31 Dicembre 2025
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Mosca, Washington e il prezzo della pace: Steve Witkoff accolto da Putin

L’imprenditore statunitense atterra a Mosca come inviato informale della Casa Bianca. Al Cremlino lo attende un colloquio che potrebbe modificare gli equilibri della guerra e la credibilità diplomatica degli Stati Uniti.

Un emissario inusuale per un momento decisivo

Steven Charles Witkoff, conosciuto pubblicamente come Steve Witkoff, è un profilo che non appartiene né alla diplomazia tradizionale né all’establishment della sicurezza nazionale. Costruttore newyorkese, figura vicina al presidente degli Stati Uniti e abituato a muoversi tra capitali privati, grandi progetti immobiliari e negoziazioni ad alto rischio, nel 2025 è diventato una pedina importante della strategia americana per uscire dalla guerra più complessa d’Europa.

La sua presenza a Mosca non è un gesto simbolico. Arriva dopo settimane di contatti riservati tra Washington e Kyiv, dopo la riformulazione del piano di pace americano e dopo giorni in cui il fronte orientale si è mosso in direzioni favorevoli alla Russia, che rivendica nuovi avanzamenti e un maggiore controllo tattico nel Donetsk. Questo spiega perché il Cremlino abbia accettato di accogliere Witkoff in modo rapido e perché il suo arrivo sia stato descritto come operativo” e non “esplorativo”.

Witkoff non è un negoziatore tecnico. Il suo ruolo è diverso dato che rappresenta la parte più pragmatica della strategia statunitense, quella che mira a ottenere un accordo praticabile anche a costo di concessioni molto difficili da sostenere politicamente.

Le richieste del Cremlino e il margine americano

Il colloquio atteso con Vladimir Putin ruota intorno a un punto ormai chiaro a tutti gli attori coinvolti: la Russia non accetterà una trattativa che non riconosca parte dei territori occupati, né un ritorno ai confini precedenti al 2014.

Mosca considera la guerra un processo già orientato in suo favore e legge la diplomazia di questi giorni come una conferma del proprio vantaggio. Questo atteggiamento spiega la fermezza con cui il Cremlino ripete che la pace richiedescelte dolorose” per Kyiv e una “nuova architettura di sicurezza in Europa”.

Washington ha rimodulato la propria proposta iniziale, dopo opposizioni fortissime dei partner europei e ucraini. Il nuovo documento circolato negli ultimi giorni contiene punti più compatibili con il diritto internazionale e con le richieste di Kyiv, ma resta lo stesso un testo di compromesso. L’idea americana è che solo un interlocutore non convenzionale possa ottenere da Mosca una riduzione delle condizioni irrealistiche poste nelle versioni precedenti.

L’invio di Witkoff, quindi, non rappresenta una delega politica, ma una scelta tattica dove l’obiettivo è capire se un profilo fuori dagli schemi possa sbloccare rigidità diplomatiche che i canali ufficiali non sono riusciti a scalfire.

Le posizioni ucraine e le fratture aperte con gli alleati

A Kyiv l’arrivo di Witkoff è stato accolto con cautela. Il governo ucraino teme che la velocità dei contatti tra Washington e Mosca possa tradursi in una pressione indebita verso concessioni non accettabili. Le ultime dichiarazioni dei vertici ucraini insistono su un principio essenziale ovvero che nessuna sovranità può essere negoziata mentre l’aggressione è in corso.

Parallelamente, le cancellerie europee vivono un momento di forte inquietudine. Molti governi temono che una pace imposta su basi territoriali possa diventare un precedente pericoloso per la sicurezza collettiva. L’asse Washington-Mosca, anche se temporaneo e legato alle circostanze, viene osservato con attenzione, perché le sue implicazioni rischiano di ridisegnare la centralità dell’Europa nel sistema atlantico.

Il viaggio di Witkoff arriva anche mentre alcune capitali chiedono un maggiore coordinamento e una maggiore trasparenza nelle discussioni. La percezione diffusa è che il negoziato sia entrato nella sua fase più sensibile e che ogni dettaglio sulla posizione americana possa cambiare gli equilibri sul terreno.

Che cosa può accadere dopo Mosca

Il risultato dell’incontro tra Steven Witkoff e Vladimir Putin determinerà la direzione dei prossimi mesi. Se il Cremlino accettasse di rivedere alcuni punti chiave, Washington spingerebbe per un documento comune che apra la strada a un cessate il fuoco verificabile. In caso contrario, il viaggio di Witkoff potrebbe trasformarsi in una dimostrazione di forza russa e in un segnale negativo per gli alleati europei.

Il contesto resta delicatissimo. La guerra non si è fermata, i movimenti sul campo continuano e il clima politico internazionale è segnato da divergenze interne allo stesso blocco occidentale. Per questo il viaggio di Witkoff viene osservato come il tentativo più audace degli ultimi mesi di riportare la crisi su un terreno negoziale reale.

Steven Witkoff, imprenditore prestato alla diplomazia, si trova ora al centro di un momento geopolitico che potrebbe definire non solo il destino della guerra, ma anche il rapporto tra gli Stati Uniti e i loro partner strategici. Il valore del suo intervento sarà misurato dalla capacità di ridurre la distanza tra richieste incompatibili e di creare un percorso credibile verso una stabilità che al momento appare lontana.

Elly Schlein e il PD: tra pluralismo e alleanze, la sfida per il futuro del centrosinistra

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La leader rilancia il PD come “forza plurale” e “perno della coalizione” in vista delle politiche 2027. Ma le sfide interne e le alleanze incerte mettono alla prova la sua leadership.

Schlein e il futuro del PD: tra pluralismo e leadership

La tre giorni a Montepulciano segna un momento cruciale per il Partito Democratico (PD) sotto la guida di Elly Schlein. Durante la convention “Costruire l’alternativa“, la segretaria del PD ha rilanciato la sua visione di partito come “plurale” e come “perno fondamentale” di una futura coalizione progressista.

La sua leadership, blindata dalle correnti interne, ma non priva di sfide, si prepara ad affrontare le elezioni politiche del 2027. Il partito, più che mai, sembra voler puntare su un modello di inclusività, che abbraccia diverse sensibilità politiche, ma che è destinato a confrontarsi con le tensioni interne e le sfide della coalizione.

La “forza plurale” del PD

Nel discorso di apertura a Montepulciano, Schlein ha enfatizzato come il PD non debba essere ridotto a una caserma” o a un partito personale. Anzi, il messaggio che vuole trasmettere è che il partito è “plurale“, una forza che sa dialogare con le diverse correnti interne e che, soprattutto, non è più solo il partito di chi è al vertice, ma un luogo di confronto e di crescita per tutta la comunità. “Il PD non è un partito di corrente, ma una casa che deve aprirsi a tutte le persone che vogliono costruire un futuro insieme“, ha dichiarato Schlein, segnando una netta separazione rispetto a chi, nel partito, ancora vede la politica come una serie di appartenenze frantumate.

Nonostante queste dichiarazioni rassicuranti, il PD resta una struttura complessa, segnata da divisioni storiche e dal persistente potere delle correnti interne. Schlein, dunque, si trova a dover bilanciare la necessità di coesione interna con il rischio di alienare quella parte di elettorato più moderata, che potrebbe sentirsi esclusa dalla sua visione progressista.

Il PD come “perno” della coalizione

Durante l’incontro a Montepulciano, Schlein ha anche ribadito che il Partito Democratico deve essere il “perno” della coalizione progressista. È una dichiarazione forte, che non solo esprime un’aspirazione, ma che risponde anche a chi, in questi anni, ha messo in dubbio la centralità del PD all’interno del centrosinistra.

Il PD è la forza principale di un’alleanza che deve ripartire da noi, dal nostro programma, dalle nostre idee“, ha continuato Schlein, dimostrando la sua determinazione a non relegare il partito a un ruolo secondario in un’eventuale alleanza di governo.

La segretaria, però, si trova a dover navigare un mare agitato. La coalizione che Schlein intende costruire deve infatti comprendere forze politiche diverse, alcune delle quali (come il Movimento 5 Stelle) sono ancora lontane da una sintesi completa. La presenza di Giuseppe Conte, leader del M5S, diventa un punto focale: chi guiderà effettivamente la coalizione? Sarà il PD con Schlein o il M5S con Conte? In un contesto in cui le alleanze sono ancora fluide, la segretaria dem sta cercando di allargare il campo di gioco e mantenere una posizione di preminenza.

La sfida delle primarie

Un altro aspetto importante della proposta politica di Schlein riguarda le primarie. La segretaria ha apertamente invitato gli alleati a confrontarsi attraverso le primarie per scegliere il candidato premier del centrosinistra. “Sono disponibile a correre alle primarie, se questo è il metodo condiviso dalla coalizione“, ha dichiarato la leader del PD. Le primarie, come metodo per legittimare la leadership, sono una mossa significativa, che potrebbe attirare parte dell’elettorato che vede nella partecipazione un segno di democraticità e inclusività.

Ma la proposta di Schlein potrebbe anche incontrare resistenze, sia interne che esterne. Se da un lato le primarie possono rinforzare la posizione del PD come punto di riferimento, dall’altro rischiano di esporre il partito alle divisioni interne, specialmente se dovessero emergere candidati con visioni contrastanti. Tuttavia, per Schlein, l’idea di un “campo largo”, in cui le primarie siano uno strumento di partecipazione, rappresenta il futuro del centrosinistra. Solo un partito che sa coinvolgere la propria base, secondo Schlein, può diventare un interlocutore credibile per l’elettorato.

La tenuta del partito (tra tensioni interne) e prospettive future

Nonostante le dichiarazioni di unità, il PD non è esente da divisioni. La crescente forza della componente più a sinistra del partito e l’influenza delle correnti storiche pongono interrogativi sulla capacità di Schlein di mantenere un equilibrio stabile. Le critiche alla sua leadership non sono poche: alcuni sostengono che il PD stia perdendo il suo equilibrio centrista e che la direzione troppo progressista stia alienando l’elettorato moderato.

La recente evoluzione del partito, infatti, ha visto un allontanamento dalla politica di centrosinistra più tradizionale, in favore di una linea più radicale, che guarda con maggiore attenzione alle questioni sociali, ai diritti civili e all’ambiente.

Anche la convivenza con le forze alleate è un altro tema delicato. Le divergenze su temi cruciali come l’Europa, il fisco e le politiche migratorie non sono facili da superare. Il PD, pur dichiarando la sua apertura alle altre forze politiche, dovrà decidere quanto sacrificare della sua identità per mantenere la coesione della coalizione.

Con la prospettiva delle elezioni politiche del 2027, il PD si trova davanti a una sfida fondamentale: come costruire una coalizione forte, coesa e capace di attrarre una base elettorale ampia. Schlein dovrà dimostrare che il PD è ancora in grado di rappresentare una vera alternativa al governo di centrodestra, senza cedere alle divisioni interne o alle pressioni delle correnti.

Se, da un lato, il partito ha bisogno di modernizzarsi e aprirsi a nuove sensibilità politiche, dall’altro, deve evitare di perdere quella base di consenso che negli anni lo ha fatto crescere come forza di centro-sinistra.

La domanda che Schlein dovrà affrontare nei prossimi anni è la seguente: riuscirà il PD a mantenere un’identità forte e pluralista, o finirà per scindersi in varie anime che si sgretolano? La chiave per il successo del partito sembra risiedere proprio in questa capacità di sintetizzare le differenze interne, mentre cerca di costruire una coalizione che possa governare l’Italia.

Israele in piazza contro Netanyahu: proteste di massa dopo la richiesta di grazia

Israele, nuova ondata di proteste contro Netanyahu dopo la richiesta di grazia: piazza in rivolta tra guerra, ostaggi e crisi dello Stato di diritto

Una piazza che torna a riempirsi

Tel Aviv è tornata a essere l’epicentro del dissenso politico israeliano. Migliaia di persone sono scese in strada dopo che Benjamin Netanyahu ha formalmente chiesto al presidente della Repubblica un perdono che gli permetterebbe di evitare la conclusione dei processi per frode e abuso di fiducia.

La manifestazione, documentata da Al Jazeera e da diversi media internazionali, si è trasformata rapidamente in un atto d’accusa contro il premier. I cittadini temono che la richiesta di grazia rappresenti un precedente pericoloso per l’indipendenza della magistratura. Molti manifestanti mostrano cartelli con messaggi netti: “Nessuno è al di sopra della legge”, “No all’impunità”, “La giustizia non si cancella”.

La guerra a Gaza e il nodo irrisolto degli ostaggi

La protesta non nasce soltanto dalla richiesta di perdono di Netanyahu ma anche dalla guerra nella Striscia di Gaza e il fallimento delle trattative sul rilascio degli ostaggi continuano a pesare sul governo, alimentando un malcontento profondo. Secondo Reuters, l’assenza di un accordo credibile ha generato frustrazione nelle famiglie dei sequestrati, che da mesi chiedono un negoziato reale.

Una parte consistente dei manifestanti considera la leadership di Netanyahu responsabile della mancanza di risultati, denunciando una gestione considerata caotica e priva di una strategia politica per arrivare alla liberazione. Nelle piazze si intrecciano due richieste: una soluzione diplomatica per gli ostaggi e un cambio di leadership che fermi l’escalation e ripristini la fiducia interna.

La richiesta di grazia come detonatore politico e la reazione del governo

Il 30 novembre 2025 Netanyahu ha presentato una lettera formale al presidente israeliano per ottenere il perdono nei processi in corso. La richiesta, confermata da Al Jazeera e Politico, è stata percepita come un punto di rottura.

I leader dell’opposizione parlano apertamente di unattacco alla giustizia”. Giuristi e movimenti civici avvertono che concedere la grazia in piena fase di conflitto, e a un primo ministro imputato, aprirebbe una crisi istituzionale gravissima. La protesta è stata immediata, migliaia di persone hanno chiesto che il presidente respinga la richiesta e garantisca che la magistratura completi il suo lavoro senza interferenze politiche.

Il premier ha accusato i manifestanti di minare la sicurezza nazionale in un momento di massima vulnerabilità. Il governo sostiene che le proteste indeboliscono Israele nelle trattative e alimentano la percezione di instabilità interna.

Secondo The Guardian, la polizia ha aumentato la presenza nelle strade e sono stati registrati episodi di tensione durante i cortei. Alcuni gruppi sono stati dispersi vicino alla residenza del premier, mentre altre manifestazioni si sono protratte fino a notte fonda. La risposta dura dell’esecutivo ha contribuito ad amplificare la percezione di una frattura interna che non riguarda più soltanto la guerra ma la stessa struttura democratica dello Stato.

Una società polarizzata come non accadeva da anni

Da un lato ci sono i sostenitori del premier, che considerano Netanyahu essenziale per la sicurezza del paese e ritengono che la guerra richieda stabilità e continuità politica. Dall’altro ci sono i movimenti civici, i giovani delle grandi città, le famiglie degli ostaggi e una parte crescente dei moderati che vedono nelle scelte del governo un rischio per le istituzioni democratiche.

La polarizzazione non è più solo ideologica. È diventata emotiva, identitaria, legata alla percezione del futuro del paese. Ogni nuovo episodio della guerra, ogni dichiarazione politica, ogni stallo nelle trattative sugli ostaggi alimenta la sensazione di trovarsi in un punto critico.

La protesta porta in superficie tre crisi intrecciate. La prima è militare: la guerra prosegue senza una strategia chiara di uscita. La seconda è umanitaria: il destino degli ostaggi resta sospeso, alimentando dolore e rabbia. La terza è istituzionale: la richiesta di grazia del premier riapre la ferita, mai rimarginata, sulla credibilità della magistratura e sulla separazione dei poteri.

Molti manifestanti parlano apertamente di una “crisi morale”: lo Stato appare incapace di offrire risposte credibili mentre chiede sacrifici enormi ai suoi cittadini.

Possibili sviluppi e scenari futuri

Gli analisti prevedono tre possibili direzioni. La prima è una fase di ulteriore irrigidimento, con più controlli e un governo ostile alle mobilitazioni. La seconda è un’apertura negoziale sul fronte degli ostaggi e un tentativo di ricucire con la società. La terza, la più temuta, è una stagnazione lunga, in cui guerra e proteste si alimentano a vicenda, erodendo progressivamente la fiducia pubblica.

La crisi mostrata dalle piazze non è superficiale. Israele si trova in un momento in cui le sfide esterne e interne si sovrappongono, e ogni scelta politica rischia di avere conseguenze sulla stabilità istituzionale del Paese.

Cina, l’operazione anticorruzione rallenta l’industria militare: ricavi in calo e programmi sotto pressione

Il nuovo report del SIPRI mostra un rallentamento inatteso dell’industria bellica cinese mentre l’operazione anticorruzione voluta da Xi Jinping investe vertici e fornitori strategici

Un rallentamento che sorprende gli analisti

Secondo l’ultimo rapporto del Stockholm International Peace Research Institute, nel 2024 i ricavi delle principali aziende militari cinesi sono diminuiti del dieci per cento. Un dato che sorprende, considerando che la spesa globale per gli armamenti continua a crescere, dai programmi europei fino ai nuovi investimenti statunitensi e asiatici. La Cina è uno dei pilastri della produzione militare mondiale e questo arretramento indica una tensione interna che interrompe un trend di crescita consolidato.

La contrazione non è attribuibile a shock esterni ma a una dinamica interna: l’operazione anticorruzione lanciata da Xi Jinping nel comparto militare e industriale. Un’iniziativa che mira a rafforzare la disciplina politica, ma che nel breve termine ha rallentato procedure, controlli e catene di comando.

L’operazione anticorruzione, i suoi effetti e le aziende più colpito

L’azione di Xi Jinping ha coinvolto generali, dirigenti delle grandi corporation militari e figure chiave nei settori aerospaziale, navale e missilistico. Molti contratti sono stati sospesi o rinviati, mentre le imprese si sono trovate a gestire verifiche straordinarie e sostituzioni interne. Il risultato è stato un rallentamento dei cicli produttivi e una diminuzione della capacità di consegnare sistemi complessi nei tempi previsti.

L’operazione, concepita per eliminare pratiche opache e consolidare il controllo centrale, ha imposto un ritmo molto diverso a un settore che per anni ha funzionato con rapidità e margini di discrezionalità elevati.

Reuters evidenzia tre colossi industriali particolarmente penalizzati. Norinco, specializzata in artiglieria, mezzi corazzati e armamenti terrestri, ha registrato il calo più drammatico con un meno trentuno per cento, scendendo attorno ai quattordici miliardi di dollari. Un segnale forte che indica ritardi, blocchi contrattuali e difficoltà operative. AVIC, cuore della produzione aeronautica militare, ha visto proroghe e rinvii nella consegna di velivoli e componenti, influenzando la modernizzazione dell’aviazione cinese.

CASC, responsabile dei programmi missilistici e spaziali, ha subito ritardi in settori sensibili come i vettori, i sistemi di guida e le piattaforme orbitanti. L’intero comparto ha perso slancio proprio nei programmi ritenuti più strategici dal governo.

Un calo in controtendenza rispetto al resto del mondo

Il dato cinese appare ancora più significativo se confrontato con l’andamento globale. Nel 2024 le cento principali aziende della difesa hanno generato seicentosettantanove miliardi di dollari, raggiungendo uno dei massimi storici. La guerra in Ucraina, le crisi in Medio Oriente e il rafforzamento della deterrenza nel Pacifico hanno spinto la domanda internazionale verso nuovi record.

La Cina rappresenta dunque un’eccezione. Non è una crisi del settore globale, ma un rallentamento legato interamente a dinamiche interne e al processo di ristrutturazione politico-burocratica in corso.

Per Xi Jinping, l’operazione anticorruzione non è solo un atto disciplinare. È un elemento centrale della sua strategia di sicurezza nazionale. Pechino considera la corruzione nelle forze armate un rischio diretto per la stabilità dello Stato e per la credibilità della modernizzazione militare.

Ma la riorganizzazione interna ha un costo, l’ apparato industriale della difesa cinese è profondamente centralizzato e dipende da catene gerarchiche rigide. La rimozione di figure chiave e l’introduzione di nuovi controlli hanno rallentato la velocità di risposta del sistema. Nel lungo termine potrebbero aumentare trasparenza ed efficienza, ma nel breve stanno generando un calo produttivo difficile da ignorare.

Ripercussioni sulla strategia nell’Indo Pacifico

Il momento non è irrilevante. La Cina sta accelerando i programmi navali, missilistici e aerospaziali legati al Mar Cinese Meridionale e allo Stretto di Taiwan. Un rallentamento nella produzione di navi, missili ipersonici, droni avanzati e piattaforme aerospaziali può modificare la tempistica di progetti cruciali.

Gli Stati Uniti e gli alleati asiatici monitorano con attenzione questi segnali. Uno stop anche temporaneo può alterare gli equilibri strategici regionali, offrendo margini di manovra ai rivali di Pechino. La Cina tuttavia mantiene risorse finanziarie e capacità industriali tali da poter recuperare terreno nel medio periodo.

La domanda che si pongono analisti e governi è se questo calo rappresenti un fenomeno transitorio o un segnale più profondo.

Il SIPRI suggerisce prudenza nell’interpretazione: la Cina continuerà a investire massicciamente nella difesa, ma l’operazione anticorruzione ha evidenziato una vulnerabilità del sistema industriale. Un eccesso di centralizzazione e controllo politico può limitare la capacità di innovazione, rallentando lo sviluppo dei progetti più avanzati.

La questione resta aperta. Se la fase di riorganizzazione si prolungherà, la Cina dovrà affrontare una sfida complessa: mantenere il ritmo della modernizzazione senza sacrificare i meccanismi di controllo interno.

Cosa aspettarsi e considerazioni

Il calo dei ricavi delle aziende militari cinesi rappresenta uno dei segnali più chiari delle tensioni interne che attraversano il sistema della difesa. L’operazione anticorruzione voluta da Xi Jinping ha l’obiettivo di rafforzare il controllo politico e prevenire vulnerabilità strategiche, ma nel breve periodo ha limitato la capacità produttiva di un settore essenziale per le ambizioni globali del paese.

La Cina resta un attore centrale della difesa mondiale, ma il 2024 mostra come anche le potenze più solide possano subire rallentamenti quando iniziative politiche interne incontrano filiere industriali estremamente complesse. I dati del SIPRI indicano un punto critico, utile per comprendere le reali dinamiche dietro la crescita del potere militare cinese.

Washington-Caracas: cosa è emerso dalla telefonata tra Trump e Maduro

La conferma del contatto diretto fra Washington e Caracas riapre un canale diplomatico inatteso in piena tensione nel Mar dei Caraibi

Un contatto che rompe gli equilibri

Donald Trump ha confermato di aver parlato telefonicamente con Nicolás Maduro. La dichiarazione è stata laconica, calibrata, quasi chirurgica. Trump ha definito lo scambio semplicemente una telefonata, evitando valutazioni o commenti. Nessun dettaglio sul contenuto, nessuna dichiarazione congiunta, nessuna apertura ufficiale. Questa assenza di informazioni è parte del messaggio. Per la prima volta dopo anni, un presidente statunitense interrompe il silenzio diplomatico nei confronti del leader venezuelano. Un gesto che pesa più della sua forma.

Washington ha confermato l’avvenuto contatto ma ha subito smentito l’ipotesi di un incontro fisico, anticipata dal New York Times. L’amministrazione statunitense ha scelto la linea della cautela, evitando di generare aspettative o di far percepire l’episodio come l’inizio di una normalizzazione. In questo contesto di prudenza, la telefonata assume il valore di un segnale controllato, ambiguo, strategico.

Perché la telefonata arriva proprio adesso

Il momento non è casuale arriva a seguito delle tensioni tra Stati Uniti e Venezuela sono aumentate nelle ultime settimane. Washington ha intensificato le operazioni contro imbarcazioni venezuelane sospettate di traffici illegali. La presenza della portaerei USS Gerald R. Ford nel Mar dei Caraibi indica che gli Stati Uniti non considerano il teatro venezuelano un’area secondaria. Caracas denuncia queste operazioni come violazioni territoriali e atti ostili.

All’interno di questo scenario, un contatto ai massimi livelli può equivalere a un tentativo di frenare una possibile escalation o, al contrario, a una manovra per testare la disponibilità dell’interlocutore prima di consolidare nuove pressioni. La telefonata appare quindi meno un gesto di cortesia e più un punto di verifica in un contesto altamente instabile.

La cornice militare che cambia il significato del dialogo

La telefonata non può essere analizzata senza considerare il contesto militare. Negli ultimi mesi gli Stati Uniti hanno condotto operazioni mirate contro presunte reti criminali venezuelane coinvolte nel traffico di droga. Queste azioni, pur presentate come interventi circoscritti, hanno una dimensione politica evidente. Il coinvolgimento di asset avanzati come la Gerald R. Ford eleva la posta in gioco, quindi non si tratta di pattugliamenti routinari, ma di una dimostrazione di forza calcolata.

Il timore internazionale è che un incidente navale possa innescare una spirale incontrollata. L’America Latina osserva con crescente inquietudine, consapevole che qualsiasi escalation nella regione caraibica avrebbe ripercussioni immediate su traffici commerciali, rotte energetiche e flussi migratori. In questo quadro, la telefonata diventa più di un gesto simbolico: è un possibile tentativo di gestione preventiva del rischio.

Una diplomazia parallela costruita sull’incertezza e il calcolo di Maduro

Reuters ha riportato che Trump, nelle settimane precedenti, aveva dichiarato di essere aperto a una forma di dialogo con Maduro. Una posizione che divide la stessa amministrazione statunitense. Per alcuni, l’apertura è un modo per evitare una crisi militare non voluta. Per altri, rappresenta un rischio politico, poiché potrebbe indebolire la narrativa delle sanzioni e della pressione diplomatica.

La telefonata si inserisce in questo equilibrio interno. Non rappresenta un negoziato formale, ma neppure un semplice gesto occasionale. È una forma di diplomazia parallela che utilizza deliberatamente l’ incertezza e resta appositamente vaga per mantenere la flessibilità strategica. Washington può proseguire le operazioni militari e allo stesso tempo lasciare aperta una finestra di dialogo. Caracas può considerarla un segnale positivo senza dover dichiarare una disponibilità che potrebbe indebolirla internamente.

Per Maduro il valore della telefonata è duplice. Da un lato rappresenta una possibile riduzione della pressione internazionale. Il Venezuela attraversa una crisi economica drammatica, la produzione petrolifera è ridotta, l’inflazione colpisce duramente la popolazione e le infrastrutture del paese sono in stato critico.

Dall’altro lato Maduro deve gestire l’equilibrio interno. Una parte della sua base politica vede gli Stati Uniti come un avversario storico e può interpretare qualsiasi dialogo come una resa. Per questo motivo la comunicazione ufficiale venezuelana sulla telefonata è stata estremamente misurata. Caracas evita toni trionfalistici, consapevole che un’eccessiva esposizione potrebbe causare fratture interne.

Il timore di un effetto domino e chi rischia di più

Il Venezuela non è un attore isolato nel contesto caraibico, ma è un nodo di rotte commerciali, energetiche e migratorie. Le operazioni americane nelle sue acque non hanno un impatto limitato. Colombia, Brasile e le isole caraibiche temono che un incidente possa trasformare una disputa bilaterale in una crisi regionale. Il traffico di petrolio, gas e merci leggerebbe immediatamente gli effetti di un confronto aperto.

Anche i partner degli Stati Uniti osservano con attenzione. Un conflitto nel Mar dei Caraibi rischia di aprire un fronte imprevisto in un momento in cui Washington è già impegnata su vari scenari globali. La telefonata appare quindi come un tentativo di mantenere aperti canali diplomatici e di rassicurare gli alleati sul fatto che gli Stati Uniti non intendono precipitare la regione in un nuovo ciclo di instabilità.

La posta in gioco è alta per entrambe le parti. Gli Stati Uniti rischiano di trovarsi coinvolti in una crisi più ampia senza un chiaro percorso di uscita. Il Venezuela rischia un isolamento ancora più severo, con ripercussioni economiche che il governo di Maduro avrebbe difficoltà a sostenere. Gli alleati regionali rischiano la destabilizzazione. La telefonata diventa così un tassello di una strategia più ampia che tenta di bilanciare deterrenza e apertura.

Le parole non dette pesano quanto quelle pronunciate. La scelta di non divulgare dettagli è intenzionale. Ogni informazione può essere usata come leva nelle settimane successive. Il vero valore della telefonata risiede proprio in questo spazio ambiguo dove Washington e Caracas possono osservare le reazioni degli attori regionali e internazionali prima di decidere i prossimi passi.

Una conclusione provvisoria

La telefonata tra Trump e Maduro non è un gesto di cortesia ma un atto strategico. Interrompe anni di gelo diplomatico, interviene in un momento di tensione militare e apre una finestra che potrebbe rimanere temporanea o trasformarsi in un percorso di dialogo. La sua importanza non deriva da ciò che è stato detto ma da ciò che suggerisce. Una crisi come quella venezuelana può cambiare direzione a partire da segnali minimi solo in apparenza. Questo potrebbe essere uno di quei momenti.

Le prossime settimane chiariranno se la chiamata rappresenta un primo passo verso una distensione o un episodio isolato utile solo a misurare la posizione della controparte. Per ora resta un messaggio che pesa più della sua brevità e che ridefinisce i margini della crisi nel Mar dei Caraibi.

Il terremoto anticorruzione continua a scuotere Kyiv mentre il mondo spinge per i negoziati

Le perquisizioni contro il capo di gabinetto di Zelenskyy aprono una nuova fase politica nel mezzo del conflitto. Mentre i partner occidentali chiedono trasparenza e Mosca osserva da lontano, l’Ucraina affronta una doppia sfida: vincere sul fronte militare e resistere a un test interno di credibilità istituzionale.

Un allarme inatteso nel cuore del potere

La mattina del 28 novembre 2025 ha segnato una svolta imprevista nella già complessa situazione ucraina. Gli investigatori delle agenzie anticorruzione NABU e SAPO hanno fatto irruzione nella residenza privata di Andriy Yermak, il capo di gabinetto del presidente Zelenskyy e uno degli uomini più influenti del Paese. La notizia, confermata immediatamente da Reuters e rilanciata in poche ore dai principali giornali internazionali, è stata un fulmine politico in un momento in cui la leadership ucraina stava tentando di presentarsi compatta nel dialogo con Stati Uniti ed Europa sulle prospettive di un possibile piano di pace.

Yermak ha riconosciuto pubblicamente la perquisizione, dichiarando cooperazione piena. Ma la trasparenza iniziale non ha calmato il dibattito.

La domanda centrale riguarda la natura dell’indagine, che secondo fonti ufficiali rientra nel gigantesco caso Energoatom, lo scandalo da cento milioni di dollari che coinvolge appalti, contratti di fornitura e reti di intermediari sospettati di avere drenato fondi destinati al settore energetico e alla gestione delle emergenze infrastrutturali.La perquisizione a un livello così alto dello Stato è qualcosa che in Ucraina non accadeva da anni. E accade proprio ora, nel momento in cui Kyiv tenta di mostrare al mondo la propria maturità istituzionale.

La guerra come sfondo e amplificatore

Il contesto in cui esplode questo scandalo rende tutto ancora più delicato. Da un lato l’esercito ucraino combatte su un fronte vastissimo, con linee logistiche sotto pressione e continue richieste di aiuti a Stati Uniti ed Europa. Dall’altro la questione dei negoziati è tornata centrale, con il Guardian che ha riportato nuove dichiarazioni del Cremlino sulla possibilità di un cessate il fuoco solo in presenza di concessioni territoriali da parte di Kyiv.

In questo scenario complesso, l’Ucraina deve convincere gli alleati che gli enormi flussi finanziari inviati per sostenere la guerra e la ricostruzione non rischiano di evaporare nel sistema corruttivo ereditato da decenni di instabilità politica. È un compito gigantesco. E l’indagine su Energoatom, oltre a colpire simbolicamente la gestione del settore più strategico dell’economia ucraina, segnala che lo Stato è disposto a procedere anche contro i propri vertici.

Molti osservatori internazionali hanno letto questa operazione come un segno di forza istituzionale. Ma la forza, in tempi di guerra totale, è sempre fragile. Ciò che può essere visto come coraggio in Occidente rischia di diventare un fattore di destabilizzazione interna se non verrà gestito con rigore, trasparenza e continuità.

Il nodo Energoatom e la lunga scia dei sospetti

Lo scandalo Energoatom non nasce oggi. L’inchiesta, iniziata più di un anno fa e denominata Operation Midas, aveva già prodotto decine di perquisizioni, intercettazioni e accuse formali contro dirigenti e intermediari. Il quadro tracciato dagli inquirenti descrive un sistema parallelo che sfruttava le vulnerabilità del settore energetico in pieno conflitto. La guerra ha amplificato la fragilità della rete elettrica, obbligando lo Stato a correre per ottenere generatori, forniture e investimenti esteri.

Le emergenze logistiche e la necessità di risposte rapide hanno aperto enormi spazi ai corruttori.Secondo NABU, una parte consistente dei fondi destinati all’emergenza energetica sarebbe stata dirottata attraverso società di copertura, fornitori fantasma e contratti privi di reale giustificazione tecnica. La cifra citata, cento milioni di dollari, non è casuale. Rappresenta un simbolo drammatico di ciò che accade quando un Paese in guerra si trova a dover affrontare i propri punti deboli interni mentre fronteggia un nemico esterno.

Il coinvolgimento indiretto dell’ufficio presidenziale non è ancora provato. Al momento Yermak non risulta formalmente accusato, ma la perquisizione è un segnale che le agenzie vogliono andare fino in fondo, anche se questo significa toccare il cuore del potere politico.

Il significato politico della perquisizione

Che Kyiv avesse un problema di corruzione sistemica è noto da tempo. È una parte della storia dello Stato post sovietico. Ma la novità è che ora questa battaglia non può più essere rimandata. La perquisizione contro Yermak rappresenta un messaggio preciso rivolto a tre pubblici differenti.Il primo pubblico è interno. La società ucraina, provata dalla guerra e dalle difficoltà economiche, ha bisogno di vedere che le élite non sono intoccabili. L’ingiustizia interna, in un periodo di sacrifici enormi, sarebbe un veleno politico.

Il secondo pubblico è quello occidentale. Stati Uniti ed Europa chiedono trasparenza come condizione per continuare a sostenere il Paese. Senza progressi convincenti nella lotta alla corruzione, i flussi di aiuti rischiano di essere messi in discussione.Il terzo pubblico è Mosca, che osserva. Ogni fragilità istituzionale ucraina diventa materiale per la propaganda russa. Ogni segnale di pulizia interna può essere usato, al contrario, per mostrare che lo Stato ucraino è capace di mantenere l’ordine anche sotto attacco.

La reazione del governo e la battaglia per la credibilità

Zelenskyy ha sempre presentato la lotta alla corruzione come parte centrale della sua presidenza. Prima della guerra aveva lanciato campagne simboliche contro oligarchi e sistemi clientelari. Ora è chiamato a dimostrare che quel messaggio vale anche nei momenti più critici.

La perquisizione a uno dei suoi collaboratori più stretti potrebbe essere interpretata come un colpo politico devastante. Ma potrebbe anche trasformarsi in un segnale di forza, se gestita con equilibrio. L’importante è che non si trasformi in un braccio di ferro interno tra istituzioni anticorruzione e potere esecutivo.La credibilità dello Stato è in gioco. La trasparenza non è una questione morale, ma strategica. In un Paese che dipende dagli aiuti internazionali, la capacità di dimostrare rigore amministrativo vale quanto un successo militare.

Il peso internazionale della vicenda

La tempistica dell’operazione anticorruzione non passa inosservata. In questi stessi giorni Stati Uniti ed Europa hanno intensificato la pressione su Kyiv per valutare forme di compromesso diplomatico con Mosca. Il segnale inviato dal Cremlino, secondo cui un dialogo sarebbe possibile solo se l’Ucraina riconoscesse la perdita dei territori, ha riacceso un confronto internazionale assai teso.

In questo contesto, l’indagine su Yermak rischia di avere un impatto geopolitico indirettissimo ma reale. Gli alleati vogliono una leadership stabile e credibile, in grado di prendere decisioni difficili e di garantire una continuità istituzionale. Uno scandalo così sensibile potrebbe diventare un ostacolo ai negoziati o al contrario un incentivo a chiudere rapidamente le controversie interne.

La guerra e le riforme, in Ucraina, sono destinate a procedere insieme. Ed è proprio questa sovrapposizione che rende il momento presente straordinariamente delicato.

Che cosa rappresenta davvero questo scandalo

La perquisizione a Yermak è un punto di svolta. Non per ciò che accade oggi, ma per ciò che può accadere domani.Se l’indagine prosegue con trasparenza, indipendenza e rigore, l’Ucraina può rafforzare la propria immagine internazionale e la fiducia dei cittadini nel proprio Stato. Può dimostrare che lo Stato di diritto non si sospende neppure sotto i bombardamenti.Se invece l’inchiesta diventa uno strumento politico o se finisce soffocata dai giochi di potere, il danno sarà enorme. La percezione esterna potrebbe indebolirsi.

La coesione interna potrebbe frantumarsi. E il Paese si troverebbe a combattere due guerre insieme: una contro la Russia e una contro se stesso.Oggi l’Ucraina è nel mezzo di una fase decisiva. L’esito di questa inchiesta non riguarda solo Yermak o il governo. Riguarda la credibilità dello Stato, la sua capacità di modernizzarsi, la fiducia degli alleati e la possibilità di continuare a resistere non solo militarmente, ma politicamente e moralmente.

Le ultime parole di Putin scuotono il tavolo di pace per l’Ucraina

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Nel suo intervento di fine novembre a Bishkek, il presidente russo rilancia la retorica, ormai ben nota, della resa territoriale come premessa di ogni trattato. Dietro la cortina diplomatica si muovono eserciti, interessi energetici e una partita geopolitica con l’Occidente tutta da giocare.

I segnali di apertura… con condizioni inaccettabili

Il 27 novembre 2025, durante un summit tra ex repubbliche sovietiche a Bishkek, Vladimir Putin ha dichiarato che il recente piano di pace elaborato dagli Stati Uniti con l’Ucraina potrebbe “formare la base di futuri accordi”. La frase, acquisita da fonti Reuters e ampiamente rilanciata dalla stampa internazionale, suona come un’apertura formale. Eppure la concessione nasconde un meccanismo di pressione: Putin ha chiarito che la cessazione delle ostilità è subordinata al ritiro immediato delle forze ucraine dai territori contestati.

Ha aggiunto che se Kyiv non accetterà questo passaggio, «la Russia realizzerà i suoi obiettivi con la forza». La leadership ucraina, e con essa molti governi europei, ha risposto con fermezza: nessuna concessione territoriale è considerata accettabile. Il presidente Volodymyr Zelenskyy ha ribadito che la sovranità nazionale e l’integrità dei confini restano non negoziabili.

La contraddizione è chiara: diplomazia e guerra scorrono parallele, in un flusso continuo di annunci politici e offensive sul terreno. Putin sembra puntare a diluire la linea del fronte con trattative che mantengano per la Russia il vantaggio della forza.

Europa e Stati Uniti sul filo: il piano riformulato e il veto del Cremlino

La bozza originale di 28 punti, elaborata sotto l’egida USA, prevedeva concessioni su territori contestati, limiti all’esercito ucraino e l’espulsione di ogni forza NATO futura. Quella versione aveva provocato allarme sia a Kyiv sia tra gli alleati europei. Dopo intense trattative, a Ginevra la proposta è stata ridiscussa: la nuova “peace framework” riduce il numero dei punti, corregge alcune richieste controverse e tenta di salvare la sovranità ucraina, introducendo garanzie di sicurezza e una revisione del compromesso territoriale.

Mosca, però, bolla la contro-proposta europea come “non costruttiva”, sostenendo che stravolge gli accordi su territorio e sicurezza. Il governo russo afferma che accetterà solo quanto contenuto nella bozza originaria o niente. Questo rifiuto esplicito mina qualsiasi speranza di mediazione multilaterale e spinge la diplomazia su un terreno fragile, dove il potenziale accordo resta legato a una resa ucraina di fatto. Un precedente pericoloso che potrebbe ridefinire il concetto europeo di sicurezza collettiva.

Dietro le dichiarazioni: la guerra continua sul campo

Le parole del Cremlino arrivano mentre sul terreno le forze russe alzano la pressione. L’avanzata nel Donbas e nelle regioni occupate mantiene il conflitto vivo nonostante i tentativi diplomatici. L’intreccio tra dichiarazioni pubbliche e mosse militari suggerisce una doppia strategia: offrire diplomaticamente una “via d’uscita”, ma conservare il vantaggio strategico con la presenza e l’espansione delle truppe.

Per l’Ucraina la situazione rimane critica: ogni concessione territoriale viene vista non solo come una perdita strategica, ma come una ferita irreversibile all’identità nazionale. E l’Occidente, diviso tra pragmatismo americano e riserva europea, mostra crepe che la diplomazia russa non manca di sfruttare.

Perché Putin rilancia ora: un calcolo geopolitico

Il tempismo non è casuale. Il presidente russo ha scelto la finestra di una diplomazia molto attiva, dopo il summit estivo ad Alaska, per riaffermare le pretese di Mosca in modo ufficiale. Dichiarare apertura e contemporaneamente imporre condizioni severe significa mantenere in mano due armi: la diplomazia e la guerra.

Nel contesto internazionale attuale, la Russia percepisce un interesse crescente degli USA a chiudere il conflitto, un’Europa esausta e un’Ucraina provata. Questo le regala un potere di negoziazione senza precedenti, perché può dettare i termini, trincerarsi dietro certi margini e stabilire le regole del gioco.Allo stesso tempo, Mosca cerca di presentarsi come garante della stabilità europea.

Offre, in cambio di riconoscimenti territoriali, garanzie che evitino un’escalation oltre i confini ucraini: un messaggio calibrato per l’Occidente, che rischia di essere attratto da un cessate il fuoco che riporti normalità e ripristini flussi economici. Così la Russia ridefinisce il concetto di pace: non come fine del conflitto, ma come trasformazione del conflitto in un ordine più favorevole agli interessi di Mosca.

Un bivio strategico per l’Europa e per l’Ucraina

L’Europa si trova allo specchio. Accettare un accordo che riconosca, anche in modo indiretto, i guadagni territoriali russi significa mettere in discussione la sicurezza collettiva, la credibilità della NATO, la tutela dei diritti di sovranità. Rifiutarlo rischia di prolungare una guerra che sta distruggendo vite, infrastrutture, tessuto sociale.Per l’Ucraina la posta in gioco non è solo strategica: è esistenziale. Ogni metro ceduto equivale a una ferita geopolitica e morale. La leadership di Kyiv lo sa, e ha già escluso compromessi territoriali che la farebbero precipitare nella delegittimazione interna.

Un accordo imposto da una parte significherebbe non una pace, ma un armistizio fragile, con una tensione sempre sotto la superficie. Ciò che serve, se serve, è una soluzione che contempli garanzie di sicurezza, tutela della sovranità e un disegno strategico europeo che non lasci spazio a revisioni future.

Conclusione parziale: la pace non basta, serve una strategia di sicurezza duratura

Le ultime dichiarazioni di Putin ridisegnano la post-guerra possibile, non come un ritorno al 1991, ma come un nuovo ordine imposto con la forza e ratificato con documenti. La partita così non è più solo tra Kiev e Mosca, ma tra la Russia e l’intero Occidente. Quindi questo fa si che le scelte europee fatte nei prossimi giorni definiranno si il confine ucraino, ma alla fine si sta parlando della tenuta stessa del sistema di sicurezza continentale.

Se l’accordo diventa possibile solo con una concessione alle condizioni russe, allora non è una pace ma si trasforma in uno strumento di resa. Se però l’Occidente alza il prezzo, con garanzie reali, presenza internazionale, deterrenza credibile, allora la proposta potrebbe essere altro, come l’inizio di un negoziato vero, nel quale la guerra perde senso e la sicurezza diventa una questione collettiva.

In gioco non c’è solo l’Ucraina. C’è un pezzo di futuro europeo.

Hezbollah, Dubai e l’ombra dell’Iran: la finanza invisibile che ridisegna il Medio Oriente

L’inchiesta del Wall Street Journal sui fondi iraniani trasferiti a Hezbollah attraverso Dubai apre una finestra su una delle infrastrutture più sensibili della sicurezza globale: la rete finanziaria informale che permette all’Iran di aggirare sanzioni, sostenere i propri proxy militari e condizionare gli equilibri del Medio Oriente.

È difficile che un’inchiesta giornalistica riesca da sola a spostare il baricentro dell’analisi geopolitica, ma è ciò che sta accadendo con la rivelazione del Wall Street Journal secondo cui l’Iran avrebbe trasferito centinaia di milioni di dollari a Hezbollah passando attraverso Dubai e reti di cambio informali. È una notizia che va oltre il sensazionalismo e non riporta notizie ancora sconosciute ma rompe la narrativa ufficiale di apparente equilibrio nel Golfo, conferma sospetti già sollevati e mette in discussione la capacità degli Stati Uniti di contenere le reti finanziarie ostili. Dimostra sostanzialmente come la guerra contemporanea non sia un mosaico di conflitti separati, ma un’unica rete interconnessa comporta da pressioni politiche, militari, economiche e finanziarie.

Come, dove e perché adesso

Il punto non è stabilire se Teheran finanziasse Hezbollah perché questo è un dato strutturale da decenni. La notizia riguarda il come”, il “dove” e il “perché adesso”. Il fatto che Dubai sia diventata uno snodo centrale nella finanza parallela dell’Iran non è solo sorprendente ma è qualcosa di strategicamente rivelatore e mostra la capacità di Teheran di muoversi con elasticità nella geografia economica del Golfo, sfruttando le vulnerabilità di un sistema globale costruito sulla rapidità delle transazioni, sulla deregolamentazione e sulla competizione tra hub finanziari per attrarre capitali.

Il WSJ descrive un meccanismo che si regge su una struttura estremamente agile, emergono infatti intermediari legati ai Pasdaran, compagnie di cambio, uffici di trasferimento fondi, società di import-export e, soprattutto, la Hawala, un sistema di transazione informale basato sulla fiducia e privo di tracciabilità bancaria. È un metodo antico, ma perfettamente adattabile al mondo digitale. Non ci sono bonifici, non ci sono controlli da parte della rete Swift, non ci sono dichiarazioni né protocolli antiriciclaggio. Solo un flusso di denaro che attraversa il Golfo senza lasciare impronte.

Reazione degli Emirati Arabi Uniti

La reazione degli Emirati Arabi Uniti è stata silenziosa ed è proprio questo silenzio a rendere il quadro ancora più significativo. Dubai non può permettersi di essere percepita come un facilitatore del finanziamento alle milizie, ma allo stesso tempo basa la sua forza economica sulla libertà dei movimenti finanziari, sulla discrezione bancaria, sul ruolo di piattaforma di intermediazione tra Asia, Europa e Africa. È un equilibrio fragile, che permette di attrarre investitori internazionali ma che espone gli Emirati a una penetrazione inevitabile di capitali opachi, legali o meno. La loro economia è progettata per essere un terminale globale, non un muro.

Il punto critico è proprio questo, ovvero che non c’è alcun bisogno di complicità dato che è la stessa struttura economica a rendere possibile il passaggio di fondi. Gli Emirati cercano da anni di rafforzare i controlli, ma ogni rafforzamento dei meccanismi di trasparenza è in tensione con l’attrattività del loro modello economico. È un equilibrio che non ha una soluzione semplice, e l’Iran questo lo sa perfettamente. Teheran ha modellato la sua strategia di guerra economica e di resistenza alle sanzioni non sulla forza militare, ma sulla capacità di sfruttare le intercapedini del sistema finanziario globale.

Per Hezbollah, questa rete è essenziale dato che il movimento libanese si trova nella fase più delicata degli ultimi dieci anni e ha subito perdite pesanti nello scontro con Israele, i suoi territori nel sud del Libano sono stati devastati, la sua base sociale è in crisi per il collasso economico nazionale e la crescente pressione diplomatica. Eppure rimane il proxy più sofisticato e strutturato dell’Iran. Nessuna milizia nella regione unisce capacità militare convenzionale, radicamento sociale, controllo territoriale e sofisticazione tecnologica come Hezbollah e per mantenere questa posizione, ha bisogno di liquidità costante.

Da questo punto di vista, l’inchiesta del WSJ non mostra solo un flusso di denaro: mostra una vera e propria strategia. Rivela che il regime iraniano sta accelerando il proprio sostegno, compensando la pressione internazionale con una rete di finanziamento più agile rispetto al passato. L’uso di Dubai, che non appare come un canale ovvio, è segno di adattamento, laddove le pressioni su Siria e Libano si intensificano, gli Emirati offrono una piazza che unisce efficienza logistica, densità finanziaria e opacità sufficiente.

La mancanza di conferme da parte dei media arabi e iraniani è coerente con la natura del sistema, nessun Paese dell’area può permettersi di commentare pubblicamente una vicenda che coinvolge sanzioni statunitensi, operazioni finanziarie sensibili e il principale attore militare non statale della regione. Hezbollah non commenta, il governo libanese tace, l’Iran continua la sua politica di negazione sistematica di ogni operazione di sostegno, mentre gli Emirati mantengono il loro approccio discreto, consapevoli dell’importanza di mostrarsi come alleati affidabili dell’Occidente e allo stesso tempo come piattaforma neutra per tutti.

La posizione degli Usa su Hezbollah e la vicinanza agli Emirati

La vera portata internazionale emerge però analizzando il ruolo degli Stati Uniti. Per Washington, l’inchiesta è più di un semplice campanello d’allarme perché a loro avviso è un’indicazione chiara dell’erosione progressiva della propria capacità di controllo finanziario nel Golfo. Gli Stati Uniti sanno che bloccare i flussi verso Hezbollah significa limitare il potere dell’Iran nel Levante, ridurre la capacità di Teheran di rispondere alle pressioni militari israeliane e soprattutto impedire una destabilizzazione permanente al confine nord di Israele. Ma sanno anche che la guerra finanziaria è molto più complessa di quella militare. La strategia americana degli ultimi anni è stata costruita su sanzioni, interdizioni bancarie, controlli sulle compagnie aeree e su misure punitive contro società di facciata e reti offshore.

Questa strategia ha colpito duramente l’economia iraniana, ma non l’ha fermata, dato che sono state trovate altre strade per poter continuare il loro operato.Il fatto che Teheran abbia trovato un corridoio efficace a Dubai indica un limite nella capacità di interdizione occidentale e ci segnala che la guerra economica è entrata in una nuova fase: quella in cui gli Stati non si limitano più a nascondere i propri flussi, ma li integrano in un’economia globale troppo complessa per essere controllata. In questo scenario, gli Stati Uniti saranno costretti a rivedere la propria strategia di contenimento, magari aumentando la pressione sugli Emirati, chiedendo maggiori controlli, o cercando di convincere Abu Dhabi a una collaborazione più stringente contro le reti iraniane.

Ma gli USA dovranno farlo con cautela, perché gli Emirati sono anche un partner strategico nella stabilità del Golfo, nel contenimento dello Yemen, nella presenza militare nel Mar Arabico e nelle politiche energetiche. Il quadro complessivo dimostra che la vicenda non è solo finanziaria, ma profondamente politica. Hezbollah resta un attore cardinale della strategia iraniana, e l’Iran resta un attore cardinale della competizione tra potenze. L’uso di Dubai come snodo finanziario non è un incidente, ma il risultato di un mondo in cui i confini tra economia lecita e rete informale sono sempre più labili. C’è una lezione più ampia da valutare che fa riflette su come le guerre moderne si combattono su reti, reti di droni, reti energetiche, reti diplomatiche, reti informatiche e reti finanziarie. È in queste reti che oggi si decide la stabilità del Medio Oriente.

L’assenza di reazioni ufficiali, come specificato poc’anzi, non deve essere letta come un segnale di debolezza, ma come la conferma che questa vicenda tocca uno dei nervi scoperti del sistema internazionale. I Paesi del Golfo non vogliono essere trascinati nel conflitto tra Iran e Stati Uniti, Teheran non vuole mostrare le carte che gli permettono di sopravvivere alle sanzioni e Hezbollah non intende esporre la sua dipendenza economica così come il Libano non può permettersi di aprire un fronte diplomatico ulteriore. Washington, infine, deve calibrare ogni dichiarazione per non alienare un partner indispensabile nel Golfo.

Questa storia ci dice che il Medio Oriente non può essere compreso attraverso la lente tradizionale degli schieramenti militari o dei negoziati diplomatici. Il potere passa attraverso i flussi invisibili: denaro, informazione, influenza. La forza di uno Stato o di un attore non statale dipende dalla capacità di muoversi nella zona grigia dei sistemi economici globali. L’Iran, da questo punto di vista, è uno dei maestri più abili. E Hezbollah, la sua emanazione più sofisticata, resta al centro di questa rete globale.

L’inchiesta del WSJ non chiude il cerchio ma lo apre. Mostra un mondo in cui gli attori regionali non agiscono più all’interno di confini nazionali, ma all’interno di un ecosistema globale di vulnerabilità e opportunità. E mostra un Occidente che fatica a comprendere quanto la finanza parallela sia diventata una delle colonne portanti della geopolitica contemporanea. È una storia che non parla solo del Medio Oriente, ma del nostro tempo. Una storia che continuerà finché esisterà la distanza tra il sistema finanziario legale e quello informale, finché le guerre resteranno a bassa intensità e finché le milizie continueranno a essere gli attori determinanti della politica internazionale.

Sparatoria a Washington: l’attacco, reazione interna e il giro di vite sull’immigrazione afghana

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Gli Stati Uniti rivedono le politiche migratorie dopo l’attacco che ha coinvolto membri della National Guard, sospendendo tutte le richieste di ingresso e visto per cittadini afghani.

Washington scossa dopo lo sparo che cambia tutto

Il 26 novembre 2025 un attentato in pieno centro Washington, a pochi isolati dalla residenza ufficiale della Casa Bianca, ha causato feriti gravi tra membri della United States National Guard impegnati in servizio nelle strade della capitale. Il sospettato, un cittadino afghano identificato come Rahmanullah Lakanwal, è stato rapidamente arrestato dalle forze dell’ordine. L’episodio ha generato immediatamente un’ondata di shock politico e mediatico, ma ha anche innescato un dibattito profondo sul rapporto tra immigrazione, sicurezza e politiche di accoglienza degli ultimi anni.

Nel caos delle prime ore, la dinamica dell’attacco è stata descritta come un’imboscata: il sospettato avrebbe aperto il fuoco contro due Guardie Nazionali, ferendole gravemente, prima di essere neutralizzato. Le circostanze restano sotto indagine: il movente non è stato ufficializzato, ma l’origine afghana del presunto aggressore e il contesto delle tensioni politiche in patria e all’estero hanno immediatamente indirizzato l’attenzione su questioni legate a immigrazione, vetting e sicurezza interna.

Reazione statunitense: sicurezza, immigrazione, politiche migratorie

La reazione dell’amministrazione degli Stati Uniti è stata rapida e netta. Il presidente Donald J. Trump ha definito l’attacco unatto di terrorismo” e ha chiesto una revisione completa di tutti gli immigrati afghani ammessi negli Stati Uniti durante la presidenza del suo predecessore. Ha indicato le politiche di immigrazione e asilo, in particolare il programma di evacuazione e accoglienza afghana, come una falla critica per la sicurezza nazionale.

Immediatamente dopo, la U.S. Citizenship and Immigration Services (USCIS) ha annunciato la sospensione indefinita di tutte le richieste di immigrazione provenienti da cittadini afghani, in attesa di una revisione delle procedure di vetting. Il provvedimento, drastico e senza precedenti, segna una svolta significativa nella politica migratoria americana, segnalando un cambio di priorità verso la sicurezza interna a scapito dell’accoglienza di rifugiati e richiedenti asilo provenienti dall’Afghanistan.

Parallelamente il governo ha autorizzato un dispiegamento aggiuntivo di truppe della Guardia Nazionale a Washington, incrementando la presenza militare nelle strade della capitale. L’obiettivo dichiarato è rafforzare la protezione delle istituzioni e garantire ordine e sicurezza, ma l’azione ha avuto immediatamente un effetto politicizzante: l’attacco è stato utilizzato come argomento centrale nella campagna per stringere le maglie sull’immigrazione.

Impatto sulle comunità afghane e rifugiati: paura, tensioni, incertezza

La decisione di sospendere ogni nuova richiesta di immigrazione da parte di afghani ha generato allarme tra le comunità di rifugiati, le ONG e attivisti per i diritti umani. Molti degli afghani che negli ultimi anni hanno trovato rifugio negli Stati Uniti, spesso in fuga da persecuzioni, conflitti o regime talebano, si trovano ora di fronte a un quadro sempre più incerto. Il messaggio istituzionale, duro e politicizzato, alimenta la sensazione di “colpa per associazione”: anche chi è regolarmente residente e controllato può vedere messa in discussione la propria presenza. Alcune voci di advocacy parlano esplicitamente di stigmatizzazione collettiva, pericolosa in un sistema costruito su criteri di nazionalità. Da parte degli attivisti per l’immigrazione e della comunità afghana negli USA, c’è chi denuncia che l’attacco, seppur grave e da condannare, non è ragione sufficiente per sospendere procedure d’asilo o immigrazione.

Ricordano che la stragrande maggioranza degli afghani evacuati con programmi degli anni precedenti (ad esempio l’operazione di accoglienza post-ritiro statunitense) era soggetta a controlli multipli, background check, screening biometrico, controlli di intelligence e antiterrorismo. Per loro, questa reazione rischia di essere generalizzante e di punire vittime di guerre e persecuzioni.

Una crisi politica annunciata: immigrazione e sicurezza nella nuova agenda USA

L’attacco e la reazione che ne è seguita sono al centro di un cambiamento profondo nella narrativa della sicurezza nazionale americana. La sospensione immediata delle richieste di immigrazione afghana non è un mero atto simbolico, ma un segnale che definisce priorità: il governo attuale considera la sicurezza interna e il controllo dei flussi migratori come elementi centrali della sua agenda, anche a costo di traumi per chi cerca rifugio.

Da un lato, questa decisione consolida un approccio securitario e restrittivo e dall’altro, apre la porta a una stretta generalizzata su asilo e immigrazione da aree in conflitto, non solo Afghanistan. Il precedente potrebbe essere usato come modello per altre politiche discriminatorie, rafforzando barriere legali e burocratiche per richiedenti asilo, rifugiati e migranti.

L’effetto sarà probabilmente un aumento dei respingimenti, una dilatazione dei tempi di attesa, un circolo di incertezza sociale per migliaia di persone che avevano riposto speranze negli Stati Uniti.

È probabile che questa linea resti centrale nel dibattito politico interno nell’imminente periodo. Le pressioni su Congressi e agenzie federali per rafforzare controlli, limitare ingressi, potenziare espulsioni, già espresse da parte dell’amministrazione, potrebbero concretizzarsi in leggi dure e normative restrittive.

Il nodo del vetting, le contraddizioni e le sfide

La giustificazione della sospensione data dall’amministrazione è la sicurezza nazionale. Tuttavia rimangono nodi critici. Primo: le autorità non hanno rilasciato una prova pubblica che colleghi sistematicamente il sospettato a reti terroristiche internazionali, per ora l’accusa è quella di un singolo attacco. Secondo: migliaia di afghani ammessi negli anni precedenti sono stati sottoposti a screening e controlli, spesso con esito regolare. La decisione collettiva, cioè sospendere ogni richiesta di immigrazione, appare dunque come una misura punitiva generalizzata, che travolge innocenti insieme a eventuali colpevoli.

C’è poi un elemento geopolitico da considerare ovvero che l’Afghanistan resta un teatro instabile, un luogo da cui migliaia di persone cercano salvezza. Rendere l’accesso ancora più difficile significa non solo negare diritti umanitari, ma chiudere un corridoio di protezione per chi ha davvero bisogno. In un momento in cui l’Europa e gli Stati Uniti dovrebbero discutere, con coerenza e responsabilità, politiche di rifugiati e asilo, la reazione di Washington potrebbe diventare un precedente per la restrizione sistematica sull’immigrazione internazionale.

Verso un nuovo equilibrio tra migrazioni, sicurezza e diritti o un giro di vite permanente?

A poche ore dall’attacco, le decisioni dell’amministrazione americana segnano l’inizio di una fase che potrebbe ridefinire per anni il rapporto tra Stati Uniti, migranti afghani e rifugiati. La sospensione dell’immigrazione afghana non è un atto temporaneo: prende la forma di una nuova linea strategica, basata sulla percezione che immigrazione e sicurezza siano oggi due facce della stessa minaccia.

Il risultato rischia di essere un’ulteriore erosione dei diritti di asilo, un rafforzamento dei meccanismi di esclusione e una stigmatizzazione permanente di intere comunità. Se per molti cittadini statunitensi la decisione rappresenta un segnale di protezione, per altri e per molte delle vittime della guerra in Afghanistan significa la chiusura di ogni speranza.In questo contesto l’Occidente, e in particolare gli Stati Uniti, si avvicinano a un bivio: scegliere tra un approccio securitario esplicito e restrittivo oppure ridefinire un equilibrio che contempli prevenzione, sicurezza e rispetto dei diritti umani.

Quel che è certo è che le conseguenze di queste scelte, sull’immigrazione, sulle comunità vulnerabili, sull’immagine internazionale di Washington, si faranno sentire per molto tempo.

Colpo di Stato in Guinea-Bissau: il giorno in cui i militari hanno spento le urne

Crisi istituzionale a Bissau: i militari rovesciano il presidente alla vigilia dell’annuncio dei risultati elettorali, chiudono le frontiere e impongono il coprifuoco.

L’alba di un rovesciamento annunciato

Il 26 novembre 2025 la Guinea-Bissau è tornata al centro della scena internazionale quando un gruppo di ufficiali dell’esercito si è presentato negli studi della televisione di Stato, la TGB, per annunciare di avere preso il potere. L’apparizione non è stata un semplice messaggio ma ha rappresentato l’atto finale di una crisi politica che da mesi ribolliva sotto traccia. Mentre nella capitale si muovevano blindati e si udivano raffiche di mitra vicino al palazzo presidenziale e alla sede della commissione elettorale, il Paese ha improvvisamente sospeso il proprio percorso democratico.

Il generale Denis N’Canha, indicato nelle fonti lusofone anche come Dinis Incanha, capo dell’Ufficio Militare della Presidenza, ha dichiarato in diretta che le forze armate assunsero «il pieno controllo» dello Stato, congelando il processo elettorale e imponendo la chiusura delle frontiere. Il coprifuoco è entrato immediatamente in vigore. L’annuncio ha trovato conferma poche ore dopo, quando l’ormai ex presidente Umaro Sissoco Embaló ha dichiarato pubblicamente di essere «stato deposto» e trattenuto dai militari. Le sue parole, rilanciate dalle maggiori agenzie internazionali, sono state l’indicatore di un ribaltamento già compiuto.

Da quel momento la Guinea-Bissau ha assistito a una silenziosa ma rapida ridefinizione del proprio organigramma istituzionale: l’esercito ha proclamato la nascita dell’Alto Comando Militare per la Restaurazione dell’Ordine Pubblico e della Sicurezza Nazionale, una struttura provvisoria che governerà fino a nuovo ordine. È un passaggio che, nella storia del Paese, ha pochi elementi di originalità. Ciò che rende questo episodio diverso dagli altri è la convergenza simultanea di fragilità istituzionali, tensioni elettorali e attività criminali radicate, che spiegano perché il colpo sia avvenuto proprio ora.

Un Paese sospeso tra elezioni contestate e istituzioni logorate

La tempistica del golpe non è casuale, dato che Il voto si era tenuto appena tre giorni prima, il 23 novembre, in un clima dove il confronto politico era diventato quasi un referendum sul futuro stesso delle istituzioni. Embaló aspirava a un secondo mandato, elemento insolitamente raro per un Paese segnato da decenni di governi brevi e instabili. Fernando Dias da Costa, principale sfidante, aveva invece capitalizzato sul crescente scontento verso un’amministrazione accusata di decisionismo, riforme unilaterali e mancato controllo del narcotraffico.

Molti osservatori regionali avevano già registrato segnali di tensione nei mesi precedenti. La missione di mediazione dell’ECOWAS aveva lasciato il Paese dopo minacce di espulsione da parte dello stesso Embaló, un episodio che aveva sollevato dubbi sulla capacità del governo di garantire un processo elettorale trasparente. Nel frattempo la crisi economica, la pressione sociale e la diffusione delle reti criminali legate al traffico internazionale di cocaina avevano consolidato il sospetto di una convergenza tra politica e settori opachi del potere economico e militare.

Su questo sfondo si è inserita l’accusa chiave avanzata dal generale N’Canha durante il proclama televisivo. Secondo il militare, sarebbe stato in atto un presunto «piano di destabilizzazione» che coinvolgeva figure politiche e un «noto boss della droga». Questa affermazione, per quanto priva di prove rese pubbliche, è stata sufficiente per giustificare l’intervento armato e rafforzare la narrativa dei militari come difensori dell’ordine e della sicurezza nazionale.

La reazione delle istituzioni internazionali non si è fatta attendere. L’Unione Africana e l’ECOWAS hanno diffuso comunicati di forte condanna, chiedendo il ripristino dell’autorità civile e la liberazione dei funzionari detenuti. Le dichiarazioni degli osservatori elettorali presenti in loco hanno inoltre mostrato inquietudine per le irregolarità e gli arresti di membri della commissione elettorale, episodi che rivelano quanto le dinamiche istituzionali fossero già compromesse prima dell’intervento armato.

Una fragilità strutturale radicata nella storia

Per comprendere perché un colpo di Stato possa ancora avvenire in Guinea-Bissau nel 2025, occorre guardare alle radici profonde della sua instabilità. Dall’indipendenza dal Portogallo nel 1974, il Paese ha vissuto una successione quasi ininterrotta di crisi politiche, conflitti armati, governi rovesciati, dissoluzioni parlamentari e interferenze dell’esercito nella vita pubblica. Questa ciclicità ha prodotto un sistema istituzionale in cui la distinzione tra potere civile e potere militare non si è mai consolidata pienamente.

Negli anni più recenti, inoltre, la Guinea-Bissau è diventata un nodo nevralgico del traffico di droga proveniente dall’America Latina e diretta verso l’Europa. La permeabilità delle istituzioni, compresi settori dell’esercito, ha favorito l’emersione di reti criminali capaci di incidere sulle dinamiche politiche. Il governo Embaló non è riuscito a contrastare questo fenomeno e diversi analisti internazionali indicano che il narcotraffico non ha accennato a diminuire durante il suo mandato, alimentando tensioni e competizioni interne senza che venisse adottata una strategia efficace di contenimento.

A ciò si aggiunge una geografia politica fragile, un’economia dipendente da un numero limitato di esportazioni, un’élite politica frammentata e rapporti di forza continuamente rinegoziati fra governo, opposizione e componenti militari. In un contesto simile, l’esercito è spesso percepito, sia dalla popolazione sia dagli attori internazionali, come un arbitro o un attore di ultima istanza, un ruolo che finisce per legittimare la sua ingerenza nella sfera politica.

Ciò che accade oggi non appare dunque come un’eccezione, ma come un sintomo della difficoltà storica del Paese di costruire un equilibrio duraturo tra stabilità, legalità e sovranità istituzionale.

Il giorno del golpe: sequenza degli eventi e percezione pubblica

Secondo le testimonianze raccolte da diversi media internazionali, nelle ore precedenti l’annuncio televisivo si erano uditi spari vicino alla residenza presidenziale e alla sede della commissione elettorale. Alcune strade erano state bloccate, altri quartieri isolati. La popolazione ha assistito a un’improvvisa presenza di militari e barricate, con il governo che appariva già paralizzato. Alcuni funzionari della sicurezza sono stati arrestati, così come membri della commissione incaricata di certificare i risultati elettorali.

Dopo l’annuncio del generale N’Canha, la situazione nelle strade è rimasta tesa ma relativamente stabile. La chiusura delle frontiere ha impedito spostamenti verso Senegal e Guinea Conakry, rafforzando la consapevolezza di trovarsi di fronte a un rovesciamento già pienamente consumato. Il coprifuoco ha confinato la popolazione nelle proprie abitazioni e ha ridotto la possibilità di mobilitazioni immediate da parte di sostenitori dell’ex presidente.

Le dichiarazioni di Embaló, diffuse poche ore dopo, hanno confermato il quadro di un governo ormai privato di ogni margine di azione. In un contesto dove da anni la normalità istituzionale è fragile, la rapidità del rovesciamento ha impedito qualsiasi spiraglio di mediazione interna. La crisi è diventata fin da subito una questione da gestire a livello regionale.

Gli effetti regionali e internazionali di una crisi prevedibile

La Guinea-Bissau non è un’isola politica. Le instabilità dell’Africa occidentale e del Sahel hanno attraversato gli ultimi anni con una sequenza di colpi di Stato in Mali, Niger e Burkina Faso, che hanno minato la tenuta delle istituzioni regionali e ridisegnato gli equilibri all’interno dell’ECOWAS. L’organizzazione si è trovata a intervenire ripetutamente, spesso senza ottenere risultati soddisfacenti nel ripristinare la governance civile.

In questa cornice, il golpe di Bissau rischia di diventare un altro tassello di una deriva sempre più allarmante. La pressione internazionale per un ritorno all’ordine democratico potrebbe scontrarsi con interessi interni divergenti, la presa del narcotraffico e l’ambiguità di alcuni settori dell’esercito. Le tensioni tra i governi della regione, già impegnati nel contenimento dell’instabilità saheliana, rendono il contesto ancora più complesso.

La popolazione della Guinea-Bissau resta in attesa. Le prospettive di un ritorno rapido alla normalità appaiono incerte. Il timore, condiviso da osservatori e analisti, è che il nuovo organo militare non fissi a breve un calendario trasparente per il ripristino dell’autorità civile. La storia recente insegna che i governi di transizione imposti dall’esercito possono durare anni, mentre la democrazia resta sospesa.

In un Paese dove la vita politica è spesso scandita da colpi di Stato, dissoluzioni parlamentari e interferenze del narcotraffico, la crisi odierna evidenzia quanto la Guinea-Bissau sia ancora lontana dall’aver consolidato le basi per una stabilità istituzionale duratura. E mentre l’attenzione internazionale si concentra sugli sviluppi immediati, il futuro del Paese sembra dipendere più che mai dal rapporto di forza tra i militari, la società civile e gli organismi regionali chiamati a vigilare su un ritorno all’ordine costituzionale.