group, sopravvissuta al genocidio del Darfur venticinque anni fa, non ha smesso di gridare l’allarme: il Sudan brucia, le donne muoiono, e la comunità internazionale tace.

Un inferno senza fine: la devastazione del Sudan contemporaneo

Il Sudan è stato travolto da una violenza feroce da oltre un anno , ha denunciato Ahmadi nelle sue dichiarazioni al Consiglio di Sicurezza dell’ONU. Il conflitto ha assunto dimensioni bibliche: tra i 10.000 ei 15.000 morti nella sola città di El Geneina, oltre 10 milioni di sfollati interni, 18 milioni di persone—oltre un terzo della popolazione sudanese—condannate alla fama. Le Nazioni Unite avvertono che il Sudan diventerà presto “la peggiore crisi alimentare del mondo”.

Ma dietro questi numeri ci sono volti, storie, sofferenze indicibili. Il ciclo di violenza mostra un disprezzo totale per il diritto internazionale e può configurarsi come crimini di guerra, crimini contro l’umanità e genocidio , ha affermato Ahmadi con una lucidità che esprime tutta la gravità della situazione.

Da una parte le Rapid Support Forces (RSF) continuano a occupare e saccheggiare le case dei civili, utilizzando la violenza sessuale, gli stupri e la schiavitù sessuale come tattica di guerra sistemica. Dall’altra, le Forze Armate Sudanesi (SAF) lanciano bombardamenti di artiglieria pesante e attacchi aerei indiscriminati contro case civili, mercati, ponti, servizi essenziali e vie di evacuazione. Nessuno rispetto per la vita umana. Nessun limite.

La scelta della morte: i suicidi di massa delle donne sudanesi

Tra i racconti che Ahmadi ha portato davanti al mondo, c’è uno particolarmente agghiacciante. Nel novembre 2024, durante il suo intervento al Consiglio di Sicurezza, l’attivista ha rivelato un dato che pochi nel mondo hanno compreso pienamente: oltre 130 donne hanno commesso suicidio di massa nello stato di Al-Jazirah come via di fuga dalla violenza sessuale perpetrata dalle RSF.

Sono scelte che nessuna famiglia dovrebbe mai dover fare. Sono donne che hanno preferito la morte al terrore della violenza ripetuta, donne che non vedevano alcuna via d’uscita se non quella definitiva. Migliaia di altre donne sono state uccise , mentre lo stupro e altre forme di violenza di genere rimangono una caratteristica distintiva di questa guerra.

Nel gennaio 2024, il Panel di Esperti dell’ONU sul Sudan ha documentato violenze sessuali diffuse e in escalation nel Darfur, inclusi rapimenti, stupri e sfruttamento sessuale di donne e ragazze. Io autori? Membri delle RSF e delle milizie alleate in tutte le aree sotto il loro controllo, con particolare accanimento contro le donne dell’etnia Masalit.

La violenza sessuale non è un effetto collaterale della guerra, ha sottolineato Ahmadi. È una strategia. È un’arma. È genocidio.

Abu Dhabi arma il genocidio: il ruolo degli Emirati Arabi

Mentre il mondo discute di sanzioni e di aiuti umanitari, Ahmadi ha indicato il vero finanziatore della macchina della morte: gli Emirati Arabi Uniti . In un’accusa diretta e senza filtri, l’attivista ha denunciato che Abu Dhabi sta sostenendo le RSF, fornendo loro armi, fondi e protezione diplomatica.

I fratelli Dagalo—Mohammad Hamdan (“Hemedti”), Abdul Rahim e Al Gony—che guidano le RSF e che discendono dai Janjaweed, i responsabili delle stragi in Darfur venticinque anni fa, vivono oggi negli Emirati, da cui coordinano traffici di armi e fondi, violando apertamente le sanzioni internazionali . Alcuni leader delle RSF viaggiano liberamente in Europa e negli Stati Uniti con passaporti falsi forniti da Abu Dhabi.

” Gli Emirati si presentano come moderati filo-occidentali, ma sono un regime autoritario che sostiene genocidi: quello in Sudan come quello a Gaza “, ha dichiarato Ahmadi in un’intervista che rappresenta una delle più esplicite accuse jammai rivolte a un governo del Golfo da parte di un’attivista per i diritti umani.

Ahmadi ha rimarcato un dato cruciale: senza la diffusione di armi, i livelli di violenza sessuale attualmente osservati in Sudan non si sarebbero mai verificati . Le parti in conflitto ei loro sponsor esterni continuano a violare l’embargo sulle armi del Consiglio di Sicurezza sul Darfur con totale impunità.

Le richieste urgenti al Consiglio di Sicurezza

Ahmadi non si è limitata a denunciare. Ha anche fornito un piano d’azione concreta, rivolgendosi direttamente al Consiglio di Sicurezza dell’ONU con una serie di raccomandazioni specifiche.

Primo: cessate il fuoco immediato e incondizionato. Tutte le parti devono fermare gli attacchi contro civili e infrastrutture civili, e consentire un accesso umanitario pieno, rapido, sicuro e senza ostacoli, in conformità con il diritto internazionale umanitario.

Secondo: fine della violenza sessuale. Tutte le parti devono cessare immediatamente gli atti di violenza sessuale e di genere, ei perpetratori devono essere ritenuti responsabili.

Terzo: una nuova presenza ONU sul campo, ben equipaggiata e molto più forte, capace di garantire la protezione dei civili e le operazioni umanitarie in tutto il Sudan, nonché di documentare le violazioni del diritto internazionale.

Quarto: un embargo sulle armi esteso a tutto il Sudan ea tutte le parti in conflitto, non solo al Darfur, e con meccanismi reali di controllo e di sanzione per chi lo viola.

Quinto: garantire la partecipazione piena, equa, sicura e significativa delle donne sudanesi in tutti gli sforzi di de-escalation, costruzione della pace, assistenza umanitaria, giustizia e responsabilità, nonché in tutti i processi politici riguardanti il ​​futuro del Sudan.

Sesto: rendere la violazione dei diritti delle donne e tutte le forme di violenza sessuale e di genere criteri espliciti per l’imposizione di sanzioni internazionali.

Il fallimento morale della comunità internazionale

Ma Ahmadi sa bene che queste richieste rischiano di cadere nel vuoto. Nel suo discorso del novembre 2024, ha rivolto un’accusa senza precedenti alla comunità internazionale: “Vi sto parlando con angoscia e urgenza” .

Ha sottolineato come entrambe le parti in guerra sembrano convinte di poter prevalere sul campo di battaglia, grazie al considerevole sostegno esterno, anche un flusso costante di armi nel paese . E mentre le armi fluiscono, il Consiglio di Sicurezza rimane paralizzato. Perché? Perché i veti delle grandi potenze, gli interessi geopolitici, il cinismo della realpolitik sono più forti della morale.

Ahmadi ha accusato gli Stati Uniti e l’Europa di ipocrisia: “Pur avendo riconosciuto che in Sudan è in corso un genocidio, non fanno nulla per far rispettare le sanzioni. È un fallimento morale e politico” . Ha rilevato come chi arma i genocidi contribuisce a creare le stesse crisi migratorie che poi vuole respingere .

E il Darfur? Venti anni dopo gli orrori del 2003-2009, non esiste più alcuna missione ONU nel paese, nessun nuovo individuo è stato inserito nel regime di sanzioni e l’embargo sulle armi è sia limitato che violato con impunità . “In questo contesto attuale, vediamo poca solidarietà con il popolo del Sudan”, ha concluso amaramente.

Una voce nata dal dolore: la storia di Niemat Ahmadi

Niemat Ahmadi non è una voce astratta. È la voce di chi ha vissuto l’inferno. Ha fondato il Darfur Women Action Group nel 2009 per dare potere alle sopravvissute, sia in Sudan che nella diaspora, e per prevenire future atrocità. Quando la guerra civile è scoppiata in Sudan nel 2023, ha reindirizzato il suo verso lavoro la documentazione dell’estesa e continua violenza sessuale, con la speranza di ottenere giustizia per le vittime.

Come sopravvissuta al genocidio del Darfur, sa cosa significa perdere tutto. Sa cosa significa guardarsi intorno e vedere il mondo voltarsi dall’altra parte. Per questo grida più forte. Per questo non smettiamo di raccontare.

Nelle sue dichiarazioni, Ahmadi ha sempre sottolineato la resilienza delle donne sudanesi , affermando che “le loro storie di sofferenze indicibili sono superate solo dai racconti del loro coraggio e della loro determinazione” . Ha ricordato che le donne rappresentano almeno il 50% della popolazione, del talento e delle risorse umane di qualsiasi nazione —ancora di più durante i periodi di guerra quando le risorse sono scarse e il coraggio è tutto ciò che rimane.

L’appello finale: un grido al mondo

Ahmadi non conclude i suoi interventi con rassegnazione. Concludo con una richiesta diretta ai cittadini del mondo: “Pretendete dai vostri governi che fermino le vendite di armi ai regimi che commettono genocidi” .

Ribadisce che la responsabilità ricade sui governi occidentali che continuano a vendere armi ai regimi del Golfo, che chiudono gli occhi davanti alle loro violazioni, che riconoscono il genocidio ma non agiscono. È un appello morale che va oltre la diplomazia, oltre la politica estera tradizionale. È un appello alla coscienza.

Il Sudan continua a bruciare. Le donne sudanesi continuano a morire, a soffrire, a cercare scappatoie dalla violenza anche nella morte. E Niemat Ahmadi continua a gridare, sperando che qualcuno, da qualche parte nel mondo, abbia il coraggio di ascoltare.

Jiu Tian: la Cina lancia la prima “portaerei” volante

Nel panorama della tecnologia militare moderna, la Cina si prepara a introdurre un velivolo che potrebbe ridefinire completamente le strategie di combattimento aereo. Il Jiu Tian, ​​il primo “drone mothership” al mondo segna l’ingresso di una categoria completamente nuova di velivoli militari che nessun altro paese si sta attualmente sviluppando.

Presentato per la prima volta allo Zhuhai Airshow nel novembre 2024, questo mastodontico aeromobile senza pilota rappresenta un salto tecnologico che combina dimensioni impressionanti, capacità autonome avanzate e un concetto operativo rivoluzionario.​

Un gigante dei cieli con specifiche da primato

Le dimensioni del Jiu Tian sono a dir poco impressionanti: con un’apertura alare di 25 metri, una lunghezza di 16,35 metri e un peso massimo di 16 tonnellate, questo UAV supera di gran lunga i droni da combattimento più avanzati attualmente in servizio. Per fare un confronto, il celebre MQ-9 Reaper americano pesa appena 6 tonnellate, mentre il cinese Wing Loong-3 si ferma a 7,8 tonnellate. Con una capacità di carico utile di 6 tonnellate, il Jiu Tian si posiziona in una categoria completamente diversa rispetto agli UAV convenzionali.

Le prestazioni operative sono altrettanto notevoli: il velivolo può operare a un’altitudine massima di 15.000 metri, posizionandosi al di sopra della portata della maggior parte dei sistemi di difesa aerea a medio raggio. Con una velocità di crociera di 700 chilometri orari e un’autonomia massima di 7.000 chilometri, può rimanere in volo per oltre 36 ore secondo alcune fonti, anche se altri rapporti indicano una durata di missione di 12 ore. Questa combinazione di altitudine, velocità e autonomia gli consente di operare ben oltre i confini immediati della Cina, con una portata che include l’intero Mar Cinese Meridionale, lo Stretto di Taiwan e persino le basi statunitensi strategiche come Guam.

Il sistema di propulsione utilizza un motore turbofan WS-9 “Qinling”, originariamente progettato per aerei da combattimento e ora utilizzato sul cacciabombardiere JH-7. Questo motore è montato in posizione dorsale sulla fusoliera per ridurre le interferenze con i sistemi montati sul corpo del velivolo e ottimizzare la firma radar.​

L’innovazione della “Cella a nido d’ape eterogeneo”

Il vero elemento rivoluzionario del Jiu Tian risiede nella sua “异构蜂巢任务舱” (heterogeneous honeycomb mission bay), un compartimento modulare situato nella sezione centrale della fusoliera che rappresenta una prima assoluta nel campo dei grandi droni. Questo vano può ospitare fino a 100 droni di piccole dimensioni o munizioni vaganti, che possono essere rilasciati in volo per creare sciami d’attacco coordinati. Secondo fonti cinesi, alcune proprietà potrebbero trasportare tra i 200 ei 300 micro-droni o missili da crociera, creando una vera e propria “tempesta d’acciaio” una volta dispiegati.

La filosofia operativa dietro questo sistema è profondamente influenzata dalle lezioni apprese dal conflitto in Ucraina, dove gli attacchi di sciami di droni hanno dimostrato la capacità di saturare anche le difese aeree più sofisticate.

Quando il Jiu Tian si avvicina all’area target, può rilasciare lo sciame di droni che, coordinati attraverso intelligenza artificiale e sistemi di edge computing, possono eseguire autonomamente missioni diverse: alcuni conducono guerra elettronica per disturbare i radar nemici, altri effettuano ricognizione in tempo reale, mentre altri ancora eseguono attacchi suicidi contro obiettivi ad alto valore.​

Ogni micro-drone è dotato di sensori elettro-ottici, telecamere a infrarossi e sistemi radar che consentono missioni ISR ​​(intelligence, sorveglianza e ricognizione) avanzate. L’intero sistema può completare l’assegnazione dinamica dei compiti in 0,3 secondi grazie ai chip di edge computing integrati, creando una rete operativa chiusa “rilevamento-disturbo-attacco”. Test condotti nel Mar Cinese Meridionale nel 2024 avrebbero dimostrato che uno sciame di 200 micro-droni può simulare efficacemente un attacco di saturazione contro un gruppo d’attacco di portaerei, validando la tattica del “vincere attraverso la quantità”.​

Modularità e versatilità multiruolo

L’architettura modulare del Jiu Tian rappresenta un altro elemento distintivo : il vano di missione può essere sostituito in sole due ore, permettendo al velivolo di passare rapidamente da una configurazione all’altra. In modalità “sciame madre”, centinaia di micro-droni CH-817 capaci di colpire un’area di 15 chilometri quadrati con fuoco concentrato. In modalità guerra elettronica, può montare compartimenti con impulsi elettromagnetici capaci di paralizzare radar e sistemi di comunicazione in un raggio di 30 chilometri. Nella configurazione d’attacco strategico, gli otto punti d’aggancio esterni sotto le ali possono trasportare fino a 12 missili antinave YJ-12 o 2 missili da crociera supersonici CJ-100.​

Oltre agli armamenti convenzionali, il velivolo può essere equipaggiato con pod di guerra elettronica, missili aria-aria della serie PL-11AE/PL-12AE, missili anti-radiazione CM-102, missili antinave C-705 e bombe guidate di precisione come la YL-V302. Questa versatilità lo rende adatto non solo per missioni di attacco profondo, ma anche per supporto aereo ravvicinato in scenari complessi come combattimenti urbani, guerra asimmetrica e operazioni antiterrorismo.​

Le applicazioni civili non sono state trascurate : la struttura modulare permette al Jiu Tian di trasportare fino a 8 tonnellate di materiali di soccorso per operazioni di emergenza. Durante le simulazioni di disastri naturali come le alluvioni di Zhengzhou, il sistema ha dimostrato di poter completare la consegna di 300 tonnellate di materiali in 72 ore, con un’efficienza superiore agli aerei da trasporto tradizionali. Altre applicazioni civili includono pattugliamento marittimo e di frontiera, trasporto ad alta sicurezza e missioni di ricerca e salvataggio.​

Sviluppo accelerato e integrazione tecnologica

Il programma Jiu Tian ha beneficiato di un finanziamento di oltre 3 miliardi di yuan (circa 416 milioni di dollari) e si basa interamente su una catena di approvvigionamento domestico. Sviluppato dalla Aviation Industry Corporation of China (AVIC) in collaborazione con Shaanxi Unmanned Equipment Technology e Guangzhou Haige Communications Group, il progetto ha visto la realizzazione di quattro prototipi in soli 18 mesi dal suo avvio alla fine del 2023. Il quarto prototipo ha completato l’assemblaggio della struttura nell’aprile 2025 ed è attualmente in fase di installazione dei sistemi e test presso gli stabilimenti di Xi’an.​

L’azienda Haige Communications ha svolto un ruolo particolarmente innovativo , sviluppando ambienti di gemelli digitali per i test, integrando tecnologie a idrogeno per la propulsione e implementando protocolli di comunicazione quantistica per migliorare l’affidabilità delle missioni e la resistenza alla guerra elettronica. Questi elementi rappresentano una prima assoluta per la flotta di UAV cinesi e riflettono l’impegno di Pechino nell’integrare le tecnologie emergenti nei sistemi militari.​

Implicazioni strategiche e contesto globale

Il Jiu Tian si inserisce in una strategia più ampia della Cina per dominare la guerra senza pilota , un settore in cui il Paese del Dragone ha già dimostrato capacità di innovazione radicale. Altri esempi includono il bombardiere stealth senza pilota a lungo raggio CH-5, il WZ-9 Divine Eagle progettato per dispiegare radar multipli a lungo raggio da altitudini elevate, e il WZ-7, attualmente l’unico velivolo al mondo progettato per operare a velocità ipersoniche. L’Esercito Popolare di Liberazione (PLA) sta imparando attivamente dalle lezioni dal conflitto in Ucraina, dove droni FPV a basso costo hanno dimostrato efficacia letale contro carri armati e dove tattiche di sciame hanno rafforzato sopraffatto le difese tradizionali.

Gli analisti occidentali esprimono opinioni contrastanti sul Jiu Tian. Alcuni esperti sottolineano che le sue dimensioni lo rendono vulnerabile ai sistemi avanzati di difesa aerea come THAAD, Patriot PAC-3 e Aegis BMD. Un ex pilota dell’Air Force americana ha commentato su X che il velivolo sarebbe come “cercare di infiltrarsi nello spazio aereo nemico con una formazione di KC-10, semplicemente non è sopravvissuto, è un magnete gigante per i missili”. Tuttavia, altri analisti riconoscono che la capacità di sciame potrebbe comunque saturare anche difese sofisticate , specialmente quando combinata con altri asset aerei o navali del PLA, e che l’altitudine operativa lo pone fuori dalla portata di molti sistemi a medio raggio.​

Il concetto di portaerei volanti è stato esplorato fin dai primi anni della Guerra Fredda, particolarmente negli Stati Uniti, ma la Cina è ora pronta a diventare il primo paese al mondo a schierare operativamente un sistema del genere. Potrebbe aprire la strada a velivoli portadroni ancora più grandi, capaci di trasportare quantità maggiori di droni o classi di droni più grandi, ridefinendo fondamentalmente il concetto di potenza aerea proiettata.

Verso una nuova era della guerra aerea

Il Jiu Tian rappresenta molto più di un semplice velivolo senza pilota: incarna una visione strategica della guerra futura in cui sciami autonomi coordinati da piattaforme aeree ad alta quota sostituiranno progressivamente le operazioni aeree tradizionali. Con la sua combinazione di portata strategica, capacità di carico massiccio, sistemi modulari e integrazione AI, questo “drone mothership” potrebbe davvero segnare l’inizio di una nuova era nel conflitto aereo. Mentre il mondo osserva con attenzione il volo inaugurale previsto per giugno 2025 , una cosa è certa: la Cina ha dimostrato ancora una volta la sua determinazione a ridefinire le regole dell’ingaggio militare del XXI secolo attraverso innovazione tecnologica audace e investimenti massicci nella guerra senza pilota.

Scheda Tecnica: Jiu Tian (九天) SS-UAV

CLASSIFICAZIONE

  • Tipo: Veicolo aereo senza equipaggio (UAV) da alta quota a lunga persistenza (HALE)
  • Categoria: Drone Mothership / Portaerei aerea volante
  • Designazione: Jiutian SS-UAV
  • Produttore: Aviation Industry Corporation of China (AVIC) / Shaanxi Unmanned Equipment Technology / Xi’an Chida Aircraft Parts Manufacturing​
  • Paese: Cina
  • Primo volo previsto: Giugno 2025

DIMENSIONI E PESI

Dimensioni strutturali:

  • Lunghezza: 16,35 metri​
  • Apertura alare: 25 metri​
  • Altezza: Non specificata

Pesi operativi:

  • Peso massimo al decollo (MTOW): 16 tonnellate (16.000 kg)​
  • Carico utile massimo: 6 tonnellate (6.000 kg)​
  • Peso a vuoto: Non specificato

PROPULSIONE

Sistema di propulsione:

  • Tipo motore: Turbofan WS-9 “Qinling” (涡扇-9 “秦岭”)​
  • Numero motori: 1​
  • Configurazione: Montaggio dorsale sulla fusoliera​
  • Spinta massima: 6 tonnellate (59 kN)​
  • Tecnologia integrativa: Propulsione a idrogeno in sviluppo​
  • Tipo originale: Derivato dal motore del cacciabombardiere JH-7 “Flying Leopard” (versione senza postbruciatore)​

PRESTAZIONI

Parametri di volo:

  • Velocità massima: 700 km/h​
  • Velocità di crociera: 700 km/h
  • Autonomia massima: 7.000-8.000 km​
  • Durata della missione: 12-36 ore (variabile secondo le fonti)​
  • Tangenza operativa: 15.000 metri (49.200 piedi)​
  • Raggio d’azione operativa: Copre l’intero Mar Cinese Meridionale, Mar Cinese Orientale, Stretto di Taiwan e basi USA a Guam​

ARMAMENTO E CARICO BELLICO

Punti d’aggancio esterni:

  • Numero hardpoint: 8 punti d’attacco sotto le ali​
  • Capacità singolo punto: Fino a 1.000 kg​

Armamenti trasportabili:

Missili aria-aria:

  • PL-11AE​
  • PL-12E / PL-12AE​

Missili aria-superficie:

  • YJ-12 (鹰击-12) antinave (fino a 12 unità)​
  • CJ-100 (长剑-100) da crociera supersonico (fino a 2 unità)​
  • CM-102 anti-radiazione​
  • C-705 anti-nave​
  • TL-7 (KD-88)​

Bombe guidate:

  • LS-6 guidate di precisione​
  • Guida YL-V302 (fino a 1.000 kg)​

Munizioni vaganti e droni:

  • CH-817 micro-droni (200-300 unità)​
  • FPV droni kamikaze (fino a 100 unità)​
  • Munizioni circuitanti di varie tipologie​

SISTEMI INTERNI

Vano missione “A nido d’ape eterogeneo” (异构蜂巢任务舱):

  • Capacità: 100-300 droni/missiliYoutube​​
  • Configurazione: Modulare, sostituibile in 2 ore​
  • Posizione: Sezione centrale della fusoliera (ventre)​
  • Tipologie di carico:
    • Sciame di micro-droni da combattimento
    • Missili da crociera
    • Droni kamikaze FPV
    • Pod di guerra elettronica
    • Materiali logistici (fino a 8 tonnellate in configurazione civile)​

AVIONICA E SISTEMI

Sensori e ricognizione:

  • Sensori elettro-ottici​
  • Telecamere a infrarossi​
  • Sistemi radar integrati​
  • Capacità ISR (Intelligence, Sorveglianza, Ricognizione)​

Sistemi di coordinamento:

  • Chip di edge computing per controllo sciame​
  • Assegnazione dinamica compiti in 0,3 secondi​
  • Intelligenza artificiale per coordinamento autonomo​
  • Comunicazioni quantitative crittografate​

Contromisure elettroniche:

  • Pod di guerra elettronica​
  • Sistema EMP (impulsi elettromagnetici) con raggio di 30 km​
  • Disturbo radar e comunicazioni​

Riduzione firma radar:

  • Materiali avanzati per riduzione RCS​
  • Progettazione con attenzione alla furtività (limitata)​

CONFIGURAZIONI OPERATIVE

Modalità蜂群母舰 (Nave Madre dello Sciame):

  • Carico: 200-300 droni CH-817
  • Superficie coperta: 15 km²​

Modalità guerra elettronica:

  • Pod EMP
  • Raggio d’azione distruttiva: 30 km​

Modalità bombardiere strategica:

  • 12 missili YJ-12 o 2 CJ-100​

Modalità emergenza civile:

  • Carico logistico: 8 tonnellate
  • Efficienza: 300 tonnellate in 72 ore​

SVILUPPO E PRODUZIONE

Cronologia:

  • Avvio progetto: Fine 2023​
  • Prima presentazione pubblica: Novembre 2024 (15° Zhuhai Airshow)​
  • Completamento Prototipo 04: Aprile 2025​
  • Primo volo previsto: Fine giugno 2025
  • Tempo di sviluppo: 18 mesi (dal progetto al prototipo)​

Investimenti:

  • Budget totale: Oltre 3 miliardi di yuan (~416 milioni USD)​
  • Catena di approvvigionamento: 100% domestica​

Numero prototipi realizzati: 4​

CONFRONTI DIMENSIONALI

ParametroJiu TianMQ-9 Reaper (Stati Uniti)Wing Loong-3 (Cina)RQ-4B Global Hawk (Stati Uniti)
Peso max decollo16.000 kg~5,670 kg​7.800 kg​~14.600 kg​
Apertura alare25 metri20 metri~20 metri39,9 metri​
Carico utile6.000 kg~1.700 kg~2.300 kg~1,360 kg
Autonomia7.000 chilometri~1,850 km~10.000 km~22.000 km​
Tangenza15.000 metri15.240 metri10.000 metri18.288 metri​

NOTA OPERATIVA

Vantaggi strategici:

  • Prima piattaforma drone mothership operativa al mondo
  • Altitudine operativa superiore a molti sistemi SAM a medio raggio
  • Capacità di saturazione difese aeree tramite sciami​
  • Modularità estrema per missioni multiple​

Vulnerabilità riconosciute:

  • Ampio firma radar (RCS significativo)​
  • Vulnerabile a sistemi avanzati come THAAD, Patriot PAC-3, Aegis BMD​
  • Endurance reale sotto carico massimo potenzialmente inferiore ai dati dichiarati​

Gaza tra due piani di pace: Russia sfida l’America all’ONU e apre allo Stato palestinese

Il nuovo scenario diplomatico sulla crisi di Gaza sta vivendo una svolta senza precedenti. La Russia ha presentato una sua risoluzione al Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite, sfidando apertamente la proposta americana che sostiene il controverso piano di pace di Trump per il futuro della Striscia. Questa mossa riflette la crescente polarizzazione sulla gestione della crisi in Medio Oriente e pone Russia e Stati Uniti su fronti opposti nel cuore della diplomazia globale.

Il piano americano: Board of Peace e forza internazionale

Il testo russo chiede al Segretario Generale delle Nazioni Unite di esplorare opzioni per la creazione di una forza internazionale di stabilizzazione a Gaza, senza però includere il concetto di “Board of Peace” americano, cioè quell’organo transitorio che vedrebbe Donald Trump alla presidenza dell’amministrazione ad interim fino al 2027. Il progetto russo si dichiara ispirato al draft USA, ma punta a garantire una linea più equilibrata e condivisa, sottolineando il bisogno di una soluzione sostenibile e di un cessate il fuoco duraturo.​

La versione americana offre una visione completamente differente. Washington prevede infatti l’istituzione di una International Stabilisation Force (ISF) che, collaborando con Israele, Egitto e una rinnovata polizia palestinese, dovrebbe assicurare la sicurezza dei confini e lavorare per la demilitarizzazione della Striscia. L’ISF sarebbe composta da circa 20.000 uomini, con contributi militari richiesti a paesi quali Indonesia, Pakistan, Emirati, Egitto, Qatar, Turchia, Azerbaigian, ma senza soldati statunitensi sul campo. Il piano USA insiste anche sullo smantellamento definitivo delle armi detenute dai gruppi armati non statali, sulla protezione dei civili e sulla creazione di corridoi umanitari. In questo contesto, il “Board of Peace” dovrebbe farsi garante della transizione politica fino al 2027, con il fine ultimo di favorire riforme nell’Autorità Palestinese e la ricostruzione di Gaza, aprendo una possibilità concreta per la piena autodeterminazione e lo Stato palestinese. L’ultimo draft include, cosa mai accaduta prima, un riferimento esplicito alla futura creazione di uno Stato palestinese, legato però alla realizzazione di specifici requisiti di governance e sicurezza.​

L’alternativa russa: una mediazione multilaterale

La diplomazia russa ha espresso forti riserve sul piano americano. Mosca ritiene che la proposta USA rischi di cristallizzare posizioni divisive e mancare un reale coinvolgimento multilaterale, sostenendo che solo il dialogo inclusivo può portare ad una pace resiliente. Il documento russo mira a “un approccio bilanciato, accettabile e unificato”, disapprovando la supervisione diretta della Board of Peace americana sulla transizione.​

Le reazioni del mondo arabo e il ruolo delle potenze

La reazione delle nazioni arabe e di molti paesi emergenti si polarizza su questa dicotomia. Diversi rappresentanti arabi hanno chiesto modifiche sostanziali per garantire la piena sovranità palestinese e lasciare spazi di autonomia nell’amministrazione della Striscia. Il Qatar, la Turchia e l’Egitto hanno avuto un ruolo fondamentale nelle trattative che hanno portato ad una fragile tregua, sottolineando la necessità di uscire dalla mera logica del controllo militare per abbracciare la via della ricostruzione e dei diritti umani. La Russia ha sottolineato che il rilancio del processo politico debba basarsi sulla soluzione dei due Stati, sostenuta dalle Nazioni Unite e dalla comunità internazionale.​

Gli interessi israeliani e la questione della sicurezza

Il punto più controverso resta la demilitarizzazione. Israele e Hamas hanno accettato, per ora, solo la prima fase del piano statunitense: una tregua biennale e lo scambio di prigionieri e ostaggi. Tuttavia, le ostilità sono tutt’altro che concluse. La Russia, insieme a Cina e numerosi Stati arabi, ha bocciato risoluzioni USA che prevedevano condanne a senso unico di Hamas senza menzionare le violazioni israeliane, insistendo su una piena applicazione del diritto internazionale e del rispetto dei diritti civili di entrambe le parti.​

Sul fronte israeliano, la posizione ufficiale del governo Netanyahu rimane ambigua: Israele ripete che intende proseguire l’offensiva fino alla sconfitta totale di Hamas, sollevando non pochi dubbi sulla reale volontà di accettare un compromesso e alimentando le perplessità di Mosca, che ha dichiarato di non volere porre il veto alle risoluzioni solo per rispetto della volontà del mondo arabo. Secondo la Russia, qualsiasi accordo deve poggiare su parametri chiari, inclusa la liberazione degli ostaggi, il cessate il fuoco permanente e il rispetto dei confini del 1967 con Gerusalemme Est come capitale dello Stato palestinese.​

Il destino della popolazione civile e la crisi umanitaria

La situazione umanitaria a Gaza, intanto, rimane drammatica. Secondo fonti internazionali, sono oltre 900.000 i palestinesi costretti ad abbandonare le proprie case, con il rischio concreto di una nuova catastrofe causata dalle condizioni meteorologiche avverse e dalla mancanza di risorse primarie. I corridoi umanitari proposti nelle varie bozze di risoluzione sono visti come la chiave per evitare una crisi di proporzioni ancora maggiori e per assicurare la protezione dei civili, spesso vittime di bombardamenti indiscriminati e operazioni militari che hanno già mietuto decine di migliaia di vittime.​

Una partita diplomatica ancora aperta

La controversia internazionale attorno allo status di Gaza si intensifica. Il piano di Trump garantisce all’Autorità Palestinese la possibilità di riformarsi, ma la supervisione americana viene vista con sospetto dalle nazioni non-allineate e dai principali partner arabi. Il documento russo, invece, enfatizza il ruolo primario delle Nazioni Unite e la necessità di una mediazione non imposta, fatta di dialogo reale e tutela dei diritti, con la richiesta esplicita di evitare ogni forma di radicalismo, estremismo e razzismo che possa minare il futuro della regione. La proposta di una forza internazionale di stabilizzazione, seppure appoggiata da molti, resta soggetta a tensioni geopolitiche, mentre il mondo segue con apprensione la sorte della popolazione civile sotto assedio e le ripercussioni sugli equilibri dell’intero Medio Oriente.

La partita diplomatica è tutt’altro che conclusa. Le prossime settimane saranno decisive per comprendere se le diverse anime del Consiglio di Sicurezza dell’ONU riusciranno a convergere su una soluzione realmente inclusiva per la crisi di Gaza. La prospettiva di uno Stato palestinese appare per la prima volta formalmente accolta da Washington nel testo di una risoluzione, ma questo non basta a placare le diffidenze di Mosca, di Pechino e delle capitali arabe, tutte unite dal timore che la supervisione esterna non porti a una pace stabile, ma a una nuova stagione di instabilità e tensione.​